Riascoltati per voi – Radiohead – OK Computer by Jankadjstrummer

 

https://youtu.be/1uYWYWPc9HU

ok computer

E’ inutile dire, le democrazie occidentali sono tutte uguali, la lotta per il potere è senza esclusioni di colpi e i candidati a governare sono disposti a tutto pur di accaparrarsi il voto degli elettori, ne sappiamo qualcosa noi Italiani in fatto di promesse giurate in campagna elettorale dagli imbonitori di turno che dimenticano immediatamente, varcata la soglia del Parlamento, i motivi per cui sono stati eletti. “Electioneering”, brano contenuto in questo OK Computer mi ricorda, ad ogni ascolto, la dabbenaggine di noi italiani che diventiamo creduloni ed ingenui ad ogni tornata elettorale. La durezza e la violenza del brano ci deve spingere, forse, ad abbozzare una qualche reazione……. Stiamo parlando del capolavoro  dei RadioHead uscito nel 1997, il disco che segna la svolta: non più musica brit-pop in stile Smith ma sperimentazione in studio per cercare un linguaggio sonoro diverso. Questa rubrica “riascoltati per voi “ è stimolante perché mi da l’occasione di riascoltare i dischi che più mi sono piaciuti durante tutti questi anni con molta calma, per coglierne le sensazioni, le tecniche sonore utilizzate e non ultimo i testi.

Il disco parte con un brano molto tirato dove chitarra e batteria creano un suono incandescente dal titolo “Airbag” mentre la voce quasi neniosa di Tom Yorke ci rivela una sua recondita paura: la guida dell’automobile. “Airbag” è un episodio ben riuscito e ben arrangiato impreziosito da un violoncello che ripercorre il riff chitarristico mentre il basso e la batteria crescono fino al gran finale che si conclude con dei bip che annunciano il capolavoro del disco: “Paranoid Android”  6 minuti e mezzo di sofferenza, suoni viscerali che si alternano alla bellissima voce questa volta melodiosa e sofferta di York. Questo pezzo è diviso in più movimenti ed è sorretto da un testo denso di disperazione i Radiohead riflettono sul crollo  della  generazione degli anni 80, sugli yuppies cocainomani vuoti e senza speranza. Musicalmente la prima parte del pezzo è costituita da delicati accordi di chitarra  unito a accordi di basso originalissimi fino a che non parte la chitarra di Jonny Greenwood aggressiva e grondante di malessere  che lascia il posto al movimento più triste, caratterizzato dalla voce di Yorke che in falsetto ricrea una atmosfera desolante fino al ripetersi del verso “God loves his children, yeah” che ci conduce ad un finale  sonoro che lascia svuotati.
A questo punto i Radiohead capiscono che devono fermarsi un attimo dopo un pezzo così straziante ed intenso,inseriscono, quindi, un bellissimo e tranquillo arpeggio che è il preludio a “Subterranean Homesick Alien” brano che richiama nel titolo un vecchio pezzo di Bob Dylan, “Subterranean Homesick Blues”. Qui viene sviluppato il concetto di alienazione che è il leit-motiv di tutto l’album a cui si accompagna una melodia particolarmente dolce. Poi parte “Exit Music (For a film)” anche questo  pezzo tocca punte altissime di lirismo, supportato da accordi acustici su cui gioca bene la melodia triste di Yorke . Segue “Climbing up the walls”, un rock lento ma reso acido da suoni distorti. Finalmente si riesce a vedere un po’ di luce il suono diventa più sereno quando parte  “Let Down”, in perfetto stile brit-pop, canzoncina orecchiabile che smorza molto la tensione del disco ma che, tuttavia, nasconde un ottimo arrangiamento, specialmente nel coro e nei riff di chitarra. Una piccola incursione nell’ elettronica introduce “Karma Police”, forse il brano più conosciuto del gruppo. E’ una classica melodia orecchiabile ma che cela un malessere esistenziale ai limiti della paranoia , con questo pezzo, in effetti, la tensione cala e il testo diventa un motivo per ridicolizzare il perbenismo stupido di chi vede nemici e potenziali delinquenti dappertutto si ironizza sull’ignoranza e sui luoghi comuni del cittadino medio che chiama le forze dell’ordine quando vede magari un giovane con i “capelli tagliati alla Hitler”.  La canzone è bellissima e ricorda molto lo stile  “beatlesiano” che tanto ha influenzato il brit-pop Dopo questo pezzo il disco approda verso lidi più sperimentali  “Filter happier” nel testo si ironizza sulla “ perfezione del genere umano” mentre il tema di “Lucky” è l’amore reso più ideale da cori e assoli di chitarra in perfetto stile Pink Floyd in cui la voce, dolce e triste, di Yorke tocca punte altissime di espressività.
“The Tourist”, invece, scritta da Johnny Greenwood, è malinconica, supportata dalla voce mesta e dilatata di Yorke prima che un carillion e un abbozzo di ninna nanna ci consegni una favolosa “No Surprises”, un brano dolcissimo ed insolitamente ottimista. E’ stata dura ma siamo  arrivati  alla fine di OK Computer,  i RadioHead ci hanno consegnato un capolavoro che resterà nella storia del rock, l’apice della loro carriera prima della svolta elettronica che trovo meno interessante. E’ risaputo che i capolavori sono unici loro ne sono consci tanto che dopo questo successo planetario hanno continuato la ricerca e la sperimentazione verso altri approdi non raggiungendo mai i traguardi raggiunti con questo lavoro, non sarebbe stato possibile né giusto tentare di bissare il lirismo,i sentimenti, l’intensità poetica   di cui è pregno questo”Ok Computer”

  1. Airbag
  2. Paranoid Android
  3. Subterranean homesick alien
  4. Exit music (for a film)
  5. Climbing up the walls
  6. Let down
  7. Karma police
  8. Filter happier
  9. Electioneering
  10. Lucky
  11. The tourist
  12. No surprises.     BUON ASCOLTO DAL VOSTRO JANKADJSTRUMMER.  

TUBULAR BELLS DI MIKE OLDFIELD – A OPERA ROCK- 1973 by JANKADJSTRUMMER

 

TUBULAR BELLS

TUBULAR  BELLS

Michael Gordon Oldfield nasce come chitarrista folk-rock, dopo una breve parentesi di lavoro con il fratello Terry e la sorella Sally ed un album del 1969 dal titolo “Children Of The Sun”, lavora con la band di Kevin Ayers ex Soft Machine dedita molto alla sperimentazione del suono cosiddetto di Canterbury. Inizia a lavorare con molti strumenti e a fare le prime sovraincisioni amatoriali fino a che non riesce a creare un opera rock strumentale molto particolare in cui convive sia l’anima folk che quella rock progressive. In quel periodo nessuno punta su questo lavoro, non convince questa suite di 50 mInuti ritenuta poco commerciale, fino a quando non viene proposta alla nascente etichetta VIRGIN che farà poi la fortuna con questo disco. Iniziano così le elaborate sessioni in sala d’incisione dello stupefacente “ Tubular bells “e dopo una lunga gestazione nel 1973 il disco viene pubblicato.

E’ l’inizio dell’astro nascente di Oldfield che raccoglie l’agognato successo per un disco elaborato  ma di gradevole ascolto: una successione di frammenti musicali, creati dalla sovrapposizione di strumenti suonati perlopiù dallo stesso musicista, entrati  di diritto nella storia della musica. Su tutti, il tema d’apertura con una tastiera quasi ossessiva che unita ad un giro di basso ti immette in un clima molto sinistro, un introduzione che è calzata bene come colonna sonora del film “ L’esorcista”  oppure la fine della prima facciata, ove vengono chiamata ad uno ad uno gli strumenti che si sovrappongono e preparono per il gran finale che culmina, le con le campane tubolari, le Tubular bells appunto. I 50 minuti del disco, diviso in due parti, pare, si ispira al Bolero di Ravel, la musica scivola via con i suoi continui cambi di tempo ma la cosa che più risalta è l’assenza in tutto il lavoro della batteria e della parte cantata ad eccezione del finale della 2 ° parte dal sottotitolo”The Piltdown Man Section”, dove Oldfield, dopo essersi scolato mezza bottiglia di whisky, esterna tutta la sua frustrazione al mondo intero con i suoi grugniti da uomo delle caverne. Simpatica è anche la conclusione dell’opera, affidata al traditional “The Sailor’s Hornpipe”  meglio famosa come sigla dei cartoon di “Braccio Di Ferro”.

Recensire dal punto di vista musicale questo disco non è facile: la 1° parte subito dopo il tema iniziale si apre con doppi fraseggi di tastiere conditi con fiati andini e chitarre in libertà fino a che la musica diventa gioiosa e serena e culmina in un tema di mandolino quasi partenopeo che la dice lunga sul magnifico bagaglio musicale di Oldfield, il tema centrale resta invariato ma si arricchisce di echi mediorientali e variazioni sul tema fino a raggiungere l’apice con delle incursioni di chitarre lancinanti. La suite continua e si addolcisce con dei richiami alla danza indiana e le chitarre diventano quasi folk mentre in secondo piano si odono rintocchi d’organo. Il finale della prima parte è quella stupenda reintrè degli strumenti che ad uno ad uno riprendono le poche note e che culminano con le Tubular bells di cui si parlava prima e si chiude con degli arpeggi di chitarra classica. Nel secondo tempo dell’opera si riprende il clima acustico quasi sognante, le chitarre si intrecciano fino a che un organo intona un minuetto folk che ti guida in un viaggio fantastico verso verdi paesaggi inglesi reso quasi epico da un crescendo di mandola e da  un bel coro femminile. La suite scivola poi armoniosamente sul classico, su suoni antichi su cui i timpani reggono il tempo, poi ancora una miriade di suoni che sembrano suonati da una band e diventano un preludio ai grugniti animaleschi, riff di chitarra di cui si parlava prima fino a sprofondare su un assolo di organo di chiesa. Il finale, dopo questa parte particolarmente tetra e sinistra, è affidato ad tema allegro e spensierato che ne stempera l’atmosfera.

Tubular bells è un opera geniale, ponte tra il progressive rock e la new age che verrà, è il disco con cui il rock strumentale varca definitivamente la soglia dell’ arte maggiore e  che non deve mancare in nessuna cd-teca che si rispetti. Vani sono stati tentativi di ricreare questa atmosfera e sull’onda del successo planetario Oldfield ha pubblicato varie versioni di questo lavoro: “Orchestral Tubular Bells” (1975), “Tubular Bells II” (1992), “Tubular Bells III” (1998), “The Millennium Bell” (1999) e “Tubular Bells 2003” (2003), dischi che confermano che i capolavori sono irripetibili.

Buon ascolto o riascolto da JANKADJSTRUMMER

 

https://youtu.be/KXatvzWAzLU

SENTIMENTALE – GLI ALUNNI DEL SOLE – JENNY E LA BAMBOLA – by JANKADJSTRUMMER

.JENNI
GLI ALUNNI DEL SOLE – JENNY E LA BAMBOLA –

E’ inutile, nessuno può esimersi dalla nostalgia, dal  ricordo dell’adolescenza, dalla visione in bianco e nero delle feste in casa con i compagni di scuola in attesa dei “ lenti” che regalavano i primi turbamenti, i primi approcci con la  ragazza con cui speravi di imbastire una storia sentimentale. Nel rivivere queste immagini, i luoghi della giovinezza bisogna necessariamente essere accompagnati da una colonna sonora che non può non essere Jenny e la Bambola degli Alunni del Sole. L’altra sera parlavo al telefono con il Dr Nac che mi ha ricordato questo disco e tutto quello che rappresentava per dei ragazzi che nel 1974, anno di pubblicazione dell’album,avevano sedici anni. Così sono andato alla ricerca dell’album per riascoltarlo e con estremo stupore mi sono accorto di essere investito da una grande tenerezza, faccio partire la prima traccia intitolata “Un manichino in vetrina” e come per incanto riesco a ricordare la storia di Jenny e dell’incontro con il suo amore estivo, fugace. L’immagine che si coglie è il binario di una stazione e questa bella ragazza in attesa del suo treno con in mano una bambola di cartone. Suoni dolcissimi di chitarra acustica e pianoforte rendono questo quadretto ancora più intenso e tenero. Paolo Morelli ( il cantante) immagina di percorrere con lei le vie del mercato sotto gli sguardi ammirati dei passanti mentre i suoni dei violini e delle mandole sembrano lanciare petali di rose al loro passaggio. Non lo ricordavo cosi suggestivo questo inizio, anche il secondo brano “la bambola di cartone” segue lo stesso clichè, la ragazza alle prese con la sua bambola a cui aveva cucito un vestitino adornato con dei fiori di carta, a cui  truccava il viso e che  teneva stretta al suo petto quando il treno prende la sua corsa, qui l’innamorato gli grida tutto il suo amore ma lei non sembra sentire, un distacco che diventa dolore nel ricordo delle belle serate in riva al mare quando una orchestrina suonava da lontano e i due innamorati erano felici. La musica che fa da tappeto a questi sentimenti espressi con estrema sincerità e dolcezza, è una sorta di progressive che gioca con violini, tastiere e flauti nella descrizione delle luci delle lampare e nelle ombre di gente che balla e si diverte. Una immagine molto raffinata ma tanto malinconica. Il suono del piano e dell’armonica è il preludio al brano “Jenny e la bambola( I° parte ) “, qui è Jenny che parla del suo amore per un giovane più grande di lei, un amore contrastato dai genitori, il dialogo con la sua bambola, regalata probabilmente da questo ragazzo,  a cui rivela le sue fantasie di adolescente e  il desiderio di fuggire via,  il tutto su una musica lenta  con formidabili tocchi di  piano e mandolino. In “Jenny e la Bambola(II parte)” Jenny ormai adulta, ritrova in soffitta la sua bambola e la porta con sé come simbolo della sua adolescenza Qui la musica diventa orchestrale, belli gli arrangiamenti, il pianoforte e gli archi che rendono raffinato e leggero l’accompagnamento. Il brano Jenny chiude il cerchio, finalmente si racconta la storia d’amore estiva tra lui e lei. Promesse scambiate e poi dimenticate in un vortice di chitarra acustica, basso e una voce romantica e lieve. Poi altre due canzoni che non fanno parte della storia di Jenny: “un’altra poesia “ che ebbe un grande successo come 45 giri, una dichiarazione d’amore attraverso la dedica di una poesia, brano delicato, reso ancora più dolce da un bell’arrangiamento;  infine “Canzoni d’amore “ un brano forse riempitivo ma reso suggestivo dalla voce di Paolo Morelli. Il disco termina come termina questo tuffo nel passato alla ricerca forse di immagini di momenti lieti in cui l’unico impegno era un po’ di studio.  Jenny e la bambola è uno dei primi concept-album nel panorama musicale italiano, ebbe un grande successo di pubblico e di critica che consacrò il gruppo nel filone sentimentale pur riconoscendogli una forte maturità stilistica e musicaleBuon ascolto o riascolto da  Jankadjstrummer

https://youtu.be/KBFS7Jr2yE0

JENNY

Jenny sembrava felice/ di correre lungo,il mare di andare, tornare, giocare di farsi perdonare/io le baciavo le ciglia, che meraviglia felici, eravamo felici, ma… l’estate finiva, e,…
dovevo lasciarla jenny era tanto sicura che noi ci saremmo trovati di nuovo di certo anche lei, non sapeva dove
pero’ io le,ho creduto quante promesse scambiate, dimenticate sincera, sembrava, sincera,e poi…davvero era bella
per me la piu’ bella! na, na, na, na, na na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na,
jenny era la mente mia, era dentro le foglie, nel vento dentro l’acqua, nel sole, sui monti anch’io io le dormivo dentro
quante foto con amore che m’avra’ lasciato e quante le notti di mare che… son stato con gli occhi alle stelle a… pensarla na, na, na, na, na na, na, na, na,  na, na, na, na,
ore di allegria e,anche ore di malinconia non ci pensare sei mia, ma… sapeva che finiva poi le baciavo le labbra,
dopo,un po’ le ciglia felici, eravamo felici, ma… l’estate finiva, e,… dovevo lasciarla na, na, na, na, na na, na, na, na,
na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na!!!.|

https://youtu.be/S8KVzqMjUPE

Riascoltati per voi – Laurie Anderson – big science. by Jankadjstrummer

laurie
Uno dei maggiori pregi di Laurie Anderson è quello di essere riuscita a coniugare bene il rock con le arti visiveattraverso l’ utilizzo del corpo, della tecnologia e della musica pop. Certo l’originalità dell’artista rappresenta il punto di forza del suo lavoro ma bisogna dire che tante sono le influenze, da John Cage alle performance dei Fluxus oltre al forte sodalizio sia artistico che sentimentale con Lou Reed. I suoi video sono fortemente innovativi, una bella commistione di poesia metropolitana, suoni e musica sperimentale. La sua carriera parte a metà degli anni ’70 e culmina con un capolavoro “United States I-IV”, quasi otto ore di performance multimediale che vede la pubblicazione solo nel 1984 ( la bellezza di cinque album ). La performance vede infatti la Anderson recitare e suonare davanti a uno schermo su cui diversi proiettori riversano immagini, filmati e giochi di luce, illustrando un grande ritratto dell’America in quattro parti (trasporti, politica, soldi, amore) e concentrandosi sull’idea degli Usa come terra dell’utopia tecnologica.
Un altro tema del suo lavoro è l’ accettazione e la convivenza con la tecnologia, per lei non è “buona o cattiva”, dipende da come la si usa. Riferendosi a Internet ha dichiarato “ Molta gente crede che la tecnologia impedisca di comunicare e’ come dire che la matita e’ dannosa… Non e’ la matita che è dannosa, ma e’ il come la usi che può
renderla dannosa. Quindi il problema non e’ la tecnologia, ma come questa viene utilizzata.
Da questo lavoro, però, la Anderson aveva già estratto delle perle che avevano dato vita nel 1982 all’album “Big Science” che considero il suo
capolavoro. Anche gli ascoltatori meno attenti non hanno potuto fare a meno di ascoltare la hit dell’ album “O Superman (For Massenet)”, utilizzata alla fine degli anni ’80 nello spot per la campagna di sensibilizzazione sull’ “AIDS”, un filtro vocale sulla recitazione del brano, due accordi vocali che sembrano provenire da un freddo robot creano un brano ossessivo, inquietante che ben si adatta al clima della “ peste del xx° secolo.
Il pezzo si apre con un messaggio in segreteria telefonica (“Hello? This is your mother.”), poi prosegue con un testo ironico “Quando l’amore è perso c’è sempre la giustizia. Quando la giustizia è persa c’è sempre la forza. Quando la forza è persa c’è sempre la mamma”. il finale è inquietante ed apocalittico c’è un chiaro riferimento alla crisi USA-IRAN del 1979 ma anche una spaventosa invocazione “Così tienimi, Mamma, tra le tue braccia/ le tue braccia petrolchimiche/ le tue braccia militari/ le tue braccia elettroniche”. Questo pezzo è un misto di sinistra ironia dipinge
una America come una grande mamma che protegge i suoi figli ma li tiene soggiogati “Gli Stati Uniti aiutano, non danneggiano, fanno sviluppare nazioni usando le loro risorse naturali e materie prime” questo è l’ ammiccante slogan.
In “From The Air” la Anderson dichiara le sue origini rock con un bel duetto batteria e sax a cui segue però un recitativo, su una base di sintetizzatori, raccapricciante “This is your Captain/ and we’re going down”,.
Il brano “ Big science “ è pura elettronica, sorretto da synth e percussioni, qui alterna il canto alla recitazione, un dialogo padre e figlia sui grandi temi dell’ecologia e della filosofia , si tratta, insieme al singolo, del momento più alto dell’album.
Poi c’è la ludica “Sweaters” intrisa di cornamuse, “Walking & Falling” bel pezzo in cui l A riesce a creare tensione esclusivamente con la recitazione e pochissimi suoni sparsi. “Born, Never Asked” ricorda molto lo stile di Peter Gabriel peraltro molto legato alla Anderson con cui ha collaborato nell’album” So” e con un bel finale di assolo di violino.
Segue poi “Example # 22” pieno di vocalizzi e ma supportata da numerosi strumenti: violino, flauto, sax tenore e baritono, e clarinetti che dimostra come l’aspetto musicale non sia mai stato per lei secondario, anzi credo che peschi a piene mani dal rock per poterlo contaminare con le arti visive, creando un bellissimo spettacolo multimediale.
Anche “Let x =x” è allegra, tastiere, marimba e hand clap
e nel finale un bel virtuosismo di trombone.
Nell’ultimo brano “It Tango” continua il dialogo iniziato in “ Big science “ in cui i due personaggi dialogano ma non riescono a comunicare, un altro grande tema vissuto con un atteggiamento contraddittorio tra un approccio creativo ed umano alla tecnologia e la paura della propria alienazione. Credo che sia nella ricerca e nella sua dignità artistica la grandezza della Anderson, lei ha sempre mantenuto la barra dritta, non si è fatta condizionare ed ha rinunciato ai facili successi, per crearsi un immagine di artista globale, apprezzata e stimata dai grandi nomi del rock d’avanguardia, non ha caso il genio di Brian Eno ha realizzato nel 1994 con lei lo stupendo album “Bright Red”. Buon ascolto JANKADJSTRUMMER
1. From The Air
2. Big Science
3. Sweaters
4. Walking & Falling
5. Born, Never Asked
6. O Superman (For Massenet)
7. Example #22
8. Let x =x
9.It Tango
laurie2

DISCHI STORICI RIASCOLTATI PER VOI – THE SMITHS / THE QUEEN IS DEAD – by Jankadjstrummer

smithsTHE SMITHS  / THE QUEEN IS DEAD

The Queen Is Dead  degli Smiths viene pubblicato nel giugno 1986; siamo in Inghilterra in piena epoca Tachteriana, il disco doveva originariamente intitolarsi “Margaret On The Guillotine”  e doveva essere l’ennesima bordata alla Lady Thatcher che finisce al patibolo, con tanto di colpo di lama finale – questa storia costerà a Morrissey una visita a casa con perquisizione da parte della polizia. Il disco mette in risalto la forte insofferenza nei confronti di un paese decaduto sia dal punto di vista morale che da quello politico. Qualcuno ritiene che è  riduttivo interpretare il titolo e l’opera nel suo insieme in una chiave esclusivamente anti-inglese, la crisi a cui gli Smiths fanno riferimento riguarda le illusioni, le speranze collettive di cui sono nutriti i grandi movimenti libertari dei decenni precedenti ridotte a macerie e solitudine. Musicalmente il disco è in perfetto stile  smithsiano ed entra di fatto nella storia del rock britannico più degli altri perchè qui sono nate le perle più pure e convincenti della coppia Morrissey/Marr vere anime della band. Da questo punto di vista il lavoro è perfetto la voce di Morrissey è ai suoi apici interpretativi: i brani sono “Cemetery Gates” un country-rock dal sapore antico su cui ruota un bel giro di basso, “Bigmouth Strikes Again” e “The Boy With The Thorn On His Side”, sono dolci melodie vocali sulla quali Morrissey  tesse le sue trame, due pezzi leggeri ma intensi ed ancora “There Is A Light That Never Goes Out” una canzone senza fine, al tempo stesso elegante ed essenziale che ricorda vagamente la migliore canzone francese Anche i pezzi della prima metà del disco catturano l’ascoltatore: “The Queen Is Dead” è una composizione di oltre sei minuti è rappresenta il pezzo più sperimentale dell’album. “Frankly, Mr. Shankly” è un ritornello scanzonato mentre “I Know It’s Over” è un altro pezzo interessante di soul  leggero e malinconico.                   Il clamoroso successo del disco è accompagnato dalle inevitabili polemiche sulle sortite anti-monarchiche di Morrissey che in un’intervista va giù pesante: “Disprezzo la famiglia reale. L’ho sempre disprezzata. E’ un non-sense fiabesco, l’idea stessa della loro esistenza in giorni come questi, durante i quali la gente muore quotidianamente perché non ha abbastanza denaro per pagarsi il riscaldamento, tutto ciò è immorale”.                           Devo dire che ho riascoltato con attenzione l’album e mi sento di affermare che gli anni ’80 senza gli Smiths sarebbero stati monchi.

JANKADJSTRUMMER

RIASCOLTATI PER VOI – THE CURE “The Head On The Door” by Jankadjstrummer

“The Head On The Door”cure

Siamo a metà degli anni ’80 e i Cure si trovano ad affrontare un dilemma, un dubbio amletico che riguarda il loro futuro: continuare nella deriva delle ossessioni quasi apocalittiche dell’album “Pornography” o abbracciare definitivamente la pura sperimentazione come avevano fatto con il deludente “ The top”, la scelta è chiaramente affidata a Robert Smith che tiene ben saldo il timone del comando rinnovando per l’ennesima volta la line-up del gruppo, l’ex batterista Lol Tolhurst, infatti, passa alle tastiere, rientra il bassista Simon Gallup dopo la parentesi solista, rientra anche Porl Thompson, chitarrista della prima stagione Cure mentre a Boris Williams vengono affidate le drums. Con questa nuova formazione viene alla luce  “The Head On The Door” un disco che possiamo definire una rinascita dopo anni in cui i Cure erano scesi negli inferi dell’animo umano ma riuscendo comunque a rimanere a galla, una rinascita sulla strada del pop-rock melodico che vuole strizzare l’occhio alle classifiche e ai passaggi radiofonici ma senza perdere i propri connotati di band post-punk dalle sonorità dark. Una scelta coraggiosa che avrebbe fatto gridare all’eresia, allo scandalo per qualunque altra band ma che è diventata, per loro, quasi una metamorfosi per uscire da un clichè che li stava spegnendo. Dieci brani che hanno la pretesa di chiarire che Robert Smith e soci hanno ancora qualcosa da dimostrare: possono ancora lavorare per creare qualcosa di alternativo che non sia necessariamente tristezza e depressione ma che sia piacere di creare e divertirsi nel suonare insieme. Il disco parte in maniera travolgente con “In Between Days”, in cui una chitarra ritmica e la batteria prepara una base ritmica eccezionale su cui ben si poggiano le tastiere e il basso, non più suoni tenebrosi, ma dolci e solari, una dimostrazione tangibile che i Cure sono cambiati anche se resta il contrasto tra l’apparente spensieratezza della musica e la tensione del testo. La successiva “Kyoto Song” è più distesa ma intensa, malinconica, ricorda i primi Cure , con un testo all’altezza della situazione e dotata di un fascino irresistibile (“The trembilng hands of the trembling man hold my mouth to hold in a scream”) (“Le mani tremanti dell’uomo tremante tengono la mia bocca per trattenere in un urlo”). Qui il suono dark è magico non racchiude solo incubi ma anche alcune riflessioni di Smith sull’Oriente. Ancora variazioni sul tema in “The Blood” una rilettura spagnoleggiante delle sue ossessioni religiose, bellissime chitarre acustiche in versione da flamenco moresco dagli echi arabeggianti. Molto più vicina al tipico stile Cure è “Six Different Ways”, forse il brano in cui meglio convergono le due esigenze stilistiche del gruppo. Una piacevole favola affollata di animaletti elettronici che saltellano in un bosco fatato. “Push”, uno dei momenti migliori dell’album in cui si fondono alla perfezione gli strumenti e con le chitarre ben in evidenza, un vero brano da arena del rock che potremmo definire epico anche quando la batteria di Boris Williams segna il battito del cuore e la voce di Robert grida senza esitazione “Go, go, go!”. La seconda facciata dell’album si apre con“The Baby Screams” in cui il basso di Gallup intrigante ed al tempo stesso affascinante fa da tappeto sonoro ad una canzone cantata con energia.  “Close To Me” è il manifesto dei Cure di questo periodo, un capolavoro dall’attacco indimenticabile che si regge su di una dolcissima ritmica, su una sovrapposizione di pianole e sulla voce a tratti addolcita da languidi sospiri e sussurri di Smith, una grande interpretazione e un ritornello che si insinua nella testa per non uscirne più. Il suono delle chitarre è un bel marchio di fabbrica per “A Night Like This”, un brano squisitamente dark carico di energia e ipnotismo che sale piano per chiudere, poi, in un crescendo che sfiora la perfezione.
“Screw”, è, invece, un selvaggio pezzo dance che parte da un riff di basso
per diventare a poco a poco quasi un pezzo hard. Il disco si chiude con  “Sinking”, un brano per i nostalgici del sound degli esordi, mai rinnegato dai Cure, ma che in questa fase vogliono solo rigenerarlo, un brano costruito in maniera magistrale in cui c’è una perfetto percorso nei meandri dei sogni dark di Robert Smith. Con “The Head On The Door” credo si sia raggiunta la perfetta alchimia tra il pop e il dark, un risultato ottenuto con sofferenza da Robert Smith che ha avuto la capacità di capire che essere fragile e sensibile non sempre è l’anticamera della depressione ma a volte fa scoprire che c’è sempre un’altra faccia della medaglia e che spesso possa esserci una               “ tristezza allegra”.  Jankadjstrummer

  1. “Inbetween Days”
  2. “Kyoto Song”
  3. “The Blood”
  4. “Six Different Ways”
  5. “Push”
  6. “The Baby Screams”
  7. “Close To Me”
  8. “A Night Like This”
  9. “Screw”
  10. “Sinking”

 

 

RIASCOLTATI PER VOI DEEP PURPLE IN ROCK 1970 by Jankadjstrummer

 

 

 

deep purple

DEEP PURPLE  “ IN ROCK

 tracklist

  1. Speed king
  2. Bloodsucker
  3. Child in time
  4. Flight of the rat
  5. Into the fire
  6. Living wreck
  7. Hard lovin’ man

Il disco esce nel 1970 ma viene nelle mie mani solo nel 1973 quando nei pomeriggi di studio a casa di un mio compagno di scuola saccheggiavamo la discoteca fornitissima di rock dei suoi fratelli maggiori ed ascoltavamo questo Deep Purple in rock con uno scassatissimo giradischi Lenco. Già la copertina faceva volare l’immaginazione, era raffigurata la Band scolpita nella famosissima montagna di Rushmore  al posto dei  volti dei 4 presidenti americani quasi a voler significare che con questo disco veniva scolpito  per sempre nella roccia il loro rock aggressivo che miscela tanto blues con influenze sinfoniche che la voce di Ian Gillan rende maestosa. Riascolto per intero questa pietra miliare del rock questa volta senza il gracchiare della puntina sul giradischi ma in versione rimasterizzata con la cuffia dell’I-Phone che rende il suono limpido ed avvolgente. Partono le prime note incendiarie di “Speed King “ chitarra ed organo che svisano in un suono grintoso quasi  assordante, tutto scema per lasciare il posto ad un dolce organo che tranquillizza prima di far ripartire le note veloci ed agguerrite che ti scuotono anche fisicamente. Ian Gillan si lascia andare ad un vocalizzo hard che diventerà il suo biglietto da visita il suo marchio nel prosieguo della carriera della band.  Il secondo brano  “Bloodsucker” è anch’esso un esempio di hard rock che farà scuola, un blues viscerale ma nello stesso tempo elegante dove i virtuosismi di Blackmore e Lord si intrecciano. Questi primi due brani danno il polso della loro grandezza: suoni hard, chitarre strazianti che fanno da contraltare ad melodia raffinata, ricercata. La prima facciata termina con uno dei loro capolavori di sempre “Child in Time”: un blues in crescendo che esonda in urli disperati di Gillan e in progressioni strumentali che toccano tutta la band, batteria, basso, tastiere e che conducono in un finale di gran classe che si ascolta inevitabilmente ad alto volume. Oltre dieci minuti di musica ben costruita che rimarrà nella storia del rock. E’ necessario un attimo di tregua, le mie orecchie e il mio stomaco sono in subbuglio, prima di far partire la seconda facciata affidata a “Flight of the rat” un classico brano hard rock in cui viene messa ben in evidenza la coralità, il gruppo. E’ un brano semplice in cui ogni musicista entra in scena con un suo assolo, chitarra, basso, tastiere per poi stringersi attorno alla melodia principale.  Seguono poi due brani “Into the fire” e “Living wreck” che non sono dei gran capolavori ma che tuttavia sono classici hard rock  suonati sempre ad un certo livello. Il disco si chiude con un brano particolarmente rovente “Hard lovin’ man”, che parte in maniera quasi psichedelica per sfociare in un suono energico, violento  non frequente nel 1970. I Deep Purple, con questo lavoro, hanno raggiunto alte vette compositive elevandolo a disco manifesto dell’hard rock. E’ un grande disco,imprescindibile e fondamentale per tutti gli amanti del rock che ne dovrebbero tenere una copia a ‘mo di cimelio.                                                        Buon ascolto o riascolto da JANKADJSTRUMMER

RIASCOLTATI PER VOI – THE BLACK KEYS – EL CAMINO – 2012 by Jankadjstrummer

EL CAMINO

THE BLACK KEYS –  EL CAMINO –

Da queste pagine avevo già decantato le gesta di questo formidabile duo proveniente da Akron all’indomani dell’uscita del loro album “Brothers”, peraltro pluripremiato con i  Grammy e gli MTV Award, ma, a questo punto, mi sento di confermare che i Black Keys con questo nuovo disco “ El camino”, sono la band più cool del mainstream alternativo di questo inizio di 2012, sono, ormai,  al 4°/5° ascolto del disco e mi sono convinto che si tratta di un vero gioiello perché coniuga con perizia un certo tipo di rock & roll rumoroso, randagio, una musica immediata, viscerale, che ben si concilia con la vera natura del rock americano fatto di lunghe strade che tagliano in due il deserto, motel che i Black Keys percorrono a bordo di quel furgone Chrysler della copertina del disco. Un viaggio rock attraverso gli Stati uniti che Dan Auerbach alla chitarra e Patrick Carney alla batteria hanno voluto musicare durante il loro tour dell’anno scorso. Il disco è tiratissimo veloce ma questa volta non esplora il soul e il funk come avvenne per “brothers” ma vira invece sul rock’n’roll di maniera di quello che si lascia ascoltare, direi cullare, un rock che dà poco importanza ai testi che diventano, solo, un ausilio della musica.

Metto, virtualmente, il disco sul piatto è sono spiazzato da un brano geniale che parte con riff di chitarra irresistibile Lonely Boy, pezzo azzeccatissimo come è azzeccato il divertente video che gira in rete, un mix esplosivo di blues e di funk anni ’70. Si procede con “Dead and gone”, che non risparmia accenni pop in stile Motown, mentre “Gold on the ceiling” con un bel ritornello, è ricco di cori che starebbero benissimo in un film di Tarantino, un bel colpo di acceleratore di quel sgangherato furgoncino che percorre le polverose strade americane. Dopo questo trittico adrenalinico bisogna fermarsi un attimo a riprendere fiato, cosi parte una dolce ballata che per un certo modo di arpeggiare con la chitarra acustica che ricorda molto “Stairway to heaven” dei Led Zeppelin, si tratta di  “Little black submarines”, che parte leggera e struggente per proseguire poi con un crescendo in stile garage-rock che funziona alla perfezione. La sosta all’Autogrill è brevissima perché “ el camino”  riparte alla grande con il ritmo incalzante e  con la chitarra rabbiosa di  “Money maker”, poi la seducente carica funk di “ sister “ rapisce ai primi accordi con il suo avvolgente ritornello, una canzone, forse la più bella dell’album,  che mette in mostra la splendida voce quasi black del bianco Dan Auerbach in cui si sente la mano magica del produttore e musicista  Danger Mouse che sin dall’album ai tempi di Attack & Release del  2008 è divenuto il terzo elemento dei Black Keys

Poi c’è “Stop stop” un bel brano di soul farcito di bellissimi fraseggi di slide-guitar che dimostrano, se non ce ne fosse bisogno, che parliamo di un duo di inguaribili e sentimentali nostalgici del blues, gli altri brani “Hell of a season” e “Nova baby”  come spesso accade non eccellono, sono un po’ “per far ciccia “ tuttavia abbastanza gradevoli. L’album si chiude con un bel brano Mind Eraser che parla di un amore perduto e ci conduce alla fine di questo meraviglioso viaggio “on the road” con ancora la polvere in bocca.  I Black Keys con questo disco ci dimostrano che è ancora possibile suonare un rock’n’roll genuino non edulcorato in cui ci si lascia sopraffare dalla carica rivoluzionaria, la grandezza di questo lavoro sta in questo: mentre la musica pop va verso altre direzioni è ancora possibile innamorarsi di quella maledetta musica rock che molti danno per spacciata. Rock&roll never die!

TRACKLIST:
“Lonely boy”
“Dead and Gone”
“Gold on the ceiling”
“Little black submarines”
“Money maker”
“Run right back”
“Sister”
“Hell of a season”
“Stop stop”
“Nova baby”
“Mind eraser.

Dal vostro Jankadjstrummer

 

I POOH di PARSIFAL – TIMIDE STERZATE DI PROGRESSIVE by Jankadjstrummer

pooh

I Pooh di Parsifal

Solo un paio di anni fa, a tutto avrei pensato tranne di dover scrivere un articolo sui Pooh, ma spesso accade che la nostalgia e le insistenze dei lettori tirano brutti scherzi; cosi ripesco un disco che bene o male ha accompagnato i giovinetti degli anni ’70 alle prese con i primi amori. Nelle feste in casa dei liceali era immancabile l’ LP Parsifal dei Pooh. La particolarità di questo disco sta nel timido tentativo, peraltro rimasto tale, di accostarsi alla nuova onda del  progressive. Questo album si compone di otto brani  melodici accompagnati dall’orchestra e da una suite di oltre dieci minuti che si ispira proprio a Parsifal, un dramma sacro di Wagner in cui la religiosità, il misticismo si coniuga con l’eroismo ma anche con i sentimenti. Proprio questa suite rappresenta per molti un bell’esempio di progressive proprio per la composizione ben articolata del  brano, in realtà non sono molto d’accordo con questa definizione perché ritengo che forse è più corretto parlare di pop-sinfonico con arrangiamenti ben costruiti che elevano la famosissima coppia “ Facchinetti-Negrini “, capaci di scrivere testi mistici e fantastici ed una buona musica pop. Ma Camillo Facchinetti detto Roby, Donato “Dodi” Battaglia, Stefano D’Orazio e Bruno Canzian in arte Red hanno sterzato solo per un attimo verso la sperimentazione, verso l’underground progressive scegliendo un itinerario molto più facile, che li ha portati ad un successo che dura da oltre 40 anni   ( è del 1968 “Piccola Katy” ). Ma veniamo alla suite Parsifal: dolci accordi di pianoforte danno il tempo alla narrazione del racconto che si diluisce fino alla ricerca dell’infinito. Il cavaliere senza macchia e senza peccato è alla ricerca del Sacro Graal, simbolo cristiano mistico che rappresenta  la ricerca del soprannaturale  e della vita eterna,  ma quando incontra la donna amata intesa come la vita terrena decide di rinunciare alla sua missione, e di concedersi definitivamente  alla sua amata (“le tue armi al sole e alla rugiada hai regalato ormai, sacro non diventerai“). L’amore terreno che si contrappone al sacro che in questo caso era la sua missione eroica. Torniamo però all’inizio del disco “L’anno, il posto, l’ora…” ha un testo direi epico, con una bella introduzione di chitarre arpeggiate acustiche ed elettriche molto ben congegnate. Il brano si compone di  due parti, la prima più eterea e sognante che è una metafora dell’amore irraggiungibile sfiorato solo per un attimo, con un lirismo straordinario che si fonde magnificamente con la musica , (“l‘anno il settantatrè il posto il cielo artico, l’ora che senso ha, d’estate è sempre l’alba, l’incontro di ogni giorno con l’immensità credo finisca qua) poi un crescendo di immagini che denota una prolungata attesa alla ricerca della bellezza da rivedere almeno per un istante in modo che possa imprimersi  e suggellarsi nella mente “suoni di vento e d’acqua che fermare vorrei… ma non c’è tempo ormai“, fino  a fondere in un crescendo corale sia con il suono che con la voce “e non dite a lei: non lo rivedrai, dite: non si sa, forse tornerà“, Ma come è accaduto per Parsifal la canzone, apparentemente semplice, è sempre in bilico tra il trascendente, il mistico e la vita reale, quella vera, quella vissuta, nella seconda parte infatti tornano le immagini nitide del quotidiano : “all’orizzonte là, il sole è un occhio immobile, è notte ma la notte qui d’estate è solo una parola” prima che un coro concluda con un bel fendente ben assestato affascinata e stanca la mia anima va, verso la libertà“.  Parlare degli altri brani che compongono questo lavoro diventa un pò superfluo: “Solo cari ricordi” è un branetto beat molto leggero che si ricorda per un assolo di chitarra finale., si ricorda ancora meno “Io per te per gli altri giorni”. Poi due ballate d’amore molto gradevoli in cui è ben in evidenza la chitarra e il piano “La locanda” e  “Lei e Lei”. La seconda facciata si apre con “Come si fa”  che si caratterizza per un bell’arpeggio di chitarra che apre il brano. “Infiniti noi” è un classico dei Pooh ben costruito per il successo di pubblico mentre in “Dialoghi” è molto bella la chitarra arpeggiata che poi diventa sottofondo del canto. Credo che le due perle del disco, l’apertura e la chiusura  valgano ad annoverarlo come l’unico lavoro dei Pooh meno commerciale, più di ricerca che la premiata azienda sia riuscita a sfornare. Un album romantico, epico che lavorando sulle immagini prova a descrivere emozioni e stati d’animo ancora sinceri.

JANKADJSTRUMMER

 

RISCOLTATI PER VOI – PINK FLOYD – Wish You Were Here, my crazy diamond by Jankadjstrummer

RISCOLTATI PER VOI – PINK FLOYD – Wish You Were Here

Remember when you were young, you shone like the sun, shine on you crazy diamond!

L’anno 1975 è il periodo di massima creatività e di popolarità per i Pink Floyd, reduci dal successo planetario di The Dark Side of the Moon, escono con un altro capolavoro, un album in cui cambiano gli ingredienti classici del gruppo, qui si trova una grande tristezza e una sincera malinconia per l’abbandono forzato, a causa dei suoi disturbi mentali, di Syd Barrett, storico componente del gruppo,. L’album è dedicato a lui, vengono ripercorsi riferimenti ed episodi del passato, si tratta di un tributo sincero a colui che ha contribuito alla grandezza e alla fama del gruppo londinese. Ieri sera ascoltavo, in macchina, Virgin Radio ( che consiglio  agli appassionati di rock), la conduttrice, introducendo il brano “wish you were here dei Pink Floyd, raccontava che durante la registrazione del disco, lo stesso Barrett, visibilmente provato a causa della malattia, fosse passato in studio per ascoltare alcuni brani, lasciando i suoi vecchi compagni sconvolti e in lacrime nel vederlo in quello stato, a quel punto pare che David Gilmour imbracciò la sua chitarra acustica e intonò alcune note blues e qualche strofa che sarebbero state la base del brano ‘Wish you were here‘, una delle canzoni più conosciute e amate dei Pink Floyd (‘running over the same old ground, what have we found? the same old fears – wish you were here‘) L’album, nei 44 minuti di eccellente musica, non mostra nessuna specifica dedica, ma il titolo, “Vorrei che tu fossi qui” è molto esplicito. Nel brano Roger Waters ha scritto: “… Come vorrei che tu fossi qui. Siamo come due anime sperdute che nuotano in un vaso di pesci, anno dopo anno, ricoprendo gli stessi vecchi posti. Cosa abbiamo trovato? Le stesse vecchie paure. Come vorrei che tu fossi qui… “. Quest’invocazione viene rafforzata in ” Shine On You Crazy Diamond” (Brilla, tu pazzo diamante) il brano che apre e chiude l’album dice più o meno questo: ” …Tu hai raggiunto il segreto troppo presto, hai gridato per la luna. Brilla, tu pazzo diamante… Nessuno sà dove sei, quanto lontano o vicino… Ammucchia più strati e ti raggiungerò là. Brilla tu pazzo diamante. E suoneremo all’ombra dei trionfi di ieri, e navigheremo sulla brezza di ferro. Su dai, tu ragazzo bambino, tu vincitore e fallito, su dai, tu minatore di verità e delusione, e brilla!... “.  “Syd è sempre stato avanti con i tempi” dice il  batterista Nick Mason, “Ad un certo punto si è lanciato avanti cosi precipitosamente creando un profondo baratro tra il normale e l’anormale. Fai presto ad impazzire quando ti trovi completamente isolato, quando non trovi nessun filo comunicativo tra te e il mondo che ti circonda”.  Ma veniamo all’ascolto del disco: parte un lieve suono di organo e mellotron che con un sintetizzatore in crescendo traccia un leggera melodia che scorre piano fino a che la Fender di Gilmour prende le redini per condurci da sola verso un sogno onirico piano piano scompare il sottofondo dell’organo e del mellotron è l’inizio della prima parte della maestosa   ‘Shine on you crazy diamond” che apre e chiude la magia. La Batteria e il basso entrano in veloce crescendo e la chitarra si unisce al fraseggio del brano, qui Gilmour e soci sono ispirati c’è tanto sentimento nella esecuzione, Roger Waters inizia il canto: ” Ricordi quando eri giovane, brillavi come il sole”, poi la frase ” Brilla, tu pazzo diamante” eseguita a più voci con estrema potenza. Nel ritornello torna la limpidezza della chitarra Fender. Gilmour e Wright si spalleggiano, accompagnati dal sax, fino alla dolcissima chiusura. Rumori metallici e un basso in perfetta stereofonia a cui si aggiunge il suono di una chitarra acustica in perfetto stile Floydiano, apre al brano “Welcome To The Machine” (Benvenuto alla macchina). Ritorna il mellotron e il sintetizzatore si concede ad assoli accompagnato da un basso saltellanti. Incursioni di timpani e una chitarra acustica ci porta verso la fine del brano che avviene con rumori di porte che si chiudono e fruscii è il brano più psicadelico dell’album che richiama i primi lavori del gruppo. Una bella chitarra rock, il basso, la batteria e il sintetizzatore aprono la seconda parte del disco il brano si intitola ” Have A Cigar” (Prendi un sigaro) ed è cantato da Roy Harper. Il lavoro di tastiera passa ora al mellotron e al piano elettrico, poi un assolo di chitarra che viene più tardi accompagnato dal sintetizzatore e dal mellotron e la musica si allontana, due chiacchere sensa senso, note classiche e chitarra acustica ci introducono a “Wish You Were Here”. Batteria, basso e piano accompagnano una bella chitarra acustica che fa da base ad un testo particolarmente triste incentrato sull’ abbandono. Un fruscio  del vento che ricorda l’album “ Meddle”  segna l’inizio della seconda parte di  “Shine On YouCrazy Diamond” condotta dal sinth accompagnato chitarra ritmica, basso, batteria; una “steel guitar” dialoga con il sinth fino al ritorno dell’inizio del disco. A questo punto vi consiglio un riascolto del disco per cogliere le tante sfumature di questo capolavoro del rock. Wish You Were Here si può definire un disco perfetto sia nei testi che nella musica, un concept album incentrato sull’assenza: della parola, ma anche dell’individuo e del pensiero. Voglio segnalare, infine, la bella copertina del disco: due mani meccaniche che si stringono l’una con l’altra, e due uomini ( uno quasi torcia umana ) che si stringono la mano, un gesto convenzionale utilizzato solo per routine senza mai coglierne il vero  valore.

Buon ascolto o riascolto da JANKADJSTRUMMER

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