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L’«altra» Paestum
L’intenso viola dei ciuffi di borragine chiazza il verde ancora pallido della primavera che oggi, meravigliosa giornata di sole, si è posata sulla Piana del Sele: sugli ampi coltivi a perdita d’occhio come a ridosso dell’ininterrotta sequenza di centri commerciali, bar, ipermercati, outlet e ristoranti che invariabilmente inalberano le parole magiche — «Mozzarella di bufala» — e promettono succulente colazioni» all’incessante teoria di automobilisti.
In pratica, da Pontecagnano a Battipaglia a Eboli a Paestum, è una sola città, ma tutta sviluppata lungo la statale. Oltre le due quinte di cemento, da una parte le pinete e la loro promessa di mare, dall’altra le terre alte che incominciano ad arrampicarsi sull’Appennino. Io adesso mi trovo in un punticino sperduto della campagna di Capaccio Paestum, a poche centinaia di metri dalla foce del Sele: un fiume che, a vederlo qui dove termina la sua corsa, s’immaginerebbe ben più lungo e maestoso di quanto in realtà non sia. È il Sele ad aver fecondato questa pianura, ad averla resa perfetta per l’agricoltura; ed è la sua acqua, insieme a quella di tanti più esigui ruscelli, ad aver creato nei secoli l’ambiente ideale per le bufale. Di paludi vere e proprie non ce n’è. Ma che questa sia una terra tendenzialmente acquitrinosa posso misurarlo da me posando i piedi sul campo al centro del quale stanno i resti dell’Heraion, il santuario di Hera Argiva. Calpesti i cardi selvatici, e l’effetto è quello di chi cammini su una spugna.
Proprio qui, d’altronde, soltanto nell’autunno scorso, si allagò tutto. Fu un’alluvione un po’ oscurata, sul piano mediatico, da quella del Veneto, ma del pari disastrosa. E tra ciò che ne fece le spese ci fu anche il bellissimo Museo narrante» che, ricavato da un’antica masseria, con veri reperti e tecniche digitali raccontava la storia e leggende del santuario. L’alluvione ha mandato in tilt i computer e danneggiato gravemente le strutture murarie. Il museo è ancora chiuso e non sa quando riaprirà, ma c’è da augurarsi che accada al più presto. Questo luogo, che in apparenza è davvero in the middle of nowhere, trasuda oltre all’acqua una storia di millenni. Cinque o seicento anni prima di Cristo, Greci e Lucani vi s’incontrarono per onorare la stessa divinità: Era, figlia di Crono e di Rea, sorella e poi consorte di Zeus, regina dell’Olimpo e patrona del matrimonio e della fertilità, il cui culto affondava le radici a Micene e Argo, nell’Ellade omerica, e si sarebbe trasferito a Roma mutando il nome di Era in quello di Giunone.
Una delle principali attrazioni di Paestum è per l’appunto il tempio di Era, noto anche come «basilica». E, ancora a Paestum, era quasi di sicuro dedicato a Era pure il tempio che si suole chiamare «di Nettuno» . Questo dimostra come tutta l’area, anche quella suburbana (la foce del Sele era collocata dal geografo Strabone a 50 stadi da Paestum) fosse consacrata alla grande dea. Un santuario fuori le mura, in una specie di territorio neutro, né Lucania né Magna Graecia, è di per sé un’idea di grande fascino: e a me, qui e ora, par quasi di vederla questa processione, questo lento ondeggiare di pepli e di tuniche che, uscito dalla città dove le rose fiorivano due volte l’anno, procede da Sud in fila dietro la statua votiva della dea. Nell’Heraion, del resto, fu rinvenuta una statua di Era (ora al museo archeologico di Paestum), che in una mano regge il melograno, frutto dalla complessa simbologia, a coprire un vasto campo di significati che includono la fecondità e la morte.
E siccome nulla, nella storia dell’uomo, è destinato a scomparire definitivamente, ecco che proprio quel simbolo rinvia a una persistenza dell’antico che, alla foce del Sele, ancor oggi possiamo misurare nella sua vertiginosa continuità. Se dall’Heraion alzo gli occhi, ecco infatti che in alto, a Sud Est, inquadro la mole rosata di un altro santuario, medievale stavolta, che sta sulla collina poco discosto dal paese di Capaccio. È il santuario della Madonna del Granato: e indovinate che cosa regge in una mano la statua della Vergine. La chiesa risale al XII secolo, conserva un bel pulpito al di sotto del quale brillano i vividi colori di un affresco di gusto gotico. La Capaccio di sopra (quella di sotto, più grande, è Capaccio Scalo) sorse verso l’VIII secolo dell’era cristiana allorché gli abitanti di quel che rimaneva di Paestum, perseguitati dalla malaria e dalle incursioni saracene, decisero di abbandonare la costa e rifugiarsi in collina, presso le sorgenti di quello stesso fiume (il Salso) che aveva impaludato l’antica piana.
Capaccio è dunque «l’altra faccia», la meno nota, di un sito ricchissimo di suggestioni storiche. E se non c’è alcun bisogno di celebrare i templi o il museo di Paestum, vale la pena di spendere qualche parola per quest’«altra» Paestum, che è sì quella più «nuova», ovverosia l’unica conosciuta fino a metà del Settecento, quando i templi della piana ritrovarono un posto di rilievo nelle mappe dei viaggiatori; ma che oggi, dopo che la piana costiera è diventata terreno di un assai concitato sviluppo turistico, risulta pure quella più appartata e, in definitiva, più «antica», autentica e assai meno conosciuta. Si salga, dunque, a Capaccio, se ne ammirino le chiese (tra cui quella paleocristiana dell’Annunziata) e i decorosi palazzotti. Si goda, soprattutto, del magnifico panorama che abbraccia l’intero golfo di Posidonia, da Agropoli fino a Salerno e alla Costiera amalfitana. Pur con tutto quello che c’è da vedere qui intorno, basterebbe quest’unica vista a giustificare una visita.
di Francesco Durante (Corriere del Mezzogiorno)
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