#AVVOCATO #STUDIO LEGALE #RESPONSABILITA’ MEDICA

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Responsabilità medica – Diagnosi errata – Male inguaribile

Il sanitario è responsabile per il tempo che la vittima avrebbe potuto ancora vivere.

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Con la recentissima sentenza, pronunciata dalla IV^ Sezione Penale, la Suprema Corte è tornata sull’annosa e spinosa questione della omessa diagnosi della patologia oncologica da parte del sanitario, nonché sull’importanza della sua tempestività al fine di escluderne la responsabilità.

Il caso di specie – definito con la sentenza n. 50975 dello scorso 08 novembre – ha visto coinvolta una paziente, ricorsa alla prestazione professionale dello specialista per la cura di quella che solo in apparenza si era profilata come “ernia iatale” e, nonostante gli esami clinici cui veniva sottoposta, perdeva la vita nel giro di pochi mesi.

In particolare, a fronte del quadro sintomatico lamentato, la diagnosi elaborata dallo specialista si rivelava completamente errata, poiché non venivano opportunamente disposti idonei accertamenti cito-istologici, che, qualora eseguiti tempestivamente, avrebbero rilevato con sensibile anticipo la natura della patologia da cui la paziente era affetta (poi scoperta a seguito di accertamenti clinici a cui la stessa si era sottoposta di sua autonoma iniziativa), consentendole di ricorrere a protocolli terapeutici, come la resezione del pancreas, in grado di procurare la guarigione o di incrementare consistentemente le sue speranze di vita.

Lo specialista, quindi, è finito sotto processo per omicidio colposo per aver scambiato un tumore al pancreas per un’ernia iatale.

La Corte di Appello di Bari, aveva confermato la sentenza del Giudice di primo grado, il quale aveva assolto l’imputato, perché il fatto non sussiste, dall’imputazione del reato penale di cui all’articolo 589 c.p. “poiché per colpa consistita in negligenza e violazione delle leges artis, cagionava la morte della sua paziente, la quale aveva richiesto la sua prestazione professionale per la cura di una patologia che si manifestava tramite astenia, forti dolori addominali e calo ponderale, e che poi si sarebbe rivelata per adenocarcinoma mucocosecernente ad origine pancreatica”.

Avverso tale provvedimento proponevano ricorso per Cassazione sia il Procuratore Generale della Repubblica di Bari, che le parti civili.

La Cassazione, con la sentenza in parola, pur ritenendo pienamente fondati i motivi di ricorso, ha annullato, con rinvio ai soli effetti civili, vista la sopravvenuta prescrizione del reato, la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di appello di Bari.

LA POSIZIONE DELLA CASSAZIONE SUL PUNTO.

Tuttavia, anche ai soli limitati effetti civilistici, la Cassazione ha affrontato il tema, ribadendo il principio di diritto secondo cui: “in tema di colpa professionale medica, l’errore diagnostico si configura non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi” (cfr. ex plurimis Sez. 4, Sentenza n. 46412 del 28/10/2008, Calo’, Rv. 242250; Sez. 4, n. 21243 del 18/12/2014 dep. il 2015, Pulcini, Rv. 263492).

La Corte, inoltre, rilevando che il thema decidendum della questione sottoposta alla sua attenzione è riassumibile nei seguenti termini: “ha un’influenza causale rispetto all’evento una ritardata diagnosi di tumore pur in presenza di quella che è comunemente e scientificamente ritenuta una delle patologie oncologiche più aggressive e ad evento nefasto quel è il carcinoma al pancreas”, ha evidenziato la contraddittorietà e lacunosità della motivazione della sentenza di merito.

La pronuncia in parola sembrerebbe, dunque, voler porre un punto fermo – assurgendo quasi a monito – sulla necessità di ancorare l’ambito della responsabilità penale medica a parametri il più possibile delineati, al fine di evitare stati si assoluta incertezza circa le conseguenze dei comportamenti attuati dai sanitari, richiamando, a tal uopo, il diffuso orientamento giurisprudenziale in relazione all’intempestiva diagnosi tumorale che trova il suo fondamento nelle note sentenze n. 36603/2011 e n. 3380/2005 e sottolineando che, nel caso di specie, se lo specialista avesse tempestivamente messo in atto tutti i protocolli diagnostici necessari e doverosi in presenza anche del solo sospetto di un tumore pancreatico, “trattandosi di una massa tumorale di dimensioni inferiori ai 2 cm. e senza metastasi in alcuno degli organi controllati, sarebbe stato possibile effettuare la c.d. stadiazione del tumore e procedere alla resezione chirurgica del pancreas o di parte di esso, con indubbi benefici per la paziente, derivandone, quanto meno, un rallentamento del decorso aggressivo della patologia con possibilità di sopravvivenza fino a cinque anni.”

Non va dimenticato, infatti, che in tutti i casi di morte dovuta ad errore diagnostico, va valutato “se vi sia stata una colpevole omissione nel disporre gli opportuni accertamenti diagnostici”. In particolare, nell’ambito delle malattie oncologiche la diagnosi precoce è fattore di assoluto rilievo ed assurge ad una funzione estremamente essenziale, proprio perché serve ad approntare quelle terapie che in numerosi casi si rivelano salvifiche oppure, in casi come quelli del tumore al pancreas, idonee ad allungare, anche se di pochi mesi soltanto, la prospettiva di vita del paziente o, quanto meno, a rendere significativamente meno doloroso il decorso stesso della malattia.

La sentenza in commento rappresenta, inoltre, un ulteriore punto di riflessione ed un prezioso strumento attraverso cui poter ancora una volta affermare che l’errore diagnostico, dovuto alla intempestiva diagnosi (con particolare attenzione alle vicende tumorali), non può escludersi per il semplice fatto che il sanitario si sia basato su precedenti “referti e pareri… di altri sanitari” (ancorché rivelatisi non risolutivi), in tal modo ritenendosi esentato dal dovere di approfondimento delle indagini diagnostiche e, nei casi più gravi, di malattie inguaribili destinate (prima o poi) ad un esito infausto.

L’essere affetti da una malattia incurabile non è sufficiente, dunque, a scriminare la condotta del medico che ritardi di molti mesi la corretta diagnosi, poiché anche il prolungamento della vita, di settimane o anni, è un elemento che va preso in considerazione ai fini della valutazione della responsabilità sia civile che penale del sanitario.

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Responsabilità Professionale dell’Avvocato

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L’AVVOCATO RESPONSABILE PER COLPA SOLO SE IL RISULTATO SPERATO ERA ALTAMENTE PROBABILE

Sul sempre attuale tema riguardante la responsabilità professionale dell’Avvocato  si è espressa la sentenza n. 2102/2017 della Corte d’Appello di Milano la quale interviene in secondo grado a dirimere la controversia insorta tra un avvocato e il proprio cliente.

L’Avvocato in questione aveva chiesto e ottenuto dal Tribunale di Sondrio decreto ingiuntivo per il pagamento di prestazioni professionali, cui seguitava opposizione ex art. 645 c.p.c. ritenuta infondata dallo stesso Tribunale di Sondrio.

Avverso detta sentenza di rigetto, proponeva appello il cliente deducendo, per quanto è qui di interesse, l’erronea valutazione del merito della causa con particolare riferimento ai presupposti di esclusione della responsabilità dell’avvocato per inadempimento della propria obbligazione.

In merito appare utile rammentare che il rapporto che si instaura tre l’Avvocato e il Cliente si inserisce nell’ampio spettro dei rapporti contrattuali è – c.d. “contratto di clientela” – che va sussunto nella fattispecie del contratto d’ opera intellettuale disciplinato dagli artt. 2229 e ss. c.c. in virtù del quale sorge in capo al professionista un vincolo giuridico in ordine all’espletamento del suo mandato professionale.

Elementi caratterizzanti del contratto d’opera intellettuale sono:

  1. a) il carattere intellettuale della prestazione, oggetto del contratto infatti va identificato nell’esercizio di un’attività intellettuale;
  2. b) il carattere personale della prestazione (il cliente ha, in forza del rapporto che si instaura con l’avvocato, diritto a che il professionista presti personalmente la propria opera, eventualmente con l’ausilio di sostituti o ausiliari, che operino sempre e comunque sotto la propria responsabilità e direzione);
  3. c) la discrezionalità del prestatore d’opera nell’esecuzione della prestazione;

La prestazione fornita dal professionista è, di regola, una prestazione di mezzi (e non di risultato) in quanto l’attività prestata da quest’ultimo, essendo relativa solo a prestazioni intellettuali, non può essere mirata al raggiungimento di uno scopo come risultato, ma solo al tentativo di raggiungerlo: l’esito di un procedimento giudiziale è in ogni caso influenzato da elementi esterni molte volte imponderabili. Ne consegue che l’inadempimento del professionista, deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, al dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dal comma secondo dell’art. 1176 c.c. a  norma del quale la diligenza dell’esercente un’attività professionale deve essere commisurata alla natura dell’attività esercitata, di modo che il professionista sarà considerato responsabile per il mancato adempimento solo ove si accerti che egli non abbia utilizzato nell’espletamento della sua attività una diligenza pari a quella che ci si possa aspettare da un professionista di medie capacità e preparazione.

Alla luce dei suesposti brevi cenni, si desume chiaramente come la decisione presa dalla Corte d’appello di Milano, nel respingere il gravame, si ponga in linea di continuità non solo con il dato normativo, ma altresì con la ormai costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale in caso di responsabilità professionale trova applicazione l’art. 2236 c.c. – che limita la responsabilità del professionista alle sole ipotesi di colpa grave o dolo – in quelle ipotesi in cui la prestazione oggetto dell’incarico richiede la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, che implicano una preparazione professionale superiore alla media. Derivandone, per logica conseguenza, che l’avvocato non è responsabile per il solo fatto di aver commesso un errore o un’omissione nello svolgimento dell’incarico, ma invero “per accertare la responsabilità professionale è necessario che il cliente, dopo aver mosso specifiche censure, dimostri la ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza della condotta asseritamente dannosa” (Cass. 22882/2017).

Nel caso di specie, ha osservato la Corte territoriale, poiché non vi è alcuna prova che l’avvocato abbia omesso di tenere in debito conto situazioni, informazioni, atti e documenti che avrebbero consentito un diverso inquadramento della fattispecie, è da escludersi la responsabilità del professionista; ciò in forza degli insegnamenti della Suprema Corte, secondo la quale “in tema di responsabilità dell’ avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia allorchè questi ignori o violi precise disposizioni di legge ovvero risolva erroneamente questioni giuridiche prive di margini di opinabilità” dovendo escludersi qualsiasi responsabilità “ in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e giurisprudenziali presentino margini di incertezza, in astratto o con riferimento al caso concreto, tali da ritenere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute” (Cass. 16846/2005)

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