SOS BANCA

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GLI ISTITUTI DI CREDITO E SOCIETA’ FINANZIARIE DEVONO RESTITUIRE L’ILLECITA CAPITALIZZAZIONE DEGLI INTERESSI ILLEGALMENTE APPLICATI:

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L’anatocismo è il calcolo degli interessi sugli interessi che sono già maturati su una somma dovuta.
Gli interessi passivi maturati non possono produrre altri interessi.
Gli interessi passivi e attivi devono essere calcolati con la stessa periodicità, ossia secondo lo stesso intervallo di tempo.
Le banche devono dare separata evidenza a interessi e capitale

Capire quando si è in presenza di un prestito usurario è molto importante.
Si parla di strozzinaggio e usura bancaria quando viene accertato che il tasso di interesse applicato al finanziamento o al mutuo è più alto rispetto alla soglia degli indici di riferimento stabiliti dalla legge.
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AL GIUDICE AMMINISTRATIVO IL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO PER IL PUBBLICO IMPIEGO

AL GIUDICE AMMINISTRATIVO IL RISARCIMENTO DEL DANNO BIOLOGICO PER IL PUBBLICO IMPIEGO

 

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Con la sentenza n. 28369/2017 dello scorso 28 novembre a Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha statuito sulla questione del riparto di giurisdizione per le controversie in materia di pubblico impiego intervenendo nella vicenda occorsa ad un dipendente dell’Anas il quale aveva fatto ricorso onde ottenere l’accertamento del proprio diritto ad essere inquadrato nella mansione di “quadro di primo livello con posizione organizzativa ed economica A” ,superiore a quella ricoperta presso l’azienda, oltreché al risarcimento del danno biologico per aver patito un infarto al miocardio causato dal sovraccarico di mansioni e di incarichi.

Tale vicenda era decisa in primo grado dal Tribunale di Campobasso, il quale ritenne accertato che il ricorrente avesse svolto mansioni superiori al proprio inquadramento dal 1975 all’aprile 2002 e per l’effetto condannò l’Anas al pagamento delle differenze retributive ed al risarcimento del danno non patrimoniale da dequalificazione.

Tale decisione fu successivamente impugnata presso la Corte d’Appello di Campobasso la quale, riformò la sentenza del giudice di prime cure, dovendo ritenere il difetto di giurisdizione del giudice ordinario per il periodo anteriore al 26.07.1995, epoca di trasformazione in Ente nazionale per le strade ai sensi del d.lgs. n. 143/94, e di conseguenza, per il resto, rigettare la domanda del lavoratore.

Al fine di meglio comprendere la questione occorre rammentare che in materia di pubblico impiego, successivamente all’assoggettamento di quest’ultimo alle norme di diritto privato e alla contrattazione collettiva, avviata con il D.Lgs. 29/1993, si sono poste notevoli questioni in merito al riparto di competenze tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Norma spartiacque in materia è il cosiddetto T.U. in materia di pubblico impiego emanato con il D.Lgs. n. 80/1998, successivamente modificato dal D.Lgs. n. 165 del 2001 il cui art. 63 devolve alla cognizione del Giudice Ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

La successione tra la precedente e la nuova disciplina è regolata, a sua volta, dall’art. 69, comma 7, D.Lgs. 165/2001, ai sensi del quale le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore alla data del 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Ed è qui che si snoda la questione del nostro lavoratore, che vista la decisione della Corte d’appello di Campobasso ricorreva in Cassazione articolando le proprie ragioni in tre motivi a loro volta suddivisi in più punti.

Ed invero il ricorrente contestava, per quanto è qui di interesse, le affermazioni dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta sussistenza del difetto di giurisdizione affermato sulla base del riferimento al dato storico dello svolgimento delle mansioni superiori fino al 26.07.1995, oltre che a quello del danno biologico sofferto per l’infarto occorso nel 1992.

La difesa di parte ricorrente osservava, infatti, che per stabilire la giurisdizione occorre tener conto del principio di legittimità, secondo cui, laddove la pretesa abbia origine da un fatto permanente del datore di lavoro, si deve aver riguardo al momento della realizzazione del fatto dannoso e quindi, a quello della cessazione della permanenza. Ciò posto applicando tale principio alla fattispecie in esame, ne deriverebbe, secondo il ricorrente, che dal momento della cessazione dell’illecito datoriale, avvenuta dopo il 30.06.1998, non poteva non sussistere la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria atteso che a partire da tale data le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione sono attribuite ex art. 69 comma / del D.lgs m. 165/2001 al giudice ordinario.

Allo stesso modo, secondo il ricorrente si determinerebbe la giurisdizione per quel che concerne il risarcimento del danno biologico da infarto dovendo datare la lesione al momento (3.04.1996) in cui gli venne comunicato il rigetto della richiesta di equo indennizzo.

Da qui discenderebbe – secondo la difesa del ricorrente –  la giurisdizione del giudice ordinario in quanto provvedimento successivo al 26.07.1995 data in cui l’azienda presso cui lavorava fu trasformata in ANAS con la conseguente sottoposizione dei rapporti di lavoro del personale dipendente alla disciplina delle norme di diritto privato e della contrattazione collettiva.

In ordine alle suesposte questioni la Corte ha ritenuto fondato il motivo inerente al difetto di giurisdizione del giudice ordinario in quanto “dando seguito a quanto già affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 20726/2012, si rileva che in tale decisione è stato posto in risalto il concetto di infrazionabilità della giurisdizione nei casi, come il presente, contraddistinti dalla unitarietà della questione di merito dedotta in giudizio, benché ricompresa nel periodo al cui interno si colloca il discrimine temporale del 30.06.1998 tra la giurisdizione del giudice amministrativo e quella del giudice ordinario”.

Ed invero già allora la Suprema Corte aveva espresso, come regola, la giurisdizione del giudice ordinario per ogni questione che riguardi il periodo del rapporto successivo al 30.06.1998 o che parzialmente investa anche il periodo precedente, ove risulti essere sostanzialmente unitaria la fattispecie dedotta in giudizio; lasciando residuare la giurisdizione del giudice amministrativo per le sole questioni che riguardino unicamente il periodo del rapporto compreso entro la data suddetta.

Pertanto, ha osservato la Corte, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, atteso che nel caso in esame “ non vi è alcun dubbio sul fatto che la questione posta all’attenzione dei giudice di merito […] era sempre la stessa, trattandosi di verificare per tutto il periodo di causa la fondatezza o meno delle questioni connesse alla richiesta di riconoscimento del diritto all’inquadramento nelle superiori mansioni […] ed alla conseguente richiesta di condanna della datrice di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive ed al preteso risarcimento del danno”.

Diverso discorso va invece fatto per quanto attiene la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in relazione al reclamato risarcimento del danno biologico subito in seguito all’evento patologico subito del 1992. Sul punto la Corte richiama nuovamente una Sezione Unite pregressa (n. 5468/2009) la quale aveva già statuito che nel caso di controversia relativa al rapporto di pubblico impiego per il quale non trova applicazione il d. lgs. 31.03.1998 n. 80, la soluzione della questione del riparto di giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento danni per la lesione della propria integrità psico-fisica è strettamente subordinata all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità proposta, in quanto, se è fatta valere la responsabilità contrattuale dell’ente datore di lavoro, la cognizione rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, mentre, se è stata dedotta la responsabilità extracontrattuale la giurisdizione spetta al giudice ordinario.

Tuttavia, prosegue la Corte, l’accertamento circa la natura del titolo di responsabilità azionato prescinde dalle qualificazioni operate dall’attore, mentre assume valore decisivo la verifica dei tratti propri dell’elemento materiale dell’illecito, e quindi l’accertamento se il fatto denunciato violi il generale divieto di “neminem laedere” e riguardi, quindi, condotte la cui idoneità lesiva possa esplicarsi indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini come nei confronti dei propri dipendenti, ovvero consegua alla violazione di obblighi specifici che trovino la ragion d’essere nel rapporto di lavoro.

Su tali basi le Sezioni Unite hanno dunque ritenuto di dover confermare, per tale voce di danno, la giurisdizione del giudice amministrativo.

In definitiva, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario con riferimento alle rivendicate mansioni superiori e alla relativa richiesta di pagamento delle differenze retributive e di risarcimento danni per la lamentata dequalificazione, mentre va confermata la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla verifica della sussistenza del danno biologico per l’infarto al miocardio occorso nel 1992.

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#AVVOCATO #STUDIO LEGALE #RESPONSABILITA’ MEDICA

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Responsabilità medica – Diagnosi errata – Male inguaribile

Il sanitario è responsabile per il tempo che la vittima avrebbe potuto ancora vivere.

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Con la recentissima sentenza, pronunciata dalla IV^ Sezione Penale, la Suprema Corte è tornata sull’annosa e spinosa questione della omessa diagnosi della patologia oncologica da parte del sanitario, nonché sull’importanza della sua tempestività al fine di escluderne la responsabilità.

Il caso di specie – definito con la sentenza n. 50975 dello scorso 08 novembre – ha visto coinvolta una paziente, ricorsa alla prestazione professionale dello specialista per la cura di quella che solo in apparenza si era profilata come “ernia iatale” e, nonostante gli esami clinici cui veniva sottoposta, perdeva la vita nel giro di pochi mesi.

In particolare, a fronte del quadro sintomatico lamentato, la diagnosi elaborata dallo specialista si rivelava completamente errata, poiché non venivano opportunamente disposti idonei accertamenti cito-istologici, che, qualora eseguiti tempestivamente, avrebbero rilevato con sensibile anticipo la natura della patologia da cui la paziente era affetta (poi scoperta a seguito di accertamenti clinici a cui la stessa si era sottoposta di sua autonoma iniziativa), consentendole di ricorrere a protocolli terapeutici, come la resezione del pancreas, in grado di procurare la guarigione o di incrementare consistentemente le sue speranze di vita.

Lo specialista, quindi, è finito sotto processo per omicidio colposo per aver scambiato un tumore al pancreas per un’ernia iatale.

La Corte di Appello di Bari, aveva confermato la sentenza del Giudice di primo grado, il quale aveva assolto l’imputato, perché il fatto non sussiste, dall’imputazione del reato penale di cui all’articolo 589 c.p. “poiché per colpa consistita in negligenza e violazione delle leges artis, cagionava la morte della sua paziente, la quale aveva richiesto la sua prestazione professionale per la cura di una patologia che si manifestava tramite astenia, forti dolori addominali e calo ponderale, e che poi si sarebbe rivelata per adenocarcinoma mucocosecernente ad origine pancreatica”.

Avverso tale provvedimento proponevano ricorso per Cassazione sia il Procuratore Generale della Repubblica di Bari, che le parti civili.

La Cassazione, con la sentenza in parola, pur ritenendo pienamente fondati i motivi di ricorso, ha annullato, con rinvio ai soli effetti civili, vista la sopravvenuta prescrizione del reato, la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di appello di Bari.

LA POSIZIONE DELLA CASSAZIONE SUL PUNTO.

Tuttavia, anche ai soli limitati effetti civilistici, la Cassazione ha affrontato il tema, ribadendo il principio di diritto secondo cui: “in tema di colpa professionale medica, l’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi” (cfr. ex plurimis Sez. 4, Sentenza n. 46412 del 28/10/2008, Calo’, Rv. 242250; Sez. 4, n. 21243 del 18/12/2014 dep. il 2015, Pulcini, Rv. 263492).

La Corte, inoltre, rilevando che il thema decidendum della questione sottoposta alla sua attenzione è riassumibile nei seguenti termini: “ha un’influenza causale rispetto all’evento una ritardata diagnosi di tumore pur in presenza di quella che è comunemente e scientificamente ritenuta una delle patologie oncologiche più aggressive e ad evento nefasto quel è il carcinoma al pancreas”, ha evidenziato la contraddittorietà e lacunosità della motivazione della sentenza di merito.

La pronuncia in parola sembrerebbe, dunque, voler porre un punto fermo – assurgendo quasi a monito – sulla necessità di ancorare l’ambito della responsabilità penale medica a parametri il più possibile delineati, al fine di evitare stati si assoluta incertezza circa le conseguenze dei comportamenti attuati dai sanitari, richiamando, a tal uopo, il diffuso orientamento giurisprudenziale in relazione all’intempestiva diagnosi tumorale che trova il suo fondamento nelle note sentenze n. 36603/2011 e n. 3380/2005 e sottolineando che, nel caso di specie, se lo specialista avesse tempestivamente messo in atto tutti i protocolli diagnostici necessari e doverosi in presenza anche del solo sospetto di un tumore pancreatico, “trattandosi di una massa tumorale di dimensioni inferiori ai 2 cm. e senza metastasi in alcuno degli organi controllati, sarebbe stato possibile effettuare la c.d. stadiazione del tumore e procedere alla resezione chirurgica del pancreas o di parte di esso, con indubbi benefici per la paziente, derivandone, quanto meno, un rallentamento del decorso aggressivo della patologia con possibilità di sopravvivenza fino a cinque anni.”

Non va dimenticato, infatti, che in tutti i casi di morte dovuta ad errore diagnostico, va valutato “se vi sia stata una colpevole omissione nel disporre gli opportuni accertamenti diagnostici”. In particolare, nell’ambito delle malattie oncologiche la diagnosi precoce è fattore di assoluto rilievo ed assurge ad una funzione estremamente essenziale, proprio perché serve ad approntare quelle terapie che in numerosi casi si rivelano salvifiche oppure, in casi come quelli del tumore al pancreas, idonee ad allungare, anche se di pochi mesi soltanto, la prospettiva di vita del paziente o, quanto meno, a rendere significativamente meno doloroso il decorso stesso della malattia.

La sentenza in commento rappresenta, inoltre, un ulteriore punto di riflessione ed un prezioso strumento attraverso cui poter ancora una volta affermare che l’errore diagnostico, dovuto alla intempestiva diagnosi (con particolare attenzione alle vicende tumorali), non può escludersi per il semplice fatto che il sanitario si sia basato su precedenti “referti e pareri… di altri sanitari” (ancorché rivelatisi non risolutivi), in tal modo ritenendosi esentato dal dovere di approfondimento delle indagini diagnostiche e, nei casi più gravi, di malattie inguaribili destinate (prima o poi) ad un esito infausto.

L’essere affetti da una malattia incurabile non è sufficiente, dunque, a scriminare la condotta del medico che ritardi di molti mesi la corretta diagnosi, poiché anche il prolungamento della vita, di settimane o anni, è un elemento che va preso in considerazione ai fini della valutazione della responsabilità sia civile che penale del sanitario.

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USURA: LE SEZIONI UNITE BOCCIANO L’USURA SOPRAVVENUTA

USURA

LE SEZIONI UNITE BOCCIANO L’USURA SOPRAVVENUTA

Con la recente pronuncia n. 24675 a Sezioni Unite depositata lo scorso 19 ottobre la  Suprema Corte ha posto fine all’ annoso dibattito sviluppatosi  a seguito della entrata in vigore della L. 108/1996 sui tassi usurai.

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Invero la legge 7 marzo 1996, n. 108 è intervenuta, sul piano civilistico, a modificare l’art. 1815, comma 2, c.c. il quale prevede, nella sua attuale versione che “se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”; il che determina una nullità parziale della clausola relativa agli interessi, mantenendo valido ed efficace il contratto.

La disposizione testè citata,  sia in dottrina che in giurisprudenza, ha sollevato molteplici dubbi interpretativi relativi, in primis, al diritto transitorio concernente la disciplina applicabile ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della Legge ed ancora in corso a tale data, ed in secondo luogo, si poneva un problema interpretativo circa i contratti stipulati successivamente all’entrata in vigore della nuova normativa antiusura, il cui tasso di interesse, seppure originariamente lecito, divenisse, in seguito ad una successiva diminuzione del tasso-soglia, eccedente tale misura.

Il problema concerneva, in sostanza, fissare il momento in cui, a fronte di oscillazioni dei tassi, usurarietà potesse dirsi conclamata. Se all’atto della convenzione o all’atto del pagamento ad opera del debitore.

Secondo un primo orientamento, doveva ritenersi decisivo il momento genetico della stipulazione del contratto, essendo irrilevante il tempo successivo dell’effettiva corresponsione degli interessi. Secondo il divergente orientamento, invece, la valutazione in ordine alall’ usurarietà degli interessi doveva essere posta in essere al momento del   pagamento, ossia, nel momento funzionale ed esecutivo del contratto.

Tale ultima impostazione è quella che ha introdotto nel nostro sistema, la c.d. usurarietà sopravvenuta.

A fronte delle incertezze interpretative e dei conseguenti risvolti sul piano applicativo, è stato successivamente emanato il D. L. 29 dicembre 2000, n. 394, poi convertito, con modifiche, nella L. 28 febbraio 2001, n. 24, che introduce all’art. 1 la norma secondo la quale “ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

Nonostante la legge n. 24 del 2001 sembri negare alla radice la configurabilità di una sopravvenuta usurarietà degli interessi, valorizzando esclusivamente il momento della pattuizione degli stessi, sia in dottrina che in giurisprudenza si è affermato che, anche alla luce dell’interpretazione autentica fornita dal legislatore, sarebbe irragionevole e incongruo sostenere la debenza dell’interesse pattuito, esorbitante rispetto al sopravvenuto tasso-soglia.

Sul tema, si sono fronteggiati due orientamenti principali: un primo indirizzo, contrario all’usura sopravvenuta, e una seconda impostazione, invece favorevole a quest’ultima.

Le Sezioni Unite, con la sentenza in esame, sono intervenute a dirimere tale contrasto, escludendo “in toto” il rilievo della usura sopravvenuta.

Gli Ermellini, infatti, hanno osservato che  “è privo di fondamento la tesi della illiceità della pretesa di interessi a un tasso che, pur non essendo superiore, alla data della pattuizione, alla soglia dell’usura, superi tuttavia tale soglia al momento della sua maturazione o del pagamento degli interessi stessi

A tale conclusione, la Corte perviene, facendo applicazione dei principi sottesi alle norme applicabili in materia: il divieto dell’usura è contenuto nell’art. 644 c.p. mentre le altre disposizioni contenute nella Legge 108/96 non formulano tale divieto ma si limitano a prevedere un meccanismo di determinazione del tasso, oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurai, a mente appunto dell’art. 644 c.p. cui fa implicitamente riferimento l’art. 2 della legge citata che recita: “La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurai”, limite che è appunto fissato dall’art. 644 c.p.

Sarebbe pertanto impossibile – conclude la Cassazione – operare la qualificazione di un tasso come usuraio senza fare applicazione dell’art. 644 c.p. considerando, ai fini della sua applicazione – così come impone la norma di interpretazione autentica (D.L. 394/2000) – il momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento.

Morale: per un contratto stipulato con la Banca prima della entrata in vigore della legge sui tassi usurai, l’Istituto bancario “è autorizzato” ad applicare tassi maggiori – finanche superando il tasso usura – rispetto a quelli convenuti all’atto della stipula, senza che per ciò si possa invocare la speciale tutela prevista solo per coloro che i tassi usurai se li vedono applicare dopo l’entrata in vigore della legge.

Così è se vi piace….

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FONDO PATRIMONIALE: OPPONIBILITA’ AI CREDITORI

FONDO PATRIMONIALE:  OPPONIBILITA’ AI CREDITORI

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 23955/17 è intervenuta nel giudizio di opposizione all’esecuzione avanzato da due coniugi, i quali affermavano, a sostegno delle proprie deduzioni, l’esistenza, su alcuni dei beni immobili pignorati dal creditore procedente, della costituzione di un fondo patrimoniale.

L’opposizione era stata rigettata sia in primo che in secondo grado, in quanto, secondo i giudici di merito non era stata raggiunta la prova circa l’opponibilità dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale che, infatti, avrebbe potuto dirsi opponibile al creditore solo laddove i coniugi avessero prodotto l’atto di matrimonio con accanto l’annotazione circa la costituzione del fondo.

Invero, in tali casi, l’opponibilità o meno della costituzione del fondo al creditore procedente dipende dall’anteriorità di tale annotazione rispetto alla data di trascrizione del pignoramento.

Nel caso in esame, tuttavia, l’atto di matrimonio non è stato prodotto né in primo grado né in sede di gravame e pertanto i giudici della Suprema Corte hanno dovuto ritenere che i giudici di merito abbiano correttamente rigettato l’opposizione perché destituita di prova.

Dall’applicazione di tale principio ne deriva necessariamente che, benché l’esibizione in giudizio dell’atto di matrimonio recante l’annotazione non sia condizione sostanziale di opponibilità dell’atto ai terzi ex art. 162 c.c, essa, tuttavia, costituisce necessario adempimento dell’onere della prova in giudizio.

Ma vi è più da considerare che gli opponenti avevano ritirato il proprio fascicolo di parte all’udienza di precisazione delle conclusioni senza ridepositarlo; sul punto la Corte ribadisce che, in virtù del principio dispositivo delle prove, il giudice è tenuto a decidere sulla base delle prove e dei documenti sottoposti al suo esame al momento della decisione.

Dacchè il mancato reperimento nel fascicolo di alcuni documenti deve presumersi espressione, in assenza della denuncia di altri eventi che sollevino l’involontarietà della mancanza, di un atto volontario della parte stessa che è libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione di esso o di alcuni dei documenti ivi contenuti, cosicchè, il Giudice si pronunci solo sulla base dei documenti posti alla sua cognizione all’atto della decisione.

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RISPONDE DI PECULATO IL NOTAIO CHE TRATTIENE LE SOMME DEL CLIENTE DESTINATE ALL’ERARIO

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza del 15.03.2017 n. 2094 ha stabilito che commette il reato di peculato il notaio che si appropria di somme ricevute dai clienti per il pagamento dell’imposta di registro per atti di compravendita immobiliare da lui rogati.

Secondo il dettato dell’art. 314 Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di un’altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Mentre, si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.

Già in primo grado, il Tribunale di Roma aveva dichiarato il notaio colpevole del delitto di peculato continuato, condannandolo a due anni e tre mesi di reclusione; oltre al risarcimento dei danni cagionati al cliente (con la concessione di una provvisionale di 46.000 euro). Secondo il Gip infatti il professionista, nella sua qualità di pubblico ufficiale, s’era appropriato dapprima della somma di 14.000 euro, versata a titolo di pagamento dell’imposta di registro di un primo atto di compravendita, e poi della somma di 32.000 euro, versata sempre ai fini dell’imposta di registro di un secondo atto.

A propria difesa il Notaio aveva eccepito l’errata qualificazione del reato da parte del giudice di prime cure in quanto al più poteva essergli contestato il «peculato d’uso» e che comunque la sua condotta non era caratterizzata dal «dolo di appropriazione», tipico del peculato, avendo lui agito «sempre e soltanto con l’intenzione di fare uso temporaneo delle somme e di versarle o restituirle appena gli fosse stato possibile».

La Corte territoriale nel ritenere infondato l’appello, osserva che la duplice condotta tenuta dall’imputato fu giustamente sussunta nella fattispecie del peculato in quanto costituisce ormai «solidissimo principio di diritto»quello secondo il quale «il pubblico ufficiale che ha ricevuto denaro per conto della pubblica amministrazione realizza l’appropriazione sanzionata dal delitto di peculato nel momento stesso in cui ne ometta o ritardi il versamento, cominciando in tal modo a comportarsi uti dominus nei confronti del bene del quale ha il possesso per ragioni d’ufficio».(Cfr. Cass. n. 43279/2009)

Alla luce di siffatto principio, prosegue la Corte d’Appello, risultano, dunque, destituiti di fondamento gli argomenti difensivi in quanto appropriarsi di «somme di spettanza assoluta dell’erario» integra il delitto di peculato e non certo di quello di peculato d’uso «che per definizione è configurabile soltanto se ricade su cose di specie e non su cose di quantità, come il danaro». Allo stesso modo privo di riscontri è l’assunto secondo cui la difesa ha argomentato l’insussistenza del dolo tipico del reato contestato in quanto l’imputato aveva agito al solo scopo di far uso temporaneo delle somme con l’intenzione di restituirle non appena gli fosse stato possibile. Alla luce dei dati di fatto risulta invero che il professionista «non solo non ha mai versato codeste somme all’Erario, ma non le ha neppure fornite al cliente» che, in quanto obbligato, «è stato chiamato dal competente organo tributario a far fronte, lui, all’obbligazione per la seconda volta», ne deriva pertanto che l’intenzione dell’imputato di restituire o versare quanto indebitamente trattenuto non è stata seguitata dai fatti. La Corte d’Appello ha quindi confermato l’iter argomentativo di primo grado ed ha piuttosto integrato, applicando quale pena accessoria, l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.

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peculato notaio

Responsabilità Professionale dell’Avvocato

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L’AVVOCATO RESPONSABILE PER COLPA SOLO SE IL RISULTATO SPERATO ERA ALTAMENTE PROBABILE

Sul sempre attuale tema riguardante la responsabilità professionale dell’Avvocato  si è espressa la sentenza n. 2102/2017 della Corte d’Appello di Milano la quale interviene in secondo grado a dirimere la controversia insorta tra un avvocato e il proprio cliente.

L’Avvocato in questione aveva chiesto e ottenuto dal Tribunale di Sondrio decreto ingiuntivo per il pagamento di prestazioni professionali, cui seguitava opposizione ex art. 645 c.p.c. ritenuta infondata dallo stesso Tribunale di Sondrio.

Avverso detta sentenza di rigetto, proponeva appello il cliente deducendo, per quanto è qui di interesse, l’erronea valutazione del merito della causa con particolare riferimento ai presupposti di esclusione della responsabilità dell’avvocato per inadempimento della propria obbligazione.

In merito appare utile rammentare che il rapporto che si instaura tre l’Avvocato e il Cliente si inserisce nell’ampio spettro dei rapporti contrattuali è – c.d. “contratto di clientela” – che va sussunto nella fattispecie del contratto d’ opera intellettuale disciplinato dagli artt. 2229 e ss. c.c. in virtù del quale sorge in capo al professionista un vincolo giuridico in ordine all’espletamento del suo mandato professionale.

Elementi caratterizzanti del contratto d’opera intellettuale sono:

  1. a) il carattere intellettuale della prestazione, oggetto del contratto infatti va identificato nell’esercizio di un’attività intellettuale;
  2. b) il carattere personale della prestazione (il cliente ha, in forza del rapporto che si instaura con l’avvocato, diritto a che il professionista presti personalmente la propria opera, eventualmente con l’ausilio di sostituti o ausiliari, che operino sempre e comunque sotto la propria responsabilità e direzione);
  3. c) la discrezionalità del prestatore d’opera nell’esecuzione della prestazione;

La prestazione fornita dal professionista è, di regola, una prestazione di mezzi (e non di risultato) in quanto l’attività prestata da quest’ultimo, essendo relativa solo a prestazioni intellettuali, non può essere mirata al raggiungimento di uno scopo come risultato, ma solo al tentativo di raggiungerlo: l’esito di un procedimento giudiziale è in ogni caso influenzato da elementi esterni molte volte imponderabili. Ne consegue che l’inadempimento del professionista, deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, al dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dal comma secondo dell’art. 1176 c.c. a  norma del quale la diligenza dell’esercente un’attività professionale deve essere commisurata alla natura dell’attività esercitata, di modo che il professionista sarà considerato responsabile per il mancato adempimento solo ove si accerti che egli non abbia utilizzato nell’espletamento della sua attività una diligenza pari a quella che ci si possa aspettare da un professionista di medie capacità e preparazione.

Alla luce dei suesposti brevi cenni, si desume chiaramente come la decisione presa dalla Corte d’appello di Milano, nel respingere il gravame, si ponga in linea di continuità non solo con il dato normativo, ma altresì con la ormai costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale in caso di responsabilità professionale trova applicazione l’art. 2236 c.c. – che limita la responsabilità del professionista alle sole ipotesi di colpa grave o dolo – in quelle ipotesi in cui la prestazione oggetto dell’incarico richiede la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, che implicano una preparazione professionale superiore alla media. Derivandone, per logica conseguenza, che l’avvocato non è responsabile per il solo fatto di aver commesso un errore o un’omissione nello svolgimento dell’incarico, ma invero “per accertare la responsabilità professionale è necessario che il cliente, dopo aver mosso specifiche censure, dimostri la ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza della condotta asseritamente dannosa” (Cass. 22882/2017).

Nel caso di specie, ha osservato la Corte territoriale, poiché non vi è alcuna prova che l’avvocato abbia omesso di tenere in debito conto situazioni, informazioni, atti e documenti che avrebbero consentito un diverso inquadramento della fattispecie, è da escludersi la responsabilità del professionista; ciò in forza degli insegnamenti della Suprema Corte, secondo la quale “in tema di responsabilità dell’ avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia allorchè questi ignori o violi precise disposizioni di legge ovvero risolva erroneamente questioni giuridiche prive di margini di opinabilità” dovendo escludersi qualsiasi responsabilità “ in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e giurisprudenziali presentino margini di incertezza, in astratto o con riferimento al caso concreto, tali da ritenere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute” (Cass. 16846/2005)

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