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La politica di sfruttamento dei “fratelli d’Italia” nei confronti dell’ex Regno di Napoli fece esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: “Intere famiglie veggonsi accattar l’elemosina; diminuito, anzi annullato il commercio; serrati i privati opifici. E frattanto tutto si fa venir dal Piemonte, persino le cassette della posta, la carta per gli uffici e per le pubbliche amministrazioni. Non vi ha faccenda nella quale un onest’uomo possa buscarsi alcun ducato che non si chiami un piemontese a sbrigarla. Ai mercanti del Piemonte si danno le forniture più lucrose: burocrati di Piemonte occupano tutti i pubblici uffizi, gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani. Anche a fabbricar le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali oltraggiosamente pagansi il doppio che i napoletani. Ed era ancora l’anno 1861, anno primo della liberazione, quello che oggi dovremmo festeggiare. Subito dopo l’annessione (1861) iniziarono i grandi progetti per le opere di infrastrutture, e queste sono le cifre: Nel 1887 il Banco di Napoli si rifiutò di garantire il debito del Banco di Sconto e Sete di Torino sull’orlo del fallimento; il Governo ne sciolse il Consiglio di Amministrazione e inviò un commissario governativo, e quando costituirono la Banca d’Italia, alla quale per statuto potevano partecipare solo le banche, nella spartizione delle azioni, al Banco di Napoli (maggior finanziatore) ne concessero solo 20.000 su 300.000, mentre alla sola Liguria ne furono assegnate 120.000, e come se non bastasse alla BNL fu concessa, per legge, la possibilità di aprire filiali in tutta Italia, mentre veniva vietata la stessa operazione al Banco di Napoli. Dal 1861 al 1890 le tasse, solo nel Sud, si decuplicarono, per esempio la Sicilia passò da un prelievo fiscale di 32 milioni a 300 milioni. “Mi restringo a pregarlo a fare ogni sforzo onde si acceleri la formazione delle circoscrizioni elettorali, vedendo modo di darci il minor numero di deputati napoletani possibile. Non conviene nasconderci che avremo nel Parlamento a lottare contro un’opposizione formidabile [...]“. Poi arriva la Grande Guerra, che se da un lato portò milioni di morti, dall’altro portò ancora una volta ricchezze alle loro aziende, e tanto per cambiare sempre a discapito delle nostre, come ad esempio ciò che restava delle industrie navali belliche nel Mezzogiorno, malgrado la loro superiorità tecnica, non ebbero commesse da parte dello stato e quindi furono costrette a chiudere, così come dovranno chiudere, a causa dei dazi altissimi messi ad hoc dal Piemonte, tutte le industrie di trasformazione agroalimentari (preferirono le nordiche che nel frattempo si erano sviluppate soprattutto con i macchinari del Sud). La suddivisione dei dollari ricevuti con il Piano Marshall fu una vera vergogna: le 7 regioni meridionali che avevano avuto danni di guerra molto più ingenti che nel Nord, ebbero il 10%, mentre il Nord fece la parte del leone: si prese tutto il restante 90%. la Lombardia ebbe US $ 1.366.507 e la Calabria la misera cifra di US $ 14.685! “E sempre nell’immediato Dopoguerra, il 23 giugno del 1946, la neonata Repubblica democratica Italiana, firmava un trattato con il Belgio che portò a scambiare “forza lavoro italiana con carbone e legna” e che prevedeva il trasferimento di 50.000 lavoratori italiani, sotto i 35 anni, in buono stato di salute, per 12 mesi di contratto, in cambio di 200 Kg di carbone al giorno garantito all’Italia. Un’unitarista convinto come Giustino Fortunato, nella lettera a Pasquale Villari del 2 settembre 1899, scriveva: «L’Unità d’Italia… è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali». L’economista piemontese Luigi Einaudi, secondo Presidente della Repubblica Italiana, nel 1954, scrisse: “Sì, è vero che noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano dopo la conquista dell’Unità e dell’indipendenza nazionale. Peccammo, è vero, di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio nazionale e ad assicurare alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale. Noi riuscimmo così a far affluire dal Sud al Nord una enorme quantità di ricchezza”. Il Sud area geografica per piazzare le merci del Nord e per la fornitura di braccia e clienti, e quando si spende al Sud bisogna fare in modo che i soldi tornino al Nord: per creare le industrie giù (e siamo ai giorni nostri) lo stato dà i soldi al Nord e ai nordisti, che incassano e spariscono lasciando sul territorio migliaia di padri di famiglia disperati senza lavoro, con la complicità infame del politico servo meridionale di turno. Fu questa la bravura della classe imprenditrice del Nord? La ricchezza del Nord nacque per le capacità imprenditoriali e manageriali? O per pura rapina? O forse perché è facile avere ragione quando si decidono le regole? Ed a regole inverse come sarebbe oggi il Nord?». ( P. Aprile) di Michele Bisceglie
A facchini della dogana, a camerieri, a birri vengono uomini del Piemonte. Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra di conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le provincie meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perù e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala”.
Scrisse Del Boca: «Il Piemonte, con la sua rete di funzionari, portaborse e burocrati onnivori, lasciò il Meridione conquistato, avvilito, depresso e spogliato di ogni avere. Con la scusa dell’Unità d’Italia rubarono tutto.
E dove non riuscirono a battere moneta secondo i loro desideri, per insipienza e imbecillità distrussero le attività economiche che, nonostante tutto, funzionavano». Delle ricchezze delle banche e dell’imponente struttura industriale del Meridione ne ho parlato nei capitoli precedenti, quindi, seguendo un percorso tracciato da Aprile, Zitara, Dicè, mi cimenterò in un volo pindarico attraverso questi ultimi 150 anni, cercando di dimostrare perché il Sud ne sta pagando le conseguenze e come il popolo meridionale è stato umiliato e considerato colonia fino ai giorni nostri.
E ancora: le banche del Nord, per legge, non potevano convertire in oro la carta moneta, mentre al Banco di Napoli fu imposto questo capestro, che praticamente significava che le banche piemontesi stampavano carta moneta e la permutavano in oro a Napoli.
Nell’ambito culturale: nel 1861 c’erano 7 milioni di analfabeti nel Nord contro 5 milioni nel Sud, nel 1951 invece si contarono 1,7 milioni nel Nord contro 2,5 milioni nel Sud, e queste furono le cause: dal 1861 al 1876 chiusero il 99% delle scuole, e subito dopo per finanziare l’istruzione inferiore, loro si presero 2,32 lire per cittadino, a noi diedero 1,25 e alla Calabria ancora meno, quindi se con i Borbone c’erano 4 università, nei 40 anni successivi si troverà con la sola sede universitaria di Napoli (fondata da Federico II nel 1224), mentre nel Nord, città come Macerata, Sassari, Siena, Modena, Parma, Pisa ebbero l’università e si opposero ferocemente per aprirne una a Bari (a Milano la prima università, il Politecnico, fu fondata solo nel 1863 ed il primo ingegnere si laureò nel 1870).
E non contenti, concessero all’Università di Napoli, che aveva 5.200 iscritti, la metà dei contributi che concessero a Roma che ne aveva 1.700! «Tolsero i finanziamenti per le scuole, tolsero gli insegnanti, tolsero le scuole stesse, e poi ci accusarono di essere “caffoni analfabeti e bedduinii”».
La gente doveva pagare per ogni bestia da tiro che possedeva, per il materiale di edilizia che comprava e per la farina che faceva macinare nei mulini.
In compenso mentre venivano finanziate opere pubbliche al Nord, al Sud restavano inezie: 150.000 lire in Piemonte per il 1889 e 10.000 per la Sicilia. «Dal 1876 una legge dava sussidi ai comuni piccoli e poi a quelli poveri, perché piccoli; così il Sud, ove prevalevano i centri popolosi (erano il doppio del Nord) ma poveri, “sfortunatamente” si ritrova fuori da entrambe le leggi: la Lombardia riceverà 79,44 lire ogni abitante, la Calabria 12,79».
Dal 1861 in poi mettono in piedi il loro tessuto industriale con aiuti economici agli imprenditori drenando il denaro dal Sud. Nascono in quegli anni, con costi pubblici ma con guadagno privato, l’Ansaldo (il proprietario era Bombrini, anche Presidente della Banca Nazionale, ed il debito di 16,5 milioni di lire che aveva contratto con la suddetta Banca, fu graziosamente condonato agli eredi alla morte dello stesso) la Pirelli, la Breda, la Montecatini e la Fiat, la quale nel 1907 attraversò, a causa di madornali errori di produzione, di amministrazione e di gestione commerciale, una situazione finanziaria drammatica; intervenne la Banca d’Italia e, con un aumento di capitale sociale fece evitare il fallimento, nel mentre Giovanni Agnelli ed altri dirigenti venivano denunciati per falso in bilancio, aggiotaggio e truffa.
Il processo si concluse con l’assoluzione. Ma non furono solo l’Ansaldo e la Fiat ad essere salvate, salvarono tutto il gotha industriale dell’epoca, cosi come qualche anno prima salvarono l’On. Bastogi per lo scandalo della Ferrovia del Sud su tangenti e mazzette (oggi la Bastogi Spa è quotata in borsa), ed in quello scandalo vi fu coinvolto, ma non ufficialmente ed insieme ad altri 30 senatori, oltre al Presidente del Consiglio Crispi, anche il barone Giovanni Baracco, senatore del Regno d’Italia, il quale spese molto poco per il suo Sud e tantomeno per la sua città natale: Crotone. D’altronde Camillo Benso di Cavour, in una lettera del dicembre 1860 a G.B. Cassinis, si era raccomandato di avere una rappresentanza meridionale ridotta e addomesticata:
I deputati meridionali che giunsero a Torino, dal febbraio 1861, erano tutti accesi filopiemontesi e avevano avuto una parte molto rilevante nel favorire la conquista savoiarda prima screditando il governo meridionale e poi collaborando all’invasione. La maggior parte, pur di rimanere nel gruppo di potere, chiuse tutti e due gli occhi di fronte all’annientamento economico e civile del Sud con un atteggiamento che è perdurato fino ai giorni nostri.
Poi il Fascismo, con la battaglia del grano, darà il colpo di grazia alla agricoltura meridionale: là dove le viti e gli uliveti primeggiavano da millenni, furono sradicati e sacrificati al grano, portando ancor meno reddito di quel poco che già i contadini avevano.
Ciò sarà causa di altri milioni di emigranti in America e nelle “colonie africane”, ma per emigrare i meridionali, e solo quelli, dovevano ancora pagare la “tassa per l’espatrio”, altrimenti non si usciva dall’Italia.
Per bonificare le paludi malariche, in quel periodo, spesero 936 milioni in Emilia, 576 milioni in Veneto e solo 47 milioni in Basilicata, e poi, le terre bonificate del Sud, le diedero ai lombardi veneti (e pensare che almeno il fascismo bonificò le terre malariche e diede qualche industria, lavoro, scuole, ed infrastrutture fino ad allora negate al Sud).
Il regime però non dimenticò gli imprenditori del Nord, che dopo la Grande Crisi del 1929, per salvarli ancora una volta, nel 1933, crea l’IRI, che acquista a prezzo pieno dalle banche le industrie fallite o prossime al fallimento, le ricapitalizza e le restituisce ai proprietari, quasi “gratis”. Questa prassi arriva ai giorni nostri con la “svendita” dei gioielli di casa nostra: Telecom, Cirio, Mondadori, Piaggio, Autostrade Spa agli imprenditori “senza soldi”, e ancora una volta salva le Banche creditrici: tanto paga Pantalone, anzi Pulcinella! (che è meridionale).
«Ma non finisce qui: nel Dopoguerra (Seconda Guerra mondiale), lo stato andò incontro agli industriali del Nord (a scapito di quelli del Sud): le leggi sulla ricostruzione industriale n° 362 del 1/1/44; 449 del ’46; 1419 e 1421 del ’49 ecc., concessero l’80,15% al Nord ed il 16,05% al Sud. Le “leggi prestito” del ’48, ’49, ’50 concessero l’82,39% al Nord. I piani per la ricostruzione dal 1945 al 1950 il 78,99% al Nord».
In quello stesso periodo l’Italia fu “invasa” da migliaia di turisti, quindi al Nord si decise di sviluppare questa nuova (per il Nord) industria concedendo agli albergatori dell’Adriatico condizioni bancarie e privilegi con tassi e agevolazioni che il Sud non ha mai avuto; chiaramente dimenticando ancora una volta le nostre belle regioni, forse più interessanti dal punto di vista paesaggistico.
Tutte le leggi, i decreti ed i favori che hanno salvato “i capaci industriali del Nord” dal 1861 ad oggi, sono impossibili da elencare, ma per chi avesse voglia di conoscerle tutte consiglio gli scritti di Nicola Zitara.
Nell’immediato Secondo Dopoguerra, il presidente di Confindustria, Costa, si oppose alle richieste del sindacalista Di Vittorio che chiedeva di investire parte dei soldi Marshall per un minimo sviluppo industriale nel Sud: «È assurdo: …è più conveniente trasferire manodopera verso Nord», gli rispondeva l’illustre Presidente, ed incrementava gli investimenti nel triangolo industriale Genova Torino Milano…. e ricominciava nuovamente un altro tragico esodo per milioni di famiglie meridionali. «Così Torino prima si prese il Meridione e poi i meridionali. L’accanita resistenza degli industriali settentrionali all’industrializzazione del Sud è durata fino al 1962… E dopo averci impedito di “ fare” ci accusano di “non fare”». (Pino Aprile)
«In quegli anni partirono per il Belgio 140.000 lavoratori, 18.000 donne e 29.000 bambini, moltissimi di loro erano di San Giovanni in Fiore, Caccuri, Cerenzia, Castelsilano, Santa Severina, Rocca Bernarda, Savelli, Scandale, di tutta la Sila e dell’intero Marchesato di Crotone. Un fiume di Calabresi giunse in Belgio con i convogli ferroviari che partivano da Milano. È ancora viva in San Giovanni in Fiore la tragedia di Marcinelle, in cui morirono 262 minatori, dei quali 136 erano florensi; ma non fu l’unica sciagura che investi la comunità silana: nel 1906 ci fu il disastro di Monongah (West Virginia) USA, nel 1913 e nel 1923 quello di Dawson (New Mexico), nel 1963 a Mattmark nelle Alpi Svizzere ne morirono molti altri. Tutta la Calabria pagò un prezzo altissimo per l’ingordigia dei “fratelli d’Italia”, e la stragrande maggioranza della popolazione di questa terra ancora oggi è sparsa per il globo, alla ricerca di possibilità negate e dignità nel lavoro». (www.emigrati.it)”
Gli fece eco Gaetano Salvemini (1900): «Se dall’Unità d’Italia il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata… è caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone». Sempre Fortunato in un’altra lettera del 1923 diretta a Salvemini scriveva: «Non disdico il mio “unitarismo”. Ho modificato soltanto il mio giudizio sugli industriali del Nord. Sono dei porci più porci dei maggiori porci nostri. E la mia visione pessimistica è completa».
(tratto dal libro “1861-1871. Dieci anni di storia nascosti”, 2011, Falco Editore, www.falcoeditore.com)
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