RISPONDE DI PECULATO IL NOTAIO CHE TRATTIENE LE SOMME DEL CLIENTE DESTINATE ALL’ERARIO

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza del 15.03.2017 n. 2094 ha stabilito che commette il reato di peculato il notaio che si appropria di somme ricevute dai clienti per il pagamento dell’imposta di registro per atti di compravendita immobiliare da lui rogati.

Secondo il dettato dell’art. 314 Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di un’altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Mentre, si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.

Già in primo grado, il Tribunale di Roma aveva dichiarato il notaio colpevole del delitto di peculato continuato, condannandolo a due anni e tre mesi di reclusione; oltre al risarcimento dei danni cagionati al cliente (con la concessione di una provvisionale di 46.000 euro). Secondo il Gip infatti il professionista, nella sua qualità di pubblico ufficiale, s’era appropriato dapprima della somma di 14.000 euro, versata a titolo di pagamento dell’imposta di registro di un primo atto di compravendita, e poi della somma di 32.000 euro, versata sempre ai fini dell’imposta di registro di un secondo atto.

A propria difesa il Notaio aveva eccepito l’errata qualificazione del reato da parte del giudice di prime cure in quanto al più poteva essergli contestato il «peculato d’uso» e che comunque la sua condotta non era caratterizzata dal «dolo di appropriazione», tipico del peculato, avendo lui agito «sempre e soltanto con l’intenzione di fare uso temporaneo delle somme e di versarle o restituirle appena gli fosse stato possibile».

La Corte territoriale nel ritenere infondato l’appello, osserva che la duplice condotta tenuta dall’imputato fu giustamente sussunta nella fattispecie del peculato in quanto costituisce ormai «solidissimo principio di diritto»quello secondo il quale «il pubblico ufficiale che ha ricevuto denaro per conto della pubblica amministrazione realizza l’appropriazione sanzionata dal delitto di peculato nel momento stesso in cui ne ometta o ritardi il versamento, cominciando in tal modo a comportarsi uti dominus nei confronti del bene del quale ha il possesso per ragioni d’ufficio».(Cfr. Cass. n. 43279/2009)

Alla luce di siffatto principio, prosegue la Corte d’Appello, risultano, dunque, destituiti di fondamento gli argomenti difensivi in quanto appropriarsi di «somme di spettanza assoluta dell’erario» integra il delitto di peculato e non certo di quello di peculato d’uso «che per definizione è configurabile soltanto se ricade su cose di specie e non su cose di quantità, come il danaro». Allo stesso modo privo di riscontri è l’assunto secondo cui la difesa ha argomentato l’insussistenza del dolo tipico del reato contestato in quanto l’imputato aveva agito al solo scopo di far uso temporaneo delle somme con l’intenzione di restituirle non appena gli fosse stato possibile. Alla luce dei dati di fatto risulta invero che il professionista «non solo non ha mai versato codeste somme all’Erario, ma non le ha neppure fornite al cliente» che, in quanto obbligato, «è stato chiamato dal competente organo tributario a far fronte, lui, all’obbligazione per la seconda volta», ne deriva pertanto che l’intenzione dell’imputato di restituire o versare quanto indebitamente trattenuto non è stata seguitata dai fatti. La Corte d’Appello ha quindi confermato l’iter argomentativo di primo grado ed ha piuttosto integrato, applicando quale pena accessoria, l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.

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L’ISCRIZIONE NELLA CENTRALE RISCHI DELLA BANCA D’ITALIA COMPORTA, SE ILLEGITTIMA, IL RISARCIMENTO DEI DANNI

 

L’ISCRIZIONE NELLA CENTRALE RISCHI DELLA BANCA D’ITALIA COMPORTA, SE ILLEGITTIMA, IL RISARCIMENTO DEI DANNI

La segnalazione di una sofferenza da parte dell’intermediario finanziario alla centrale rischi della Banca d’Italia implica una valutazione finanziaria negativa circa la posizione complessiva del cliente e, pertanto, non può seguire ad un semplice ritardo.

Con la sentenza n. 2748  la Corte d’Appello di Milano è intervenuta a statuire circa la richiesta di risarcimento danni (rigettata in primo grado) avanzata da una società a responsabilità limitata per essere stata illegittimamente segnalata alla Centrale dei Rischi della Banca di Italia da parte di una società finanziaria, la quale aveva ritenuto erroneamente non pagate alcune rate di un leasing.

L’appellante lamentava, per quel che è qui di interesse, l’omessa applicazione, da parte del giudice di prime cure, delle norme di cui alla circolare n. 139/1991 della Banca d’Italia relativamente alla segnalazione pregiudizievole alla Centrale dei Rischi, nonché la violazione, ovvero l’omessa applicazione dell’art. 4 c. 7, del codice di Deontologia e di buona condotta per i sistemi informatici gestiti dai privati. Secondo l’appellante, infatti la sentenza impugnata avrebbe erroneamente riconosciuto la legittimità delle segnalazioni fatte in assenza dei presupposti di legge.

Con specifico riferimento alla Segnalazione alla Centrale dei Rischi la Corte osserva che, ai sensi della circolare 139/1991 della Banca d’Italia, essa implica una «valutazione da parte dell’intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente e non può scaturire automaticamente da un mero ritardo di quest’ultimo nel pagamento del debito», presupponendo «una situazione del debitore non già di mero temporaneo e occasionale inadempimento, ma di vero e proprio stato di grave e non transitoria difficoltà economica del debitore, incapace di adempiere alle proprie obbligazioni».

Dunque, continua la sentenza, citando il costante orientamento della Corte di legittimità (cfr. Cass. n.26361/2014, Cass. n. 7958/2009, «ai fini di una corretta segnalazione a sofferenza non è sufficiente un mero ritardo nei pagamenti per giungere alla conclusione di sussistenza nel debitore di una situazione quale quella sopradescritta, bensì si richiede da parte dell’intermediario finanziario una valutazione “riferibile alla complessiva situazione finanziaria del cliente”, che quindi “deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione di insolvenza”».

Ed invero, ritiene la Corte, nel caso di specie «è pacifico che l’azienda non versasse in uno stato di decozione, e che la finanziaria ne fosse pienamente a conoscenza».

Dalle argomentazioni qui richiamate la Corte ha desunto l’accoglimento della richiesta di risarcimento di danno non patrimoniale, ritenendo invece non provato il danno patrimoniale.

La Corte, richiamandosi a dei precedenti giurisprudenziali di legittimità, ha infatti precisato: «è pacifica la configurabilità del risarcimento del danno non patrimoniale, che deve essere identificato come qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione di diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine».

Nel caso di specie, continua la Corte, l’appellante ha dimostrato «l’illecita condotta dell’appellato, nonché la lesione all’immagine derivatale dalla perdita di credibilità finanziaria causata dal veder assimilata la propria posizione a quella di persone giuridiche in stato di insolvenza o quantomeno in difficoltà finanziaria tale da renderle inaffidabili debitrici».

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I #TASSI DI INTERESSE #BANCARI DEVONO ESSERE SPECIFICAMENTE APPROVATI DAL #CORRENTISTA

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Il Tribunale di Ferrara con la sentenza n. 602/2017 interviene sull’annoso dibattito concernente i tassi di interesse di un contratto di conto corrente.

La sentenza de qua decide sulla controversia derivante da opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dalla Banca ai danni di una società a responsabilità limitata.  Con ricorso ex art. 645 c.p.c.  il ricorrente ha dedotto la nullità della clausola di rinvio agli “usi su piazza” nonché la conseguente applicazione illegittima degli interessi ultralegali in assenza di valida pattuizione e la violazione delle norme in tema di anatocismo e usura.

L’opposta eccepiva riguardo la clausola di rinvio agli usi su piazza che, se è vero che tale clausola è da ritenersi nulla in seguito all’introduzione delle norme sulla trasparenza bancaria, devono ritenersi applicabili gli interessi legali ai sensi dell’art. 1284 c.c fino alla data in cui le parti avrebbero fissato il tasso.

L’opposta peraltro sosteneva che avendo, la società ricorrente, richiesto nel marzo 2001 la diminuzione dei tassi applicati, non può escludersi che essa fosse a conoscenza della loro misura.

Il Tribunale, per quanto è qui di interesse ha chiarito che la clausola di rinvio agli usi di piazza, – contemplata nella maggior parte dei contratti di conto corrente sottoscritti prima del 1993 perchè inserita nei modelli contrattuali ( formulari prestampati ) utilizzati dalla maggior parte degli Istituti di credito italiana – a seguito della Legge sulla trasparenza bancaria (Legge n. 152/1992), è da ritenersi nulla, e che tale nullità è da estendersi altresì ai contratti stipulati anteriormente alla novella normativa poichè il rinvio agli usi di piazza è da ritenersi eccessivamente generico e non fornisce criteri che consentano una oggettiva determinabilità del tasso di interesse convenzionale.

Ed invero, prosegue il Tribunale, la regola della pattuizione per iscritto dei tassi e delle condizioni se può ritenersi osservata anche quando la manifestazione di consenso delle due parti non sia contenuta nello stesso documento contrattuale, richiede, comunque la prova dell’accordo scritto tra le parti, prova del tutto assente nel caso in esame. Deve quindi ritenersi opportunamente applicato il ricalcolo applicato dal CTU, il quale ha adottato la capitalizzazione trimestrale, quale tasso pattuito solo a partire dal 30.10.2008, mentre per il periodo anteriore è stato correttamente applicato il tasso sostitutivo previsto dall’art. 117 TUB con capitalizzazione semplice, in luogo del tasso contemplato dal codice civile, come avrebbe voluto l’opponente, atteso che, versandosi in ipotesi di nullità assoluta della clausola contrattuale, la norma introdotta dalla legislazione speciale, anche se successiva alla stipula del contratto, deve ritenersi prevalente.

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