I WILCO A FIRENZE 11 OTTOBRE 2012 – LA RICERCA DEL SUONO PERFETTO

IL LIVE DEI WILCO A FIRENZE  11 OTTOBRE 2012  – LA RICERCA DEL SUONO   PERFETTO

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Fuori piove incessantemente ed io,come al solito, arrivo con Pietro il mio inseparabile compagno di concerti all’ Obihall ( ex glorioso Teatro Tenda) un minuto prima che si spengano le luci della grandissima sala peraltro non pienissima; cerchiamo un punto in cui la visuale e il suono possa arrivare perfetto. Ore 21:30 entra in scena Tweedy accolto con entusiasmo e da un boato d’applausi, abbigliato all’americana da vero folk-singer, camicia jeans, cappello sugli occhi, a testa bassa e imbracciando una bella chitarra acustica intona le prime di note di  Ashes of American Flags una bella canzone quasi west-coast poi la stupenda  Art of Almost, questi primi due pezzi danno l’idea di come sarà il concerto, un susseguirsi di ballate quasi folk con dei brani ritmati tipici del suono Wilco, schitarrate elettriche, tastiere e percussioni dall’andamento ondivago fatto essenzialmente di suoni pacati e sostenute risalite di toni che sono esercizi di stile per i bravissimi musicisti. Poi altri due brani dal loro ultimo lavoro “ The whole love” e il pubblico è in visibilio, cantano in coro la magnifica Black Moon, cerco di avvicinarmi lateralmente al palco per scattare qualche foto e rimango calamitato dall’attrezzatura a terra del chitarrista, una pedana di aggeggi strani che credo servono forse per gli effetti wha-wha, una sfilza di pedali che onestamente non riesco a capire a cosa servono ma che danno l’idea che la ricerca del suono, la sperimentazione siano il loro punto di forza quello che li distingue dalla moltitudine di gruppi rock che invadono i nostri clubs. In effetti il sound è perfetto, limpido, senza sbavature, un amico trovato in sala mi riferisce che già dal mattino il gruppo era impegnato nel sound-check che la dice lunga sulla puntigliosità del gruppo. La scaletta fila liscia ed   arriva il momento di   “ Impossible Germany “ che si conclude con un incredibile assolo di chitarra finale in cui Nels Cline dà prova di una tecnica e una sicurezza certamente fuori dal normale. Un virtuosismo chitarristico emozionante di quelli che si ricordano e mentre picchia sulle corde creando una barriera sonora, mi soffermo sulla scenografia alquanto semplice e senza sfarzi, le luci sono prevalentemente blu e rosse con tantissime abat-jour che ricordano le esibizioni dei Talking Heads; La band, se vogliamo, non ha inventato niente di nuovo ma la cosa che salta subito agli occhi è che si tratta di un gruppo ormai maturo nello stile capace di stupire ed emozionare al tempo stesso. Il concerto scorre veloce senza sosta, Tweedy sempre molto schivo   e   riservato   non   si  scioglie, rimane   serio   e   professionale, solo   qualche   accenno   di ringraziamento all’ovazione che gli riserva il pubblico alla fine di ogni brano. I musicisti a turno, hanno i loro momenti di gloria, le tastiere, la batteria si esprimono con maestria a dimostrazione che il gruppo è coeso e ben organizzato, non si capisce , quindi, il motivo per cui il pubblico italiano sottovaluti  questo poliedrico sestetto, nonostante sia considerato da tanti critici, a torto o a ragione, come la migliore rock n’roll band del pianeta nonché  il gruppo preferito del Presidente degli Stati Uniti d’America Obama( è una buona referenza, non trovate!).  Il concerto va avanti e noi ci stiamo divertendo,   anche   Pietro,   che   non   conosceva   molto   i  Wilco   sembra   apprezzare   la   maniacale costruzione dei brani cerchiamo di cogliere le varie influenze dall’arcipelago rock, notiamo echi e assonanze con Crosby-Stills-Nash e Young, i primi Dire Streats, Grateful Dead ma è solo perché sono nel bagaglio di ogni musicista, il sound dei Wilco rimane originale e non surrogato, lo dimostrano nel bis quando Jeff Tweedy attacca con  Born Alone, ma anche con pezzi ormai classici del repertorio come Can’t Stand It e  Passenger Side, fino allo splendido finale sulle note di  I’m a Wheel . Un concerto di classe e stile, canzoni semplici ma mai leggere e frivole perché arricchite con qualcosa che rende grandi le band: la sperimentazione e la ricerca del suono migliore. Si torna a casa soddisfatti, non senza aver prima sorseggiato una birra, sentendosi privilegiati quasi per aver partecipato ad un evento esclusivo, riservato ad un ristrettissimo numero di fans.   Dal vostro Jankadjstrummer

Scaletta dei brani in concerto

  1. Ashes Of American Flags
  2. Art Of Almost
  3. Outtasite (Outta Mind)
  4. Black Moon
  5. Spiders (Kidsmoke)
  6. Impossible Germany
  7. Born Alone
  8. How To Fight Loneliness
  9. Misunderstood
  10. California Stars
  11. Handshake Drugs
  12. Jesus, Etc.
  13. Whole Love
  14. Can’t Stand It
  15. Dawned On Me
  16. Hummingbird
  17. A Shot In The Arm

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  1. Passenger Side
  2. Kamera
  3. I Might
  4. Hate It Here
  5. I’m Always In Love
  6. Heavy Metal Drummer
  7. I’m The Man Who Loves You
  8. I’m A Wheel

The FINISTER “ Suburbs of mind” Red Cat Records

The FINISTER “ Suburbs of mind” Red Cat Records

I’m the dream the eternal vision of a passive wakeful man

the truth that talks with false I’m a vertigo around the void,

a bore without the walls

Io sono il sogno, l’eterna visione Sono una vertigine intorno al vuoto

un pozzo senza le pareti di un passivo uomo senza sonno.

La verità che parla con il falso.

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Un pomeriggio d’estate ho ricevuto una telefonata di una amica, che non vedevo da tempo, dal passato punk che, tra i convenevoli, mi ha parlato di una band di giovanissimi fiorentini  che stava promuovendo   il loro disco d’esordio e che ci teneva a farmi ascoltare l’album appena stampato, abbiamo fissato un incontro e davanti ad un bel aperitivo, ha messo su il disco, parte il brano d’apertura “The morning star” e mi sono sentito travolto dal suono  energico  e carico di forza dirompente, siamo sicuri che si tratta di una band agli esordi, ho pensato, ho preso la copertina del disco,The Finister  “ Suburbs of mind “, il libretto con  in copertina una pennellata molto evocativa, all’interno testi in inglese ed una bella foto   dei 4 ragazzotti forse anche under 21 che rimanda alla psichedelia americana, sono loro, una giovane band che, a dispetto dell’età, ha assimilato e fatto propri gli insegnamenti dei grandi gruppi. Nelle dieci tracce che compongono il disco è facile scorgere le molteplici   influenze musicali ma è tanto difficile fonderle in un suono originale, personale che abbia corpo e anima. Non è per niente scontato amalgamare elettronica, suoni progressive, sonorità psichedeliche senza cadere nel vortice del deja-vu, i Finister ci sono riusciti, giocando coi suoni classici del rock, riuscendo a sfornare brani moderni, intensi, corposi e capaci di toccare i sentimenti e ad emozionare, qualcosa di molto raro nel nostro panorama musicale dove è facile cadere nella tentazione di suonare un pop- rock stereotipato adatto alle radio e ai talent musicali televisivi.  Al gruppo, dicevo, è facile accostare l’elettronica di ispirazione tedesca, il progressive dei Pink Floyd o dei Van der Graaf Generator o il new rock dei Muse e dei Radiohead ma lo ritengo un giochetto riduttivo utile solo per dargli una etichetta ma che non rende merito a questi ragazzi che dimostrano molta competenza tecnica, puro talento musicale e compositivo. Ci sono brani del disco che mi hanno veramente impressionato, quello d’apertura  The Morning Star, la stella del mattino, quasi a voler profetizzare l’inizio di questo viaggio al centro della musica che i 4 ragazzi si accingono ad intraprendere, un brano variegato in cui le incursioni del sax, il magistrale accompagnamento delle tastiere ad opera di Orlando Cialli e la voce e la chitarra nel crescendo conclusivo di Elia Rinaldi, si rivelano veramente convincenti e maturi. Ma il loro biglietto da visita è  “Bite The Snake”, pubblicato anche come singolo e da cui è stato tratto un video promozionale, in cui ci si può sbizzarrire nella ricerca dei loro fari musicali: tastiere psichedeliche che si intrecciano con un assolo di chiara matrice progressive mentre basso e batteria affidati a Leonardo Brambilla e Lorenzo Burgio  fanno da padroni e  seguono un riff classico di chitarra squisitamente rock, qui è sorprendente la voce di Elia che spazia nei vari stili  canori: indie, blues psichedelico creando una tensione perenne nel brano.  The Way (I Used to Know) è un brano lieve, un blues alternativo che viene fuori nella parte finale  in un crescendo sofferto di chitarra e voce  e sax che ricordaJeff  Buckley. Segue A Decadent Story, un brano dalla forte personalità perché azzarda nella costruzione del brano e nelle sonorità, che crea un suono pungente, energico, con un finale che colpisce come una lama tagliente per poi adagiarsi su suoni prog. più solenni. My Howl nasce come una ballata delicata, sofferta, ma come spesso accade, i FINISTER divagano e dirottano verso altri lidi a loro più congeniali fatti di energia e passione che rendono il brano quasi un trip lisergico.  I due brani che seguono     Levity e Ocean of Thrills hanno una costruzione simile, fatta di rock indie intriso di elettronica e psichedelia in cui non è difficile scorgere le atmosfere pinkfloydiane ma stravolte e personalizzate con grande maestria dal gruppo che le modella a proprio piacimento e le arricchisce di soluzioni parecchio innovative dimostrando le indubbie capacità della band.

Segue The Key che sembra un brano riempitivo, un riff di chitarra avvincente ma ripetitivo ma che convince man mano che va avanti ed entra il resto della band e in particolare con l’intervento possente del sax che rende corale il suono, semplicemente grandioso! Anche Here the Sun parte in sordina quasi una ballata come tante ma che ben presto riesce a avvolgere e condurre nei territori FINISTER intrisi di passioni ed inquietudini giovanili. Il disco si chiude con un altro grande pezzo Everything Goes Black che ha un incipit che sembra una appendice del leggendario Atom Heart Mother dei Pink Floyd, dolcezza, suono onirico fino al crescendo vocale e strumentale che è ormai diventato il loro punto di forza e che conferma che siamo al cospetto di una band matura capace di sorprendere e potenzialmente aspirare a vette ben più alte a livello internazionale. Disco fortemente consigliato e un ringraziamento particolare alla mia amica Viviana London che mi ha passato il disco.   JANKADJSTRUMMER

TRACKLIST

  1. The Morning Star
  2. Bite the Snake
  3. The Way (I Used To Know)
  4. A Decadent Story
  5. My Howl
  6. Levity
  7. Oceans of Thrills
  8. The Key
  9. Here the Sun
  10. Everything Goes Back

 

FORMAZIONE

ELIA RINALDI Chitarra & Voce

ORLANDO CIALLI Tastiere & Sax & Cori

LEONARDO BRAMBILLA Basso & Cori

LORENZO BURGIO Batteria & Cori

Riascoltati per voi – Talking Heads Remain in light 1980 di Jankadjstrummer

Riascoltati per voi – Talking Heads  Remain in light 1980  di Jankadjstrummer

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Qualche settimana fa, in pizzeria, un giovane collega di lavoro mi ha chiesto lumi sui Talking Heads: voleva consigliato l’album più rappresentativo, gli ho risposto che, senza dubbio, era Remain in light del 1980 ma che rappresentava, però, il culmine della ispirazione di David Byrne e compagni perché preceduto dai primi 3 album parimenti straordinari ed intensi.

L’esordio dal titolo “77”, poi “More Songs About Building And Foods”  quindi “Fear Of Music” in cui sono presenti tracce evidenti di world-music, percorso che in seguito David Byrne percorrerà come solista. Ho ripescato il disco, lo faccio partire, e mi immergo in un paesaggio irreale, immaginario, che ricorda le opere di quegli artisti di strada, i cd Writers che usano bombolette spray colorate, spruzzi buttati apparentemente a caso, colori vivacissimi fanno da base per un  disegno che viene fuori solo alla fine,  un sermone che proviene dalla voce calda di Byrne, un ritmo incalzante e irregolare, il suono del basso di Tina Weymouth  che fa da tappeto ad un funky contaminato, questa la mia prima impressione, a distanza di anni, nell’ascolto di “Born Under Punches”: molti hanno usato l’immagine della giungla per descrivere questo brano e forse è vero , ma credo che  per i Talking Heads contava l’effetto sull’ascoltatore e i ritmi inquietanti del pezzo in questione sembrano proprio volerlo ipnotizzare e guidare in un viaggio insidioso ed ossessivo.

In “Crossoved and painless” il ritmo sale molto, riff smorzati di chitarra, il basso in primo piano, i cori rendono il brano coinvolgente, un vero e proprio invito alla danza. Il ritmo sale ancora con “The great curve” grazie a percussioni e a cori di matrice tribale. La famosa “Once in a lifetime”, a questo punto, risulta la sola canzone orecchiabile dell’intero album, dialoghi di basso e batteria in cui si insinua la voce di Byrne con un ritornello che la rende una hit indimenticabile.

Lo stato di trance ritorna in “House in motion”, canzone apparentemente tranquilla, con i ritmi in sottofondo che catturano suoni e cinguettii di uccelli meccanici, i barriti della tromba di Jon Hassell e la voce prima dolce e poi rabbiosa di Byrne che incantano. Anche in “Seen and not seen”,continua la magia, la voce è recitata e sembra quasi provenire da un santone predicatore.”Listening Wind” è una ballata, Byrne canta come all’interno di un rituale,  dando sfoggio di intensità interpretativa grazie anche ad atmosfere di paesi lontani e di autentica poesia. La conclusiva “The Overload” è forse la traccia che più sorprende, vibrazioni tenebrose che ricordano i Joy Division, ne fanno una rarefatta ballata dark, una nenia di un culto primitivo sconosciuto, un lugubre sigillo  di questo incredibile viaggio.

I Talking Heads, attivi dagli anni ’70 hanno vissuto nella New york delle avanguardie musicali ed artistiche ne hanno assimilato i fermenti. Credo che il rapporto con Brian Eno abbia condizionato positivamente la loro musica, “Remain in Light” è un tentativo di utilizzare gli strumenti del rock, alla ricerca della fonte della musica quali sono il ritmo e le vibrazione, alla ricerca della mitica Africa. i Talking Heads si tengono ben lontani dallo scadere nell’antropologia da dilettanti, al contrario, “Remain in Light” è un album che anticipa l’interesse per i suoni etnici, quelli veri, che saranno poi scoperti in tutti gli anni ’80. Vorrei segnalare la sfilza di artisti che hanno collaborato al disco che lo rendono un lavoro corale : Adrian Belew alla chitarra; Brian Eno al basso, tastiera, percussioni, coro;  Jon Hassell – tromba in Houses in Motion ; Nona Hendryx – coro e  Robert Palmer – percussioni.

Un invito all’ascolto o al riascolto attento dell’album, mi ringrazierete!

 

Discografia

  • 1977 – Talking Heads: 77
  • 1978 – More Songs About Buildings and Food
  • 1979 – Fear of Music
  • 1980 – Remain in Light
  • 1982 – The Name of This Band Is Talking Heads live
  • 1983 – Speaking in Tongues
  • 1984 – Stop Making Sense live
  • 1985 – Little Creatures
  • 1986 – True Stories
  • 1988 – Naked

2 SETTEMBRE 1994 – 2° RADUNO NAZIONALE DEL FANS CLUB DI “PLANET ROCK “ di RADIO RAI AD AMANTEA


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2 SETTEMBRE 1994 –  2° RADUNO  NAZIONALE  DEL  FANS CLUB  DI “PLANET  ROCK “
AD AMANTEA

Giorni fa, Roberta, una mia amica di Firenze mi ha parlato di Planet rock e di alcuni podcast presenti sul sito della Rai che fanno riferimento al raduno nazionale del fans club che si è svolto ad Amantea quasi 25 anni fa, per me è stato gioco forza volare con la mente a quel periodo. Per i più giovani ricordoche “Planet rock” era un programma radiofonico in onda sulla rete rai nazionale che nasceva sul finire dell’anno 1991 con un l’idea ambiziosa: creare uncontenitore in cui fosse possibile trovare quello che comunemente si chiama“la buona musica” senza nessuna etichetta e superando i “generi musicali” come venivano definiti all’epoca. La sigla ma credo anche lo spirito del programma stava nel brano di Africa Bambataa “Planet rock”, una fusione, una contaminazione, come vogliamo chiamarla, che toccava il rock elettronico ma anche il rap e il funk.  Ogni sera dopo cena, dalle 21 in poi era possibile non farsi prendere dalla pigrizia e dalla comodità del divano davanti alla TV, ma era bello farsi coccolare con musica di qualità, magari leggendo un buon libro e seguendo, anche distrattamente, le chiacchiere “in libertà “sui dischi in programmazione che abilissimi conduttori – i miei preferiti erano Alberto Campo e Mixo –  ci propinavano.  Anticipazioni di album, concerti live, interviste ma anche la famosissima “ scaletta ragionata” in cui gli ascoltatori diventavano protagonisti proponendo la loro personale scaletta ( i cosiddetti Planetari) questa  era la ricetta del programma.  Questa breve introduzione mi serve per ricordare come Amantea fu teatro, un sabato sera del 2 di settembre del 1994, del 2° raduno del fans club di Planet rock e di come la città abbia reagito alla invasione dei rockettari provenienti da tutta la penisola. L’organizzazione dell’evento fu affidata a Eliseno Sposato, cosentino, grande appassionato di rock, mente attiva del Fans Club che riuscì nell’intento diregalarci una serata veramente indimenticabile, nonostante le mille difficoltà organizzative. Ma veniamo alla cronaca, che scava nei ricordi, la location tanto per cambiare lasciava a desiderare, un campo sportivo polveroso in terra battuta lungo la strada che porta verso Lago, arrivo in compagnia di moltiamici allertati da un passaparola tra i rockettari amanteani, io ero ancora in vacanza sarei tornato a Firenze il giorno dopo, è per nulla al mondo mi sarei perso la diretta in onda su Planet-rock e proprio da Amantea. La serata era particolarmente afosa, il campo sportivo, probabilmente rinfrescato nel pomeriggio era diventato una nuvola di polvere ma ciò non ci faceva demordere, il terreno di gioco cominciava a riempirsi di orde di ragazzi particolarmente “ estrosi” nell’abbigliamento, un mix di dialetti dalle varie regioni rendeva il clima gioviale, si respirava un’aria di grande festa, molti venuti con moto e in autostop che chiedevano soluzioni per la notte, ricordo che una coppia di ragazzi mi chiese se era sicuro passare la notte in spiaggia.li rassicurai che in zona non era mai successo nulla di grave. Il cartellone prevedeva una serie di gruppi italiani, per la verità non molto conosciuti tranne che per i “Senza Benza” una band punk proveniente da Latina; intorno alle 20:30 sale sul palco MIXO per salutare, ringraziare il fans Club e presentare la serata, abbigliatocon una camicia verde oliva e con un bel Kilt scozzese a quadri, molto trasgressivo per l’epoca.  Che fosse una serata tostissima si avvertiva già dai brani che venivano irradiati prima del concerto, Iggy Pop ma anche il grunge dei Nirvana e  Pearl Jam, ma finalmente si parte:  musica assordante, rock tirato ma non riesco a concentrarmi, il pogare dei giovani rockettari non mi permette di stare tranquillo ed assaporare il sound sparato da grandi casse poste ai lati del palco.  Il primo gruppo  a calcare la scena fu ”Peppa Marriti band” calabrese di Santa Sofia d’Epiro che scalda immediatamente il pubblico con il loro folk-rock da combattimento un  Rock & Roll Arbëresh, come arbareresh erano le loro origini (si tratta di una minoranza linguistica di origine albanese stanziata da centinaia di anni in Calabria), una band capace di coniugare la tradizione con il rock d’impegno molto apprezzato sotto il palco.( in fondo all’articolo un video live della band). E’ la volta dei Kartoons anche loro calabresi che presentarono un loro particolarissimo garage-rock con un bel brano That’s all folks dalle influenze decisamente beat. L’ambiente è arroventato, c’è molto entusiasmo e voglia di divertimento anche durante le pause di avvicendamento delle bands, i punti ristoro scarseggiano ma va bene lo stesso. Sul palco salgono i “ S.I.M. “ Sistema informativo Massificato dall’Abruzzo un gruppo crossover, come si intende ora, un mix esplosivo di rock e rap che vede al loro interno un personaggio che poi diverrà un punto di riferimento del hip hop  italico, C.U.B.A.,  la band infiamma anche perché  usa slogan mirati contro il mondo dei mass-media ed anche contro il potere di una certa classe politica. Durante gli intervalli la diretta su Planet rock è affidata a Mixo che per l’occasione diventa cronista di un evento memorabile per Amantea, da vecchio volpone tesse lodi a sfare per il pubblico ed anche per gli abitanti del paese che hanno dimostrato tanta ospitalità; sul finire si affacciano finalmente i Senza Benza, gruppo molto atteso dalle migliaia di facce stranite dal sudore e dalla polvere, si balla e si poga dall’inizio alla fine al suono punk del gruppo laziale. La band presenta il loro primo lavoro intitolato “ Peryzoma” è una summa di punk-pop, una sorta di Ramones in salsa italica che loro avevano definito Flower-punk perché riuscivano a coniugare le melodie anni ’60 con la velocità di esecuzione del brano tipica del punk. ( ho inserito l’audio del concerto di Amantea in appendice).                                                                                                                     La maratona rock volge altermine, sono veramente stanco e ho tanta voglia di bere, con gli amici ed altri trovati al concerto ci allontaniamo dal girone dantesco in cerca di refrigerio, la birra placa e aiuta la riflessione:  ancora mi chiedo cosa ci facevano migliaia di ragazzi venuti da ogni parte d’Italia in quell’angolo sperduto fuori dalle rotte della musica alternativa, giovani venuti a cercare amicizia e conoscenza reciproca accomunati dalla passione per il rock  e legati, a vario titolo e per le più svariate motivazioni, ad un programma radio. Per una notte  i tanti giovani di Amantea hanno vissuto una esperienza esaltante pensando, magari, che fosse la prima vera occasione per portare unpo’ di musica diversa……non mi risulta che ce ne siano state tante altre.

Jankadjstrummer

RIASCOLTATI PER VOI – BAUHAUS – IN THE FLAT FIELD

 

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RIASCOLTATI PER VOI  – BAUHAUS  –  IN THE FLAT FIELD  

 

  1. Dark Entries 
  2. Double Dare 
  3. In The Flat Field 
  4. God In An Alcove 
  5. Dive 
  6. Spy In The Cab
  7. Small Talk Stinks 
  8. St. Vitus Dance 
  9. Stigmata Martyr 
  10. Nerves

Ieri mentre riordinavo il mio archivio musicale MP3 mi sono imbattuto in un album storico che mi ha riportato indietro di quasi 40 anni, il magnifico “In the flat field” dei Bauhaus pubblicato nel 1980. Si tratta del loro primo album ufficiale, anche se bisogna dire che il gruppo aveva già raggiunto una certa notorietà con un EP che includeva la funerea “Bela Lugosi’s Dead” che diventò un inno del gothic rock, un omaggio all’attore Bela Lugosi famoso per aver interpretato tante volte il vampiro Dracula, personaggio che influenzò tanto l’attore da divenirne schiavo.                                                              Il nome Bauhaus è ispirato al movimento architettonico/ artistico della Germania degli anni ’20, il nucleo storico della band è composta dal chitarrista Daniel ASH, dai fratelli Haskins batteria e basso, e da Peter Murphy cantante e portavoce del gruppo.                                                                    Ma veniamo rapidamente al disco che si presenta di “rottura” già dalla copertina, una bella foto in bianco e nero di un corpo nudo maschile che pare suoni una trombetta celestiale su un fondo nero. Ma quando parte l’introduzione e il primo brano “Double Dare” si capisce subito che stiamo varcando la porta degli inferi, la batteria che va a circolo su un riff di chitarra un po’ distorto mentre la lugubre voce di Murphy diventa al tempo stesso glamour e rabbiosa, da qui forse la doppia sfida del titolo.  Parte il pezzo omonimo In the flat field è si è investiti da una frenetica batteria e da un basso ipnotico mentre le chitarre diventano velenose e producono un atmosfera quasi da trip psichedelico. La voce triste di Murphy urla un testo che da l’idea della sua paranoia esistenziale (“I do get bored, I get bored In the flat field” ), della paura di non farcela (“Find me out this labyrinth place”) e della voglia di rigare dritto (Assist me to walk away in sin, Transfer me to that solid plain). God in an alcove è un altro pezzo tirato in cui è ben in evidenza il basso che accompagna la chitarra agitata e frenetica di Ash, anche qui la voce di Murphy è libera e senza freno spazia da toni epici cantati di gran classe ad urla lancinanti e a toni funerei, “We’re going down to the kamikazi dive Like insects in a Chinese lantern now “ sto precipitando in basso a testa in giù come un insetto che cade in una lanterna cinese è una dichiarazione di sconfitta in chiaro spirito punk. Questi primi 4 pezzi sono veramente tosti, una sequenza allucinante che fu riproposta nel loro concerto al Tenax di Firenze dei primi anni 80 che mi impressionò, sembrava si essere ad un sabba sacrificale in cui gli adepti perfettamente abbigliati in nero con tuniche e visi marcatamente truccati con matita nera e fondotinta bianco seguivano le scorribande schizzoidi di Murphy. Nel prosieguo del disco i toni si attenuano, si scivola verso un sound malinconico e dalle atmosfere rarefatte in cui l’accostamento con i Joy Divicion diventa più marcato; Spy in the cab rappresenta il vero stile dark, una canzone che riferisce di una strada che conduce alla pazzia attraverso l’ossessione di essere sempre spiati da un Grande Fratello. Small talk stinks, è il pezzo piu banale dell’album, forse quello più commerciale, una chitarra semplice ed accattivante che però non riesce a trasmettere nulla mentre si ritorna ai ritmi iniziali con il brano St.Vitus Dance chitarre distorte e batteria persistente riescono a  creare atmosfere insolite ed originali, anche qui la voce ha un ruolo determinante nella economia del brano gli da un glam che ricorda il migliore Iggy Pop. La location di Stigmata Martyr potrebbe essere una chiesa sconsacrata in stile gotico dove vengono compiuti sacrifici e consegnati doni al diavolo, qui il basso ti avvolge e la voce diventa di nuovo terrificante mentre la chitarra tesse una danza evocativa, qui Murphy diventa sacrilego ed evoca immagini della Passione di Cristo e recita una preghiera in latino che diventa in questa circostanza parecchio macabra. (“In nomine patri et filii et spiriti sanctum”) Il disco si chiude con Nerves che rappresenta la ciliegina sulla torta, si tratta di un pezzo quasi improvvisato con note a casaccio, rumori metallici e rintocchi da funerale che suggellano il marchio Bauhaus. Anche qui, in primo piano, l’eclettismo e la presenza scenica di Murphy riescono a creare uno stile ripreso da uno stuolo di gruppi della scena dark. Un finale ai limiti della schizofrenia in cui è ben chiaro lo spirito trasgressivo del gruppo dove la drammaticità delle composizioni diventa motivo di teatralità. Devo dire senza ombra di dubbio che riscoltare questo album è stato un salto all’indietro verso un periodo in cui il post-punk e il dark erano radicati in tantissimi giovani che avevano oltrepassato la stagione degli impeti giovanili dettati dal punk più viscerale. Si tratta di un disco essenziale per capire il fenomeno perché è una esplosione, un vulcano in eruzione che ha condotto la musica rock verso un flat field.

Buon ascolto o riascolto da jankadjstrummer

Alan Sorrenti già figlio delle stelle i suoi 2 primi album progressive di Jankadjstrummer

Alan Sorrenti già figlio delle stelle di jankadjstrummer.

Prima di diventare il più conosciuto ” Figlio delle stelle” Alan Sorrenti era un ispirato cantautore rock…

Si può tranquillamente affermare che Alan Sorrenti, artisticamente, ha vissuto due vite parallele segnate da uno solo spartiacque: la sua svolta disco/dance. Ma prima che diventasse il più famoso “Figlio delle stelle” Alan Sorrenti, nei primi anni settanta, era un raffinatissimo cantautore rock di chiara matrice psichedelica/progressiva.

Il suo talento è stato sempre accostato ai lavori sperimentali di Tim Buckley o alle complesse armonie di Peter Hammill dei Van Der Graaf Generator, il suo primo disco  “Aria”, concepito nel 1972, rappresenta uno dei lavori più raffinati del progressive italiano, uno di quei dischi fuori da ogni etichetta di tempo e di spazio che ti conduce verso un immaginario fantastico.

La prima facciata è interamente occupata da una suite
di venti minuti che dà il titolo all’album, in cui il cantautore di origini
gallesi intraprende un viaggio onirico che tocca più mete legate tra loro; le
ambientazioni sono molto dark, castelli, monasteri, foreste e ampie distese
d’erba, l’amore fra un cavaliere e la sua principessa, il sogno accompagnato da una musica che cattura sin dai primi arpeggi di chitarra, dai vocalizzi
free-jazz e dalle stupende incursioni del violino di Jean Luc Ponty . Aria è al
tempo stesso la donna amata e l’aria che si respira, questa ambiguità lo porta lo conduce all’ossessione, al delirio, verso il caos finale “sono io il tuo
corpo/sono io l’universo/nel tuo fiume sto scivolando/aria sto impazzendo io
sento che io io io io/io ti sto/ io ti sto perdendo”
.. La voce di Sorrenti
entra ed esce dalla melodia del brano come uno strumento, regalandoci anche esercizi di stile, vocalizzi e vibrati che sanno di pura sperimentazione. Le ossessive percussioni tribali di Tony Esposito segnano una disperata volontà di non staccarsi dall’amante perfetta appena trovata. La seconda facciata si apre con la ballata, voce e chitarra acustica,“Vorrei Incontrarti”, una carezza preludio ai sogni e alle speranze, ‘Vorrei incontrarti sulle strade
che portano in india…Forse un giorno io canterò per te. Vorrei conoscerti, ma
non so come chiamarti, vorrei seguirti, ma la gente mi sommerge…’
Semplicemente stupenda!. Il lisergico brano “La mia mente” e il “Un fiume
tranquillo”, che concludono questo lavoro sono riconducibili ad uno stile
sinfonico più tradizionale ma molto ardito.

Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto del 1973 è il secondo disco di Alan Sorrenti, che vede Tony Esposito alla batteria e percussioni e David Jackson dei Van Der Graaf Generator al flauto. L’album è poco ispirato, i testi sono più equilibrati ma con poco mordente, fa eccezione la bellissima canzone d’amore “Serenesse” forse il suo pezzo migliore e la ballata psichedelica “Angelo”. La suite che dà il titolo al disco si apre con una lunga introduzione (10 minuti)
psichedelica/free jazz, con improvvisazioni vocali e cantilene lunghe e noiose
veramente deludenti. Certo per cogliere in pieno la musica e le atmosfere di
questi primi due album di Alan Sorrenti dovete lasciarvi trasportare per cogliere momenti indimenticabili.

Serenesse

Ti ho salutata un giorno di caldo stringendomi al letto girando le spalle al tuo ultimo sguardo. Volevo strisciare, baciare i tuoi piedi e chiedere a un altro di prendere il mio posto per essere libero di venire con te Serenesse, Serenesse, ritorna. Il sole è di troppo per un uomo solo che ti cerca illuso e si ritrova straniero in cento strade diverse con il desiderio di avere il tuo viso il giovane corpo che gioca con il mio sorriso Serenesse, Serenesse, ritorna. Odio le cose, le strade, la gente che ti vedono vivere in questo momento e contro il mio odio e la mia paura io provo a tagliare un esile tronco sul quale passare dall’altra sponda dove sei tu ad amare Serenesse, Serenesse, ritorna

Buon viaggio da   JANKADJSTRUMMER

Il sound sulle strade di New York city 1a Puntata di Jankadjstrummer

Il sound sulle strade di New York city 1a Puntata di jankadjstrummer.

 

 

Il percorso musicale che voglio raccontarvi inizia sulla 42ma street di
Manhattan quando l’ascensore scende dal 24° piano dell’ Hyatt Hotel e mi
catapulta in una hall gigantesca affollata di gente di tutte le razze che
chiacchierano, mangiano e sorseggiano drinks,inservienti indaffarati nel carico e scarico di valigie di tutte le dimensioni, una frenesia che fa da contraltare ad un suono dolce e sofisticato che si diffonde per tutta la sala, il volume è abbastanza alto per non far percepire nessun fastidioso brusio, riconosco il brano ” Simpathique” dei Pink Martini una orchestrina composta da 13 elementi proveniente dall’Oregon che miscela vari stili musicali: dal ritmo latino al jazz per arrivare al genere lounge e poi in sequenza un paio di brani dei francesi Nuovelle Vague, un collettivo musicale che ripropone pezzi punk e new wave in stile bossa nova, riconoscibilissimi anche in questo  stile brani come “The guns of Brixton” dei Clash e “dance whit me” dei Lords of New Church. Appena esco in strada un via vai di gente mi ricorda che sono nella ” grande mela”, suoni di clacson, i tipici taxi gialli che affollano le strade e un suono di sax che fende l’aria ancora fresca di fine aprile, mi assale, mi avvicino in direzione di quel suono improvvisato, il musicista di colore si dimena dando il ritmo col piede, sono calamitato da quella figura e da quelle note mentre intorno i grattacieli che si perdono a vista d’occhio creano immagini riflesse ed ombre uniche; sono nei pressi della Gran Central Station considerata la più grande stazione ferroviaria del mondo, si sviluppa su due livelli sotterranei, da cui partono anche 4 linee della metropolitana, costruzione imponente con un atrio molto suggestivo che ti fa andare indietro nel tempo, la volta decorata con enormi segni zodiacali, dai lati due scalette in marmo conducono su di una terrazza che gira su tutto l’atrio, rifiniture dorate lo rendono un monumento oltre che un set cinematografico che ha visto recitare i grandi miti di Hollywood come Cary Grant in “Intrigo Internazionale” di Hitchcock, anche qui la musica domina, musicisti jazz che imprimono colori e suoni anni ’30, assoli di contrabasso e ritmi accattivanti in mezzo a gente distratta che in gran fretta deve prendere il treno. Ancora musica dagli altoparlanti, questa volta c’è molta west-coast, Crosby-Stills-Nash Young, Jackson Browne, Warren Zevon, canzoni leggere, allegre che mettono buon umore e che ci fanno volare con la mente alle grandi strade in mezzo al deserto americano, una musica che calza bene con il viaggio che gli avventori della Station dovranno intraprendere, dal cartellone luminoso vedo in partenza treni per Vancouver, Boston, Atlantic City ed ancora più a sud New Orleans e Miami, la mente non può che viaggiare al suono di quelle meravigliose chitarre. Uscire da quella stazione è difficile, ci sono molte cose da vedere, particolari su cui soffermarsi legati in qualche modo alla musica come il bar della catena Starbucks che spara rock dai video sparsi per tutto il locale, il cappuccino e il muffin che propinano non è male ma distante anni luce dal gusto del nostro caffè mentre i video trasmessi sono originali: un concerto tiratissimo dei Foo Fighters mi ricorda che mi trovo in una metropoli dalle mille facce e dalle mille culture mentre un video di Suzanne Vega mi suggerisce che, nonostante tutto, la città è pregna di romanticismo ed è un condensato di dolcezza. Sono di nuovo in strada, sono le 11:30 a.m. e mi avvio lungo la 5° avenue in cui è palpabile la grandezza del mito americano: negozi giganteschi, grandi firme anche italiane che mettono in mostra vestiti di classe, vetrine addobbate, marciapiedi lindi in cui è facile imbattersi sia in donne fatali dal look ricercatissimo che in donne sciatte e poco curate a dimostrazione che a New York gli eccessi si toccano, ma torniamo ai suoni: nei negozi in cui sono entrato molta dance e tanta musica da intrattenimento sparata a volume alto che, per quanto mi riguarda, anziché invogliarti ti spinge ad uscire. La piazza per antonomasia è il luogo di ritrovo e New York non fa eccezione: Union Square, è stracolma di persone che girano tra le bancarelle di fiori freschi e di souvenir per turisti alternativi: quadretti, foto ritoccate, profumi artigianali, amuleti, bigiotteria hippie, t-shirts colorate a mano sono gli acquisti di ogni buon europeo, gli artisti di strada sono tanti e particolarmente dotati, un cantautore con armonica e chitarra suona pezzi suoi ed alcune cover di James Blunt, è un giovane talento che riesce a catalizzare l’interesse di un nutrito stuolo di gente che lo ascolta in religioso silenzio, piace anche a me! Con un po’ di fortuna potrebbe diventar ricco e famoso. Cala sera i grattacieli si illuminano regalando panorami inconsueti, mi infilo in un ristorante suggerito per l’atmosfera e per la musica jazz suonata da un band stanziale ma molto professionale. I brani sono famosi e divenuti ormai quasi orecchiabili; brani di Max Roach, Charlie Parker e tanto swing afro-americano donano calore e familiarità alla grande sala illuminata solo dalle candele poste sui tavoli.
L’OYSTER CLUB è famoso non solo per la musica ma anche per la cucina: ostriche, scambi, aragoste che vi assicuro sono deliziose e con un prezzo accessibile mentre è proibitivo il vino che ha un costo medio di 50 dollari a bottiglia sic! anche l’acqua minerale non scherza 8 dollari, secondo i newyorchesi non bere l’acqua della fontana è da snob E’ ormai mezzanotte i fumi dell’alcool si fanno sentire ma per dirla alla Liza Minnelli di New York -New York questa è una città che non dorme mai per cui c’è ancora un po’ di tempo per infilarsi in un localino da dove proviene un suono potente che riconosco essere un brano dei mitici Ramones “rock & roll high school” la band che lo esegue è formata da giovanissimi ma molto agguerriti, il pubblico balla e poga al ritmo delle schitarrate punk a volume assordante, questi ragazzi sono divertenti, ironici suonano anche bene ma la stanchezza di una giornata a girovagare si fa sentire e poi il giorno dopo mi aspetta un giro lungo tra il Central-park e il quartiere di Harlem…….
Jankadjstrummer

PRIMA FERMATA – NAPOLI CENTRALE – SECONDA FERMATA – “MATTANZA” NAPOLI CENTRALE

PRIMA FERMATA – NAPOLI CENTRALE

Che piova o che esca il sole, chi è bracciante a San Nicola / con la bottiglia piena di vino / va tutti i giorni a zappare.Campagna … com’è bella la campagna…

…ma è più bella per il figlio del padrone della terra / che ci viene ogni giorno / a divertirsi con gli amici…

Campagna … com’è bella la campagna…

In Italia, gli anni ’70 hanno rappresentato per la musica rock una fucina, una fabbrica di talenti e di idee, mi piace ricordare, anche attraverso dei contributi audio/video un gruppo che ho ascoltato tanto da giovane e perché mi rendo conto che non è molto facile reperire materiale un po’ di nicchia come quello legato al gruppo partenopeo dei Napoli Centrale che ha segnato nel panorama della musica jazz/rock un punto fermo, un faro per tante formazioni che si approcciavano a questo stile.

In quegli anni molte bands del progressive della prima ora si erano sciolte oppure riconvertite ad una musica molto più attenta alla situazione politico-economica che richiedeva a tutti gli artisti un maggior impegno sociale. I Napoli Centrale si formano nel 1975 intorno alla figura del sassofonista di colore napoletano James Senese che insieme al batterista Franco Del Prete ( recentemente scomparso ) firmano tutti i brani, i due erano già insieme nel gruppo r’n’b degli Showmen alla fine degli anni ’60. Il loro primo lavoro “Napoli Centrale”, viene pubblicato sul finire del 1975 ed è un vero successo perché riescono, con grande talento, a contaminare suoni che vanno dalla musica popolare napoletana (tutte le canzoni sono cantate in lingua napoletana che diventa quasi uno strumento musicale) ad un raffinatissimo sound jazz / rock, il prodotto che ne scaturisce è assolutamente unico nel panorama dell’epoca, un marchio che a distanza di tempo risulta ancora riconoscibile, si trattava di un lavoro innovativo in cui il Progressive c’entrava solo marginalmente. I brani si caratterizzavano con dei testi di forte denuncia sociale, il suono del sax di Senese che sostituiva la chitarra solista, l’utilizzo del piano rispetto alle tastiere rendevano il suono caldo, sanguigno, rivoluzionario anche se è tangibile l’influenza del suono elettrico dei Weather Report. Anticipato dal vendutissimo singolo “Campagna”, che divenne un piccolo classico della musica giovanile dell’epoca, caratterizzato da un bel piano elettrico e dal suono di un sassofono sfolgorante, l’album fu un lampo sin dall’inizio perché carico di una forte comunicativa e capace di restituire umanità ma anche sensazioni di forte impatto. Il secondo brano, dai toni amari, affronta il dramma dell’emigrazione “Gente e’ Bucciano”,

“Lassù al Nord c’è gente che viene da Bucciano / là dove una volta zappava la terra sputando sangue e salute. /

Ma la fame è più forte dell’amore per la terra / e la gente di Bucciano ha dovuto emigrare al Nord per lavorare nelle fabbriche. /

Là sputa lo stesso sangue e salute e in più, / si sente fottuta.

Solo strumentale il brano “Pensione Floridiana”, con atmosfere che ricordano la black music inizio anni ’70, ed un sound di grande finezza. Dopo “Viecchie, mugliere, muorte e criaturi”, brano squisitamente di impatto sociale che descrive una società completamente alla deriva, in cui la voce di Senese si esprime al massimo ritroviamo, con i quadri urbani di “Vico Primo Parise n. 8”, un suono coinvolgente in cui anche questa volta il piano, ben in evidenza, di Mark Harris e la ritmica potente di Franco Del Prete si fondono in un abbraccio col sax di Senese. Chiude il disco il brano “‘O lupo s’ha mangiato ‘a pecurella”: un bel ritmo sincopato che  con le atmosfere indefinite sono preludio alla rievocazione di voci e grida di un mercato napoletano e alla ripetizione del titolo del brano in maniera ossessiva, una bella e feroce satira del potere.

Track list:

  1. Campagna A
  2. Campagna B
  3. A Gente ‘e Bucciano A
  4. A Gente ‘e Bucciano B
  5. Pensione Floridiana
  6. Viecchie Mugliere Muorte E Criaturi A
  7. Viecchie Mugliere Muorte E Criaturi B
  8. Vico Primo Parise No. 8
  9. O Lupo S’ha Mangiato ‘a Pecurella A
  10. O Lupo S’ha Mangiato ‘a Pecurella B
  11. O Lupo S’ha Mangiato ‘a Pecurella C

 

SECONDA  FERMATA: NAPOLI CENTRALE  “MATTANZA”

Questo è il secondo lavoro dei Napoli Centrale, siamo nel 1976 e rispetto al disco d’esordio, resiste lo zoccolo duro della formazione composto da Senese e Del Prete, mentre Tony Walmsley e Mark Harris lasciano il gruppo per raggiungere il gruppo progressive “Il rovescio della medaglia”. Approdono alla esperienza Napoli Centrale il musicista siciliano Pippo Guarnera al piano, Kelvin Bullen alla chitarra mentre affianca alle percussioni Agostino Marangolo già nel gruppo dei Goblin oltre al altri “ turnisti” che diedero all’album un carattere più corale. Ne venne fuori un lavoro che non aggiunge nulla di nuovo allo stile e alle sonorità presenti nell’album d’esordio ma che li proiettò direttamente dai festival pop del proletariato giovanile e al Festival Jazz di Montreux. Un disco che conferma una formazione grandiosa e ci regala un album di grossa qualità oltre che maturo e compatto. L’album è composto da sette pezzi, quasi tutti strumentali tranne qualcuno come al solito in dialetto napoletano. Il disco di apre cosi come era finito il precedente, in clima da mercato rionale in cui si sentono le grida dei popolani che l’affollano di “Simme iute e simme venute”, brano in perfetto stile jazz-rock con il piano elettrico in evidenza ed il sax di Senese che insegue una sezione ritmica tiratissima. Segue “Sotto a suttana”, un brano quasi interamente strumentale dalle atmosfere calde e sfumate che creano un suono quasi ossessivo, dopo “Sotto e ‘n coppa” la triste poesia del testamento funebre del “‘O nonno mio”, un brano quasi recitato da Senese. La punta più alta dell’album lo raggiunge il lunghissimo (13 minuti ) brano “Sangue misto” che regala tanta poesia ma anche tanta musica di qualità che denota una maturità stilistica fatta di tanta curiosità e di voglia di sperimentare.  Gli ultimi due brani del disco, “Forse sto capenno” (un brano dai forti accenti jazz) e “Chi fa l’arte e chi s’accatta” (un pezzo originalissimo di folk-funky), restano ad altissimi livelli, impreziosendo un lavoro veramente interessante che rimane ancora un esempio di grande musica, di mediterraneità e di tanto sentimento. Una ultima curiosità: il disco fu premiato come “migliore registrazione dell’anno” alla consolle del fonico c’era un certo Roberto Satti, allora proprietario degli studi Chantalain meglio conosciuto come Bobby Solo. Pare che James Senese gli abbia detto: “anche se tu non sei un tecnico perfetto, hai l’orecchio musicale e noi ci fidiamo di te” (fonte: ilpopolodelblues.com). Con “ mattanza” forse si è chiusa un epoca

Track list:

  1. Simme iute e simme venute
  2. Sotto a’ suttana
  3. Sotto e ‘n coppa
  4. ‘O nonno mio
  5. Sangue misto
  6. Forse sto capenno
  7. Chi fa l’arte e chi s’accatta

DAL VOSTRO JANKADJSTRUMMER

 

RIASCOLTATI PER VOI ” UMMAGUMMA” Pink Floyd” 1969

UMMAGUMMA  PINK FLOYD 1969

Sono molto affezionato a questo disco perché fu uno dei primi LP che comprai, era un album doppio, non se ne vedevano molti all’epoca, per cui dovetti dar fondo ai miei risparmi per acquistarlo. In realtà fu pubblicato nel 1969 ma il mio acquisto avvenne intorno al 1972, all’epoca la pubblicazione del disco non andava di pari passo con gli acquisti, le occasioni di ascoltare il rock erano scarse, solo la radio nelle ore notturne temerariamente ci indottrinava, il disco si scopriva dopo parecchi mesi dalla pubblicazione. Questo lavoro era diviso in 4 parti le prime due erano registrate dal vivo le altre due in studio. Non oso tirar fuori il vinile e ascoltare l’album sul giradischi ma preferisco una fredda registrazione MP3 per ovvie ragioni ( nonostante la mia estrema cura, si sente il gracchiare della puntina sui solchi) parte la prima traccia live: si tratta di “Astronomy domine” in cui è facile percepire la  chiara impronta di Syd Barrett, chiudendo gli occhi si sente l’astronave rosa decollare verso l’infinito accompagnata dal suono psichedelico della chitarra, del basso e delle tastiere e da una martellante batteria che ne guida il tempo; il secondo pezzo è inquietante “Careful with that axe, Eugene” ( attento con quell’ ascia ,Eugenio) un pezzo interamente strumentale che parte da suoni tranquilli ed ossessivi per culminare in un crescendo paranoico e con un grido che è diventato leggendario nella storia del rock. La seconda facciata si apre con un pezzo scritto da Roger Waters “Set the controls for the earth of the sun”, una stupenda composizione astrale, dove tutto è guidato da un basso ossessivo che dà il tempo, assolutamente geniale; il disco live si conclude con “A saucerful of secrets” una suite tratta dal loro secondo LP, in versione live diventa molto suggestiva, lunghe ed estenuanti incursioni di chitarra, ossessive percussioni e un organo che richiama il passato, è da pelle d’oca. Fin qui nella di nuovo ma solo una dimensione live che per gli appassionati rappresenta una pietra miliare; ma la vera novità di questo lavoro, la leggenda che ne è scaturita, parte dal 2 disco, peraltro il primo senza l’ombra della follia di Syd Barrett, “Ummagumma” il cui significato in gergo indica il rapporto sessuale, un lavoro originalissimo ed avanti anni luce rispetto a quello che passava in quel periodo. In queste altre due facciate ogni componente della band si ritaglia un suo spazio: si parte con le tastiere di Wright che con la sua suite ci conduce verso un rock d’avanguardia intriso di classicismo, diviso in quattro parti in cui gli strumenti non seguono un filo logico, uno spartito ma che si concludono alla fine in un corale tripudio. E’ la volta del basso di R. Waters che ci regala una delle più belle ballate acustiche dei Pink Floyd “Grantchester meadows”, che si conclude con susseguirsi di versi di animali e rumori di vario genere. La seconda facciata parte con la chitarra di Gilmour che compone  per la prima volta la suite “The narrow way” un classico dei Pink Floyd, chitarre e tastiere che si inseguono supportate dalla batteria di Mason  e per finire una stupenda  ballata elettrica. La parte finale del disco”The grand vizier’s garden party”  è di  Mason, una suite sperimentale, si parte dalle percussioni per far insinuare solo alcuni strumenti come il flauto; siamo forse troppo aventi nel precorrere i tempi .Per concludere credo che “Ummagumma” sia un album fondamentale per tutta la musica moderna, non a caso da lì è partito quello che sarà poi definito il “ Krauti rock tedesco” degli Amon Dull, Tangerine Dream o alcuni lavori di Robert Fripp e Brian Eno  che hanno proseguito la sperimentazione interrotta dei Pink Floyd. Una curiosità: all’epoca il disco divise un po’ il pubblico abituato ad un rock più classico, per cui le vendite del disco furono disastrose ma in compenso ebbero un successo di critica unanime. Vi consiglio un ascolto o un riascolto del disco non ve ne pentirete!

Tracklist:
Disco 1:
01. Astronomy domine
02. Careful with that axe, Eugene
03. Set the controls for the heart of the sun
04. Saucerful of secrets

Disco 2:
01. Sysyphus, part 1
02. Sysyphus, part 2
03. Sysyphus, part 3
04. Sysyphus, part 4
05. Grantchester meadows
06. Several species of small furry animals gathered together in a cave and
07. The narrow way, part 1
08. The narrow way, part 2
09. The narrow way, part 3
10. Grand vizier’s garden party: enterance, part 1
11. Grand vizier’s garden party: entertainment, part 2
12. Grand vizier’s garden party: exit, part 3

La Factory di Andy Warhol e il rock di Velluto di Jankadjstrummer

La Factory  di Andy Warhol e il rock di Velluto

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Quando si parla di rock e di band seminali la mente vola alla fine degli anni ’60 e a quel primo album dei Velvet Underground acquistato, come disse Brian Eno, da un centinaio di persone diventati poi a loro volta musicisti o critici musicali. La musica dei Velvet fu una meteora di breve durata, un paio di album e qualche brano proposto come singolo e suonato in qualche performance dal vivo, un rock psichedelico influenzato dalla musica indiana, dalla poesia decadente e da quel desiderio di intendere la musica fuori dagli schemi, che sapeva cogliere quello spirito dirompente e se vogliamo parecchio eversivo. La grandezza della loro musica sta nella intuizione e nella invenzione di quelle atmosfere autodistruttive, malate, tipiche della letteratura metropolitana intrisa di nichilismo che spesso sfociava in paranoia. Atmosfere alienanti che guardavano alla degradazione del vivere moderno fatto di violenza, disperazione e tanta solitudine esistenziale di cui i Velvet Underground, con la loro musica, erano artefici ma che ne somministravano l’antidoto. I loro testi, quasi mai urlati, erano un inno all’ambiguità, alla promiscuità sessuale e alla droga come ricerca del proprio “io” ma mai come pratiche edonistiche o ludiche. La loro musica dava quel senso di squallore tipico della metropoli degradata ma capace di spaziare tra inni trionfali e elegie funebri di un mondo terribile ma seducente. La grandezza innovativa dei Velvet sta nella capacità di richiamare un rituale tipico delle popolazioni primitive in cui gli individui sono partecipi e protagonisti della tribù di appartenenza. I Velvet Underground furono estranei alla canzone di protesta, furono estranei al movimento “flower children” e al divismo dei Beatles e degli Stones. Le loro canzoni erano arrangiate in un modo che non era mai stato tentato prima, un puro caos sonoro, inquietante e visionario avvolto nella nebbia che a poco a poco si diradava per scoprire quel miraggio di speranza in un mondo migliore. Canzoni pop ma che rappresentavano la colonna sonora di una metropoli come New York iper-realista ma deformata da musicisti le cui menti erano offuscate dalle droghe e da fantasie perverse. Musiche e liriche decadenti che ben si compenetravano con la pop art di Andy Warhol che fu uno dei primi a rimanere impressionato dalle loro prime performance al Cafè Bizzarre. Warhol consapevole della loro carica innovativa li tiro” fuori dai sottoscala sottoculturali in cui si esibivano” e li inseri` nei suoi spettacoli totali. Uno dei primi film in cui comparvero s’intitolava “Venus In Furs”. Dell’entourage del suo “Exploding Plastic Inevitable” faceva anche parte l’attrice e cantante tedesca Nico, giunta in America come compagna di Brian Jones, cantante bella ma algida che inietta in quegli show un’atmosfera da cabaret espressionista, tracciando in tal modo un’ inquietante parallelo fra la Berlino anni ’30 e la New York anni ’60. Al complesso viene invece affidato il compito di suonare la colonna sonora per le allucinanti coreografie e gli spettacoli di luce. Fu fu cosi` che i Velvet Underground impararono a produrre il loro stile originale. Alla corte di Warhol alla metà degli anno ’60 c’era tutto il popolo dei borderline pescati dai bassifondi Newyorchesi, un popolo di teppisti, prostitute, gay, drag queen , artisti, tossici che diventa il protagonista delle storie cantate dai Velvet Underground. L’esordio dello show multimediale di Andy Warhol con Nico avvenne nella primavera del ‘66 al “DOM Theatre” a cui seguì una tournèe che attraversò gli Stati Uniti fino alla West coast. Un carrozzone formato dai Velvet ma anche da attori, cineasti, ballerini della Factory di Warhol che portarono nei teatri off americani le esibizioni globali carichi di perversione. Sulla scena, la musica fini per essere un caleidoscopio e una fusione di generi, ogni membro del gruppo portava con sè la propria ispirazione e la propria esperienza, l’avanguardia di John Cale, il tribalismo, il rock, il free jazz e le storie metropolitane di Lou reed. I Velvet Underground furono fra i primi gruppi che concepirono la musica rock come arte creativa e non come prodotto commerciale da vendere nel formato del disco a 45 giri. I Velvet Underground furono fra i primi complessi che mostrarono totale disinteresse per le classifiche di vendita. La loro missione era di trasmettere emozioni, esprimere disagio, comunicare all’interno del proprio ambiente. I primi album dei Velvet Underground erano innanzitutto esempi di libertà creativa: il complesso scriveva quello che voleva, lo arrangiava come voleva e lo suonava come voleva, quindi canzoni d’atmosfera ma anche lunghi e deliranti incubi sonori eccessi che si rivelarono antesignani dell’improvvisazione e della dissonanza rock.

Seguirà recensione del loro primo disco “ The velvet Underground and Nico” del 1967 .

JANKADJSTRUMMER