INGRESSO DI MIGRANTI SOCCORSI IN ACQUE INTERNAZIONALI:LA RESPONSABILITA’ DEGLI SCAFISTI

INGRESSO DI MIGRANTI SOCCORSI IN ACQUE INTERNAZIONALI:LA RESPONSABILITA’ DEGLI SCAFISTI

Con la sentenza n. 29832/2018 la Corte di Cassazione interviene sul tema in auge alle cronache e relativo al trasporto di migranti clandestini, ed in particolare interviene sul ricorso proposto dal comandante e dal vice comandante di uno scafo, imputati del reato di procurato ingresso illecito di immigrati clandestini, punito in Italia ai sensi dell’art. 12 c. 3 del D.Lgs. 286/1998, per avere effettuato il trasporto dall’Egitto in Italia di 277 cittadini non appartenenti all’Unione Europea.

Alla declaratoria di responsabilità penale, già affermata dal Gip, nell’ambito del giudizio abbreviato di primo grado, ne seguitava la conferma, da parte della Corte d’Appello di Catania in sede di gravame, e la conseguente condanna degli imputati alla pena detentiva di cinque anni e quattro mesi, nonché alla pena pecuniaria di € 2.884,00 di multa per ciascun imputato.

La Corte d’Appello nel confermare la punibilità degli imputati, applicava le aggravanti per aver commesso il fatto in tre o più persone, in relazione a cinque o più persone, di aver esposto a pericolo la vita e l’incolumità dei migranti e di averli sottoposti a trattamenti disumani; escludeva, invece l’aggravante del profitto in quanto gli imputati avevano agito in qualità di traghettatori non organizzatori della traversata.

Gli imputati ricorrevano dunque per la cassazione della sentenza de qua lamentando in primo luogo la carenza di giurisdizione italiana, in quanto l’azione si sarebbe conclusa in acque sovranazionali, allorché, prima del salvataggio da parte della Guardia Costiera, l’imbarcazione sarebbe stata avvicinata da un altro scafo mercantile, disposto a farsi carico del trasporto degli immigrati a Malta, trasporto rifiutato dagli stessi migranti senza alcun intervento attivo da parte degli imputati.

Gli imputati lamentavano altresì, l’erronea applicazione dell’art. 12 D.Lgs. 286/1998, in quanto l’incriminazione delineata da tale disposizione riguarderebbe non la mera condotta di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma quella volta a procurare l’ingresso illegale dei migranti.

La Corte di Cassazione, nel ritenere infondato ed inammissibile il ricorso, ha osservato che le questioni giuridiche poste con i motivi di ricorso sono state già tutte affrontate e risolte dalla Corte Territoriale e nessuno degli argomenti addotti è idoneo a superare gli indirizzi già affermati.

D’altro canto, prosegue la Corte, in punto di giurisdizione, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che sussiste quella del giudice italiano relativamente al delitto di trasporto di cittadini extra comunitari nella ipotesi in cui i migranti, provenienti dall’estero a bordo di navi “madre”, siano abbandonati in acque internazionali, su natanti inadeguati a raggiungere le coste italiane, allo scopo di provocare l’intervento dei soccorritori che li condurranno in territorio italiano, poiché la condotta di questi ultimi, che operando sotto la copertura della scriminante dello stato di necessità è riconducibile alla figura dell’autore mediato, in quanto conseguente allo stato di pericolo volutamente provocato dai trafficanti.

Gli imputati negano di aver voluto un siffatto esito, proclamandosi indifferenti rispetto a quello che avrebbe potuto essere il luogo dello sbarco, scelto autonomamente dai trasportati, e sostengono che, quand’anche si volesse ritenere la sussistenza del reato, esso si sarebbe perfezionato in acque internazionali, trattandosi di reato a consumazione anticipata.

Anche questa ricostruzione è stata smentita dalla suprema Corte, in quanto, anche nei reati a consumazione anticipata – in cui la condotta di pericolo, già in sé punibile, sia tenuta fuori dal nostro territorio- basta che si verifichino in Italia gli effetti voluti della condotta per potersi validamente radicare la giurisdizione italiana sensi dell’art. 6 c.p.

Quanto poi, alla qualificazione del reato, la tesi secondo la quale gli imputati avrebbero posto in essere una condotta da sussumere nel reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, piuttosto che il più grave reato di procurato ingresso di immigrati clandestini è smentita dalla circostanza per la quale, la fattispecie contestata e da ritenersi non dubitabile, è il trasporto dei migranti, e non già il più generico compimento di “atti diretti a procurarne l’ingresso illegale”, che l’art. 12 d.lgs 286/1998 punisce solo in via residuale.

La Corte quindi conclude affermando il principio per cui:Il solo fatto di aver provocato il soccorso per essere in mezzo al mare con imbarcazione inadeguata e in situazione di sovraffollamento e di condizioni meteo avverse è sufficiente a escludere che l’ingresso illegale sia ascrivibile all’autore mediato del reato, cioé la nave svedese, anziché a coloro che hanno provocato la situazione di emergenza, che in base al diritto del mare obbliga al salvataggio delle persone alla deriva.

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Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.

 

Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.

Con la sentenza n. 13114/2018 la Suprema Corte di Cassazione in composizione Penale, è intervenuta sul ricorso proposto avverso l’ordinanza di sequestro preventivo (dell’importo di euro 2.230.776) emessa dal Tribunale di Ferrara, in sede di riesame, nei confronti di un soggetto cui era stata contestata l’omessa dichiarazione dei redditi per gli anni di imposta 2010- 2013 configurante la fattispecie di reato punita ex art. 5 D.Lgs 74/2000. Assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale Italiana anziché a quella Elvetica.
Tale ordinanza era scaturita all’esito di un’accurata indagine che aveva evidenziato vari elementi che hanno portato la Guardia di Finanza a ritenere che il soggetto in questione, nonostante la residenza anagrafica in Svizzera, avesse la sede principale dei propri interessi economici ed affettivi in Italia e pertanto dovesse essere assoggettato all’imposizione tributaria Nazionale anziché a quella Elvetica.
A sostegno dell’introitata azione per la cassazione dell’ordinanza de qua, per quello che è qui di interesse, il ricorrente adduceva la violazione dell’art. 4 della Convenzione Italo-Svizzera che dispone che il paese titolare della pretesa impositiva è quello in cui il contribuente ha la propria residenza, suffragata, nel caso di specie, da attestazioni rilasciate dall’autorità fiscale cantonale elvetica su richiesta delle imprese italiane incaricate dell’esecuzione materiale delle opere del ricorrente nonché da molteplici circostanze fattuali di per sé sufficienti a provare che egli avesse in Svizzera, e non in Italia, la propria residenza e il proprio centro di interessi ed affari.
Ed invero, prosegue il ricorrente, ai fini dell’individuazione della propria residenza e domicilio occorre tenere conto che: il numero degli immobili di cui è titolare in Italia corrisponde a quelli di cui è proprietario in Svizzera, a Parigi e a New York; le società di distribuzione dei suoi prodotti hanno sede in Ginevra e Parigi; che i suoi figli, come egli stesso, sono residenti in Svizzera e che in alcun modo risulta provata la sua dimora abituale in Italia.
In ordine alle deduzioni incorporate nel ricorso, la Suprema Corte ha ribadito che, ai fini delle imposte sui redditi, l’art. 2 T.U.I.R considera residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice Civile, mentre sono definiti “non residenti” coloro che non sono iscritti nelle anagrafi della popolazione residente per almeno 183 giorni dell’anno di imposta e che non hanno, ai sensi del Codice Civile né la residenza (dimora abituale) né il domicilio (sede principale di affari e interessi) con espressa precisazione che se manca uno soltanto dei suddetti requisiti, il contribuente viene automaticamente considerato residente.
Ne consegue che l’iscrizione nell’anagrafe dei soggetti residenti in altro Stato non è elemento determinante per escluderne la residenza fiscale in Italia allorché si tratti di soggetto che abbia nel territorio dello Stato la sua dimora abituale ovvero la sede principale dei propri affari ed interessi economici, cosi come delle proprie relazioni personali.
Peraltro, prosegue la Corte, alle medesime conclusioni conduce l’art. 4 della Convenzione tra Italia e Svizzera ratificata con la l. n. 943/1978, il quale, individuando criteri del tutto analoghi a quelli stabiliti dalla legislazione interna, facendo riferimento alle nozioni di domicilio, residenza ovvero a caratteri di analoga natura per la cui definizione rimanda espressamente alla normativa degli Stati contraenti, comunque prevede l’ipotesi in cui lo stesso soggetto possa essere considerato residente da entrambi gli Stati dando in tal modo, implicitamente conto della possibile inconsistenza del dato anagrafico.
Adottando tali criteri, l’ordinanza impugnata ha ritenuto che il ricorrente dovesse ritenersi residente in Italia sulla base del dato fattuale che egli dimori stabilmente in Italia elencando una serie di elementi dai quali desumere che in Italia fosse anche il suo domicilio, atteso che ivi si trova il suo studio di design, ivi si trovano pluralità di conti correnti a lui intestati, ivi utilizza frequentemente sia le carte di credito che la rete autostradale.
Tali dati fattuali, hanno portato gli Ermellini a rigettare il ricorso in quanto il ricorrente ha omesso di contestare i dati fattuali sui quali l’ordinanza si fonda, limitandosi ad incentrare la propria difesa sulla documentazione che avrebbe dovuto dimostrare la propria residenza a Ginevra. Il conseguente rigetto deriva non solo dalla circostanza per la quale la documentazione de qua non è stata prodotta (violando in tal modo il principio di autosufficienza del ricorso), ma altresì dall’assenza di rilevanza della stessa in quanto dalla medesima non emergerebbe l’avvenuto pagamento delle imposte in Svizzera relativamente ai periodi di imposta di cui si contesta, ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 74/2000, l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi.

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LA CORTE COSTITUZIONALE FA IL PUNTO CON SENTENZA :NIENTE CARCERE PER CHI RIPORTI UNA PENA FINO A 4 ANNI

LA CORTE COSTITUZIONALE FA IL PUNTO CON SENTENZA :

NIENTE CARCERE PER CHI RIPORTI UNA PENA FINO A 4 ANNI

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Con la Sentenza n. 41/2018 dello scorso 2.3.2018 la Corte Costituzionale si è espressa in ordine alla censura di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 27 co. 3 della Costituzione, dell’art. 656 comma 5 c.p.p., promosso dal Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Lecce, nel procedimento penale in cui il  giudice rimettente si era trovato a decidere, in qualità di giudice dell’esecuzione, sulla domanda di sospensione  di un ordine di esecuzione della pena detentiva di tre anni, undici mesi e diciassette giorni di reclusione, che il pubblico ministero aveva emesso, in base all’art. 656, comma 1, c.p.p., privandolo della sospensiva in quanto la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal quinto comma dello stesso articolo.

La norma oggetto di censura prevede infatti che se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non è superiore a tre anni il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l’esecuzione. L’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, al difensore che lo ha assistito nella fase del giudizio, con l’avviso che entro trenta giorni può essere presentata istanza, corredata dalle indicazioni e dalla documentazione necessarie, volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione ovvero la Sospensione dell’esecuzione della pena.

Il condannato aveva chiesto al giudice rimettente di dichiarare inefficace l’ordine di esecuzione, sostenendo che avrebbe dovuto essere sospeso nonostante la pena da espiare eccedesse il limite triennale atteso che l’art. 47 comma 3 bis della legge 354/1957 recante misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria, consente una particolare forma di affidamento in prova quando la pena detentiva da eseguire non è superiore ai 4 anni.

Stante questo rilievo normativo, secondo il condannato, il limite cui subordinare la sospensione dell’ordine di esecuzione dovrebbe armonizzarsi con tale tetto e ritenersi fissato anch’esso in quattro anni, anziché in tre come prevede la lettera della disposizione censurata.

A questo punto, non potendo il giudice interpretare la disposizione nel senso auspicato dal ricorrente (stante l’univoco tenore letterale della stessa) la questione della sua legittimità costituzionale è stata sottoposta alla Corte, in particolare quanto alla parte in cui la sospensione dell’esecuzione continua a essere prevista quando la pena detentiva da espiare non è superiore a tre anni, anziché a quattro. Ciò in quanto, l’omesso adeguamento del limite quantitativo di pena previsto dalla norma censurata a quello indicato ai fini dell’affidamento in prova allargato determinerebbe un “disallineamento sistematico“, frutto di un “mancato raccordo tra norme“, reputato lesivo anzitutto dell’art. 3 Cost., circostanza questa, che discrimina ingiustificatamente coloro che possono essere ammessi alla misura alternativa in quanto tenuti ad espiare una pena detentiva non superiore a quattro anni, da coloro che, potendo godere dell’affidamento in prova relativo a una pena detentiva non superiore a tre anni, ottengono la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione.

Secondo il Gip rimettente, la disposizione censurata sarebbe in contrasto altresì con la finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27 terzo comma della Costituzione in quanto comporta l’ingresso in carcere di chi può godere dell’affidamento in prova allargato.

La Consulta ha ritenuto fondata la questione di legittimità rilevando che l’art. 656 co. 5 ha subito, nel tempo, una serie di correttivi volti proprio a mantenere una sorta di parallelismo del limite previsto per la sospensione dell’ordine di esecuzione e di quello previsto, a favore dei condannati, per chiedere di essere sottoposti a un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario.

La Corte rileva altresì che, all’indomani dell’introduzione  dell’affidamento in prova per pene da espiare fino a quattro anni di detenzione, non è stata adottata alcuna modificazione del termine indicato dalla disposizione censurata, non essendo ancora stata ancora esercitata la delega legislativa conferita con la legge n. 103/2017 (Modifiche al codice penale, codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario) che ha previsto di fissare, in ogni caso, in quattro anni, il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione.

Ciò nonostante, prosegue la consulta, occorre valutare caso per caso se esistano dei fattori (quali ad esempio la pericolosità del reato) che possano prevalere sulla coerenza sistematica e sul parallelismo dei limiti.

Nel caso in esame, la rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, appare di particolare gravità perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione.

In conclusione, mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 della Costituzione. Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato.

Nonostante il diverso parere dell’Avvocatura, la Corte ha quindi ritenuto che il Legislatore, attraverso l’istituto della messa alla prova allargata, abbia inteso equiparare detenuti e liberi ai fini dell’accesso alla misura alternativa, scelta che ben si giustifica, precisa la Consulta, in considerazione dell’obiettivo di deflazionare le carceri, non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero.

Di qui l’incostituzionalità del 5° comma dell’art. 656 c.p.p. “nella parte in cui prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non superiore a tre anni anziché a quattro anni.”

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USURA SOS BANCA “UN MONDO ANCORA SOMMERSO E OSCURO”

 

USURA SOS BANCA L’Usura strozza la nostra vita e quella di chi ci sta accanto!

Qualora si riscontrassero illeciti o irregolarità da parte della Banca o Società Finanziarie, non esitare a far elaborare una rigorosa e dettagliata perizia tecnica per quantificare quanto illegittimamente addebitato per usura, anatocismo, interesse, denunciando poi, sia gli aspetti tecnici che legali della contestazione per riottenere anche le somme indebitamente corrisposte.

Lo Studio Legale Cimino fornisce adeguata consulenza ed assistenza legale in materia di usura, anatocismo e contenziosi bancari in genere, per privati ed imprese, sia in ambito stragiudiziale che giudiziale, offrendo un parere preliminare volto ad accertare la presenza di elementi di contestazione che possano dar luogo ad azioni legali.

“L’usura è un mostro purtroppo ancora sommerso che, come un serpente, strangola le sue vittime(Sua Santità Papa Francesco) e i numeri del fenomeno sono impressionanti.

La crisi economica ha trascinato commercianti, impiegati e pensionati nella rete degli strozzini, dal fenomeno non sono immuni neanche le nostre imprese che sono le prede preferite.

La piaga sociale dell’usura persegue un vantaggio economico illecito utilizzando come strumento il prestito di denaro.

La preoccupante condizione economica delle famiglie e aziende italiane è alla base dell’incremento del fenomeno che, oltre a rappresentare un dramma per le vittime, rappresenta anche una grave minaccia per la nostra economia nazionale.

L’usura insomma non riguarda più la singola vittima, ma produce conseguenze negative nel tessuto sociale e nel comparto produttivo e industriale del nostro Paese.

È inaccettabile che il sistema bancario che non “fallisca mai” potendo contare su finanziamenti illimitati al costo dell’1% a spese dei cittadini e che non paghi mai per i turpi “errori finanziari” commessi, disponendo inoltre di privilegi normativi quali le discrezionali segnalazioni alle centrali dei rischi e le unilaterali dichiarazioni di verità e certezza dei propri crediti, che le pongono in posizione di supremazia rispetto a tutti i consumatori, stringendo nella morsa sempre più chi ha bisogno di aiuto.

Oggi conoscere il fenomeno dell’Usura è assai importante per combatterlo e soprattutto per prevenirlo.

Il modo più efficace per combattere l’usura è la prevenzione.

Non esitare a rivolgerti allo Studio Legale Cimino per una consulenza gratuita e per un parere:

l’arma vincente per riequilibrare il rapporto con la propria Banca e per uscire dalla morsa che ti consuma nel silenzio e col silenzio.

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GIUDIZIO DI REVISIONE

GIUDIZIO DI REVISIONE

NESSUNA REVISIONE AL SOGGETTO CONDANNATO CIVILMENTE CHE SI SIA AVVALSO DELLA PRESCRIZIONE DEL REATO

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La questione su cui si è pronunciata lo scorso 28 novembre la Suprema Corte con la Sentenza n. 53678/2017, al fine di dirimere il contrasto giurisprudenziale creatosi ormai da tempo sul punto, può essere così sintetizzata: “se, in caso di sentenza passata in giudicato con la quale l’imputato sia stato prosciolto per prescrizione del reato ascrittogli, ma condannato al risarcimento dei danni a favore della parte civile costituita, sia o no ammissibile il giudizio di revisione”.

Il caso in esame vede protagonisti tre ricorrenti, cui inizialmente veniva ascritto il reato di circonvenzione di incapaci, dichiarato, poi, estinto per prescrizione, con la sola condanna al risarcimento dei danni in favore delle vittime costituitesi parti civili. La difesa dei ricorrenti proponeva, quindi, istanza di revisione, sulla base di nuove prove emerse successivamente a detta pronuncia. L’istanza, ritenuta inammissibile, veniva rigettata. E così la difesa dei tre istanti ha proposto ricorso, richiamando il precedente giurisprudenziale di legittimità n. 46707/2016, favorevole alla revisione.

L’intervento della Suprema Corte, sopraggiunto in questi ultimi giorni, tenderebbe a porsi come definitivo chiarimento di quello che rappresenta il punto nodale della presente questione, ossia quale significato debba attribuirsi al sinallagma “sentenza di condanna” e al lemma “condannato” (il soggetto legittimato, ex art. 632 c.p.p., a proporre l’istanza di revisione, di cui il legislatore non ha fornito una precisa definizione).

Sul punto si sono delineati due orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

Il primo, maggioritario, prende le mosse dalle numerose sentenze, sia datate che recenti (Cass. 4231/1992; Cass. 1672/1992; Cass. 15973/2004; Cass. 2393/2011 Rv. 249781; Cass. 24155/2011 Rv. 250631; Cass. 2656/2017 Rv. 269528), le quali stabiliscono l’inammissibilità della revisione, intesa come un mezzo di impugnazione straordinario, preordinato al “proscioglimento” della persona già condannata in via definitiva, laddove difetti l’esistenza di una sentenza di condanna o di un decreto penale di condanna, ovvero di una sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 c.p.p..

La revisione, infatti, essendo finalizzata a “prosciogliere” il soggetto condannato, non può ritenersi ammissibile rispetto ad una sentenza di proscioglimento, quale quella in forza della quale sia stata dichiarata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione (art. 531 cit.), sia pure accompagnata da una statuizione di condanna a carico dell’imputato ai soli fini civilistici.

L’orientamento minoritario, sostenuto unicamente dalla sentenza n. 46707/2016, ha ritenuto, invece, ammissibile la revisione in quanto nella locuzione “condannato” dovrebbe rientrare anche colui il quale si sia visto dichiarare il reato estinto per prescrizione, ma, al tempo stesso, sia stato condannato al risarcimento del danno nei confronti della parte civile.

Dopo un breve cenno alla giurisprudenza, sia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che della Corte Costituzionale, la pronuncia in commento dichiara di aderire alla tesi maggioritaria, negando, quindi, che nel caso de quo possa farsi luogo all’ammissibilità della revisione.

In particolare, riporta la Corte, “il Giudice delle Leggi, in specie nella sentenza n. 49/2015 (…) ribadì che nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità» e che il sintagma “sentenza di condanna” va inteso, al di là del dato formale, in senso sostanziale e cioè come una pronuncia a seguito della quale sia inflitta all’imputato una sanzione, dovendosi valutare non la forma della pronuncia, ma la sostanza dell’accertamento”

Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte conduce ad un’inequivoca soluzione: va considerata sentenza di condanna non solo quel provvedimento con il quale sia inflitta una sanzione strettamente penale ma, anche quel provvedimento che, al di là del dato meramente formale con il quale è denominato, nella sostanza, contenga una sanzione latamente penale e cioè una sanzione punitiva e deterrente, ma non quando da esso conseguano effetti meramente riparatori o preventivi, proprio perché tali conseguenze, non rientrando nell’ambito delle sanzioni punitive, si pongono al di fuori del perimetro latamente penale.

Pertanto, la sentenza di prescrizione, laddove si concluda solo con la conferma delle statuizioni civili che presuppone un accertamento sulla responsabilità penale, va ritenuta, pur sempre, non solo formalmente, ma anche sostanzialmente, una sentenza di proscioglimento perché da essa non consegue alcun effetto di natura sanzionatoria o latamente penalistica. Infatti, la condanna al risarcimento del danno a favore della costituita parte civile va ritenuta una semplice conseguenza di natura riparatoria che, quindi, nulla ha a che vedere con gli effetti sanzionatori di natura latamente penalistici.

Se, quindi, la sentenza di proscioglimento per prescrizione non può essere considerata una sentenza di condanna, ne consegue che, neppure l’imputato – prosciolto per essere il reato estinto per prescrizione – può essere ritenuto un “condannato”, legittimato ex art. 632 c.p.p. a proporre istanza di revisione.

Il sistema, ha, quindi, una sua intrinseca coerenza nel non consentire la revisione di una sentenza penale a chi sia stato prosciolto per prescrizione del reato e da questa sentenza – che avrebbe potuto evitare rinunciando alla causa estintiva della prescrizione – non abbia subito alcuna conseguenza di natura sanzionatoria o latamente penalistica, tale non potendosi considerare, per le ragioni esposte, la condanna al risarcimento dei danni a favore della parte civile che continuerà a dispiegare i suoi effetti solo in ambito civilistico e non penale.

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STUDIO LEGALE AVVOCATO GELSOMINA CIMINO ROMA

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“L’AVVOCATO DEVE ESSERE PRIMA DI TUTTO UN CUORE”

Molte professioni possono farsi con il cervello e non con il cuore; ma l’avvocato no! L’avvocato non può essere un puro logico né un ironico scettico, l’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé; assumere su di sé i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. Per questo amiamo la nostra toga; per questo vorremmo, che quando il giorno verrà, sulla nostra bara sia posto questo cencio nero al quale siamo affezionati, perché sappiamo che esso è servito ad asciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte, a reprimere qualche sopruso e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede, senza la quale la vita non merita di essere vissuta, nella vincente giustizia.

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USURA: LE SEZIONI UNITE BOCCIANO L’USURA SOPRAVVENUTA

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LE SEZIONI UNITE BOCCIANO L’USURA SOPRAVVENUTA

Con la recente pronuncia n. 24675 a Sezioni Unite depositata lo scorso 19 ottobre la  Suprema Corte ha posto fine all’ annoso dibattito sviluppatosi  a seguito della entrata in vigore della L. 108/1996 sui tassi usurai.

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Invero la legge 7 marzo 1996, n. 108 è intervenuta, sul piano civilistico, a modificare l’art. 1815, comma 2, c.c. il quale prevede, nella sua attuale versione che “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”; il che determina una nullità parziale della clausola relativa agli interessi, mantenendo valido ed efficace il contratto.

La disposizione testè citata,  sia in dottrina che in giurisprudenza, ha sollevato molteplici dubbi interpretativi relativi, in primis, al diritto transitorio concernente la disciplina applicabile ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della Legge ed ancora in corso a tale data, ed in secondo luogo, si poneva un problema interpretativo circa i contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore della nuova normativa antiusura, il cui tasso di interesse, seppure originariamente lecito, divenisse, in seguito ad una successiva diminuzione del tasso-soglia, eccedente tale misura.

Il problema concerneva, in sostanza, fissare il momento in cui, a fronte di oscillazioni dei tassi, usurarietà potesse dirsi conclamata. Se all’atto della convenzione o all’atto del pagamento ad opera del debitore.

Secondo un primo orientamento, doveva ritenersi decisivo il momento genetico della stipulazione del contratto, essendo irrilevante il tempo successivo dell’effettiva corresponsione degli interessi. Secondo il divergente orientamento, invece, la valutazione in ordine alall’ usurarietà degli interessi doveva essere posta in essere al momento del   pagamento, ossia, nel momento funzionale ed esecutivo del contratto.

Tale ultima impostazione è quella che ha introdotto nel nostro sistema, la c.d. usurarietà sopravvenuta.

A fronte delle incertezze interpretative e dei conseguenti risvolti sul piano applicativo, è stato successivamente emanato il D. L. 29 dicembre 2000, n. 394, poi convertito, con modifiche, nella L. 28 febbraio 2001, n. 24, che introduce all’art. 1 la norma secondo la quale “ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

Nonostante la legge n. 24 del 2001 sembri negare alla radice la configurabilità di una sopravvenuta usurarietà degli interessi, valorizzando esclusivamente il momento della pattuizione degli stessi, sia in dottrina che in giurisprudenza si è affermato che, anche alla luce dell’interpretazione autentica fornita dal legislatore, sarebbe irragionevole e incongruo sostenere la debenza dell’interesse pattuito, esorbitante rispetto al sopravvenuto tasso-soglia.

Sul tema, si sono fronteggiati due orientamenti principali: un primo indirizzo, contrario all’usura sopravvenuta, e una seconda impostazione, invece favorevole a quest’ultima.

Le Sezioni Unite, con la sentenza in esame, sono intervenute a dirimere tale contrasto, escludendo “in toto” il rilievo della usura sopravvenuta.

Gli Ermellini, infatti, hanno osservato che  “è privo di fondamento la tesi della illiceità della pretesa di interessi a un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione, alla soglia dell’usura, superi tuttavia tale soglia al momento della sua maturazione o del pagamento degli interessi stessi

A tale conclusione, la Corte perviene, facendo applicazione dei principi sottesi alle norme applicabili in materia: il divieto dell’usura è contenuto nell’art. 644 c.p. mentre le altre disposizioni contenute nella Legge 108/96 non formulano tale divieto ma si limitano a prevedere un meccanismo di determinazione del tasso, oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurai, a mente appunto dell’art. 644 c.p. cui fa implicitamente riferimento l’art. 2 della legge citata che recita: “La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurai”, limite che è appunto fissato dall’art. 644 c.p.

Sarebbe pertanto impossibile – conclude la Cassazione – operare la qualificazione di un tasso come usuraio senza fare applicazione dell’art. 644 c.p. considerando, ai fini della sua applicazione – così come impone la norma di interpretazione autentica (D.L. 394/2000) – il momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento.

Morale: per un contratto stipulato con la Banca prima della entrata in vigore della legge sui tassi usurai, l’Istituto bancario “è autorizzato” ad applicare tassi maggiori – finanche superando il tasso usura – rispetto a quelli convenuti all’atto della stipula, senza che per ciò si possa invocare la speciale tutela prevista solo per coloro che i tassi usurai se li vedono applicare dopo l’entrata in vigore della legge.

Così è se vi piace….

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