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Risorgimento siciliano

Post n°1546 pubblicato il 10 Marzo 2011 da luger2
 

Il Risorgimento, in Sicilia, ha dato luogo a un grande equivoco.  Tanti siciliani pensavano che, con l'Unità d'Italia, avrebbero conquistato la libertà.  Tra questi c'erano i padri nobili del Risorgimento, da Ruggero Settimo a Carlo Cottone principe di Castelnuovo, da Mariano Stabile a Michele ed Emerico Amari e via continuando. Ma assieme a questi c'erano i rappresentanti dei ceti poveri - che allora erano i contadini trattati come schiavi - che speravano di ottenere condizioni di vita migliori. Rimasero delusi i primi (con l'eccezione di quelli che vendettero l'anima ai Savoia) e, soprattutto, rimasero fregati i secondi. Perché i piemontesi - piaccia o no agli storici che negano la verità - trattarono la Sicilia e, in generale, un po' tutto il Sud - come una terra conquistata.  Fa piacere che, adesso, anche il presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo, sia arrivato alle stesse conclusioni. Ad onor del vero, è da qualche anno che Lombardo dice queste cose, se è vero che, in Sicilia, ha fondato un partito - il Movimento per l'autonomia - che appena quattro mesi fa ha vinto le elezioni regionali. Non contento di ciò, lo stesso Lombardo sta cercando federare tutte le regioni del Mezzogiorno d'Italia per dare vita a una sorta di Lega del Sud, che dovrebbe essere l'equivalente della Lega di Bossi in versione meridionale. Non c'è da stupirsi, allora, se si torna a parlare di storia. Soprattutto in un momento in cui in Italia infuria il dibattito sul federalismo. Una cosa, comunque, deve essere chiara: rivedere il giudizio sul Risorgimento in Sicilia non significa mettere in discussione il ruolo e il prestigio di tutti i protagonisti di una fase storica che, nel bene e nel male (visto dal Sud d'Italia, più nel male che ne bene), ha dato luogo all'Unità d'Italia. Al contrario, significa provare a capire, magari con l'ausilio della storia e della letteratura, cosa di buono fu fatto in quegli anni e cosa, invece, non funzionò. Il passaggio sulla letteratura non è secondario, perché in Italia gli scrittori sono più liberi degli storici (che spesso sono al servizio dei vincitori piuttosto che della verità).Garibaldi è l'esempio di certe contraddizioni e di certe enfatizzazioni. L'Italia, è noto, ne ha fatto un eroe. Anzi, forse per ampliare la sua fama, è stato definito l'eroe dei due mondi.  Se parliamo di lui è perché gli strali polemici di questi giorni non hanno risparmiato il vate di Caprera. Chi ha preso le sue difese l'ha fatto in modo magistrale, pubblicando integralmente una lettera che Garibaldi, ormai su con gli anni, scrisse a una sua amica. Una missiva nella quale il capo dell'impresa dei mille confessa che mai e poi mai sarebbe tornato nelle contrade del Sud d'Italia per paura di essere preso a sassate in testa. In questa storia, scritta male, il bello sta nel fatto che lo stesso Garibaldi dava ragione alle popolazioni meridionali che, è noto, odiavano i Savoia. La sincerità e l'onestà intellettuale di Garibaldi non bastano, però, a cancellare le responsabilità del grande condottiero verso il Sud del Paese. Il Nostro non era né fesso, né distratto. L'eroe non amava Cavour; anzi, per essere precisi, lo detestava e vedeva come fumo negli occhi i Savoia. Se accettò la monarchia (che odiava in quanto mazziniano e repubblicano), ebbene, questo avvenne perché quella, allora, era l'unica via per arrivare ad unificare l'Italia.Quanto al resto è inutile perdersi nella retorica italica. Garibaldi sapeva benissimo che, senza le navi inglesi, lui e i suoi mille non sarebbero mai arrivati in Sicilia. E questo fa piazza pulita delle falsità che sono state dette e scritte sull'impresa dei mille, dipinta come qualcosa di eroico e irripetibile. La verità è che gli inglesi avevano un sacco di interessi in Sicilia, dall'agricoltura ai commerci. E avevano pure prestato un sacco di soldi a certi personaggi. Denaro che non avrebbero più rivisto se le cose si fossero messe male. Così trovarono il modo, tutto sommato molto ‘british', di riavere indietro il denaro prestato. L'impresa dei mille nasce da lì.In questa storia dei mille ci sono, poi, altri aspetti poco chiari. Pagine nere che i libri di storia italiani ignorano appositamente. Il ruolo della mafia, per esempio. Un'onorata società che, già in quegli anni, era forte. La trattativa tra le camicie rosse e i mafiosi ci fu: e fu una trattativa difficile. Perché i mafiosi - soprattutto quelli di Monreale e di Bagheria - erano prepotenti ed esigenti. Va da sé che il loro appoggio alla ‘causa' dell'Italia unita fu solo una questione di soldi. Perché ai mafiosi, in quella fase, non gliene fregava nulla né dell'Italia "una e indivisibile", né dei Borboni. Ieri come oggi i mafiosi andavano a caccia di soldi. E li ebbero per scannare e sparare addosso ai Borboni.  Con molta probabilità, toccò a Nicotera e Bixio, gli uomini forti delle truppe garibaldine, trattare con i picciotti dell'onorata società. In un primo momento i mafiosi, denaro alla mano, accettarono di combattere contro i borboni. Questi ultimi, però, conoscendo benissimo i mafiosi, offrirono loro un prezzo più alto. Così, dopo qualche giorno, tra lo stupore di Nicotera e Bixio, i mafiosi sparavano sulle camicie rosse. "Che succede?", chiedeva Garibaldi, che già aveva capito come andavano le cose in Sicilia. Al che Nicotera e Bixio spiegarono che bisognava tirare fuori altro denaro per riacquistare i mafiosi alla "causa" dell'Unità d'Italia: e così fu. I mafiosi, per la cronaca, guadagnarono due volte. In prima battuta incassarono il denaro dai garibaldini; in seconda battuta si schierarono con l'Italia appena costituita per diventare, di fatto, i rappresentanti - e in un certo senso i garanti - della Sicilia nell'Unità d'Italia. Passaggio, questo, descritto alla perfezione in un'opera che in quegli anni era molto nota: "Li mafiosi di la vicaria", commedia che porta la firma di Giuseppe Rizzotto. Dove si descrive il passaggio della mafia da borbonica a "unitaria". E dove i capi mafia spiegano ai picciotti che, da allora in poi, bisognava rispettare e, soprattutto, trattare con lo Stato per averne in cambio impunità e coperture. Chi ignora o non capisce questo passaggio storico non potrà mai comprendere i rapporti tra la mafia e lo Stato italiano che si "disegneranno" e si struttureranno negli anni successivi, passando per l'era di Giolitti, per il fascismo (una delle poche fasi della storia d'Italia del ‘900 in cui la mafia trovò pane per i suoi denti), fino ad arrivare alle stragi del 1992 e poi ai nostri giorni.Ma se Garibaldi - per tornare al nostro "eroe" - si fosse limitato ad accordarsi con i mafiosi, tutto sommato sarebbe stato poco. La verità è che la Sicilia, in quegli anni, era una terra di grandi ingiustizie e grandi contraddizioni: era, e qui il riferimento a Carlo Marx è più che legittimo, un lembo d'Europa dove gli ingredienti per una rivoluzione c'erano tutti. I contadini poveri, che erano la stragrande maggioranza, vivevano nella miseria più nera, vessati da contratti agrari assurdi. In Sicilia a predominare era il latifondo, ovvero grandi appezzamenti di terreno per lo più abbandonati dai nobili che solo in teoria ne erano i proprietari, visto che delegavano la gestione a figure di intermediari che, storicamente, sono stati i precursori dei mafiosi: i gabelloti. Ufficialmente i gabelloti gestivano le aziende agricole per conto dei nobili, vessando i contadini, facendo morire di fame loro e le loro famiglie. In realtà, oltre a schiavizzare i contadini derubavano pure i nobili, tant'è vero che, tranne poche e lodevoli eccezioni, nel giro di pochi decenni diventarono essi stessi proprietari terrieri, i cosiddetti "burgisi". Dei nuovi arricchiti parla Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel "Il Gattopardo", quando tratteggia mirabilmente la figura di don Calogero Sedara, la cui figlia, Angelica, andrà in sposa a Tancredi. Non andava meglio nelle poche attività industriali dell'Isola. Le miniere di zolfo, per esempio. Qui i minatori - e tra questi c'erano anche bambini, detti i "carusi" - venivano trattati come bestie. Entravano nelle miniere di zolfo quando il sole non era ancora sorto e uscivano la sera. Un mondo, quello dei minatori, descritto sia da Luigi Pirandello, sia da Rosso di San Secondo. Nel 1860, in Sicilia, la gran massa di poveri pensava che le camicie rosse fossero venute nell'Isola per liberarli dal giogo dei gabelloti mafiosi. E infatti a Bronte, al loro arrivo, i braccianti scesero in piazza per chiedere la libertà. Per tutta risposta Garibaldi diede ordine ai suoi sgherri di ammazzarli ad uno ad uno. Strage che venne compiuta da Bixio, che era l'uomo chiamato a fare i lavori sporchi, dalle trattative con i mafiosi alle "scannatine". Garibaldi doveva dare l'esempio. Per fare capire che non era venuto in Sicilia per combattere i mafiosi e i prepotenti, dei quali, anzi, era alleato, ma per consegnare la Sicilia ai Savoia. Forse tutto ciò gli doveva fare un po' schifo. Ma, in fondo, sarebbe passato alla storia: cosa che è puntualmente avvenuta. E ci sarebbe passato da santo, da liberatore e da eroe, alla faccia dei tanti siciliani che fece scannare. Bronte non fu un caso isolato. Un altro eccidio andò in scena ad Alcara Li Fusi, piccolo centro arroccato sui Nebrodi. Anche qui, stessa scena: i poveri si ribellarono, scambiando le camice rosse di Garibaldi per liberatori. Vennero massacrati. A raccontare questa bruttissima pagina di storia italiana è lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo in uno dei suoi primi romanzi: "Il sorriso dell'ignoto marinaio". Il protagonista è il barone siciliano Enrico Pirajno di Mandralisca, appassionato di malacologia. Questo nobile si trova ad essere testimone della strage di Alcara Li Fusi. Invitiamo i lettori americani a leggere questo libro. A noi che l'abbiamo letto oltre venticinque anni fa, era sembrato che Consolo prendesse le difese dei poveri contadini di Alcara Li Fusi. Ci siamo sbagliati? Il dubbio l'abbiamo. Perché qualche settimana fa, quando il presidente Lombardo ha stigmatizzato i danni prodotti alla Sicilia da Garibaldi, Consolo è insorto, definendo "ignoranti" coloro i quali, oggi, parlano male di Garibaldi. Se vi invitiamo a leggere "Il sorriso dell'ignoto marinaio" è proprio per confrontare ciò che Consolo scriveva trent'anni fa in quel romanzo con quello che dice oggi. Vi accorgerete che qualche differenza c'è. Del resto, anche gli intellettuali possono cambiare opinione.Il dubbio, analizzando le gesta di Garibaldi e dei suoi mille, è che nel 1860 possa essere stato cambiato il corso della storia della Sicilia. Da una rivoluzione sociale, che era lì per lì per esplodere, si passò a una restaurazione manu militari. Un'esagerazione? Non esattamente. In Sicilia c'erano già stati i moti del 1812, culminati nella Costituzione ottenuta dal ceto colto dell'Isola sul modello della Costituzione inglese; c'erano stati, poi, i moti del 1848, con largo seguito di partecipazione popolare. Insomma: in Sicilia c'era un mondo che, con passione e sincerità, lottava per una vita diversa, come si racconta in uno dei libri più belli della storia siciliana: quella "Storia del Risorgimento in Sicilia" scritta dal siciliano Rosario Romeo, storico vero (e non di parte).Anche in Sicilia il Risorgimento aveva acceso tante speranze. Che andarono deluse. L'ex presidente della Regione, Silvio Milazzo, sturziano della prima ora, amava ricordare sempre i danni - e le ruberie - compiuti dai garibaldini in Sicilia. In un libro-intervista dal titolo: "Chi è Silvio Milazzo", scritto dal giornalista de L'Ora, Felice Chilanti, Milazzo ricordava che Garibaldi trafugò dalle "casse" del Banco di Sicilia una cifra enorme, che venne consegnata a casa Savoia. Denaro che avrebbe potuto essere investito per lo sviluppo della Sicilia e che, invece, prese la via del Piemonte.   A testimoniare i danni provocati nel Sud da Garibaldi non mancano altri grandi intellettuali. Tra questi spicca Carlo Alianello, uno scrittore che l'Italia dei conformisti non ha mai amato. Alianello è autore di un romanzo stupendo, che tutta la gente del Sud d'Italia dovrebbe leggere: "L'eredità della priora". È la storia di come andarono le cose nelle contrade del Meridione prima, durante e dopo l'avvento dell'Unità d'Italia. Alianello ha lasciato anche un saggio storico interessantissimo, scritto con documenti di prima mano: "La conquista del Sud". E' un altro volume che svela i retroscena di una vera e propria conquista di una grande area del nostro Paese da parte di gente senza scrupoli.  Anche gli anni post Unificazione non sono stati esaltanti. I lettori americani non ci crederanno se gli diciamo che, allora, il servizio di leva, naturalmente sotto le insegne di casa Savoia, durava sette anni!  Altro che Risorgimento!E, a proposito dei "padri" del Risorgimento, un posto a parte va dato a un romanzo di Luigi Pirandello. Si tratta dell'unica opera in cui lo scrittore agrigentino, mettendo da parte i temi psicologici tipici della sua arte, lascia parlare fatti, personaggi e cose dell'Italia di allora: "I vecchi e i giovani". Pirandello descrive senza fronzoli cosa era la Sicilia di quegli anni e, soprattutto, cosa era l'Italia. Ci piace ricordare due episodi del romanzo: lo scandalo della Banca romana e i Fasci siciliani. Il primo - lo scandalo della banca di Tanlongo - coinvolse un sacco di personaggi del Risorgimento, a cominciare da Crispi e dai suoi familiari (che se la fecero franca, visto che i magistrati dell'epoca, quasi ad anticipare la mala giustizia odierna, se la presero con un allora giovane Giolitti). Mentre dei Fasci siciliani Pirandello coglie la grande contraddizione: e cioè i contadini, che pensavano di lottare per la terra, e i leader dei Fasci, che erano per lo più anarchici e in maggioranza socialisti e, dunque, contrari alla proprietà contadina. Morale: i Fasci non potevano che fallire: e fallirono. Anche se ad eliminarli del tutto pensò Francesco Crispi, altro siciliano "Padre della Patria", che spedì in Sicilia l'esercito per reprimere nel sangue la rivolta dei contadini.C'è, infine, il fascismo, considerato il proseguimento delle istanze del Risorgimento nei primi del ‘900. Il teorico di tale interpretazione storica fu un altro siciliano: il filosofo Giovanni Gentile. Che vedeva nella "rivoluzione" di Mussolini il completamento delle lotte e delle grandi passioni risorgimentali. Chissà perché, quando si parla di Risorgimento e dei miti da non toccare, ci si dimentica sempre di Gentile, il filosofo ufficiale del fascismo. In fondo, chi oggi difende Garibaldi e i garibaldini, forse senza rendersene conto (non tutti hanno avuto la fortuna di leggere le considerazioni di Gentile su fascismo e Risorgimento), utilizza le stesse tesi del filosofo che, non a caso, si cerca in questi anni di rivalutare. Scherzi della storia........

di Ferdinando D'Ondes di Valentino

 
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