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Un terrazzamento naturale collocato a mezza costa sulla collina di Poggioreale affacciantesi sulla paludosa e inurbanizzata periferia orientale della città partenopea: è questo il sito scelto da Ferdinando Fuga per impiantare, nel 1762, il Cimitero delle 366 fosse. Primo complesso funebre edificato per accogliere le salme della classe meno abbiente della capitale del Regno delle Due Sicilie. "Macchina architettonica" di matrice razionalista concepita per ospitare la morte, complementare quindi al vicino e mastodontico Albergo dei Poveri ideato, nel 1751 dall'architetto fiorentino su richiesta di Carlo di Borbone, per accogliere la vita del popolo indigente. Si provvede, sotto la reggenza di Ferdinando IV, alla "sistemazione di massa" delle numerose salme di indigenti che, quotidianamente, venivano gettate nella fossa dell'Ospedale degli Incurabili (Ospedale tuttora operante, fossa chiamata Piscina, nota per il suo utilizzo e per l’eliminazione dei morti durante l'epidemia di peste del 1656), o nella caverna sottostante la vicina chiesa di Santa Maria del Pianto. o seppellite senza alcun ordine nelle aree rurali e periferiche della capitale. Ferdinando Fuga propone un impianto architettonico definito da un lungo edificio in linea che prelude ad un retrostante spiazzo quadrato, a cielo aperto, recintato da alte mura. Tale corte funebre è caratterizzata dalla presenza di 366 fosse comuni, ognuna chiusa da una pietra tombale numerata, nelle quali venivano "gettati", quotidianamente, resti mortali dei poveri: un recinto cimiteriale caratterizzato da una chiara essenzialità geometrica perfettamente rispondente, a livello simbolico, alle esigenze egualitarie di un'architettura immaginata, progettata ed infine costruita per dare dignitosa sepoltura anche alla classe sociale più bisognosa del Regno. Coerentemente con la sobria impostazione generale affidata al sistema compositivo, Ferdinando Fuga che realizzò l’opera con l’introduzione di criteri di razionalizzazione delle sepolture del tutto coerente con lo spirito dell'"epoca dei lumi", predispone all'interno del recinto funebre una spoglia piazza quadrata, lastricata diagonalmente da conci rettangolari di pietra lavica grigia. Dalla tessitura diagonale della pavimentazione emergono trecentosessanta pietre tombali ognuna delle quali di forma quadrata e della dimensione di ottanta centimetri per lato. Su ogni pietra tombale compare un numero in cifra araba scolpito a mano, in bassorilievo, ed inscritto in un cerchio. Altre sei pietre tombali sono collocate sul pavimento dell'edificio rettangolare, al chiuso, nella zona corrispondente all'atrio d'ingresso. In totale si ottiene un numero di trecentosessantasei pietre tombali cui corrispondono altrettante singole fosse, a pianta quadrata, profonde circa sette metri. Le trecentosessantasei fosse sono cosi ripartite: trecentosessanta sono collocate nella corte a cielo aperto allineate in numero di diciannove su diciannove file. Nello specifico la sequenza numerica delle fosse viene organizzata secondo un ordine bustrofedico: la prima fila, a nord, è numerata da sinistra a destra; viceversa, la seconda fila, è numerata da destra verso sinistra. In tal modo il giorno seguente all'utilizzazione dell’'ultima fossa di una qualsiasi fila i becchini del cimitero aprivano la pietra tombale della fila successiva collocata immediatamente al di sotto di quella usata il giorno precedente. Le restanti sei fosse, dal trecentosessantuno al tre-centosessantasei, trovano ospitalità al coperto, nell'edificio a pianta rettangolare. Il sistema di costruzione della piazza, coincidente con l'ossario del cimitero, è definito da una struttura muraria a maglia ortogonale ipogea. Era anticamente chiamato anche Cimitero dei Tredici, per la deformazione del nome del comandante delle truppe Francesi di stanza nella zona, sulla collina di Poggioreale, durante la guerra franco – asburgica comandate dal Visconte Odetto de Foix Lautrec, che fu napolanizzato prima in Lautrecco, poi più semplicemente Lo Trecco ed infine divenne per bocca del popolo definitivamente Trivece, per essere poi italianizzato in Tredici) è il più antico cimitero di Napoli, oggi dismesso. Le modalità di inumazione, nei primi momenti, furono quelle di “gettare” il corpo del defunto a mano, nella sua rispettiva buca, mentre fu poi adottata un attrazzo per adagiare la salma nello spazio sottostante, in modo che venisse adottata una prassi che rispettasse il ritegno dovuto. Il macchinario in ferro, consisteva in un argano, che rese la sepoltura meno traumatica ed indimenticabile. Tale trabiccolo. l'argano, venne donato nel 1875 da una baronessa inglese, che aveva perso la figlia colpita da un'epidemia di colera e per facilitare le operazioni di sepoltura, lo consegnò definitivamente in affidamento all’Arciconfraternita di Santa Maria del Popolo degli incurabili, che allora gestiva il complesso funerario. La donna, rimasta particolarmente scossa dalle rozze pratiche di tumulazione adottate nel cimitero, fece costruire dalla migliore fonderia napoletana questo geniale meccanismo di deposizione, ancora oggi visibile nello spazio interno del santuario funerario, attraverso cui il defunto, adagiato in una bara in ferro, veniva calato verticalmente tramite una carrucola. Quando il feretro toccava l’estremità dello spazio, un meccanismo apriva uno sportellino e il corpo della salma si adagiava così sul piano della fossa per essere degnamente custodito nei meandri dell’eternità. Il cimitero è stato chiuso nel 1890 ed ha accolto più di settecentomila corpi. Oggi non più in uso necessita di interventi di restauro e sistemazione che vanno oltre la manutenzione corrente. Ancor oggi i custodi appartengono alla stessa famiglia che ebbe in origine l'incarico.
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