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I vantaggi dell'unità d'Italia

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LA GUERRA CIVILE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE

Post n°1826 pubblicato il 30 Maggio 2011 da luger2
 

Ritrovato un antico scritto de La Civiltà Cattolica - Serie IV, vol. XI - 8 Agosto 1864

di padre Carlo Maria Curci S.J.

La guerra civile, che ingerisce vasta ed ostinata nel Regno delle Due  Sicilie, può fornire un argomento, se altro ne fu mai, palpabile e  convincentissimo, che la superstiziosa riverenza alla volontà popolare, onde  alcuni Potentati tolsero pretesto d'intromettersi nelle faccende di altri, non è  in sustanza che una pura e pretta ipocrisia, foggiata a strumento di ambizioni  smisurate e di tirannide faziosa. Deh! Quanti consigli ufficiali! Quante  insistenza ufficiose, a fine che quella pretesa volontà popolare in questo o  quello Stato italiano fosse satisfatta! Sono appena pochi giorni, e vedemmo il  Ministro d'una grande Potenza mettere a condizione del Potere temporale del Papa  il satisfacimento di quella stessa volontà del popolo, ricantando l'eterno  ritornello delle Riforme da largirsi a sudditi, i quali o non ne sanno, o non se  ne curano od eziandio di tutta la loro volontà le detestano.

 

Tanto rileva ai  burbanzosi paladini delle nobili idee che a nessun popolo si rechi violenza, che  tutti camminino in quella via di progressi umanitarii, sulla quale essi si  credono avere avanzato qualsiasi altro! Ed intanto otto o nove milioni di  creature umane sono lasciati straziare, assassinare, stritolare da armi  straniere, però solamente che non vogliono accettarne l'inviso giogo, né  rassegnarsi a vedersi orbati di quella patria dignità e di quella indipendenza  di Stato autonomo, in cui la Provvidenza gli ha costituiti e da secoli li  mantiene.

 

Quello che i Piemontesi stanno facendo in opera di forsennata  ferocia e di eccidii truculenti vince di molto ciò che fingesi aver mai fatto o  i Russi in Polonia o gli Austriaci in Lombardia, e non si divaria gran fatto da  ciò che i Turchi fecero nella Grecia, quando l'intera Europa s'impietosì sopra  le sventura di questa. Ma delle sventure napolitane e delle sicule chi è che si  curi? La fazione piemontese ha maggiori titoli alla tolleranza europea, che non  ebbero i Sultani di Costantinopoli, quantunque non ne siano meno nefande le  opere. Alle popolazioni manomesse da una guerra di esterminio, si sta dicendo  tacitamente che si aiutino da sé; e quando pure aiuto straniero, fisico o  morale, vi dovesse intervenire, è indubitato che per ora quell'aiuto non agli  oppressi sarebbe porto, ma agli oppressori: testimonio la ricognizione del nuovo  Regno, la quale solo ai secondi potea profittare, a detrimento dei primi.

 

 Intanto quelle popolazioni stanno mostrando al mondo che sanno aiutarsi da sé  più assai efficacemente, che il bellicoso Piemonte non si pensava; e le intere  legioni distrutte, ed i battaglioni disciolti, perché ricusatisi ad una lotta  troppo inuguale, e i loro duci anche tra i più alti, per la stessa ragione,  sommessi a consigli di guerra e puniti, e le borgate e le città e gl'interi  Distretti e quasi le intere province fuggite di mano al conquistatore, che vi  lasciava morti in gran numero e feriti e la propria memoria maledetta ed  esecrata; tutti cotesti fatti dicono troppo chiaro in loro favella quanto sia  naturale e desiderata questa unità italiana, inaugurata e mantenuta da tanto  fratellevoli tenerezze.

 

Queste scene di eccidii, di bruciamenti e di  distruzione, che ricordano le desolata ed insanguinata Vandea, appena possono  leggersi, senza sentirsi stretto il cuore da profonda pietà, e senza che l'animo  atterrito chiegga a se stesso qual nome meriti una setta scellerata che, a nome  della fratellanza nazionale, sguinzaglia ed aizza una parte della nazione a  sterminio dell'altra, perché il sangue dei manigoldi e delle vittime sia titolo  e strumento del suo dominio.

 

          Non può  prevedersi qual sarà l'esito di questa lotta disperata; ma se  il Regno e la Sicilia non saranno in questo primo commovimento il sepolcro dei  trionfi piemontesi, saranno a quella fazione prevalente tale spina ai fianchi, che  presto la farà pentire di avere spinto tant'oltre le folli sue ambizioni,  facendo così grosso boccone, che di necessità le si doveva attraversare nella strozza.

 Intanto alcune considerazioni, intorno ad un fatto sì  grave e sì fecondo, saranno utilissime a sempre meglio conoscere gli uomini ed i  principio che più influirono nei presenti scompigli della misera Italia;  soprattutto ad intendere che valga nel gergo moderno la protezione e la tutela  della volontà popolare. Con sotto agli occhi il già sì fiorente Regno di Napoli,  messo a sangue ed a fuoco dal Piemonte, solo perché non vuol divenire provincia  piemontese, le parole di qualche Ministro britannico o di qualche diplomatico di  altra Potenza, a favore delle volontà popolari dei Ducati, esempligrazia, o  delle Romagne, dovranno oggimai accogliersi col sorriso incredulo, onde  ascolterebbesi l'avaro persuadere l'elemosina.

E prima di tutto quanta melensaggine ci volle per credere, quanta  ipocrisia per mostrare di credere, che cinque Stati indipendenti ed autonomi volessero orbarsi  da loro medesimi della propria indipendenza ed autonomia, affine di  diventare province di un altro, che non vi avea altro titolo salvo la  smisurata ambizione del volerlo e l'astuzia più che volpina del procurarlo? Che popoli aspirino a stare  e far da sé, staccandosi da grandi corpi politici di cui  sono parte, è cosa non rara, e se ne ha innanzi l'esempio  nei conati rivoltosi dell'Ungheria, e nella risoluzione che gli Stati meriggiani  della Confederazione americana stan mantenendo colle armi, di separarsi  dai boreali.

 Ma che uno Stato indipendente con proprio Principe, con propria dinastia  regnante, con proprie leggi ed istituzioni e consuetudini, e pel caso degli  Stati italiani possiamo aggiungere con propria storia anche splendida, voglia  rinunziare a tutto questo per diventare parte più o meno cospicua, ma parte  sempre di un tutto non ancora costituito, è cosa tanto ripugnante alle umane  propensioni che per poco non dovria dirsi moralmente impossibile.

Certo noi  non sappiamo se un tal fatto abbia riscontro di esempio nella storia: ma è  indubitato che per gli Stati italiani non fu, non potè essere; e, per vane  ragioni, meno di qualunque altro ciò era possibile pel Regno delle Due Sicilie.  Il concetto unitario, essendo di fresca data tra noi, siccome quello che, a  confessione dei suoi più caldi propugnatori, germinò appena sugl'inizi del  corrente secolo in alcuni cervelli patriottici, non ebbe tempo, non che di far  presa nelle moltitudini, neppure di entrare nelle loro menti.

 

Gran cosa fu  se, vagheggiato da qualche politico o statuale speculativo, potè quel concetto  essere messo a partito nelle discussioni private o nei libri; ed in quelle ed in  questi i più savii ed i più famosi rigettarono senza più quell'idea, come  innaturale ed impossibile, quand'anche non vi fossero stati altri motivi da  rendesse eziandio iniqua e violenta l'attuazione.

 

 Dall'altra parte il decoro  ed i vantaggi del fare Stato da sé essendo pratici, vicini, sperimentati, e  quelli che si promettono dalla grande unità non si mostrando che lontani,  incerti ed accessibili solo a certe menti comprese dalla grandezza nazionale un  poco all'inglese, un poco alla pagana (che forse è tutt'uno); è indubitato che  per le moltitudini non potea avere alcuna attrattiva questa seconda maniera di  essere Politico, laddove quella prima ne avea moltissime e prepotenti.

 

 Che  se oltre a ciò si consideri come l'aspirazione alla unità italiana si è cangiata  nel fatto in conquista piemontese, s'intenderà agevolmente stranissima e  ripugnante ipotesi che è quella, per la quale si è voluto supporre che la  Toscana, gli Stati della Chiesa, i due Ducati e le stesse Due Sicilie volessero  cessare di essere Stati, per ottenere l'insigne privilegio di essere conquistate  colle armi dal Piemonte, e poscia di essere governate da esso con quel  dispotismo e con quel disprezzo, onde l'Austria non sognò mai di governare il  Lombardo Veneto.

 

 La quale impossibilità morale di quel voto, attribuito gratuitamente agli  Stati italiani, era a cento tanti più manifesta pel Regno delle Due Sicilie,  dove appena sariasi trovato qualche rarissimo che sommessamente osasse mormorare  quella proposta, la quale all'universale delle popolazioni sarebbe paruta  oltraggiosa e poco meno che proposta di suicidio. Il volersi sommettere ad  altrui od anche solo incorporarsi come parte di un tutto, è agli uomini  individui non meno che agli Stati tanto più ripugnante, quanto quelli e questi  sono più grandi, più sufficienti a sé stessi in tutto che si attiene alla vita  privata, alla civile ed alla politica.

 

Ora un Regno di presso a dieci  milioni di anime, forse la prima tra le minori Potenze, e per feracità di suoli,  per frequenza di commerci, per isvegliatezza d'ingegno privilegiato quanto forse  nessun altro paese di questo mondo, con esercito forte, con navilio  fornitissimo, colle private fortune in fiore, con erario non pur senza debiti,  ma ricco di parecchi milioni di sopravanzo, con fondi pubblicai più accreditati,  e però i più cerchi tra quanti ne fossero in Europa, con istituzioni governative  e con leggi che fonnarono l'ammirazione di quanti le vollero studiare, con  propria e splendida dinastia regnante, con un giovane Re, fiore di virtù e di  religione, frescamente montato sul trono dei padri suoi, ed alla cui bella  riputazione la calunnia non avea avuto il tempo di avventare il velenoso suo  dente; una tale Monarchia solo i pazzi avrebbero potuto pensare che sariasi  voluta distruggere da sé, per darsi, senza patti o condizione di sorta, al  piccolo Piemonte, che ne avrebbe fatto ciò che meglio gli sarebbe stato in  grado.

 

 Ed il Piemonte volle farne una provincia, niente altro che una  piccoletta sua provincia di dieci milioni di sudditi, o piuttosto un gruppo di  ventidue province, senza che Napoli o Palermo potessero presumere di valere  alcuna cosa di più che Campobasso, Potenza o Caltanissetta. Quelle due contrade,  nei tempi della meravigliosa ed unica grandezza spagnuola, portarono con non  piccola impazienza la suggezione politica ai Re cattolici, la quale pure era  condizione di mezzo mondo, e veniva lenita dal sentimento della giustizia, in  cui quella suggezione si fondava, dalla qualificazione abbastanza splendida di  Vicereami e dal mantenimento delle istituzioni napolitane e sicule, cui i due  popoli vollero ed ottennero comunemente mantenute. Nondimeno quella non parve  condizione che potesse durare lungamente; e Carlo III dovette venire alla  ristorazione del trono di Roberto e di Ruggiero, fondando o piuttosto rinnovando  la Monarchia delle Due Sicilie in uno dei due minori suoi figliuoli.

 

 Or si consideri, se popoli, ai quali non parea tollerabile la condizione di  Vicereami a rispetto della Spagna nell'auge della sua grandezza, abbiamo potuto  volere, a vero studio e ad occhi veggenti, diventare lontane province del  piccolo Piemonte! E chi vide mai farsi da senno società del ricco col povero,  del grande col piccolo, e quasi vorremmo aggiungere del savio col farnetico, per  modo che il grande, il ricco ed il savio si voglia mettere anima e corpo alla  mercé del piccolo, del povero e del farnetico? Ora niente meno di questo è uopo  che s'ingoi chiunque vuol credere possibile che le Due Sicilie abbiano voluto  annettersi o più veramente sommettersi, senza saper perché, al Piemonte.

 

Dirassi nondimeno che, ad onta di tutte coteste  ripugnanze speculative, in pratica la cosa fu fatta; e per gli adoratori del  successo e dei fatti compiuti non ci vuole altro, perché sia onestata  l'annessione però solamente che si riuscì a compierla. Ma trattandosi di un  mutamento, il quale, in sentenza dei suoi medesimi autori, non potea avere altro  titolo di legittimità che la volontà popolare, è cosa al tutto assurda e  ridicola che, in vece di argomenti che mostrino la realtà di quella volontà  medesima, o che almeno confutino le ripugnanze morali che se ne ragionano  apriori, si rechi il riuscimento, quasi fosse cosa impossibile ed inaudita che  quella volontà sia tradita ed oppressa, e quasi l'essere riusciti a spogliare od  uccidere altrui dimostri che quegli fu di sua piena volontà spogliato ed  ucciso.

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