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150 anni di Primati "Negativi"
La perdita del ruolo di capitale dopo l’unità d’Italia è stato per Napoli l’inizio di una decadenza che ancora non si è fermata dopo 150 anni. Dai primati positivi ed erano tantissimi, la città è passata a quelli negativi, mentre una sistematica opera di falsificazione della realtà è stata portata avanti da storici collusi col potere, il cui verbo distorto è stato propagandato in tutti i libri, divenendo programma di insegnamento nelle scuole.
I conquistatori piemontesi cambiarono i nomi a strade e piazze per cancellare ogni traccia del passato, imponendo toponimi legati alla loro dinastia ed al nuovo corso degli avvenimenti.
L’unica possibilità di riscatto e di ripresa per Napoli ed i napoletani è oggi legato alla volontà di riappropriarsi del suo passato glorioso e della loro identità perduta.
Interminabili furono i record del Regno delle due Sicilie al cospetto di quelli negativi di oggi, da capitale della monnezza a territorio incontrastato della criminalità organizzata.
Un segno tangibile di inversione di tendenza sarebbe quello di cambiare il nome di alcune strade, per cancellare le tracce della colonizzazione piemontese avvenuta con la truffa dell’Unità d’Italia: piazza del Plebiscito dovrebbe tornare al toponimo di Largo di Palazzo, via dei Mille andrebbe mutata in corso Gianbattista Basile o meglio ancora Achille Lauro, piazza Garibaldi, tolta al famigerato eroe dei due mondi, origine di tutti i nostri guai, va decisamente intitolata al 3 ottobre 1839, giorno dell’inaugurazione della prima linea ferroviaria italiana, la Napoli Portici, mentre il corso Vittorio Emanuele, la prima tangenziale del mondo, aspetta ancora giustizia e la dedica al nome del suo ideatore, Ferdinando II, che la realizzò in poco più di un anno.
Infatti nel 1853 il re borbone Ferdinando II realizzava in pochi mesi un’arteria di cinque chilometri, che, superando delicati problemi orografici, metteva in collegamento la parte occidentale della città con la parte orientale, permettendo l’urbanizzazione di vaste aree.
L’opera fu apprezzata in tutta Europa per le soluzioni tecniche e la velocità di esecuzione. I napoletani cavallerescamente vollero dedicarla alla regina Maria Teresa, ma il toponimo ebbe breve durata, perché subito dopo l’unità d’Italia, i Savoia decisero che un nuovo nome: corso Vittorio Emanuele, dovesse ricordare il loro re conquistatore dell’antico regno, anche se la strada era stata realizzata da un altro sovrano.
Questa appropriazione indebita è passata sotto silenzio per 150 anni, ma è giunto il momento per fare giustizia di questi soprusi del passato, grazie al certosino lavoro di coraggiosi storici che, lentamente, ci stanno insegnando a rivalutare la nostra storia gloriosa.
Un invito perentorio va avanzato perciò al sindaco di voler dedicare questa strada a chi l’ha ideata e realizzata nell’interesse della sua amata città: Ferdinando II.
Identico discorso va fatto per il biglietto da visita che la città offre ai forestieri, la quale si è sempre chiamata della Ferrovia, anche se i napoletani preferivano chiamarla da’ stazione. Poi giunse Garibaldi con i piemontesi è la musica cambiò, ma soprattutto cominciò l’opera di falsificazione sistematica della nostra storia; infatti il luogo così caro ai napoletani assunse prima, nel 1891, la denominazione di piazza dell’Unità d’Italia, per divenire poi, nel 1914, in coincidenza con l’inaugurazione della statua dell’eroe dei due mondi, piazza Garibaldi.
Ricordo ancora con commozione quando alla testa di un gruppo di cittadini, esasperati dalle lentezze burocratiche, fisicamente sovrapposi a quelle del comune targhe nuove di zecca con l’indicazione di piazza 3 ottobre 1839, una data fatidica della storia napoletana, che i nostri colonizzatori hanno fatto di tutto per farci dimenticare. In quel lontano giorno, prima in Italia e seconda al mondo, sfrecciò la prima ferrovia italiana: la Napoli - Portici.
Avevo informato stampa e televisioni delle nostre intenzioni e scelsi come giorno il 4 luglio, bicentenario della nascita di Garibaldi. Presa in prestito una scaletta da un negoziante di tessuti, applicai la nuova scritta ed improvvisai un discorso alla folla, immortalato da 12 emittenti private, che trasmisero in differita l’episodio agli spettatori di diverse regioni, mentre i giornali ne parlarono il giorno dopo entusiasti. La notizia della burla giunse fino in Francia sulle pagine di Le Monde. Due vigili urbani, un uomo ed una donna, incuriositi dall’assembramento, chiesero timidamente alla folla cosa stesse succedendo. Qualcuno rispose: “Quel signore ha cambiato il nome alla piazza”; “Allora va bene, tutto a posto”. Le nuove targhe sono rimaste in loco per mesi, senza che nessuna autorità intervenisse e solo la pioggia le ha portato via.
L’anno scorso l’impresa è stata ripetuta da un’organizzazione neo borbonica, sempre senza riuscire a smuovere l’amministrazione comunale dal suo torpore criminale.
L’unica possibilità di riscatto e di ripresa per Napoli ed i napoletani è oggi legato alla volontà di riappropriarsi del suo passato glorioso e della loro identità perduta.
Attendere che a ciò provvedano le istituzioni è pura utopia, per cui solo dei liberi cittadini possono sanare una palese ingiustizia.
Tutto il mondo deve sapere che i napoletani sono gente antica e paziente, ma che in passato la città ha rifiutato l’Inquisizione e dato i natali a Masaniello; essa non vuole recidere le radici col passato e vuole un futuro migliore.
Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri, passeggiamo sulle strade selciate dove posò il piede Pitagora, ci affacciamo ai dirupi di Capri appoggiandoci allo stesso masso che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche melodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba, ma soprattutto sappiamo ancora distinguere tra il clamore clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo ed il frangersi del mare sulla scogliera sottostante.
Avere salde tradizioni e ripetere antichi riti con ingenua fedeltà è il segreto e la forza dei Napoletani, gelosi del loro passato ed arbitri del loro futuro, costretti a vivere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente, del quale ci siamo scocciati e da oggi vogliamo divenire attivi artefici del nostro destino.
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