Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.

 

Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.

Con la sentenza n. 13114/2018 la Suprema Corte di Cassazione in composizione Penale, è intervenuta sul ricorso proposto avverso l’ordinanza di sequestro preventivo (dell’importo di euro 2.230.776) emessa dal Tribunale di Ferrara, in sede di riesame, nei confronti di un soggetto cui era stata contestata l’omessa dichiarazione dei redditi per gli anni di imposta 2010- 2013 configurante la fattispecie di reato punita ex art. 5 D.Lgs 74/2000. Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.
Tale ordinanza era scaturita all’esito di un’accurata indagine che aveva evidenziato vari elementi che hanno portato la Guardia di Finanza a ritenere che il soggetto in questione, nonostante la residenza anagrafica in Svizzera, avesse la sede principale dei propri interessi economici ed affettivi in Italia e pertanto dovesse essere assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale anziché a quella Elvetica.
A sostegno dell’introitata azione per la cassazione dell’ordinanza de qua, per quello che è qui di interesse, il ricorrente adduceva la violazione dell’art. 4 della Convenzione Italo-Svizzera che dispone che il paese titolare della pretesa impositiva è quello in cui il contribuente ha la propria residenza, suffragata, nel caso di specie, da attestazioni rilasciate dall’autorità fiscale cantonale elvetica su richiesta delle imprese italiane incaricate dell’esecuzione materiale delle opere del ricorrente nonché da molteplici circostanze fattuali di per sé sufficienti a provare che egli avesse in Svizzera, e non in Italia, la propria residenza e il proprio centro di interessi ed affari.
Ed invero, prosegue il ricorrente, ai fini dell’individuazione della propria residenza e domicilio occorre tenere conto che: il numero degli immobili di cui è titolare in Italia corrisponde a quelli di cui è proprietario in Svizzera, a Parigi e a New York; le società di distribuzione dei suoi prodotti hanno sede in Ginevra e Parigi; che i suoi figli, come egli stesso, sono residenti in Svizzera e che in alcun modo risulta provata la sua dimora abituale in Italia.
In ordine alle deduzioni incorporate nel ricorso, la Suprema Corte ha ribadito che, ai fini delle imposte sui redditi, l’art. 2 T.U.I.R considera residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice Civile, mentre sono definiti “non residenti” coloro che non sono iscritti nelle anagrafi della popolazione residente per almeno 183 giorni dell’anno di imposta e che non hanno, ai sensi del Codice Civile né la residenza (dimora abituale) né il domicilio (sede principale di affari e interessi) con espressa precisazione che se manca uno soltanto dei suddetti requisiti, il contribuente viene automaticamente considerato residente.
Ne consegue che l’iscrizione nell’anagrafe dei soggetti residenti in altro Stato non è elemento determinante per escluderne la residenza fiscale in Italia allorché si tratti di soggetto che abbia nel territorio dello Stato la sua dimora abituale ovvero la sede principale dei propri affari ed interessi economici, cosi come delle proprie relazioni personali.
Peraltro, prosegue la Corte, alle medesime conclusioni conduce l’art. 4 della Convenzione tra Italia e Svizzera ratificata con la l. n. 943/1978, il quale, individuando criteri del tutto analoghi a quelli stabiliti dalla legislazione interna, facendo riferimento alle nozioni di domicilio, residenza ovvero a caratteri di analoga natura per la cui definizione rimanda espressamente alla normativa degli Stati contraenti, comunque prevede l’ipotesi in cui lo stesso soggetto possa essere considerato residente da entrambi gli Stati dando in tal modo, implicitamente conto della possibile inconsistenza del dato anagrafico.
Adottando tali criteri, l’ordinanza impugnata ha ritenuto che il ricorrente dovesse ritenersi residente in Italia sulla base del dato fattuale che egli dimori stabilmente in Italia elencando una serie di elementi dai quali desumere che in Italia fosse anche il suo domicilio, atteso che ivi si trova il suo studio di design, ivi si trovano pluralità di conti correnti a lui intestati, ivi utilizza frequentemente sia le carte di credito che la rete autostradale.
Tali dati fattuali, hanno portato gli Ermellini a rigettare il ricorso in quanto il ricorrente ha omesso di contestare i dati fattuali sui quali l’ordinanza si fonda, limitandosi ad incentrare la propria difesa sulla documentazione che avrebbe dovuto dimostrare la propria residenza a Ginevra. Il conseguente rigetto deriva non solo dalla circostanza per la quale la documentazione de qua non è stata prodotta (violando in tal modo il principio di autosufficienza del ricorso), ma altresì dall’assenza di rilevanza della stessa in quanto dalla medesima non emergerebbe l’avvenuto pagamento delle imposte in Svizzera relativamente ai periodi di imposta di cui si contesta, ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 74/2000, l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi.

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LA CORTE COSTITUZIONALE FA IL PUNTO CON SENTENZA :NIENTE CARCERE PER CHI RIPORTI UNA PENA FINO A 4 ANNI

LA CORTE COSTITUZIONALE FA IL PUNTO CON SENTENZA :

NIENTE CARCERE PER CHI RIPORTI UNA PENA FINO A 4 ANNI

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Con la Sentenza n. 41/2018 dello scorso 2.3.2018 la Corte Costituzionale si è espressa in ordine alla censura di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 27 co. 3 della Costituzione, dell’art. 656 comma 5 c.p.p., promosso dal Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Lecce, nel procedimento penale in cui il  giudice rimettente si era trovato a decidere, in qualità di giudice dell’esecuzione, sulla domanda di sospensione  di un ordine di esecuzione della pena detentiva di tre anni, undici mesi e diciassette giorni di reclusione, che il pubblico ministero aveva emesso, in base all’art. 656, comma 1, c.p.p., privandolo della sospensiva in quanto la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal quinto comma dello stesso articolo.

La norma oggetto di censura prevede infatti che se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non è superiore a tre anni il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l’esecuzione. L’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, al difensore che lo ha assistito nella fase del giudizio, con l’avviso che entro trenta giorni può essere presentata istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessarie, volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione ovvero la Sospensione dell’esecuzione della pena.

Il condannato aveva chiesto al giudice rimettente di dichiarare inefficace l’ordine di esecuzione, sostenendo che avrebbe dovuto essere sospeso nonostante la pena da espiare eccedesse il limite triennale atteso che l’art. 47 comma 3 bis della legge 354/1957 recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, consente una particolare forma di affidamento in prova quando la pena detentiva da eseguire non è superiore ai 4 anni.

Stante questo rilievo normativo, secondo il condannato, il limite cui subordinare la sospensione dell’ordine di esecuzione dovrebbe armonizzarsi con tale tetto e ritenersi fissato anch’esso in quattro anni, anziché in tre come prevede la lettera della disposizione censurata.

A questo punto, non potendo il giudice interpretare la disposizione nel senso auspicato dal ricorrente (stante l’univoco tenore letterale della stessa) la questione della sua legittimità costituzionale è stata sottoposta alla Corte, in particolare quanto alla parte in cui la sospensione dell’esecuzione continua a essere prevista quando la pena detentiva da espiare non è superiore a tre anni, anziché a quattro. Ciò in quanto, l’omesso adeguamento del limite quantitativo di pena previsto dalla norma censurata a quello indicato ai fini dell’affidamento in prova allargato determinerebbe un “disallineamento sistematico“, frutto di un “mancato raccordo tra norme“, reputato lesivo anzitutto dell’art. 3 Cost., circostanza questa, che discrimina ingiustificatamente coloro che possono essere ammessi alla misura alternativa in quanto tenuti ad espiare una pena detentiva non superiore a quattro anni, da coloro che, potendo godere dell’affidamento in prova relativo a una pena detentiva non superiore a tre anni, ottengono la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione.

Secondo il Gip rimettente, la disposizione censurata sarebbe in contrasto altresì con la finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27 terzo comma della Costituzione in quanto comporta l’ingresso in carcere di chi può godere dell’affidamento in prova allargato.

La Consulta ha ritenuto fondata la questione di legittimità rilevando che l’art. 656 co. 5 ha subito, nel tempo, una serie di correttivi volti proprio a mantenere una sorta di parallelismo del limite previsto per la sospensione dell’ordine di esecuzione e di quello previsto, a favore dei condannati, per chiedere di essere sottoposti a un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario.

La Corte rileva altresì che, all’indomani dell’introduzione  dell’affidamento in prova per pene da espiare fino a quattro anni di detenzione, non è stata adottata alcuna modificazione del termine indicato dalla disposizione censurata, non essendo ancora stata ancora esercitata la delega legislativa conferita con la legge n. 103/2017 (Modifiche al codice penale, codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) che ha previsto di fissare, in ogni caso, in quattro anni, il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione.

Ciò nonostante, prosegue la consulta, occorre valutare caso per caso se esistano dei fattori (quali ad esempio la pericolosità del reato) che possano prevalere sulla coerenza sistematica e sul parallelismo dei limiti.

Nel caso in esame, la rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, appare di particolare gravità perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione.

In conclusione, mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 della Costituzione. Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato.

Nonostante il diverso parere dell’Avvocatura, la Corte ha quindi ritenuto che il Legislatore, attraverso l’istituto della messa alla prova allargata, abbia inteso equiparare detenuti e liberi ai fini dell’accesso alla misura alternativa, scelta che ben si giustifica, precisa la Consulta, in considerazione dell’obiettivo di deflazionare le carceri, non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero.

Di qui l’incostituzionalità del 5° comma dell’art. 656 c.p.p. “nella parte in cui prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non superiore a tre anni anziché a quattro anni.”

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