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I vantaggi dell'unità d'Italia

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Così le balle dei risorgimentali hanno distrutto il mito del Risorgimento

Post n°2125 pubblicato il 21 Febbraio 2012 da luger2
 

Risorgimentono, tutti quelli che la menano col Risorgimento e che non ci daranno requie fino a 2011 avanzato. Sono bugiardi, falsi, mentitori, e grazie al dizionario dei sinonimi potrei continuare ma ci siamo capiti. Fossero almeno in buona fede, ma ormai a certe fole ci credono solo i quattro reduci repubblicani della Romagna mazziniana che fu. Sarà mica un caso che il cinema, 
arte propagandistica per eccellenza, su questo argomento la propaganda non la riesce a fare: né il Martone di “Noi credevamo” né i fratelli Taviani di “Allonsanfan” sono leghisti o papalini o neoborbonici, anzi, eppure i risorgimentisti vi risultano tetri fanatici. Le bugie hanno le gambe corte, 
impossibile farle correre per un intero lungometraggio. Nemmeno il regime fascista riuscì a riempire le sale dove si proiettava “1860” di Blasetti, altro fior di regista alle prese con un pubblico italiano che il mito risorgimentale non se lo beveva, non se lo beve e a questo punto non se lo berrà mai più. Il finale di quel film anni Trenta mostra, con sfrontato anacronismo, le camicie 
nere sfilare davanti alle camicie rosse, per mostrare la filiazione. Ha quindi ragione lo storico Alberto Mario Banti a sottolineare il legame tra i due movimenti, accomunati dal nazionalismo come dal romanismo, la mania per l’antica Roma.

Gli italiani non riescono a cantare “Fratelli d’Italia” non per colpa della musica, né più brutta né più bella di tante altre, ma per colpa delle parole, oscillanti tra menzogna e ridicolo. Mettere in bocca “Siam pronti alla morte / l’Italia chiamò” a un popolo notoriamente fugace assomiglia a un brutto tiro e poi, se vogliamo parlare di storia: che cosa c’entra l’elmo di Scipio? Una superballa, l’Italia discendente diretta di Roma, e forse la più pericolosa perché a millantarsi eredi di grandi soldati si finisce col crederci e si rimediano sonore batoste, come si è visto. Può acconciarsi a cantare l’
incantabile inno solo un calciatore con le telecamere puntate in faccia per scrutargli il labiale, consolandosi col pensiero del nuovo Porsche Cayenne alla faccia degli ultras costretti ad arrangiarsi con le mameliane Fiat. La nostra classe dirigente credo sia la più esterofila d’Europa e vederla riempirsi la bocca con la parola nazione ha qualcosa di rivoltante. Che non gliene possa 
fregare di meno lo dimostrano le sue automobili, i suoi viaggi, i suoi vestiti, i suoi inchini a Bruxelles, il suo compiaciuto asservimento alla lingua inglese.

Se mi chiedono che cos’è l’Italia io rispondo l’italiano. Che cos’altro ci contraddistingue? La religione, ammesso che gli italiani abbiano una religione, è quella di molti altri paesi. La bandiera è uguale o semiuguale alle bandiere ungheresi, irlandesi e messicane (siamo un popolo talmente geniale che in quanto a originalità ci siamo fatti battere dall’Albania). Nemmeno la forma-
penisola è un’esclusiva, anche la Grecia è una penisola, anche la Danimarca, la 
Corea. Resta appunto l’italiano che siccome è l’unico baluardo identitario viene minato da chi dovrebbe difenderlo. Adesso per esempio c’è la corsa, da Venezia a Salerno, da Bologna ad Aosta, a chiamare “people mover” le navette del trasporto urbano, da parte degli stessi politici che l’anno prossimo si presenteranno tricolorati agli appuntamenti del centocinquantennale. Razza di 
vipere. Ipocriti. Rettili. Non capisco lo storico Sabbatucci quando dice che “il principio nazione non va abolito, ma solo declinato in modo meno forte e affermativo”. E’ impossibile che i discorsi di cartapesta delle alte cariche istituzionali resuscitino un nazionalismo muscolare. Ai risorgimentitori si applaude solo per abitudine, nessuno partirà più alla volta di Fiume, stia tranquillo.

di Camillo Longone

 
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