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SIAMO RUNNER NON SUPEREROI

Post n°1516 pubblicato il 03 Marzo 2014 da kayfakayfa

 

La morte per infarto del quarantaquattrenne Fabrizio Bellucci alla Roma-Ostia di ieri è l'ennesima tragedia che si consuma durante una gara podistica. Sarà l’eventuale autopsia ad accertare quali sono state le cause del malore che ha colto all’arrivo l’atleta della Lbm Sport di Roma .

Ma il fatto stesso che anche durante la maratona e mezza maratona di Napoli di quindici giorni fa più di un atleta s’è sentito male all’arrivo o durante la gara con le ambulanze che andavano e venivano, impone una riflessione seria sulla questione.

Al di là del particolare non certo trascurabile che, crescendo in maniera esponenziale il numero di runner, aumenta parallelamente quello degli infortuni in gara, è altresì vero che sempre di più sono coloro che vivono la corsa non soltanto come mezzo per stare bene fisicamente e mentalmente ma come termometro per confrontarsi con se stessi e con gli altri.

Fino a quando si corre solo per stare bene, abbinando saggiamente all’attività sportiva una sana alimentazione, (inutile illudersi,  puoi macinare chilometri su chilometri alla settimana, se non ti metti a dieta non scendi di un grammo) la corsa è un piacere. Quando però decidi di partecipare a una 10 km, una 21 km, o una maratona,  malgrado la motivazione di fondo che ti spinga a farlo fosse il bisogno di ritrovarti insieme a chi coltiva la tua stessa passione per condividerne le emozioni, lo spirito agonistico prende il sopravvento e il divertimento si trasforma in ambizione, col rischio serio che in alcuni casi degeneri pericolosamente in frustrazione.

È in quei momenti che aumenta il rischio di farsi male perché il bisogno di superarsi e superare gli altri, anche di un solo secondo, ti spinge non solo ad allenarti e alimentarti in maniera diversa, più consona a chi decide di "fare il tempo", ma incominci a spingere il fisico sempre più in prossimità dei propri limiti stressandolo fino all'estremo al  costo di sentirti male.

Alla maratona di Napoli quante persone ho visto stese al sole dopo aver tagliato  il traguardo. Ma non perché stessero godendo la bella giornata, bensì perché s’erano sentite male subito dopo l’arrivo o mentre correvano.

Pur capendo le ragioni che spingono molti durante una competizione o un allenamento a spingersi a rasentare i confini delle proprie pontenzialità, rischiando di “spezzare il filo” che li lega alla vita, credo che la migliore prestazione che si debba ricercare se si corre per diletto, non potendo avere ambizioni agonistiche a livello professionale per raggiunti limiti d’età o per altri motivi, sia quella di migliorare la propria vita svolgendo una sana attività fisica. Nel senso che, soprattutto se si è sposati o comunque si condivide la vita con un’altra persona, bisogna tener conto delle contingenze quotidiane, degli obblighi che dobbiamo assolvere ogni mattina quando ci svegliamo per  il rispetto che dobbiamo a noi stessi e agli altri.

Capisco che per molti correre è una valvola di sfogo alle frustrazioni della quotidianità, al non essere riusciti a realizzare i propri sogni, scoprendo nella corsa un valido ma illusorio palliativo; al non sentirsi completamente se stessi perché la vita impone le proprie ragioni; per aver compiuto scelte esistenziali rivelatesi errate o comunque non soddisfacenti. Ma se poi questa valvola di sfogo deve risolversi drasticamente in una sforbiciata alla vita, solo per il bisogno morboso di dimostrae  a se stessi e agli altri di essere dei "campioni" capaci di andare al di là dei propri limiti, ne vale la pena?

Questo discorso non è riferito al caso particolare che ha trasformato in tragedia la Roma-Ostia, (non potrebbe esserlo visto che non conoscevo il povero Fabrizio) ma è generalizzato. Quanti runner  sottovalutano la visita medica, affidandosi a esami approssimativi o non facendola affatto, trovando alternative truffaldine per procurarsi il certificato medico da presentare all'iscrizione di una gara? Oppure trascurando le indicazioni del medico sportivo che impone di non fare più di due maratone all'anno a distanza di sei mesi l'una dall'altra perché per recuperare completamente da una 42 km al fisico occorrono mediamente 3/4 mesi, facendone mediamente una ogni mese, senza contare gli estanuanti  "lunghi" settimanali in allenamento?

Tali riflessioni mi sovvengono tutte le volte che mi ritrovo a correre con chi tende a trasformare ogni allenamento in  gara. Che senso ha ammazzarsi per poter poi dire “sono sceso sotto i …”, oppure “t’ho lasciato dietro”?

È vero, allenarsi impone grossi sacrifici la cui motivazione di fondo consiste nel “fare il tempo”; superarsi e superare gli altri altrimenti che senso ha allenarsi solo per il gusto di correre? Ma mettere a rischio la propria vita, condizionando anche quella di chi ci vuole bene, ne vale la pena?
La soddisfazione più grande, soprattutto per chi si cimenta in una maratona, non dovrebbe essere quella di arrivare al traguardo per farsi infilare la medaglia al collo?

L'impegno è una cosa, mettere al rischio la propria vita è tutta un'altra cosa.

Siamo runner non supereroi! 

 

 
 
 
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