PENSIONE COMUNQUE RICONOSCIUTA DALLA CORTE DI CASSAZIONE AL PROFESSIONISTA CHE NON VERSI INTEGRALMENTE I CONTRIBUTI

PENSIONE COMUNQUE RICONOSCIUTA DALLA CORTE DI CASSAZIONE  AL PROFESSIONISTA CHE NON VERSI INTEGRALMENTE I CONTRIBUTI

Con la Sentenza n. 15643/2018 la Corte di Cassazione giunge ad una importante decisione riguardante tutti gli iscritti alla Cassa previdenziale dei Geometri Professionisti.

Nel caso specifico, un iscritto all’ente di previdenza dei geometri aveva promosso istanza per ottenere il trattamento pensionistico di vecchiaia avendo maturato almeno 30 anni di contributi, a tale richiesta si era, tuttavia, opposta la Cassa di previdenza in quanto aveva riscontrato che per alcune annualità il professionista non aveva versato integralmente i contributi richiesti, e i relativi crediti si erano prescritti.

Al fine di comprendere appieno la vicenda appare utile rammentare che, come stabilito dall’art.2 della legge 773/1982, la pensione di vecchiaia si consegue con almeno 65 anni di età e almeno 30 anni di “effettiva contribuzione alla Cassa in relazione a regolamentare iscrizione all’albo”.

Ed è proprio sul termine “effettivo” che si snoda la questione:

il ricorrente sostiene, infatti, che ai fini dell’ottenimento del trattamento pensionistico, ad essere effettivi e regolamentari debbano essere sia la contribuzione sia l’iscrizione all’albo.

La suprema Corte, invece, è di tutt’altro avviso. I supremi giudici, nel rigettare il ricorso, hanno, infatti, stabilito che l’uso dell’aggettivo “effettiva” riferito alla sola contribuzione, induce ad attribuire ad esso un significato diverso da “regolamentare” impiegato a proposito dell’iscrizione.

Ed invero, la Corte, già in precedenti decisioni, aveva osservato che, in tale norma, il termine effettivo, non può interpretarsi, come tale da esigere che la contribuzione debba essere integrale, in quanto non contiene alcun riferimento alla misura della contribuzione stessa.

Detto aggettivo, invero, introduce un parametro di commisurazione della pensione alla contribuzione effettivamente versata e sancisce, in tal modo, l’esclusione di ogni automatismo delle prestazioni in assenza di contribuzione concretamente versata.

Detto in altri termini, la controversia in esame verte sulla possibilità o meno di riconoscere l’annualità di contribuzione, nella circostanza in cui il professionista abbia omesso di versare in misura integrale il contributo richiesto; e tale questione, secondo la Corte, non può che essere risolta in relazione alla regolamentazione normativa dettata per il riconoscimento e il calcolo della pensione che, appunto, fa leva non sulla integralità della contribuzione bensì sulla effettività della stessa.

Occorre poi considerare, prosegue la Corte, che la stessa L. n. 773/1982 non contiene alcuna previsione che sanzioni con la perdita o la riduzione dell’anzianità contributiva e dell’effettività di iscrizione alla Cassa, il versamento parziale dei contributi, essendo unicamente previsto il versamento di una somma aggiuntiva per il caso in cui l’assicurato non provveda alle comunicazioni obbligatorie sull’ammontare del reddito professionale e sul volume di affari dichiarato ai fini dell’IVA, o effettui una comunicazione infedele.

Peraltro, aggiunge la Corte, tale inconveniente, dovuto alla mancanza nella legge professionale di una disposizione che preveda espressamente l’annullamento della contribuzione versata e della relativa annualità in caso di parziale omissione, è comunque superabile attraverso l’adozione di più rigorosi controlli sulle comunicazioni e sulle dichiarazione inviate agli iscritti, con i mezzi di cui la Cassa stessa dispone e nei limiti temporali fissati dal sistema previdenziale, evidentemente dettati non solo a garanzia dell’ente, cui non possono affidarsi indagini su periodi lontani nel tempo per le oggettive difficoltà degli accertamenti, ma anche a tutela dell’assicurato, al fine di non rendere eccessivamente difficoltosa la prova dell’esattezza delle contribuzioni versate.

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L’OMICIDIO STRADALE E GUIDA IN STATO DI EBBREZZA: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA

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L’OMICIDIO STRADALE E GUIDA IN STATO DI EBBREZZA: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA

Con la sentenza n. 26857/2018 la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta a consolidare l’indirizzo già espresso con la sentenza 2403/2017 a proposito di omicidio stradale commesso in stato di ebbrezza avvenuto in data successiva all’entrata in vigore della legge 41/2016 che ha introdotto nel codice penale gli artt. 589 bis e 590 bis, che appunto puniscono con la reclusione da otto a dodici anni, chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope, cagioni per colpa la morte di una persona.

Nel caso in esame, l’imputato, conducendo in stato di ebbrezza una vettura in autostrada a velocità superiore al consentito, senza tenere la distanza di sicurezza, colto da un colpo di sonno, tamponava la vettura che lo precedeva.

In conseguenza dell’impatto, la vettura tamponata usciva di strada, causando la morte del conducente, nonché provocando gravi lesioni sui soggetti trasportati.

In primo grado, l’imputato era stato ritenuto responsabile di omicidio colposo stradale commesso in stato di ebbrezza alcolica, di lesioni colpose stradali gravi commesse in stato di ebbrezza, ed inoltre di guida in stato di ebbrezza, e di conseguenza condannato, ritenuti i reati commessi in concorso formale ai sensi dell’art. 589 bis co.8, alla pena prevista dall’art. 589 bis co.7 senza attenuanti generiche.

In grado d’appello, i giudici di merito, riformavano parzialmente la sentenza di primo grado riducendo la pena a quella applicata per i reati di omicidio colposo aggravato e lesioni colpose aggravate, e confermando il resto.

L’imputato ricorreva per la Cassazione della sentenza emessa dalla Corte d’appello di Torino lamentando, per quel che è qui di interesse, la violazione della disciplina del reato complesso in cui deve essere sussunto il rapporto tra l’omicidio stradale aggravato previsto dall’art. 589 bis co.4 e la guida in stato d’ebbrezza punita ai sensi dell’art. 186 co.2 lett. B e comma 2 bis del D.lgs n. 285/1992.

Il ricorrente ha evidenziato, infatti, che mentre prima dell’entrata in vigore della l.n. 41/2016 (introduttiva il reato di omicidio stradale), la giurisprudenza, in casi analoghi a quello in esame, riteneva che concorressero il delitto di omicidio colposo e la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, oggi, tale conclusione, deve ritenersi superata atteso che ove si ritenesse che l’omicidio stradale e le lesioni non integrino un’ipotesi di reato complesso con assorbimento della contravvenzione di cui all’art. 186 co. 2 d.lgs. 285/1992, il medesimo fatto storico sarebbe addebitato due volte in violazione del divieto del bis in idem.

La Corte di Cassazione, nell’accogliere parzialmente il ricorso, ha infatti osservato che a seguito dell’entrata in vigore della l.n. 41/2016  con le innovative ed autonome fattispecie dell’omicidio stradale e delle lesioni personali stradali gravi o gravissime, vada abbandonata l’interpretazione per cui, in caso di omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme sulla circolazione stradale sussista concorso di reati e non reato complesso, quando detta violazione dia di per sé luogo ad un illecito contravvenzionale e, deve piuttosto affermarsi il nuovo principio di diritto secondo il quale, nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato per colpa, la morte di una o più persone – ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse- dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza viene a perdere la propria autonomia in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589 bis, e 590 bis, con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84 co. 1 c.p. ed esclusione dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati.

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PAMELA MASTROPIETRO: UN CADAVERE SEVIZIATO E NESSUN COLPEVOLE

PAMELA MASTROPIETRO: UN CADAVERE SEVIZIATO E NESSUN COLPEVOLE

E’ di poche ore fa la notizia che riporta alle cronache il caso di #Pamela #Mastropietro, la diciottenne uccisa, stuprata e fatta a pezzi a Macerata lo scorso 30 gennaio.
Quello che sappiamo fin qui della triste ed ignobile vicenda occorsa ai danni di questa giovane ragazza, è che Pamela lo scorso 29 gennaio si era allontanata dalla comunità nella Marche dove era ospitata, e che lo scorso 31 gennaio, a seguito di estenuanti ricerche compiute dalle autorità allertate dalla madre della giovane, la stessa Pamela fu ritrovata morta all’interno di due trolley abbandonati in un fosso, nel Maceratese.
E’ così che questo caso di scomparsa diventa un macabro caso di omicidio e da qui, il susseguirsi di indagini.
Le autorità ripercorrono gli ultimi giorni di Pamela: pare che la giovane dopo aver lasciato la comunità presso la quale era ospite abbia incontrato un uomo di 45 anni che le ha proposto denaro in cambio di sesso.
Dopo aver consumato il rapporto l’uomo l’ha accompagnata alla stazione di Piediripa dove la giovane è partita alla volta di #Macerata. Qui gli indizi si disperdono e la ragazza viene appunto ritrovata cadavere nelle campagne di Pollenza, dove quindi si concentrano le indagini.
E’ stata fatta una mappatura di tutte le telecamere della zona, allargando il raggio da Corridonia fino a Pollenza. L’esame delle telecamere ha documentato che almeno fino al 30 mattina la ragazza era viva: le immagini mostrano una persona che segue Pamela poco prima della sua scomparsa, identificato poi in #Innocent #Oseghale di 29 anni, cittadino nigeriano residente a Macerata con un permesso di soggiorno scaduto e precedenti per stupefacenti. Si è così ricostruita la sequenza temporale degli spostamenti della ragazza, fino ad arrivare il martedì mattina, grazie appunto a quelle immagini, a via Spalato 124, nella stessa Macerata.
Qui abitava il nigeriano, il quale, grazie anche alla raccolta di prove testimoniali, è risultato come l’ultima persona che abbia avuto contatti in vita con la povera Pamela, L’accusato ha ammesso di aver seguito Pamela ma ha negato di averla uccisa indicando agli inquirenti il coinvolgimento di altri due immigrati.
Successivamente i tre vengono iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio, occultamento e vilipendio di cadavere.
Viene quindi disposto l’esame autoptico su quel che restava del corpo di Pamela, rivelando che la ragazza non è morta per overdose come si pensava inizialmente, ma per “violenza applicata in condizioni di vitalità”, dimostrata dalla presenza di ferite da arma da taglio inferte alla testa ed al fegato.
Spunta poi l’ipotesi di stupro, accertata dai RIS che hanno rinvenuto tracce di saliva intorno al seno e liquido seminale, da cui deriverà l’accusa di stupro che ha indotto la procura a richiedere, con ricorso al Tribunale del Riesame di Ancona, l’applicazione, nei confronti di Innocent Oseghale, della misura del carcere anche per questa ipotesi di reato.
Ricorso, peraltro, rigettato poche ore fa per assenza di gravi indizi di colpevolezza per sostenere la violenza sessuale.
Ciò che aveva indotto il Procuratore a sostenere la tesi dello stupro quale movente dell’omicidio era stata la “cura maniacale” messa nella pulizia del corpo, tagliato a pezzi e ritrovato all’interno di due trolley abbandonati a Pollenza, che sarebbe stata un segnale della volontà di cancellare le tracce della violenza.
Secondo i giudici del Tribunale del Riesame invece il rapporto sessuale tra i due, accertato dai rilievi del RIS, è stato in sostanza consensuale: il nigeriano non ha ucciso nel contesto di uno stupro, ma perché preso dal panico dopo che Pamela si era sentita male per l’assunzione di eroina in casa.
Solo poche righe per mettere il sigillo a un caso ancora tutto da svelare, e nel quale non possono e non debbono entrare condizionamenti esterni.
Troppo spesso ci si lascia persuadere più che dagli accertamenti peritali, da una ascientifica convinzione che in taluni casi, rasenta la cialtroneria: e’ successo nel caso di #Nicolina #Pacini, quando senza acquisire alcun valido elemento probatorio, degno di essere definito tale, la morte di #Antonio #Di Paola e’ stata repentinamente classificata come suicidio successivo a #omicidio; sta succedendo ora, con Pamela, dove, nonostante la presenza di sostanze biologiche sul corpo disfatto della povera ragazza, si arriva a sostenere che il rapporto sessuale sarebbe stato addirittura consenziente! Qualcuno ha chiesto alla mamma di Pamela se la ragazza era solita avere rapporti sessuali con il primo che le capitava? O forse Pamela conosceva già il suo aguzzino?
Pamela, come tante altre ragazze sfortunate, merita giustizia; la mamma Alessandra ha bisogno di conoscere la verità; cosa è accaduto veramente in quella maledetta notte?
Basta davvero un elemento indiziario per far ritenere l’innocenza di tutti per non essere colpevole nessuno? (E come non ricordare il caso di #Meredith #Kercher….!)

Non vogliamo un colpevole ad ogni costo; ma certo Pamela non si è infilata da sola in quei trolley.

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