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I vantaggi dell'unità d'Italia

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Renzo Bossi querela un blog di satira

Post n°1552 pubblicato il 11 Marzo 2011 da luger2
 

Il Best-Sellers nel blog con link e videoSi è svolta ieri l’udienza preliminare della causa per diffamazione intentata da Renzo Bossi nei confronti di un blogger, Angelo Abbatangelo, per aver pubblicato sul suo sito “Il diario segreto di Renzo Bossi Junior. (http://100cosecosi.blogspot.com). Ne parla Elisabetta Reguzzoni sul Fatto quotidiano: Ieri al tribunale di Varese si è celebrata l’udienza preliminare; bisognerà però attendere per sapere come proseguirà questa vicenda anche se un risultato il processo l’ha già prodotto: quello cioè di stabilire “che la diffamazione via internet non può essere equiparata a quella a mezzo stampa”. Nel caso specifico il Gip ha accolto le istanze del legale di Abbatangelo secondo cui non si poteva applicare, per analogia, una norma nata per la stampa. Ma torniamo alla storia del diario segreto. DI CHE SI TRATTA? Di una serie di racconti satirici a puntate che lo stesso autore spiega così: “La narrazione letteraria delle avventure- disavventure di Renzo Bossi mi fu ispirata a suo tempo dalla tragica cronaca quotidiana – spiega il blogger -. Cronaca in cui populismo, demagogia, razzismo e xenofobia si impastano al peggiore revisionismo storico facendo emergere a tratti un vero e proprio nazi-fascismo passando per la minaccia secessionista alle soglie delle celebrazioni per l’Unità d’Italia”. Da qui l’idea di scrivere, ad esempio, un racconto dedicato ad un fantomatico progetto di invasione dell’isola di Malta, oppure l’ e s p l o s i one della Breccia di Porta Pia così come l’istituzione di una Chiesa riformista, secessionista padana. Storie in cui il protagonista principale è per l’appunto il figlio del Senatùr insieme a figure di spicco della Lega a cominciare da quello che Abbatangelo chiama “zio”Bor ghezio. Ma tutto ciò sembra non essere piaciuto al consigliere regionale lombardo Renzo Bossi (responsabile tra l’altro del polo della comunicazione della Lega) che ha intrapreso l’azione legale proprio nei confronti dello sconosciuto blogger (residente a Mentone in Francia) difeso dall’avvocato Gianmarco Beraldo. “Questa vicenda ha dell’assurdo. Un testo che palesemente si dichiara satirico realizzato da un piccolo blogger – ha commentato il legale – che però viene considerato da un personaggio pubblico e politico gravemente oltraggioso del proprio onore. Appare evidente che in caso di condanna di Abbatangelo si tratterebbe di una condanna a tutta la satira”. http://www.giornalettismo.com

 
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Pino Aprile commenta L’Infedele

Post n°1551 pubblicato il 10 Marzo 2011 da luger2
 

Pino Aprile, al quale ho segnalato le numerose proteste giunte al mio blog (http://www.gadlerner.it)  per il trattamento che gli avrei riservato, mi ha gentilmente fatto pervenire questo commento da lui pubblicato su www.terroni.it Inutile precisare, nel ringraziarlo delle parole di stima e d’amicizia che ricambio, l’interesse dell’Infedele ad averlo di nuovo ospite sui temi della memoria risorgimentale e della questione meridionale.    Pino Aprile commenta L’Infedele di ieri

Avviso ai naviganti (in rete): uso questo mezzo per rispondere, collettivamente, a quanti mi hanno inviato i loro commenti, osservazioni e critiche (quasi sempre costruttive, grazie) sulla mia partecipazione, ieri, all’Infedele, ospite di Gad Lerner. Non è una forma di scortesia da parte mia, ma siete troppi, perché possa replicare a ciascuno, singolarmente. Perdonatemelo. Tenterò, da quanto mi avete detto e da quanto è mia esperienza, di trarre qualche riflessione. Che condivido, per chi fosse interessato.
Quasi tutti vi siete lamentati del poco tempo che avrei avuto per esporre i miei argomenti. Inutile dire che a tutti piacerebbe avere tutto il tempo che serve; ma il tempo è quello che è. E io lo sapevo: l’Infedele è fatto con un numero di ospiti notevolmente superiore a quello di altri programmi di approfondimento, il che comporta interventi più brevi, salti più frequenti da un tema all’altro; persino il rischio che il più invadente occupi più spazio. Ma tutto questo fa parte del metodo; e non è che lo dovessi scoprire ieri sera. La volta precedente, per esempio, aspettavo che Lerner mi invitasse a parlare; ieri sono intervenuto più volte (quando ci sono riuscito), se ritenevo di non poter far passare senza commento certe affermazioni. Poi, a pesare con il bilancino, si possono fare altri discorsi, ma non credo, onestamente, che servirebbe a molto.
Penso ci sia altro da cogliere, e di più importante: la quantità e il tono di grande, grandissima attesa dei messaggi ricevuti prima e la combattività e il numero (ancora più grande) di quelli ricevuti dopo non ha nulla di ordinario, per una normale parrtecipazione a un dibattito in tv. A me pare, inequivocabile, una clamorosa conferma di quanto ho notato e racconto da un bel po’ (mi pare di averci pure scritto un libro, su): la potenza, la profondità, la vastità dei sentimenti identitari che ribollono a Sud è uno tsunami in formazione. Ma l’Italia non se ne accorge, perché il Sud non fa notizia, se non per monnezza e mafia. Lo stesso successo di Terroni, come ho ripetuto anche da Lerner, è da attribuire all’attenzione che si diffonde, in modo esponenziale, per i temi che toccano il Sud, il ritardo infrastrutturale a cui è stato condannato; la discriminazione oggi persino feroce, per via di un governo ostaggio della Lega Nord; la riscoperta (il “ri” sta per pura prudenza) delle pagine buie o rosso sangue di un Risorgimento che vide il Sud invaso, massacrato, rapinato…
Tutto queste provoca voglia di presenza, di ascolto. A voler usare parole forti: di giustizia. E la veemenza di questo sentire è tale, che si vorrebbe dire e fare tutto insieme. Per cui, appena uno spiraglio di possibilità si apre, tutto tende a prorompere da quel piccolo varco.
Ma le cose non vanno così; bisogna usare i tempi e i modi che si hanno, anche per aiutare chi non avrebbe mai sospettato l’esistenza di certe cose, a conoscerle, assimilarle, con il tempo che ci vuole, senza esserne travolto. Non c’è da colpire, ma da informare; non vincere, ma convincere. Le ragioni sono buone, quindi è sbagliato usarle come randello, meglio condividerle, farsele riconoscere come tali. Così, non avremo un nemico sconfitto, ma un alleato convinto nel sostenere il desiderio di giustizia tanto a lungo negata.
E questa conoscenza, questa consapevolezza, piano piano, passa. Prima, da Lerner e da altri, semplicemente non si veniva invitati a parlare di questi argomenti, ritenuti di retroguardia, da nostalgici, perdita di tempo. Oggi si è interlocutori, al contrario di ieri. Sembra poco. È tantissimo. E se i nostri argomenti sapremo farli riconoscere come solidi e seri, gli spazi saranno sempre maggiori. Io ne sono convinto; e spero di riuscire a dialogare, a farmi ascoltare. E di non essere il solo o uno dei pochi.
Quanto alla trasmissione di ieri, la mia idea (non pretendo sia l’unica valida) è che il tema abbia preso la mano al conduttore: Lerner aveva impostato tutto sui simboli (la croce, le camicie rosse, le cravatte verdi, la musica verdiana e garibaldesca… peccato l’assenza di Paisiello); ma la sostanza veicolata da quei simboli ha travolto i simboli e tirato lo stesso conduttore verso strade non previste. Infatti, Lerner ha dovuto dare molti strapponi alle redini. Ne è venuto fuori qualcosa di molto mosso, sicuramente diverso dal progetto, ma di certo interessante. Lo stesso Lerner, in trasmissione, ha espresso la sua sorpresa per la quantità di messaggi piovuti sul suo blog; e questo deve averlo indotto a riflettere su quanto il tema sia sentito, e con quanto calore. Tanto da dire che bisognerà tornarci sopra.
Lerner fa la sua trasmissione da Milano; la sensibilità giornalistica sua e della sua redazione è chiaramente influenzata dall’ambiente in cui opera, dai temi che tratta e dalla sua stessa esperienza professionale (“Profondo Nord”, “Milano, Italia”, ricordate?). Io trovo significativo che con questo bagaglio professionale, sia uno dei primi a prestare orecchio a temi apparentemente così distanti dal chiasso leghista e dall’egoismo lombardo. È un collega serio; io lo stimo molto, anche se mi sarei aspettato maggiore prontezza, da parte sua, nel cogliere i fermenti di tanta parte del nostro Paese. E su questo sono d’accordo con tanti di voi. Ma intanto, lui ci prova, ascolta. Altri, magari favoriti da contesti più vicini a quanto succede a Sud, fanno finta di niente; o fanno peggio.
Insomma: non è facile. Si esce da decenni di silenzio sul Sud; l’ultima trasmissione tv sul nostro Mezzogiorno fu proprio quella a cui ebbi la fortuna di lavorare, con Sergio Zavoli, “Viaggio nel Sud”; è tutto dire!
Pino Aprile

 

 

 
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Barletta:150 anni di bugie che continuano!

Post n°1550 pubblicato il 10 Marzo 2011 da luger2
 

Doveva essere l'omaggio della Città di Barletta al 150° anniversario dell'Unità d'Italia e invece si è trasformato in un aspro scontro polemico, toccando notevoli picchi di animosità con lanci di accuse di tradimento della verità e del proprio territorio. È successo ieri sera a Barletta presso la Sala Consiliare del Teatro Curci, dove era prevista la "Conferenza celebrativa del 150° anniversario dell'Unità d'Italia: dal Risorgimento all'Unità", primo appuntamento di un ciclo di incontri sul tema, già in programma per il 9 aprile e il 5 maggio prossimi. Relatori della serata, il prof. Giuseppe Poli, ordinario di Storia Moderna presso l'Università di Bari; la prof.ssa Luisa Derosa, sempre dell'ateneo barese; il sindaco di Barletta, Nicola Maffei. L'incontro è stato organizzato dalla sezione locale di Storia Patria per la Puglia, presieduta da Biagio Cavaliere, "moderatore" della serata.

Durante la sua relazione il prof. Poli ha ripercorso il processo di rivalorizzazione della storia risorgimentale italiana, «eliminata dagli studi scolastici per fare spazio al Novecento», a partire dalle celebrazioni precedenti del 1911 e del 1961, passando per la riscoperta dei valori del Primo Risorgimento perseguita dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, per giungere fino alle attuali strumentalizzazioni da parte di quelle forze politiche nazionali che «propongono forme di divisione che non realizzeranno mai […] a cui si contrappongono una rete di studiosi di storia e giornalisti che rivendicano il primato del Mezzogiorno dell'epoca».

Il clima nella Sala Consiliare del Curci si è progressivamente surriscaldato quando il prof. Poli ha iniziato a snocciolare statistiche e riflessioni sulle gravi condizioni di indigenza dei contadini meridionali sotto il Regno dei Borbone e su come la questione sociale – prettamente agraria al Sud Italia – sia rimasta irrisolta con l'unificazione del Paese, anche per colpa della «mafia e della camorra, istituzioni sostenute dai ceti dirigenti feudatari» per tenere sotto controllo le masse. Su queste parole e fino al termine del dibattito, alcuni esponenti del movimento Insorgenza Civile, espressione politica del neoborbonico Comitato delle Due Sicilie, tra cui Ezio Spina, coordinatore del gruppo per la Puglia nonché candidato sindaco a Barletta per lo stesso movimento, hanno duramente contestato i relatori, portando a loro volta dati, interpretazioni e citazioni storiche. Una vera battaglia storiografica, degna emule della Historikerstreit (la controversia degli storici) della metà degli anni Ottanta in Germania. Il sindaco Maffei ha più volte invitato i contestatori alla moderazione, a non interrompere la conferenza e ad organizzare in futuro un dibattito pubblico sugli argomenti oggetto di polemica. Nonostante l'intervento di varie personalità della cultura per sedare gli animi, gli atteggiamenti e le polemiche sono continuate fino all'esplosione finale di rabbia generata dal mancato contradditorio riservato al pubblico per evidente sforamento dei tempi.

Due i principali terreni di scontro. In primis le condizioni economiche preunitarie del Regno delle Due Sicilie – non privo di poli industriali di eccellenza e di una dinamica economia degna competitrice sul mercato europeo dell'Ottocento secondo gli "insorgenti"; fenomeno industriale ristretto e non avanzato per i relatori. Inoltre, la visione dell'opera di unificazione del Paese come una guerra di conquista condotta dal Regno di Sardegna per sottomettere il Mezzogiorno d'Italia – di cui le violente e sanguinose repressioni dei briganti meridionali ne furono la prova più evidente -, il punto di vista dei neoborbonici; sottolineatura delle incapacità della classe politica nazionale e meridionale nel colmare il divario Nord-Sud, secondo i docenti dell'ateneo di Bari. Alla fine dei conti è stato uno spettacolo poco edificante considerata anche la presenza tra il pubblico degli studenti dei corsi serali dell'Istituto Professionale "Garrone", disorientati e in alcuni casi portati su posizioni acritiche e qualunquiste.

Pasquale Diroma        

 
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Lettera a Gad Lerner

Post n°1549 pubblicato il 10 Marzo 2011 da luger2
 

Gent.mo Dott. Lerner,

ho seguito con attenzione la Sua trasmissione di ieri 7 mar
zo sull’unità d’Italia. Fino all’ultimo momento ho atteso che dalla Sua bocca uscisse una sola parola di misericordia per i miserabili di Terronia massacrati negli anni Sessanta del XIX Secolo dalle truppe dei colonizzatori piemontesi.

Lei è ebreo.

Lei si indigna (e con Lei tutti gli uomini di buona volontà) contro Ahmadinejad, teorico del negazionismo.

Un ebreo negazionista è ancor più inquietante.

Tutto il mondo si è inchinato, commosso e inorridito, di fronte alla mattanza degli ebrei operata dai nazisti tedeschi.

Nessuno, mai, ha sentito il bisogno di versare una lacrima sui martiri di Terronia.

Perchè?

Un milione di morti, trucidati a colpi di baionetta, sventrati, fucilati dai “liberatori” savoiardi. Vecchi, donne, bambini, sgozzati sol perchè colpevoli di essere stati partoriti a Sud del Garigliano. Rappresaglie, saccheggi, incendi, devastazioni, stupri.

Noi fummo per Vittorio Emanuele II e per Cavour ciò che voi foste per Hitler.

Voi ebrei.

Noi terroni.

E quindi, come predicava il boia Cialdini, “beduini africani” da sterminare. Oggi i suoi eredi leghisti ci chiamano neger. E invocano l’Etna e il Vesuvio.

Centinaia di fanciulle stuprate, non di rado sotto gli occhi atterriti dei genitori, umili contadini lucani o calabresi. 50 mila oppositori deportati nei lager savoiardi di S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, a Milano, a Bergamo, a Forte di Priamar, a Parma, a Modena, a Bologna, e dulcis in fundo in Fenestrelle, dove quei martiri morivano di fame, di stenti, di torture e alla fine venivani sciolti nella calce viva.

E i crani dei fucilati venivano portati al pre-nazista Cesare Lombroso il quale emetteva la diagnosi: “terrone e quindi geneticamente predisposto per la devianza sociale”.

Lei, da ebreo, non sente il bisogno di manifestare affinchè a Torino sia chiuso il museo di Cesare Lombroso dove sono esposti al ludibrio dei visitatori le teste mozzate dei “briganti”? Perchè non dedica una trasmissione a quello scempio?

Cosa farebbe se edificasero un museo con esposti al ludibrio delle genti le carcasse macilenti degli ebrei massacrati da nazisti?

Li chiamarono briganti. Furono oppositori, insorti, ribelli, rivoluzionari e partigiani.

Ma erano terroni: non meritano pietà.

Dachau, Bergen Belsen, Buchenwakd, Birkenau suscitano orrore.

Fenestrelle no.

Perchè?

Forse gli ebrei sono morti di serie “A” e i terroni sono morti di serie “B”?

Himmler, Priebke, Goebbles, Göring e gli altri criminali nazisti furono processati e condannati per crimini contro l’umanità.

Cialdini, Bixio, Govone, Fumel, Negri, Solaroli, Fanti, Della Rocca, Crema. Pinelli, Pallavicini, i massacratori savoiardi che si sono resi responsabili delle stragi di Messina, Civitella del Tronto, Roccamondolfi, Casalduni, non meritano un processo?

Gli ebrei hanno meritato Norimberga. I terroni no.

Perchè?

Tutti conoscono la strage di Marzabotto. Nessuno parla mai della strage di Gaeta.

Perchè?

Fu mattanza. Fu genocidio. Fu crimine contro l’umanità. Fu pulizia etnica.

I Suoi morti, Dott. Lerner, gli ebrei, hanno avuto giustizia. Sono stati “vendicati” dalla Storia, ad onta dei negazionisti.

Le anime e i corpi straziati dei terroni massacrati dai franco piemontesi del Re “galantuomo” vagano ancora, dopo 150 anni, alla disperata ricerca di giustizia, di Verità.

E per quanto mi riguarda, di vendetta!

Ma è certo che il Giudizio della Storia, quando saranno squarciate le tenebre del negazionismo, si farà.

Solo allora, finalmente i nostri morti riposeranno in pace.

Distinti saluti.
Antonio Grano
Dottore in Scienze Sociali e terrone.
www.antoniograno.it

 
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Senza la Sicilia e i siciliani non ci sarebbe stata l’unità d’Italia

Post n°1548 pubblicato il 10 Marzo 2011 da luger2
 

L’unità d’Italia, se non ci fossero stati i siciliani, non si sarebbe attuata.Siamo un popolo che è sempre stato ingannato dai conquistatori, e ne abbiamo avuti tantissimi. Tutti hanno portato qualcosa ma hanno anche sfruttato la terra più ricca del mondo.

Immagino che impressione abbiano avuto della Sicilia i greci quando arrivarono. Tanto importante che non se ne andarono più. Provenendo da terre pietrose, aride e sterili saranno rimasti a bocca aperta davanti ai fiumi navigabili, alle terre fertili e al mare pescoso della Sicilia.     

                          

I Mille arrivarono e suscitarono grandi speranze. Si stava peggio di oggi, senza dubbio. Ma allora il nord stava peggio del peggio. Le cose si sono invertite profondamente a causa di una politica nella qualetutto il sistema del nord si è avvantaggiato enormemente delle nostre risorse e usando la nostra manodopera per crescere. Siamo stati noi ad emigrare in tutto il mondo costretti da questa unità che non c’è mai stata.

La nostra è stata la prima Regione a proclamare il 17 marzo la festa dell’Unità. Prima che nel governo, tra i tanti mal di pancia della Lega, la si adottasse. L’unità è un valore storico che nessuno intende disconoscere anche perché c’è tanto sangue di siciliani e di italiani che ci hanno creduto.

Ebbene vogliamo cominciare ad unificare l’Italia sul serio? Questo federalismo ci preoccupa enormemente. Però molto dipende da noi. Le riforme e l’unificazione non le invochiamo dagli altri in termini di elemosine o di risorse in più. Intanto noi le stiamo realizzando tagliando sprechi, privilegi e latrocini, garantendo quel poco di lavoro che c’è nel pubblico, aspettando che la gente vada in pensione per reinvestire il corrispettivo di questi stipendi, e di quegli sprechi, in sviluppo.

Faccio un esempio: abbiamo presentato il formaggio morbido fatto con latte ovino e un formaggio affettabile mille volte migliore di qualsiasi sottiletta. Lo dobbiamo promuovere perché i siciliani sappiano che esiste un formaggio di eccellente qualità che costa meno degli altri.Servirà un milione di euro e dovremo fare i salti mortali per trovare quei fondi quando decine di milioni si sprecano a destra e a manca.

Tagliare i privilegi e gli sprechi porta a reazioni furibonde da parte del sistema politico che ci fa la guerra perché con quel sistema si arricchiva e teme quelli che oggi si battono perché finisca.

Mi auguro, e credo, che i siciliani, spesso male informati da parte di pezzi di informazione che in qualche modo sono coinvolti in quel sistema, aprano gli occhi e si rendano conto dello sforzo inaudito che stiamo facendo e ci diano una mano. Quello che stiamo facendo non lo si fa per capriccio o per smania di potere ma solo nell’interesse della Sicilia e dei siciliani.

scritto da Raffaele Lombardo da http://www.raffaelelombardo.it

 
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Noi meridionalisti vi spieghiamo perchè non festeggiamo il 17 marzo…

Post n°1547 pubblicato il 10 Marzo 2011 da luger2
 

Spesso ci chiedono il motivo per il quale noi meridionalisti del Partito del Sud non festeggeremo il 17 marzo, ed ecco che ci arrivano le solite domande o le consuete osservazioni del tipo “ma allora volete la separazione come la Lega Nord” , “ma mica rimpiangete il Regno delle Due Sicilie”, “non si può mettere in discussione l’Unità d’Italia e voi esprimendo la vostra contrarietà al 17 marzo vi fate strumentalizzare”, “ma sono passati tanti anni ed ancora voi meridionali vi lamentate che e’ tutta colpa dei Savoia” etc etc…
Cerchiamo di mettere le cose a posto e di spiegare per bene, una volta per tutte, perchè non festeggeremo questa giornata e perchè manifesteremo il nostro dissenso verso questa giornata di “festa” e l’omaggio del Presidente Napolitano al Re Vittorio Emanuele II, e soprattutto perchè questo lo riteniamo importantissimo per una riscossa del Sud.
Il 17 marzo 1861 ci fu la proclamazione del “Regno d’Italia” che di fatto fu l’annessione di alcuni territori al Regno di Sardegna, da notare bene che mancava ancora Roma e il Veneto che sarebbero stati annessi ca. una decina di anni più tardi, e, soprattutto, non ci fu una nuova entità statale nata con il consenso del popolo ma un semplice cambio di denominazione dello Stato sabaudo che annetteva diversi territori (con campagne di guerra non dichiarata e con plebisciti truffa…) e si autoproclamava “Regno d’Italia”. Prova ne fu che Vittorio Emanuele II re di Sardegna continuò a chiamarsi Vittorio Emaniele II re d’Italia (perchè non Vittorio Emanuele I re d’Italia?)e che il primo parlamento italiano fu l’ottavo parlamento di Torino, inoltre furono estese le leggi piemontesi al resto della penisola (come mai non ci fu allora una soluzione federalista che teneva conto delle differenze tra i vari territori? Forse perchè allora il Sud non era più povero del resto del paese come e’ oggi dopo 150 anni di colonizzazione?).
Cosa ha portato al Sud questa proclamazione?
Dieci anni di guerra civile con centinaia di migliaia di morti nella guerra civile tra il 1861 ed il 1870 detta “guerra al brigantaggio” (“lo stato piemontese e’ stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti” – Antonio Gramsci), le disastrose avventure coloniali, il fascismo e altre tragedie come le guerre mondiali con perdite umane immani…cosa dovremmo festeggiare?
E dal punto di vista economico?
Una spoliazione di ricchezze, una distruzione del nascente tessuto produttivo ed industriale borbonico per favorire l’affermazione dell’industria al Nord, un inasprimento feroce delle tasse (che erano molto piu’ basse nel periodo precedente) e soprattutto la convinzione lombrosiana che “altro che Italia! Questa e’ Africa! I beduini al confronto di questi cafoni sono latte e miele!” “i meridionali sono africani, da far diventare forzatamente italiani a colpi di baionetta!”…si leggano le dichiarazioni dei generali macellai e criminali di guerra come Cialdini o governatori illuminati come Farini inviati da Torino.
Non si capisce perchè una Repubblica nata nel 1946 debba festeggiare una monarchia così nefasta, dimenticandosi perfino che un re Savoia firmò le leggi sulla discrimanazione della razza.
Insomma il Sud dal 1861 fu ridotto a colonia e conobbe per la prima volta nella sua storia secolare la tragedia di un’emigrazione bibblica, una diaspora che nemmeno gli ebrei hanno conosciuto…in 150 anni più di 20 milioni di meridionali hanno abbandonato le loro case, i loro affetti e le loro radici per andare al centro-nord o all’estero, tale diaspora continua ancora ai giorni nostri con caratteristiche e modalità diverse.
Sarebbe stato un onore far parte di un’unica nazione una, “di lingua, di armi e di cor”, aver versato da “fratelli d’Italia” il nostro sangue sul Piave per “liberare” lontanissime città come Gorizia….ma sinceramente non credevamo di avere come ringraziamento i cartelli “non si fitta ai meridionali” o gli striscioni negli stadi del Centro-Nord del tipo “Forza Vesuvio! Forza Etna! Terremotati! Colerosi!”.
Non vogliamo il ritorno ad antiche monarchie ma e’ paradossale, in un paese con ministri che hanno dichiarato di pulirsi le loro parti meno nobili col tricolore, pensare che siamo noi a minacciare “l’unità d’Italia”, noi non vogliamo nessuna guerra contro il resto del paese e nessuna separazione…ancora più paradossale che tutto ciò che e’ “borbonico” viene ancora visto come il male assoluto e qualcosa di oscurantista, retrogrado e minaccioso…mentre si finge di non vedere le bandiere della Padania (Stato che non e’ mai esistito nella realtà storica) o di non ascoltare gli slogan razzisti dei raduni leghisti e tutto ciò non indigna, non e’ “minaccioso dell’unità e della coesione nazionale”.
Ieri la Questura di Roma ci nega una manifestazione il 17 al Pantheon, dove abbiamo espressamente affermato che volevamo organizzare una protesta ed un dissenso civile, pacifico e democratico ed assolutamente nel pieno rispetto delle leggi e del Presidente di questa Repubblica…ancora una volta, senza voler fare il “solito vittimismo meridionale”, siamo figli di un Dio Minore? Siamo italiani di serie B?
Siamo stanchi di subire ed abbiamo il diritto e dovere di esprimere il nostro dissenso, ce lo dice l’articolo 21 della nostra Costituzione e quindi insisteremo con la Questura…e giovedì 17 marzo tutti al Pantheon con noi, ad esprimere civilmente e pacificamente, in maniera gandhiana direi, il nostro dissenso!!!
In questo paese con scarsa memoria si devono finalmente abbandonare i falsi miti risorgimentali, prima la verità…se si vuole parlare di unità e non le bugie e le favolette alla De Amicis.sud_italia[1]

Oltre la verità storica, per avere un paese davvero unito ci vuole una politica che crei le stesse possibilità al Nord ed al Sud, in una parola una politica di giustizia e di riequilibrio economico per diminuire le differenze invece che accentuarle, ciò che ha fatto la Germania alla caduta del muro di Berlino per riavvicinare il tenore (e la qualità) di vita dei tedeschi dell’Est a quelli dell’Ovest…abbiamo qualche “leggerissimo sospetto” che questo non sia l’obiettivo ne’ della destra lumbard di Berlusconi e Bossi ne’ della sinistra emiliana di Bersani….infatti il gap negli ultimi 16 anni e’ aumentato.
Quando finalmente un giovane laureato a Napoli o a Palermo avrà, a parità di merito, le stesse possibilità di lavoro di un suo collega a Milano…quando per andare in treno da Napoli a Reggio C. ci si impiegherà lo stesso tempo che per andare da Roma a Milano…quando un imprenditore al Sud avrà le stesse possibilità di un suo collega al Nord, le banche gli concederanno prestiti alle stesse condizioni, le infrastrutture ed i servizi, oltre alla criminalità, non lo ostacoleranno…allora sì che possiamo parlare di “unità”, fino a quel momento per favore risparmiateci le vostre favolette e le bugie risorgimentali da “fratelli d’Italia”.
CHI CONTROLLA IL PASSATO CONTROLLA IL FUTURO (G.Orwell)

di Enzo Riccio http://www.mezzogiornoitalia.it
 
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Risorgimento siciliano

Post n°1546 pubblicato il 10 Marzo 2011 da luger2
 

Il Risorgimento, in Sicilia, ha dato luogo a un grande equivoco.  Tanti siciliani pensavano che, con l'Unità d'Italia, avrebbero conquistato la libertà.  Tra questi c'erano i padri nobili del Risorgimento, da Ruggero Settimo a Carlo Cottone principe di Castelnuovo, da Mariano Stabile a Michele ed Emerico Amari e via continuando. Ma assieme a questi c'erano i rappresentanti dei ceti poveri - che allora erano i contadini trattati come schiavi - che speravano di ottenere condizioni di vita migliori. Rimasero delusi i primi (con l'eccezione di quelli che vendettero l'anima ai Savoia) e, soprattutto, rimasero fregati i secondi. Perché i piemontesi - piaccia o no agli storici che negano la verità - trattarono la Sicilia e, in generale, un po' tutto il Sud - come una terra conquistata.  Fa piacere che, adesso, anche il presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo, sia arrivato alle stesse conclusioni. Ad onor del vero, è da qualche anno che Lombardo dice queste cose, se è vero che, in Sicilia, ha fondato un partito - il Movimento per l'autonomia - che appena quattro mesi fa ha vinto le elezioni regionali. Non contento di ciò, lo stesso Lombardo sta cercando federare tutte le regioni del Mezzogiorno d'Italia per dare vita a una sorta di Lega del Sud, che dovrebbe essere l'equivalente della Lega di Bossi in versione meridionale. Non c'è da stupirsi, allora, se si torna a parlare di storia. Soprattutto in un momento in cui in Italia infuria il dibattito sul federalismo. Una cosa, comunque, deve essere chiara: rivedere il giudizio sul Risorgimento in Sicilia non significa mettere in discussione il ruolo e il prestigio di tutti i protagonisti di una fase storica che, nel bene e nel male (visto dal Sud d'Italia, più nel male che ne bene), ha dato luogo all'Unità d'Italia. Al contrario, significa provare a capire, magari con l'ausilio della storia e della letteratura, cosa di buono fu fatto in quegli anni e cosa, invece, non funzionò. Il passaggio sulla letteratura non è secondario, perché in Italia gli scrittori sono più liberi degli storici (che spesso sono al servizio dei vincitori piuttosto che della verità).Garibaldi è l'esempio di certe contraddizioni e di certe enfatizzazioni. L'Italia, è noto, ne ha fatto un eroe. Anzi, forse per ampliare la sua fama, è stato definito l'eroe dei due mondi.  Se parliamo di lui è perché gli strali polemici di questi giorni non hanno risparmiato il vate di Caprera. Chi ha preso le sue difese l'ha fatto in modo magistrale, pubblicando integralmente una lettera che Garibaldi, ormai su con gli anni, scrisse a una sua amica. Una missiva nella quale il capo dell'impresa dei mille confessa che mai e poi mai sarebbe tornato nelle contrade del Sud d'Italia per paura di essere preso a sassate in testa. In questa storia, scritta male, il bello sta nel fatto che lo stesso Garibaldi dava ragione alle popolazioni meridionali che, è noto, odiavano i Savoia. La sincerità e l'onestà intellettuale di Garibaldi non bastano, però, a cancellare le responsabilità del grande condottiero verso il Sud del Paese. Il Nostro non era né fesso, né distratto. L'eroe non amava Cavour; anzi, per essere precisi, lo detestava e vedeva come fumo negli occhi i Savoia. Se accettò la monarchia (che odiava in quanto mazziniano e repubblicano), ebbene, questo avvenne perché quella, allora, era l'unica via per arrivare ad unificare l'Italia.Quanto al resto è inutile perdersi nella retorica italica. Garibaldi sapeva benissimo che, senza le navi inglesi, lui e i suoi mille non sarebbero mai arrivati in Sicilia. E questo fa piazza pulita delle falsità che sono state dette e scritte sull'impresa dei mille, dipinta come qualcosa di eroico e irripetibile. La verità è che gli inglesi avevano un sacco di interessi in Sicilia, dall'agricoltura ai commerci. E avevano pure prestato un sacco di soldi a certi personaggi. Denaro che non avrebbero più rivisto se le cose si fossero messe male. Così trovarono il modo, tutto sommato molto ‘british', di riavere indietro il denaro prestato. L'impresa dei mille nasce da lì.In questa storia dei mille ci sono, poi, altri aspetti poco chiari. Pagine nere che i libri di storia italiani ignorano appositamente. Il ruolo della mafia, per esempio. Un'onorata società che, già in quegli anni, era forte. La trattativa tra le camicie rosse e i mafiosi ci fu: e fu una trattativa difficile. Perché i mafiosi - soprattutto quelli di Monreale e di Bagheria - erano prepotenti ed esigenti. Va da sé che il loro appoggio alla ‘causa' dell'Italia unita fu solo una questione di soldi. Perché ai mafiosi, in quella fase, non gliene fregava nulla né dell'Italia "una e indivisibile", né dei Borboni. Ieri come oggi i mafiosi andavano a caccia di soldi. E li ebbero per scannare e sparare addosso ai Borboni.  Con molta probabilità, toccò a Nicotera e Bixio, gli uomini forti delle truppe garibaldine, trattare con i picciotti dell'onorata società. In un primo momento i mafiosi, denaro alla mano, accettarono di combattere contro i borboni. Questi ultimi, però, conoscendo benissimo i mafiosi, offrirono loro un prezzo più alto. Così, dopo qualche giorno, tra lo stupore di Nicotera e Bixio, i mafiosi sparavano sulle camicie rosse. "Che succede?", chiedeva Garibaldi, che già aveva capito come andavano le cose in Sicilia. Al che Nicotera e Bixio spiegarono che bisognava tirare fuori altro denaro per riacquistare i mafiosi alla "causa" dell'Unità d'Italia: e così fu. I mafiosi, per la cronaca, guadagnarono due volte. In prima battuta incassarono il denaro dai garibaldini; in seconda battuta si schierarono con l'Italia appena costituita per diventare, di fatto, i rappresentanti - e in un certo senso i garanti - della Sicilia nell'Unità d'Italia. Passaggio, questo, descritto alla perfezione in un'opera che in quegli anni era molto nota: "Li mafiosi di la vicaria", commedia che porta la firma di Giuseppe Rizzotto. Dove si descrive il passaggio della mafia da borbonica a "unitaria". E dove i capi mafia spiegano ai picciotti che, da allora in poi, bisognava rispettare e, soprattutto, trattare con lo Stato per averne in cambio impunità e coperture. Chi ignora o non capisce questo passaggio storico non potrà mai comprendere i rapporti tra la mafia e lo Stato italiano che si "disegneranno" e si struttureranno negli anni successivi, passando per l'era di Giolitti, per il fascismo (una delle poche fasi della storia d'Italia del ‘900 in cui la mafia trovò pane per i suoi denti), fino ad arrivare alle stragi del 1992 e poi ai nostri giorni.Ma se Garibaldi - per tornare al nostro "eroe" - si fosse limitato ad accordarsi con i mafiosi, tutto sommato sarebbe stato poco. La verità è che la Sicilia, in quegli anni, era una terra di grandi ingiustizie e grandi contraddizioni: era, e qui il riferimento a Carlo Marx è più che legittimo, un lembo d'Europa dove gli ingredienti per una rivoluzione c'erano tutti. I contadini poveri, che erano la stragrande maggioranza, vivevano nella miseria più nera, vessati da contratti agrari assurdi. In Sicilia a predominare era il latifondo, ovvero grandi appezzamenti di terreno per lo più abbandonati dai nobili che solo in teoria ne erano i proprietari, visto che delegavano la gestione a figure di intermediari che, storicamente, sono stati i precursori dei mafiosi: i gabelloti. Ufficialmente i gabelloti gestivano le aziende agricole per conto dei nobili, vessando i contadini, facendo morire di fame loro e le loro famiglie. In realtà, oltre a schiavizzare i contadini derubavano pure i nobili, tant'è vero che, tranne poche e lodevoli eccezioni, nel giro di pochi decenni diventarono essi stessi proprietari terrieri, i cosiddetti "burgisi". Dei nuovi arricchiti parla Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel "Il Gattopardo", quando tratteggia mirabilmente la figura di don Calogero Sedara, la cui figlia, Angelica, andrà in sposa a Tancredi. Non andava meglio nelle poche attività industriali dell'Isola. Le miniere di zolfo, per esempio. Qui i minatori - e tra questi c'erano anche bambini, detti i "carusi" - venivano trattati come bestie. Entravano nelle miniere di zolfo quando il sole non era ancora sorto e uscivano la sera. Un mondo, quello dei minatori, descritto sia da Luigi Pirandello, sia da Rosso di San Secondo. Nel 1860, in Sicilia, la gran massa di poveri pensava che le camicie rosse fossero venute nell'Isola per liberarli dal giogo dei gabelloti mafiosi. E infatti a Bronte, al loro arrivo, i braccianti scesero in piazza per chiedere la libertà. Per tutta risposta Garibaldi diede ordine ai suoi sgherri di ammazzarli ad uno ad uno. Strage che venne compiuta da Bixio, che era l'uomo chiamato a fare i lavori sporchi, dalle trattative con i mafiosi alle "scannatine". Garibaldi doveva dare l'esempio. Per fare capire che non era venuto in Sicilia per combattere i mafiosi e i prepotenti, dei quali, anzi, era alleato, ma per consegnare la Sicilia ai Savoia. Forse tutto ciò gli doveva fare un po' schifo. Ma, in fondo, sarebbe passato alla storia: cosa che è puntualmente avvenuta. E ci sarebbe passato da santo, da liberatore e da eroe, alla faccia dei tanti siciliani che fece scannare. Bronte non fu un caso isolato. Un altro eccidio andò in scena ad Alcara Li Fusi, piccolo centro arroccato sui Nebrodi. Anche qui, stessa scena: i poveri si ribellarono, scambiando le camice rosse di Garibaldi per liberatori. Vennero massacrati. A raccontare questa bruttissima pagina di storia italiana è lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo in uno dei suoi primi romanzi: "Il sorriso dell'ignoto marinaio". Il protagonista è il barone siciliano Enrico Pirajno di Mandralisca, appassionato di malacologia. Questo nobile si trova ad essere testimone della strage di Alcara Li Fusi. Invitiamo i lettori americani a leggere questo libro. A noi che l'abbiamo letto oltre venticinque anni fa, era sembrato che Consolo prendesse le difese dei poveri contadini di Alcara Li Fusi. Ci siamo sbagliati? Il dubbio l'abbiamo. Perché qualche settimana fa, quando il presidente Lombardo ha stigmatizzato i danni prodotti alla Sicilia da Garibaldi, Consolo è insorto, definendo "ignoranti" coloro i quali, oggi, parlano male di Garibaldi. Se vi invitiamo a leggere "Il sorriso dell'ignoto marinaio" è proprio per confrontare ciò che Consolo scriveva trent'anni fa in quel romanzo con quello che dice oggi. Vi accorgerete che qualche differenza c'è. Del resto, anche gli intellettuali possono cambiare opinione.Il dubbio, analizzando le gesta di Garibaldi e dei suoi mille, è che nel 1860 possa essere stato cambiato il corso della storia della Sicilia. Da una rivoluzione sociale, che era lì per lì per esplodere, si passò a una restaurazione manu militari. Un'esagerazione? Non esattamente. In Sicilia c'erano già stati i moti del 1812, culminati nella Costituzione ottenuta dal ceto colto dell'Isola sul modello della Costituzione inglese; c'erano stati, poi, i moti del 1848, con largo seguito di partecipazione popolare. Insomma: in Sicilia c'era un mondo che, con passione e sincerità, lottava per una vita diversa, come si racconta in uno dei libri più belli della storia siciliana: quella "Storia del Risorgimento in Sicilia" scritta dal siciliano Rosario Romeo, storico vero (e non di parte).Anche in Sicilia il Risorgimento aveva acceso tante speranze. Che andarono deluse. L'ex presidente della Regione, Silvio Milazzo, sturziano della prima ora, amava ricordare sempre i danni - e le ruberie - compiuti dai garibaldini in Sicilia. In un libro-intervista dal titolo: "Chi è Silvio Milazzo", scritto dal giornalista de L'Ora, Felice Chilanti, Milazzo ricordava che Garibaldi trafugò dalle "casse" del Banco di Sicilia una cifra enorme, che venne consegnata a casa Savoia. Denaro che avrebbe potuto essere investito per lo sviluppo della Sicilia e che, invece, prese la via del Piemonte.   A testimoniare i danni provocati nel Sud da Garibaldi non mancano altri grandi intellettuali. Tra questi spicca Carlo Alianello, uno scrittore che l'Italia dei conformisti non ha mai amato. Alianello è autore di un romanzo stupendo, che tutta la gente del Sud d'Italia dovrebbe leggere: "L'eredità della priora". È la storia di come andarono le cose nelle contrade del Meridione prima, durante e dopo l'avvento dell'Unità d'Italia. Alianello ha lasciato anche un saggio storico interessantissimo, scritto con documenti di prima mano: "La conquista del Sud". E' un altro volume che svela i retroscena di una vera e propria conquista di una grande area del nostro Paese da parte di gente senza scrupoli.  Anche gli anni post Unificazione non sono stati esaltanti. I lettori americani non ci crederanno se gli diciamo che, allora, il servizio di leva, naturalmente sotto le insegne di casa Savoia, durava sette anni!  Altro che Risorgimento!E, a proposito dei "padri" del Risorgimento, un posto a parte va dato a un romanzo di Luigi Pirandello. Si tratta dell'unica opera in cui lo scrittore agrigentino, mettendo da parte i temi psicologici tipici della sua arte, lascia parlare fatti, personaggi e cose dell'Italia di allora: "I vecchi e i giovani". Pirandello descrive senza fronzoli cosa era la Sicilia di quegli anni e, soprattutto, cosa era l'Italia. Ci piace ricordare due episodi del romanzo: lo scandalo della Banca romana e i Fasci siciliani. Il primo - lo scandalo della banca di Tanlongo - coinvolse un sacco di personaggi del Risorgimento, a cominciare da Crispi e dai suoi familiari (che se la fecero franca, visto che i magistrati dell'epoca, quasi ad anticipare la mala giustizia odierna, se la presero con un allora giovane Giolitti). Mentre dei Fasci siciliani Pirandello coglie la grande contraddizione: e cioè i contadini, che pensavano di lottare per la terra, e i leader dei Fasci, che erano per lo più anarchici e in maggioranza socialisti e, dunque, contrari alla proprietà contadina. Morale: i Fasci non potevano che fallire: e fallirono. Anche se ad eliminarli del tutto pensò Francesco Crispi, altro siciliano "Padre della Patria", che spedì in Sicilia l'esercito per reprimere nel sangue la rivolta dei contadini.C'è, infine, il fascismo, considerato il proseguimento delle istanze del Risorgimento nei primi del ‘900. Il teorico di tale interpretazione storica fu un altro siciliano: il filosofo Giovanni Gentile. Che vedeva nella "rivoluzione" di Mussolini il completamento delle lotte e delle grandi passioni risorgimentali. Chissà perché, quando si parla di Risorgimento e dei miti da non toccare, ci si dimentica sempre di Gentile, il filosofo ufficiale del fascismo. In fondo, chi oggi difende Garibaldi e i garibaldini, forse senza rendersene conto (non tutti hanno avuto la fortuna di leggere le considerazioni di Gentile su fascismo e Risorgimento), utilizza le stesse tesi del filosofo che, non a caso, si cerca in questi anni di rivalutare. Scherzi della storia........

di Ferdinando D'Ondes di Valentino

 
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L'INSABBIAMENTO CULTURALE della "QUESTIONE MERIDIONALE"

Post n°1545 pubblicato il 10 Marzo 2011 da luger2
 

Moltistorici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hannocaratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che lacultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, unvelo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul lororeale evolversi.

Tutte le forme d'influenza sulla pubblicaopinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta deiBorboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di tonipositivi.

Si cercò di rendere patetica e ridicola la figuradi Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata –arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della ReginaMaria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti igoverni d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una"santa" e allevato dai preti, con ogni probabilità nonaveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, inseguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia difotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di averagito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitòscalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare lareputazione dei due sovrani in esilio.

La memoria di ReFerdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse dibrutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone –interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "lanegazione di Dio".

Soprattutto si minimizzò l'entitàdella ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli,riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge neigiornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord inquanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre1865); nasce così la leggenda risorgimentale della "cattiveria"dei Borboni contrapposta alla "bontà" dei piemontesi e deiSavoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.

Restano achiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici delRegno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, amantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti cosìlontana dalla verità.

A mio parere le ragioni sono composite,ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunciò nel secoloscorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gliItaliani", e possono essere esemplificate nel seguente modo:

a.Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dallacoscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevanodiventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il qualel'unità si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico"operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto,schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fattoche la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà,dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile -nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo,soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo unaminoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessunavoglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentementecontro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Percontro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviatae distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di unperiodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sudsi emanciperanno, finalmente, con l'unità, liberate dai garibaldinie dai piemontesi dalla schiavitù dello "straniero".

b.Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare delperiodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valorinazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe,per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista",riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano esaltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governofascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare unmeccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da unpunto di vista storico insabbiò ancor di più la questionemeridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturaledel regime.

c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra,mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione delperiodo fascista.

La nazione emergeva, non bisognadimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lottaavevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l'Italia, ilmovimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (eranogli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente ilmomento di sollevare dubbi sulla veridicità della storiarisorgimentale e alimentare così tesi separatiste.

Si èarrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, inmolti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione inparticolare è vergognosamente mistificata.

In campo economicola visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile,ancora più lontana dalla realtà effettuale.

Il Sudborbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paesestrutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a queltempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settoredelle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piúavanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarretutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e diproteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistentesurplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamentod'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse,sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sulmercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tuttal'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...)Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismoterritoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, masicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche epreferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delleclassi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affarinon era la classe egemone, a cui gli interessi generali eranoottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe alservizio dell'economia nazionale".

In realtà il problemacentrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma sifece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò,le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima iguasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fuattuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenzeeconomiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivanoaggregate.

La formula del "piemontismo", vale a diredella mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici edeconomici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, chefu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che sifecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinaronoun'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico neiterritori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibilecollasso.

D'altronde le motivazioni politiche che avevanoportato all'unità erano – come sempre accade – in subordinerispetto a quelle economiche.

Se si parte dall'assunto,ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era bensolido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hannoinnescato la sua rovina.

Nel quadro della politica liberistaimpostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi novemilioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sueentrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato.

L'abnormedebito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politicabellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!)doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemonteseper la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stessoapparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo,soddisfatta.

Descrivere vicende economiche e legate al mondodelle banche e della finanza, può risultare al lettore, me ne rendoconto, noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se neconoscono le intime implicazioni.

Lo stato sabaudo si eradotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di cartamoneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro ed'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle"polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esattocontrovalore in oro versato nelle casse del Banco delle DueSicilie.

Il problema piemontese consisteva nel mancatorispetto della "convertibilità" della propria moneta, valea dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva unequivalente valore in oro versato presso l'istituto bancarioemittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamentidello stato.

In parole povere la valuta piemontese era cartastraccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile persua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a sestessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenutaaveva valore pressoché uguale a quello nominale).

Quindi citaancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico delpaese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire.Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degliStati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornitocinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponenteda destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che inquel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potutocostruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Comeil Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori dellabanca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e nonfilavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma,per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta aportata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'eranomessi".

A seguito dell'occupazione piemontese fuimmediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi inBanco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato leproprie monete per trasformarle in carta moneta così come previstodall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebberopotuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni eavrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano(benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancoraper qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovrepassò nelle casse piemontesi.

Tuttavia nella riserva dellanuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (sivedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca).

Evidentementeparte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior partefurono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nordoperato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, macon gli enormi capitali rastrellati al sud.

Ancora adesso, aben vedere, il sistema creditizio del meridione risentedell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di creditoadottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud,effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gliinvestimenti nel settentrione.

Il colpo di grazia all'economiadel sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debitopubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanzapubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimoprelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che lepopolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressionefiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoianel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni acanna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), siai debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in unafolle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione,diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazzeeconomiche d'Europa.

Scrive ancora lo storico Zitara: "Laretorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarrein inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furonoimposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari inPiemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politicodi Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini dibanca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsaa un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni",vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio alcollo.

Bastò qualche mese perché le articolazionimanifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulterioriallargamenti di mercato per ben funzionare, venisserosoffocate.

L'agricoltura, che alimentava il commercio estero,una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevanoall'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registròuna crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anniperché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, loStato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto;peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degliaustriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".

Percontro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastrieconomici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana,principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogiper l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo alNord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerrad'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamentodel settentrione.

Il governo di Torino adottò nei confrontidell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo"colonialista" tanto da far esclamare al deputato FrancescoNoto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa èinvasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare lanostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare leprovince meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perúe nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".

Lapolitica dissennatamente liberistica del governo unitario portò,peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a uncrack finanziario.

Le grandi società d'affari francesi edinglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affarid'oro.

Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureodelle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corsoforzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarieinconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato dellefinanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di statoitaliani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quandoquelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del18%.

Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria,dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualchecredibilità.

L'odierna arretratezza economica del Meridione èfiglia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio dipolitica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regnodi Napoli da parte dello stato unitario.

Si dovrà aspettareil periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica disviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suoterritorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti(quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di unapolitica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcunelinee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata daFerdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi efinalmente terminata da quello fascista.

Ma il danni e idisastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva piùe le sue forze più giovani e migliori erano emigrateall'estero.

Nonostante gli interventi negli anni '50 del XXsecolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tranord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiutoeconomico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separail Sud dal resto d'Italia è ancora notevole.

La popolazionedell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del"brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazionie nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita allagrandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800,che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodofascista e una diversificazione delle mete che diventeranno ilBelgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.

IlSud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generatodal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppodell'Italia industriale.

Ritengo, in conclusione, che sia undiritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo distoria patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpoinsegnanti dello stato favorire un'analisi storica più oggettiva diquei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello svilupposociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolasticipiù oculata ed imparziale.

La guerra fra il nord ed il sudd'Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno,del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai"briganti", ma non per questo è meno viva; continua ancoraoggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che,alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato,produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non sisono amate mai.

Il dibattito ancora aperto e vivacesull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partitodella Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gentedel nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento"dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto questeproblematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.

Oggil'unità dello stato, in un periodo dove il progresso passaattraverso enti politico-economici sopranazionali come la ComunitàEuropea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione èdovuta una politica ed una attenzione particolari, una politicalegata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormirisorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo deidisastri e delle ingiustizie che l'unità vi ha apportato.

L'enormenumero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dalmeridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, acosto di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna evivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto cheper 140 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli hanegato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano
.

di CARLO COPPOLA
"Controstoria dell'Unitàd'Italia"

 
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Ennesimo scippo al Sud:Il porto di Bari perde 55mln che finiranno agli scali liguri!

Post n°1543 pubblicato il 09 Marzo 2011 da luger2
 

l decreto Milleproroghe costa 55 milioni al Porto di Bari. Tra i finanziamenti che saranno revocati in conseguenza del nuovo comma 2-nonies c’è infatti quello relativo alla colmata esterna tra il terzo e il quarto braccio. È un’opera che l’Autorità portuale del Levante aveva messo in stand-by, sperando di poter spalmare i soldi su altri interventi ritenuti più urgenti. E intanto, slitta di almeno due mesi l’aggiudicazione del raddoppio di Marisabella: dopo aver perso al Tar, l’Ati Vittadello- Matarrese ha infatti presentato il secondo ricorso al Consiglio di Stato. 

I fondi tagliati, dunque. Una disposizione del Milleproroghe prevede che «entro il termine del 15 marzo 2011 sono revocati i fondi statali trasferiti o assegnati alle Autorità portuali per la realizzazione di opere infrastrutturali, a fronte dei quali non sia stato pubblicato il bando di gara per l’asse gnazione dei lavori entro il quinto anno dal trasferimento o dall’assegnazione». 

La colmata esterna si trova proprio in questa situazione, come conferma il commissario dell’Autorità, Francesco Mariani: «Si tratta - spiega - di un intervento non strategico, anche perché il progetto “alti fondali” richiederebbe prima altri interventi che non sono stati realizzati. Pensavamo di ridistribuire quei 50 milioni su ulteriori progetti, tra cui il principale è il prolungamento del molo di ingresso al porto di Barletta». 

Ma i soldi, a quanto pare, sono definitivamente persi. E potrebbero finire a qualche Autorità portuale del Nord: dopo la prima versione del Milleproroghe, infatti, gli scali liguri hanno messo in atto una battaglia (vincente) per essere esclusi dal definanziamento. Non solo: questo «recupero» di fondi serve a mettere insieme 250 milioni di euro che saranno destinati per la gran parte (150 milioni) ai porti «che hanno attivato investimenti con contratti già sottoscritti o con bandi di gara pubblicati alla data del 30 settembre 2010». 
Ovvero quasi solo i porti liguri, toscani e veneti. 

A ulteriore beffa, è stato stabilito che il definanziamento non si applica negli scali che ricadono nei piani nazionali di bonifica: dunque Brindisi e Taranto sono stati salvati, Bari no. Nel frattempo, come detto, è slittata di almeno altri due mesi la firma del contratto per il raddoppio di Marisabella. A inizio febbraio il Tar del Lazio aveva respinto il ricorso delle imprese Vittadello e Matarrese contro l’esclusione dall’appalto, che vale 58,3 milioni di euro ed è bloccato dal 2008. 

La decisione si basava su una consulenza tecnica che ha definito «irrealizzabile » il progetto delle due imprese. Si pensava che fosse finita, invece lunedì la Vittadello (come capofila della Ati) ha depositato appello al Consiglio di Stato. E dunque, fino a quando Palazzo Spada non deciderà almeno sulla richiesta di sospensiva, la stazione appaltante (il Provveditorato alle opere pubbliche) non potrà dare seguito alla firma del contratto con la seconda classificata Fincosit. 

La gara d’appalto è partita a settembre del 2008, ed a febbraio 2009 è stata aggiudicata all’Ati tra Vittadello e Matarrese per 39,7 milioni. Il maxiribasso ha superato la verifica di anomalia, ma Fincosit si è rivolta prima al Tar del Lazio e poi al Consiglio di Stato che a metà 2009 ha accolto il ricorso. Ha ordinato alla stazione appaltante di ripetere la verifica «con specifico riferimento alla soluzione tecnica proposta» dai vincitori, ovvero una particolare struttura in ferro per il varo dei cassoni. Proprio in seguito a questa nuova valutazione, a gennaio del 2010 il Provveditorato ha dichiarato anomala l’offerta di Vitadello e Matarrese, che si sono così nuovamente rivolte al giudice amministrativo. 

A inizio febbraio il Tar del Lazio, a seguito della ctu affidata ad un professore di ingegneria della Sapienza, ha confermato che la procedura era corretta: «Le conclusioni del consulente, anche se contestate dal raggruppamento ricorrente - è infatti scritto in sentenza -, sono sufficienti a confermare la logicità e ragionevolezza della valutazione di anomalia operata dalla commissione». 

In altre parole, secondo la valutazione tecnica Vittadello e Matarrese avrebbero offerto un prezzo troppo basso rispetto alla complessità della soluzione progettuale proposta. Una valutazione dirimente, secondo l’Autorità del Levante che aveva infatti chiesto al ministero delle Infrastrutture di procedere all’aggiudicazione. Ma nei giorni scorsi è arrivata la doccia fredda del nuovo ricorso: la discussione della richiesta di sospensiva non è ancora stata fissata, per cui - ben che vada - per arrivare al contratto serviranno almeno altri due mesi, e per la conclusione bisognerà aspettare il 2014.

di MASSIMILIANO SCAGLIARINI da http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it

 
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Controcelebrazioni dei 150 anni d’unità d’Italia

Post n°1542 pubblicato il 09 Marzo 2011 da luger2
 

A Napoli, tre eventi per urlare no a 150 anni di bugie
e per dire basta alla colonizzazione del Sud

LA VERITA’ CONTRO LA RETORICA!

Napoli non resta a guardare i retorici festeggiamenti degli avvenimenti storici che ne hanno decretato la morte. 
Nella ex-capitale del Regno delle Due Sicilie, tutti i meridionalisti sono invitati a partecipare a tre importanti eventi di controcelebrazione.

Il 15 l’appuntamento é accademico e culturale: nella prestigiosa location del Maschio Angioino sarà presentato il libro-verità “Malaunità” scritto a più mani dai maggiori scrittori e archivisti del meridionalismo contemporaneo. 
Presenti tutti gli autori e prestigiosi ospiti, a cominciare da Pino Aprile, Lorenzo Del Boca, Gigi Di Fiore, Lino Patruno e Eddy Napoli che presenterà i suoi due brani allegati al libro dedicati alla fine del Regno meridionale.

Il 16 sarà il giorno della memoria nei simbolici luoghi della Chiesa di San Ferdinando e di Largo di Palazzo. In chiesa ci sarà il ricordo di alcuni nomi di uomini periti per l’antica patria. 
A seguire, grande raduno a cui nessun vero meridionalista può mancare; tutti con le bandiere delle Due Sicilie a lutto e ceri accesi in direzione di Largo di Palazzo dove, ai piedi della statua di Carlo di Borbone, sarà deposta una corona di fiori in onore di tutti i martiri che hanno perso la vita per il Sud.

Il 17, giorno della festa nazionale indetta per celebrare la prima seduta del parlamento di Torino del 1861, ci ritroveremo invece in Piazza dei Martiri, dove i 4 leoni (rappresentanti i caduti partenopei della della repubblica napoletana del 1799, dei moti carbonari del 1820, dei moti liberali del 1848 e di quelli garibaldini del 1860) sono “colpevolmente” orfani di un quinto leone, quello simboleggiante i soldati Napoletani morti in battaglia per difendere la patria duosiciliana. 
Li i rappresentanti delle varie associazioni grideranno delle parole emblematiche della colonizzazione del Sud alle quali tutti i presenti risponderanno al grido di “malaunità”.

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Martedi 15 Marzo 
Maschio Angioino – Sala della Loggia

ore 17:00 – PRESENTAZIONE DEL LIBRO-VERITA’ SUI 150 ANNI 
MALAUNITA’ – 1861-2011 Centocinquant’anni portati male

Spazio Creativo edizioni

presenti tutti gli autori: 
Pino Aprile, Lorenzo Del Boca, Gigi Di Fiore, Ruggero Guarini, Lino Patruno, Eddy Napoli (brani allegati al libro) 
(prefazione di Jean Noël Schifano) 
Felice Abbondante, Antonio Boccia, Pompeo De Chiara, Gennaro De Crescenzo, Angelo Forgione, Vincenzo Gulì, Salvatore Lanza, Giuseppe Picciano, Alessandro Romano, Lorenzo Terzi.

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Mercoledì 16 Marzo 
Piazza e Chiesa di San Ferdinando, Largo di Palazzo

VEGLIA DELLA VERITA’ STORICA 
ore 18:00 – APPELLO AI CADUTI E PREGHIERA IN SUFFRAGIO 
Chiesa di San Ferdinando, Lettura simbolica dei nomi dei soldati, dei briganti e degli emigranti 
ore 20:00 – CORTEO DELLA MEMORIA 
Raduno meridionalista nell’area antistante il Palazzo Reale in Piazza San Ferdinando. Segue corteo con bandiera storica e cero acceso, deposizione corona di fiori in onore dei martiri del Sud in Largo di Palazzo

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Giovedì 17
Marzo
Piazza dei Martiri

FLASH MOB – IL SUD URLA IL SUO MARTIRIO

ore 10:30 RADUNO / ore 12:00 FLASH MOB 
I meridionalisti insieme al grido di “Malaunità”

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coordinamento:
MOVIMENTO NEOBORBONICO
MOVIMENTO V.A.N.T.O.
INSIEME PER LA RINASCITA
RDS

evento su Facebook

 
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«Per i ribelli del Sud una Guantanamo a Macao o Timor Est»

Post n°1541 pubblicato il 09 Marzo 2011 da luger2
 

Nuovi documenti emergono dagli Archivi della Farnesina: già un anno dopo l'Unità d'Italia, i Piemontesi tentarono di deportare i ribelli Meridionali in una colonia portoghese nell'Oceano. Quel piano diabolico fallì e così furono allestiti due lager al confine con la Francia. Fulvio Izzo: vi furono internati 30.000 giovani del Sud, molti morirono di freddo e di stenti! 

BARI - La notizia (pubblicata dalla Gazzetta) che, per sconfiggere il Brigantaggio, la neonata Italia ha tentato di disfarsi dei Meridionali anti piemontesi deportandoli in una «Guantanamo» lontana mille miglia dal Belpaese, ha destato scalpore. Decine di e-mail sono arrivate in redazione. Molte sono di cittadini sgomenti: ignoravano questa parte di Storia, della «loro» Storia. 

Ma i documenti diplomatici conservati presso l’Archivio storico della Farnesina offrono nuove sorprese. Infatti, da un dispaccio emerge che, manco un anno dopo l’Unità d’Italia, il nuovo regime stava già tentando di spedire all’estero i «ribelli» del Mezzogiorno. Si tratta di un documento datato 17 novembre 1862. Lo firma il ministro a Lisbona, della Minerva, e il destinatario è il ministro degli Esteri, Giacomo Durando(che era di Mondovì, in provincia di Como). 

Della Minerva “stoppa” i Piemontesi e li avvisa che il loro piano è stato scoperto e reso pubblico da alcuni (non meglio identificati) giornalisti. Il messaggio, tradotto dall’originale che è in francese, fa esplicito riferimento al fatto che il carteggio contenente le trattative tra Italia e Portogallo «per la cessione di isole nell’Oceano, allo scopo di relegarci i briganti» è stato pubblicato. Durando deve quindi sapere che la pressione esercitata da un’«opinione pubblica» sdegnata, ha costretto le autorità portoghesi a smentire ogni cosa. «Io penso che, per il momento - conclude Della Minerva - è meglio sospendere» ogni iniziativa e tentare di portarla a termine «con successo» in un «secondo momento». 

Quindi alle «mete» di deportazione già riportate dalla Gazzetta (ovvero il Borneo, un’Isola dello Yemen, un tratto desertico tra Argentina e Patagonia, un pezzetto di Tunisia), bisogna aggiungerne di nuove. Ma in quale colonia oceanica del Portogallo, l’Italia neonata voleva spedire i meridionali anti Savoia? Venirne a capo non è semplice. I portoghesi, infatti, furono tra i più attivi (e longevi) colonialisti. Già nel XVI secolo erano i numeri uno. 

Prendendo a riferimento il documento odierno, possiamo certamente escludere che si tratti di terre dell’Oceano Indiano (colonie già tutte perse al 1862). Spulciando, invece, i possedimenti portoghesi nell’Oceano Atlantico, troviamo: Capo Verde (che è stata colonia della corona fino al 1951); Le Azzorre che erano distretto d’oltremare tra il 1831 e il 1979), così come Madeira (1834-1978); sennò c’erano São Tomé e Príncipe (colonia della corona dal 1753 al 1951), che oggi è un piccolo Stato dell’Africa centro-occidentale, composto da due isole del golfo di Guinea, a oltre 200 km dalla costa nord-occidentale del Gabon. 

Nell’Oceano Pacifico, infine, il Portogallo ha avuto una miriade di territori in India, ma anche Indonesia. Per cui forse l’Italia dei Piemontesi voleva mandare i Meridionali in quella che allora si chiamava Timor-Leste (oggi Timor Est), colonia subordinata alla così detta «India Portoghese» (1642-1844). O forse il loro piano diabolico aveva nel mirino Macao che è stato provincia d’oltremare tra il 1844 e il 1883 e, comunque, "colonia" portoghese fino al 20 dicembre 1999 (oggi è regione sotto amministrazione della Repubblica Popolare Cinese). 

Unità dQuale che fosse la meta ultima, è certo che - anche grazie alla stampa dell’epoca - il piano naufragò. Per i successivi dieci anni, però, i Piemontesi continuarono a far pressioni sulle diplomazie internazionali. A tale riguardo, vale la pena di ricordare cosa disse il ministro degli Esteri, Emilio Visconti Venosta (milanese e mazziniano), al ministro d’Inghilterra Sir Bartle Frere, nel loro incontro del 19 dicembre 1872: «Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti ». 

«Bisogna dunque pensare - disse il ministro della neonata Italia - ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti all’idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col più grande stoicismo incontro al patibolo». 

Merita d’esser sottolineato che le «popolazioni del Mezzodì» che Venosta voleva terrorizzare erano italiani. Italiani a tutti gli effetti, da 11 anni.
MARISA INGROSSO  
http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it

 
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"Vittoriu Manueli re d'Italia, vinisti a cunsumari la Sicilia"

Post n°1540 pubblicato il 08 Marzo 2011 da luger2
 

21 Ottobre 1860 - L'annessione.

In vista di un definitivo assetto alla situazione politica italiana le correnti meno sensibili alle pressioni torinesi, rifacendosi idealmente all'antico partito costituzionale, chiedevano una Costituente Siciliana alla quale demandare il compito di fissare le modalità d'inserimento della Sicilia nel snuovo regno.

Si sosteneva, infatti, che solo un'assemblea costituente poteva votar in maniera legale ed indipendente le future sorti della Sicilia.

E tra quanti chiedevano un'annessione patteggiata vi erano quelli che si preoccupavano del destino delle ricchezze siciliane, per il loro possibile assorbimento nell'igeente debito pubblico piemontese.

 Alla fine del settembre 1860, l'accordo tra i democratici e i moderati autonomisti sul futuro assetto costituzionale della Sicilia induceva il Mordini a fissare per il 5 Ottobre l'inizio dei comizi per l'elezione dell'Assemblea siciliana che avrebbe dovuto decidere le modalità di annessione all'Italia.

 Intuito il pericolo che correvano i suoi progetti, Cavour faceva approvare dal Parlamento di Torino una legge che autorizzava il governo ad accettare per regi decreti le "annessioni incondizionate da farsi con i plebisciti" e inviava a Napoli alcuni emissari a convincere Garibaldi sulla necessità di adottare tale soluzione nei territori occupato, prima che una possibile guerra con la Francia e l'Austria, causata dal ventilato attacco garibaldino allo Stato Pontificio, potesse compromettere irrimediabilmente tutti i risultati della sua azione rivoluzionaria.

 Obbediente come sempre, Garibaldi imponeva, allora, al Crispi di accettare l'impostazione torinese per l'annessione immediata della Sicilia.

 Così il Mondini, con una clamorosa marcia indietro, trasformava, a pochissimi giorni dal voto, le elezioni per l'assemblea Costituente Siciliana, in quelle per il plebiscito unitario con la proposizione "Vogliamo l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale ed i suoi legittimi discendenti".

L'ambiguità di tale formula, diversa da quelle usate in Emilia e Toscana. dove si consentiva di scegliere tra "Annessione alla monarchia costituzionale del Re Vittorio Emanuele II" o "Regno separato"  , presupponeva un'adesione totalitaria, poiché non offriva alternative.

 Una moltitudine di capipopolo e propagandisti politici, burocrati in cerca di facile carriera e arrivisti di ogni genere venivano, subito, mobilitati dagli annessionisti e dai numerosi agenti cavuriani presenti in Sicilia, mentre si distribuivano in abbondanza posti, incarichi, gradi e quant'altro per convincere alla bontà dell'immediata annessione.

 La promessa di Cavour: " La Sicilia ha ben diritto all'autonomia. Essa è la sola terra italiana che abbia antichissime tradizioni parlamentari ", pareva, inoltre, dare sufficienti garanzie in tal senso.  

 Il 1 ottobre 1860, con 432.053 si contro 667 no, vinceva l'annessione incondizionata al regno di Vittorio Emanuele e al nascente Stato italiano.

 Ma all'epoca osservatori come l'ambasciatore inglese a Napoli o il ministro Lord John Russel concludevano nei loro rappporti che "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore"

 Come poi ha confermato anche lo storico Mark Smith i "Cavour e Garibaldi nel 1860", le modalità di votazione erano tali che "...Quella del suffragio universale era evidentemente un'espressione arbitraria".

 Il decreto di votazione emanato dal prodittatore Pallavicino a Napoli ed adottato dal Mordini in Sicilia stabiliva, infatti, in spregio ad ogni esigenza di sicurezza, che "...Si troveranno nei luoghi desinati alla votazione su di un apposito banco, tre urne: una vuota in mezzo e due laterali, in una delle quali  saranno preparati i bollettini con si e nell'altra quelli con no, perché ciascun votante prenda quello che gli si aggrada e lo deponga nell'urna vuota."  

Ed ancora il Mack Smith: "... Sarebbe facile dimostrare come, in molti casi particolari, il sistema usato non fosse il metodo per sincerarsi della volontà popolare. La votazione era pubblica, su un palco, con due urne aperte perché tutti vedessero quale fosse quella scelta... Davanti a un semicerchio di agenti lafariniani travestiti, con facce scure e aria di mistero, seduti al centro della navata."

Con l'annessione si esauriva in Sicilia la fase predittatoriale. mentre il governo di Torino acquistava tutta la possibilità di dispiegare la sua politica autoritaria ed accentratrice e di paralizzare l'efficacia dei provvedimenti meno graditi della Dittatura e della Prodittatura.

 
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Estate 1861, il massacro dei «briganti»

Post n°1539 pubblicato il 08 Marzo 2011 da luger2
 

Ad Auletta 45 morti nella rappresaglia all’insurrezione popolare, 200 gli arrestati dalle truppe sabaude

Una targa commemorativa

Una targa commemorativa

 

SALERNO - Estate del 1861. Un pugno di mesi appena dalla proclamazione dell'Unità d'Italia, e già l'intero Mezzogiorno brucia in un inferno di sangue e violenza. Nei territori periferici dell'ormai defunto Regno delle Due Sicilie divampa furiosa la rivolta legittimista contro le truppe piemontesi, contro la leva obbligatoria, contro le nuove tasse. Una vera e propria guerra civile, liquidata troppo frettolosamente dalla storiografia ufficiale come una successione di eventi puramente criminali. Campania, Lucania, Calabria: la mappa dell'insurrezione popolare è vasta. Decine i centri che si sollevano contro «l'invasore calato dal Nord» , aprendo le porte alle bande di «briganti», bruciando tricolori ed effigi della nuova dinastia sabauda. E scatenando rappresaglie ordinate dai vari Pallavicini, La Marmora o Cialdini, generale celebre per aver confessato di preferire di gran lunga «beduini affricani ai cafoni meridionali».

Una lunga lista di paesi martiri: Pontelandolfo e Casalduni i più noti, ma anche Auletta, teatro di un eccidio troppo spesso dimenticato. È il pomeriggio del 28 luglio quando una nutrita colonna di legittimisti invade il piccolo centro sulle rive del Tanagro. Accolta, secondo le accuse, da «ignobili feste, balli e canti». Da giorni i ribelli si concentrano nella vicina località Lontrano, in attesa di rinforzi che arrivano alla spicciolata. Contadini delusi, nobiluomini spiantati, disertori, soldati del disciolto esercito napoletano, cani sciolti. Disperati che non hanno nulla da perdere. Il primo atto, altamente simbolico, è la rimozione coatta dei ritratti di Vittorio Emanuele e di Garibaldi, i padri della Patria. Il vessillo borbonico sventola di nuovo sul palazzo comunale, mentre nella chiesa di San Nicola di Mira riecheggia il Te Deum il suono delle campane invita l'intero circondario alla rivolta. Possidenti e liberali filo-piemontesi si sono già volatilizzati da un pezzo, incalzati dallo spettro di inevitabili ritorsioni. Dalla vicina Pertosa, sede di un drappello della Guardia Nazionale, scatta immediato l'allarme. Decine di guardie e carabinieri calano su Auletta nel tentativo di snidare i ribelli ma vengono respinti a suon di fucilate.

Troppo alto il numero degli insorti: urge una repentina ed esemplare azione di forza, l'analisi dei vertici militari del VI Comando, anche per scongiurare pericolosi tentativi di emulazione. Si decide l'invio dei bersaglieri, affiancati da una squadra di mercenari ungheresi. Al soldo dei Savoia già da diversi anni, gli ausiliari magiari (ma non mancano polacchi, russi, tedeschi, americani, avventurieri e tagliagole) affiancano spesso le truppe sabaude, incaricandosi del «lavoro sporco». Li precede una sinistra fama, alimentata da stupri, saccheggi, abusi e vessazioni. I soldati espugnano Auletta all'alba del 30 luglio, attraversando quella contrada Piano lasciata indifesa dagli assediati. È il caos.

Per le strade e i vicoli si apre una caccia al brigante, criminale e stupida, lo si intuisce ben presto, poiché in giro ci sono soltanto civili inermi: i veri guerriglieri hanno ritenuto più conveniente ripiegare nei boschi che affrontare un avversario superiore per numero ed equipaggiamento. Il paese viene messo a ferro e fuoco. I colpi di baionetta come colonna sonora, basta uno sguardo, una parola di troppo, un semplice sospetto per finire davanti al plotone di esecuzione. Un massacro. Sono proprio gli ungheresi a rendersi protagonisti dei crimini più orrendi, penetrano nelle case, saccheggiano, bruciano. La furia cieca e selvaggia della rappresaglia non risparmia nemmeno i luoghi di culto. E i preti, additati come i veri ispiratori della sedizione.

Il parroco Giuseppe Pucciarelli viene barbaramente seviziato a coltellate nella canonica, letteralmente fatto a pezzi dalla soldataglia assetata di violenza. Che ha il tempo di far piazza pulita di arredi sacri, ex-voto e reliquie. Stessa sorte tocca a quattro religiosi, pestati a sangue in piazza, obbligati ad inginocchiarsi al cospetto del tricolore sabaudo tra risate di scherno ed umiliazioni. Uno di loro - «quasi ottantenne» raccontano le ingiallite cronache del tempo - non resiste nella scomoda posizione, prova ad alzarsi in piedi ma un sergente gli fracassa il cranio con il calcio del fucile. Il bilancio finale della mattanza è terribile: 45 morti accertati (ma potrebbero essere molti di più) e oltre duecento arrestati, condotti a marcire nelle carceri di Salerno con l'accusa di rivolta e cospirazione.

Raffaele Avallone 

Briganti catturati, in posa

 
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NAPOLI SOTTERRANEA

Post n°1538 pubblicato il 08 Marzo 2011 da luger2
 

        Sottosuolo, cavità, cunicolo, cisterna, ipogeo sono tutti termini che entrano a far parte del corredo linguistico di chi, in qualità di semplice viaggiatore, accorto visitatore, inguaribile curioso o interessato ricercatore, decide di immergersi nelle viscere di una città speculare rispetto a quella che è possibile vedere in superficie; e qui è più corretto usare il verbo ammirare piuttosto che vedere in quanto tutto ciò che Napoli offre, dai più svariati punti di vista sia in superficie che nel sottosuolo, suscita da sempre vera ammirazione.

Appare chiaro che perdersi nell’intricato tessuto di strade, vie, vicoli e piazze del centro storico costituisce di per sé un viaggio affascinante nella storia di un territorio ricco di significati e nel carattere di un popolo estremamente vitale e comunicativo; infatti in superficie, e cioè nel bel mezzo di quel teatro mobile il cui proscenio è rappresentato dalle strade e dagli spazi di vita comune, si può esercitare, anche in solitudine, quella forma di meditazione vagabonda che costantemente si intreccia con il racconto delle cose che si vedono e delle persone che si incontrano. Chi scrive lo può testimoniare in quanto ogni volta che ne ha la possibilità cammina per la città ed esercita una forma di meditazione mediterranea che, a Napoli più che in ogni altra città, conduce al cuore della conoscenza e di quella concretezza che Eraclito, in “Dell’origine”, spiega limpidamente: “soltanto le cose che posso vedere, udire, conoscere direttamente, io prediligo”. Appare altrettanto chiaro che per poter affermare di conoscere veramente la nostra città è necessario compiere un ulteriore passo, non in senso lineare, bensì in discesa ovvero in quel sottosuolo dove è opportuno essere accompagnati, per non perdersi ma anche per poter meglio comprendere le radici stesse di una cultura millenaria.

Le guide dell’associazione culturale Napoli Sotterranea (www.napolisotterranea.org ), da circa venti anni, conducono i visitatori nella Napoli greco-romana e, in una emozionante escursione che dura poco meno di due ore, disvelano progressivamente la storia e i misteri partenopei in un ritorno alle origini che prende avvio, in piazza San Gaetano, dopo aver sceso i circa 121 scalini di accesso all’acquedotto Bolla e dopo aver raggiunto i 42 metri sotto il livello della città. Se è vero che, nei miti fondativi della città antica, l’habitat umano doveva riprodurre il Cosmo sia pur in scala ridotta, allora piazza San Gaetano che sorge laddove insisteva il Tempio dei Dioscuri, l’Agorà greca prima e il Foro romano poi ed ancora gli edifici civili, continua a rivestire il centro sacro simbolico di tale microcosmo nonchè il centro della vita politica, sociale e commerciale della città. E’ in altre parole la sua vera anima. Quale punto d’accesso migliore poteva essere scelto per affrontare una discesa che ripropone, nonostante il materialismo che caratterizza i tempi moderni, una vera e propria esperienza rituale tipica dei culti misterici? Chi compie questa visita ha modo di accorgersi, con estrema e immediata chiarezza, che il carattere luminoso e solare della città incontra quella che può essere definita una natura tenebrosa e perciò densa di mistero. Nonostante il calo di presenze turistiche registrato a Napoli negli ultimi anni – dice Enzo Albertini presidente dell’associazione e speleologo di chiara fama – è quasi d’obbligo per tutti coloro, italiani e stranieri, che visitano la nostra città, venire qui e scendere obbedendo a un fortissimo istinto di curiosità ma anche ad un passaparola internazionale che ha fatto conoscere il nostro sottosuolo in tutto il mondo”. Cosicchè lo staff è organizzato per offrire assistenza e spiegazioni, in qualsiasi lingua, sia a un generico pubblico di turisti che a studiosi e ricercatori. Varcata la soglia del civico 68 di piazza San Gaetano, il suggestivo itinerario si snoda per circa un chilometro fra cisterne, cunicoli intonacati e labirintici passaggi che danno una idea di quegli oltre 600mila metri quadrati di sotterranei scavati interamente in una roccia che è stata sfruttata per almeno tremila anni in maniera ben documentata, per circa 5000 anni secondo ipotesi di studio che sconfinano nel mito, e che solo negli ultimi quaranta anni è stata sostituita da altri materiali come il calcestruzzo armato. Ci riferiamo ovviamente al famoso Tufo giallo napoletano, in termini geologici la più giovane roccia da costruzione, caratterizzato da grande leggerezza, ottima lavorabilità, e buona presa con le malte, con cui le antiche maestranze costruirono edifici tanto alti da stupire i viaggiatori. Forse, a conferma della tesi di Strabone circa la leggendaria presenza dei Cimmeri laddove oggi c’è Napoli e delle testimonianze ulteriori di Plinio il vecchio, Tito Livio e Seneca, i napoletani potevano anche, a bon droit, essere definiti un popolo di minatori. Se ne trova traccia nel toponimo “Monte” che veniva usato frequentemente, a Napoli, per indicare i banchi tufacei come nel caso di Monte Echia, lì dove furono effettuate le originarie estrazioni lungo il bordo della falesia al fine di costruire i primi edifici sull’isola Megaride e successivamente per l’edificazione di Partenope, città ispirata alla omonima Sirena. In effetti viaggiando con la fantasia e ascoltando le spiegazioni che le guide sapientemente offrono ai visitatori, diventati per l’occasione aspiranti speleologi, pare di sentire gli echi lontani del lavoro di cava dove colpi di “smarra” e “zappone” venivano vibrati con potenza sui “cugnuoli” in ferro o legno con cui venivano staccati i quadroni tufacei; così come pare di vedere gruppi di “tagliamonte”, “spaccatori”, ”rompitori” e “alzatori” intenti alla lavorazione di una roccia giallo paglierino che contraddistingue, ancora oggi, il Castel dell’Ovo sull’isoletta Megaride, Palazzo Donn’Anna a Posillipo, il Castel Sant’Elmo sulla collina del Vomero e un’infinità di costruzioni realizzate fra il punto più basso e il punto più alto della città. Letteralmente sospesi alle “greppiate” piccole prese scavate lungo le pareti, i free climbers dell’antichità scavarono circa otto milioni di metri cubi di vuoto nel sottosuolo ad oggi esplorato, consentendo a Greci e Romani di realizzare l’acquedotto Bolla a pelo libero e disseminato di cisterne di raccordo e pozzi in ogni palazzo cittadino e l’acquedotto Augusteo ovvero il più grande sistema acquedottistico dell’impero romano, dotato di una fitta rete di tubi (fistulae plumbee) che distribuivano l’acqua in pressione direttamente presso le abitazioni; ne rimane prova inconfutabile a Pompei. Parliamo di una rete idrica che ha funzionato, fra alterne vicende e opportunamente potenziato dall’acquedotto del Carmignano nel 1629 e da quello Carolino nel XVIII secolo., per circa 2.300 anni. Ed è proprio attraverso le gallerie di servizio, in particolare del Bolla così chiamato dalla contrada di Volla dove avveniva la captazione delle acque di falda, che i gruppi di visitatori possono seguire le tracce e i segni distintivi degli ingegneri e dei minatori del passato nonché dei pozzari che per un lunghissimo periodo furono padroni incontrastati delle acque cittadine e dell’intero sistema distributivo. Inoltre gli stessi visitatori possono leggere le firme, i graffiti e i disegni che, con ogni mezzo, furono realizzati da coloro che, per scampare ai bombardamenti americani della metà degli anni ’40, si rifugiarono proprio nelle cavità sotterranee e in questi stessi tratti di acquedotto oggi percorribili con Napoli Sotterranea. Paura e sentimenti drammatici si leggono in quei messaggi, scritti a memoria dei sopravvissuti, da decine di migliaia di cittadini che decisero di rifugiarsi in quegli improvvisati e provvidenziali rifugi antiaerei che di fatto consentirono a molti di essi di salvarsi. Si capisce dunque che il percorso da seguire offre più livelli di lettura, a seconda della sensibilità individuale e della profondità delle conoscenze. Eppure ci troviamo, tutto sommato, a visitare una piccolissima parte di quelle molte centinaia di cavità che si estendono anche oltre il perimetro cittadino e di cui per elencarne i soli nomi occorrerebbero circa 40 pagine dattiloscritte; ancora nel 1923 il Dall’Erba nel volume “Tufo Giallo Napoletano” elenca una settantina di cave ancora in funzione fra Arenella, Camaldoli, Cristallini, Fontanelle, Piedigrotta, Posillipo, Sanità, Scudillo e Vomero. A titolo di curiosità ricordiamo che il primo provvedimento contro l’abuso edilizio ante litteram si concretizzò nelle 7 prammatiche emanate dal Vicerè don Pedro di Toledo marchese di Villafranca che, nel 1566, vietavano l’edificazione all’interno delle mura cittadine al fine di arginare l’esodo dalle campagne verso la città; in quei frangenti i cavamonti, per non dare nell’occhio trasportando alla luce del sole il tufo da cave lontane, estrassero il prezioso materiale proprio dalle cisterne dell’acquedotto Bolla ampliandole e rendendole accoglienti per i rifugiati della Seconda Guerra Mondiale. In altre parole fiorirono le sopraelevazioni con tufo proveniente direttamente da sotto i fabbricati; una delle ragioni per cui i vuoti volumetrici dei sotterranei equivalgono ai pieni volumetrici di superficie attestando una “continuità geologica” unica al mondo nonché una speciale “elasticità” che avrebbe salvato la città da terribili onde sismiche che nel corso dei secoli hanno più volte attraversato le ampie cavità del sottosuolo.

Tornando alla meritoria attività dell’associazione Napoli Sotterranea (info@napolisotterranea.org ), va detto che fino a qualche mese fa la classica escursione prevedeva una serie di visite: al rifugio antiaereo con la ricostruzione di un carro armato, alla cisterna del pozzaro, alla cava di tufo greco-romana dove con un’apposita animazione viene illustrata l’attività dei cavamonti, alla cisterna greca e alla cisterna romana dove viene mostrato un pozzo in funzione, ad un passaggio con candele fra strette intercapedini non più larghe di 50 cm. per una lunghezza di circa 150 metri (estremamente suggestivo), all’esperimento botanico avviato negli anni ’80 con l’intento di dimostrare che alcune piante senz’acqua e con luci fredde, appositamente installate, possono sopravvivere grazie alla forte umidità presente nei sotterranei ed infine ai resti del teatro greco-romano cui si accede spostando un letto all’interno di un tipico basso in Vico Cinquesanti. Oggi ci sono novità importanti che arricchiscono di contenuti ed emozioni la visita al sottosuolo di Napoli ed Enzo Albertini ce le rammenta con giusta soddisfazione: “abbiamo allestito una esposizione di circa 30 presepi del ‘700 e dell’800 dopo averli cercati per circa tre anni in giro per l’Europa, acquistati in Francia, Spagna e Italia e opportunamente restaurati; così facendo abbiamo voluto celebrare i 150 anni del presepe neoclassico fortemente amato e voluto da Carlo III° di Borbone che ne ha, in buona parte, stabilito i canoni estetici. Gli scarabattoli, tutti rigorosamente settecenteschi e ottocenteschi come i presepi che contengono, sono stati esposti in un ambiente appartenente sempre alla summa cavea del Teatro Romano, dove Nerone si esibiva ogni volta che poteva, cui si accede da un altro suggestivo basso da noi recentemente attrezzato per questa particolare mostra permanente che è arricchito anche di altri manufatti artistici come le splendide riggiole napoletane del ‘700”. Nello stesso ambiente i ragazzi delle scuole, volendo, possono assistere alla preparazione della pizza nella esatta maniera in cui viene preparata a Napoli e il luogo, per l’occasione, assume il nome di pizzeria “o’ munaciello”. Non contento di tutto ciò il presidente Albertini ha realizzato una installazione che prevede, al di sotto dell’area sacra di San Paolo Maggiore e precisamente all’interno del pozzo al centro del chiostro, la movimentazione lenta e drammatica di un grappolo di bombe di aereo per ricordare il terribile bombardamento dell’agosto del 1943 e il provvidenziale e miracoloso disinnesco delle tre bombe che, incastrandosi fra le pareti del pozzo, non esplosero; il tutto è visibile durante il percorso ed è opportunamente contestualizzato con il piccolo ma nutrito war museum in superficie e visitabile alla fine del giro semispelologico. Nel museo sono visibili, oltre a auto e moto militari dell’epoca, armi, cimeli, attrezzature, uniformi, elemetti e insegne; un vero concentrato di storia contemporanea e testimonianze ancora vive nella mente degli anziani. Durante la visita si staziona in quella che per molto tempo è stata la cantina del complesso conventuale di San Gregorio Armeno dove si conservava un vino molto particolare, dedicato a Santa Patrizia che ogni martedì scioglie il sangue, dal nome “Tufello” in quanto le bottiglie venivano riposte a stagionare in involucri di tufo; ebbene anche questa tradizione è stata ripresa dall’associazione Napoli Sotterranea che lo commercializza riproponendo un antico prodotto dove il sapore dell’uva e l’odore del tufo ne fanno un unicum.

Per chiudere, Rosaria Albertini anch’essa guida infaticabile e animatrice dell’attività associativa, illustra un’altra nuova iniziativa ovvero l’apertura del Caffè della Stampa, proprio di fianco alla Basilica di San Lorenzo Maggiore altro luogo simbolo della Napoli Underground; qui i giornalisti vengono accolti con un scontistica particolare ma soprattutto trovano un vero e proprio contact point per potersi incontrare, per leggere, per scrivere, per pensare e soprattutto per raccogliere gli umori e le sensazioni dei turisti italiani e stranieri che, ci si augura, continuino ad affollare i cardini e i decumani di una delle più belle città del mondo.

Info: Napoli Sotterranea Associazione culturale Piazza San Gaetano 68 – NapoliTel. 081/29.69.44 Cell. 368/35.40.585 www.napolisotterranea.org mail: info@napolisotterranea.org  Escursioni: da lunedì a venerdì ore 12.00 – 14.00 – 16.00 Giovedì anche alle ore 21.00 Sabato, domenica e giorni festivi ore 10.00 – 12.00 – 14.00 – 16.00 – 18.00 Per gruppi, scuole pubbliche e private si accettano prenotazioni anche in orari diversi. Si consiglia una felpa anche in estate per temperatura costante di 18° e tasso d’umidità pari al 90%. 

 

 
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Il Sud, il Sudismo e l'Unità d'Italia

Post n°1537 pubblicato il 08 Marzo 2011 da luger2
 

Recentemente, in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia, si è avuto al Sud un risveglio dell'orgoglio sudista in netta contrapposizione al Risorgimento.

Ma mi domando:

 Ci voleva il cento-cinquantennale dell'unità d'Italia per risvegliare questo fermento?

 Libri come Terroni di Pino Aprile, non sono una novità, i fatti del Risorgimento al Sud sono noti e sono stati pubblicati già da diversi lustri, a memoria di una "invasione" si, ma di una invasione sui generis in cui gli eserciti non hanno quasi combattuto e in cui l'"invasore" fu visto da molti come un liberatore dalla tirannide.

Allora occorre interrogarsi sul perché ciò avvenne.

 Il vero male fu l'invasione oppure altro?

 Perchè i generali dell'esercito borbonico lasciarono campo libero a Garibaldi (rischiando anche l'esecuzione per tradimento qualora le cose fossero andate diversamente) e molti siciliani si unirono a lui e morirono per lui ?

(tra questi anche un mio antenato, cugino del  mio trisnonno che prese una pallottola per salvare Garibaldi e gravemente ferito alla mascella morì 1 anno dopo rifiutando la pensione, perchè "ciò che si faceva per la Patria non aveva bisogno di ricompensa").

Non fu per corruzione (o almeno non solo e non per tutti) ma per "speranza".

 Perché da sempre la Sicilia è stata la "spiaggia" per chiunque volesse invadere l'Italia?

La mia opinione è che già a quei tempi il male del disinteresse della classe dirigente per il popolo fosse radicato nella terra di Sicilia cosi come nel Sud. Da sempre il popolo insoddisfatto è pronto ad

accogliere a braccia aperte l'invasore, pensando che: "chiu scuru i menzanotti un po fari" (non può essere più buio di mezzanotte),

quindi qualunque cambiamento non può portare che ad un miglioramento.

 Così non fu per l'unità di Italia, si passò dal dispotismo dei Borboni al Nordismo dei Savoia.

Gli alti ideali di Mazzini e Garibaldi furono traditi e loro, i veri padri della Patria terminarono la loro vita in esilio, mentre l'Italia piemontizzata era nelle manine della più bassa delle monarchie europee: quella dei Savoia.

Leggi a senso unico, depredarono il Sud delle sue casse pubbliche (con cui fu ripianato il debito pubblico del Piemonte) e delle sue migliori risorse sia materiali che umane. La Mafia prese campo anche grazie alla disponibilità di manodopera "qualificata" proveniente dal brigantaggio creato dall'iniquità delle leggi piemontesi.

Il "cambiamento" sperato dai siciliani garibaldini, non aveva gattopardescamente cambiato nulla, perchè forse quello estirpato da Garibaldi non era il vero male della Sicilia.

 Non era e non è un problema chi sia il Re o il Presidente, il problema è l'inettidune della classe dirigente Siciliana! Lo è e lo è sempre stato!

Non a caso l'unico periodo di sviluppo per la nostra terra si è visto nel periodo dal dopoguerra alla caduta del muro muro di Berlino, in cui per esigenze di guerra fredda si era puntato sull'integrazione nella classe dirigente siciliana (e non solo) delle migliori intelligenze dell'epoca.

Finita questa priorità si è tornati velocemente alla antica vergogna. Con una classe dirigente per cui il basso quoziente intellettivo e la meschinità morale sono tornati ad essere fattori di merito.

 Dunque come vivere da siciliano fiero di esserlo i festeggiamenti per il "Risorgimento-invasione"?

 Io penso che sia un bene il "Risorgimento" inteso come rinascita del sentimento di dignità del Sud. L'orgoglio di essere meridionali consapevoli dei nostri errori e della nostra storia.

Occorre imparare dal passato per trovare la forza e la capacità di creare una nuova classe dirigente supportata da siciliani e meridionali che vogliono affrontare da sé i propri problemi senza cadere nel "vittimismo piagnone" che è causa della nostra cattiva immagine.

Non basta applicare lo Statuto dell'autonomia che già abbiamo, occorre che sia applicato da persone degne e capaci!

Senza questo cambiamento interno ogni cambiamento sarebbe inutile: la storia ce lo insegna.

Consapevolezza della nostra identità e comprensione dei nostri errori per non perpetuarli all'infinito.

Nessuno ci può salvare dalla decadenza se non noi stessi!

Come sostiene Marcello Veneziani (componente del comitato per i 150 anni e del Comitato Roma Capitale) le celebrazioni per l'unità d'Italia devono essere una occasione di confronto storico non negando la verità dei contrasti ed integrando dialetticamente e civilmente per ricordare le divisioni del passato e riflettere sul futuro.

Un futuro che non sarà diverso dal passato e dal presente se non impariamo dai nostri errori e non ci attiviamo per estirpare il vero male del Sud.                                                                                                                           

un mio pensiero di Gandolfo Dominici da FB                                               

 
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CATALOGNA - REFERENDUM SULL’INDIPENDENZA

Post n°1536 pubblicato il 08 Marzo 2011 da luger2
 

COME IL SINGOLO DA CORPO E VOCE AL PROPRIO POPOLO

Un’esperienza indimenticabile, quella di essere stato osservatore internazionale in un momento in cui i cittadini catalani hanno dato voce al loro popolo e gli hanno permesso di rendere evidente il suo essere nazione, con una propria soggettività politica dotata di diritti, politici, culturali e decisionali, reali e concreti e indisponibili dallo stato dominatore spagnolo che li vuole continuare a negare.

Domenica 10 aprile 2010, altri 3 milioni di cittadini catalani compresi in Barcellona e circondario, pronunciandosi sul  Siete voi favorevoli a che la Catalogna sia uno Stato sovrano, sociale e democratico, integrato nella Comunità Europea ?” avranno l’onore di esprimere la propria parte di responsabilità individuale e di collettivizzarla con gli altri per dare corpo e azione all’individuo che li contiene tutti, la NAZIONE CATALANA.

Molti cittadini della Catalogna, non si renderanno conto subito, che esprimendo il loro voto hanno fatto vivere ed agire la loro nazione “fuori” dalla Spagna, liberandola dalla gabbia delle sue leggi, dalle categorie mentali da essa imposte e da quella del vivere “normale” da spagnoli.

Come osservatori internazionali, certificando i seggi elettorali, nei volti e nell’agire dei catalani che votavano,  abbiamo visto l’incredulità e la sorpresa, diventare certezza e consapevolezza di essere stati membri e organi di un corpo che senza di loro non si sarebbe mosso.Una forte emozione, quella di sentirsi indispensabili per il proprio popolo.

Quella emozione ha pervaso anche noi, osservatori internazionali e multinazionali, ci siamo abbracciati ed abbiamo abbracciato il nostro accompagnatore catalano, abbiamo voluto condividere l’emozione anche con il corpo, e stata troppo forte la sensazione, anzi la certezza, di essere stati anche noi indispensabili per la nazione catalana.

Merito a chi ha promosso l’iniziativa referendaria, ha rotto l’incantesimo della strega spagnola, ha permesso ai catalani di compiere un’azione da catalani, fuori dai cerimoniali di protesta, scontati, messi in conto e considerati fisiologici dallo stato dominatore.

Con quel referendum, la questione catalana è uscita dai confini intrastatali della Spagna, è ormai una questione “sopraconfini”, sta sul tavolo dell’Europa, la quale se ne deve occupare considerando lo stato spagnolo parte contraente alla pari con la Catalogna e deve arrivare ad una soluzione “politica”, valida anche per le altre nazioni senza stato, che interrompa la sudditanza e dia soggettività reale alle nazioni oppresse.

Anche in Sardegna si voterà un referendum, il 15 maggio 2011.

Grazie alle firme raccolte principalmente da SNI ed all’azione di propaganda e di decisa condivisione da parte del comitato.si.nonucle, i sardi saranno chiamati a pronunciarsi sulla contrarietà al nucleare, che lo stato italiano vorrebbe imporci.

Non è solo un referendum di tipo ambientale ma è principalmente un referendum di sovranità.

 

Un milione di votanti sardi, saranno chiamati a decidere sul loro futuro e sul futuro del loro territorio.

Ogni sardo avrà una scheda elettorale,  che vale un milionesimo di responsabilità, e responsabilmente dovrà, non solo DECIDERE  sulla questione nucleare, ma anche rendere evidente che le DECISIONI in Sardegna spettano unicamente al popolo sardo.

Una delegazione di Sardigna Nazione Indipendentzia, sarà presente a Barcellona dal 8 al 10 aprile per partecipare alla manifestazione “ PER L'INDIPENDENZA DELLA CATALOGNA“ e per le fare da osservatori internazionali nelle consultazioni referendarie del 10 aprile, sarà un’occasione per rivivere insieme la stessa emozione.

 

Cogliamo l’occasione per manifestarvi il desiderio di avervi ospiti in Sardegna in occasione del referendum sardo ANTINUCLEARE e DI SOBERANIA, del 15 maggio 2011.

Chin amistantzia manna .

NUGORO 07/03/02011    BUSTIANU CUMPOSTU  (Coordinadore Nazionale di SNI)

 
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LE MENZOGNE ALLA RISCOSSA

Post n°1535 pubblicato il 08 Marzo 2011 da luger2
 

Molto probabilmente hanno qualche problema se addirittura “Repubblica”, attraverso il suo settimanale, si è dovuto scomodare per intimare la resa ai Neoborbonici.

La pedissequa trattazione di una rispolverata retorica risorgimentale, priva dei più elementari riscontri documentali e bibliografici scevri dai condizionamenti del regime sabaudo, fa dunque scadere in basso come non mai questa testata giornalistica.

Sinceramente non immaginavamo che fosse questo il livello di decadenza politica ed asservimento culturale raggiunto da uno dei maggiori quotidiani italiani.  

Per quanto ci riguarda, siamo sereni perché siamo certi di stare dalla parte della verità e, quindi, dalla ragione.

All’autore dell’articolo che riportiamo integralmente rispondiamo: ”la storia non fa dietrofront quando non sono state le menzogne ed il disonore ad averla scritta”.

Qualcuno disse: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci”.

Evidentemente siamo giunti all’inizio dei “combattimenti”…. la vittoria si avvicina: basta solo perseverare senza arrendersi.

 

Cap. Alessandro Romano

 
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XI edizione "Premio Giglio del Sud

Post n°1534 pubblicato il 08 Marzo 2011 da luger2
 

Si terrà lunedì 21 marzo 2011 alle ore 18.00 a Modugno, presso la sala “B. Romita” in Via Maranda, 52 (Comando dei Vigili Urbani), l’XI Edizione del “Premio Giglio del Sud – Pino Tosca” che sin dalla sua istituzione, ha inteso omaggiare coloro i quali hanno dato lustro al Mezzogiorno d'Italia ed alla Cattolicità sul piano storico, artistico, culturale, ecc. La presente edizione avrà come oggetto di discussione “Il Sud tra risorgimento e federalismo” al fine di rimarcare le indubbie vessazioni causate dallo stato unitario ai danni delle popolazioni meridionali ed analizzare l'impatto del federalismo fiscale sul tessuto economico-sociale del Sud Italia.

La manifestazione culturale vedrà la partecipazione, in veste di relatori, di illustri ospiti tra i quali il Dott. Lino Patruno già direttore de “la Gazzetta del Mezzogiorno”, editorialista per la medesima testata, vincitore di decine di premi giornalistici ed autore di saggi e libri a carattere economico e sociale sul Mezzogiorno.

Altre relazioni di spessore saranno quelle di don Ugo Carandino (Centro Studi “Giuseppe Federici” di Rimini), sacerdote impegnato nella difesa della Messa Tridentina e ricercatore storico per ciò che concerne, in particolare, gli aspetti filosofici e culturali che hanno permeato l’ideale risorgimentale quale attacco alla Chiesa Cattolica ed al potere temporale dei Pontefici.

La giornalista napoletana Marina Salvadore, tratterà dei primati economici e culturali del Regno delle Due Sicilie quale Stato modello per la sua efficienza sociale, politica e morale nel consesso internazionale dell’epoca.

Il dott. Francesco Laricchia, coordinatore della "Rete Sud" tratterà dei risvolti geopolitici dell'importantissimabattaglia di Bitonto del 1734 che determinò la salita al trono di Carlo di Borbone a seguito della disfatta degli austriaci.

La Presidentessa Nazionale del Centro Studi sul Risorgimento e sugli Stati Preunitari, la modenese Elena Bianchini Braglia, tratterà invece della questione dei “plebisciti” alla base della “legittimazione democratica” del Regno d’Italia.

Una serata che si preannuncia ricca d’interesse e che sarà moderata dal giornalista Luca Barile.

 
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Genesi del meridionalismo

Post n°1533 pubblicato il 08 Marzo 2011 da luger2
 

Meridionalisti, Storici e venditori di taralli

All’inizio vi erano i Meridionalisti, tanto per citarne qualcuno ad esempio: Guido Dorso, Antonio Gramsci, Angelo Manna, per arrivare di recente a Pino Aprile etc. Poi arrivarono gli Storici e fecero tutt’uno con i Meridionalisti, tra questi ve ne sono molti a cominciare da Francesco Saverio Nitti, e recentemente Nicola Zitara e via discorrendo sino agli attuali Gigi Di Fiore, Gennaro De Crescenzo, Enzo Gulí, etc.Infine arrivarono coloro che, capita la forza del pensiero o meglio del prodotto e intuendo che ci si poteva speculare, formano un’intera sequela di personaggi e figuri che occuparono ogni spazio a portata di mano trattando il meridionalismo come fosse un qualsiasi prodotto da forno, dei taralli, per esempio. Memorabile è la figura della “maschera di picaresca sofferenza”, detto anche, mi dicono, il “tarallaro di San Nicola la Strada”. Questo individuo, che non si ferma davanti a niente ed a nessuno - nemmeno davanti agli affetti piú cari - proprio come si farebbe per il noto prodotto da forno, ne fa saggiare la bontà (metaforicamente parlando) poi, aiutato dai suoi compagni di merende, approccia i vari esponenti per piazzare il prodotto. La coerenza di questi soggetti è proverbiale. Si passa da ferventi “neoborbonici” a irriducibili “repubblicani” - tanto da divenire portavoce dell’allora Partito Socialista - per poi rientrare nelle schiere “tradizionaliste”, non prima di aver svernato nelle file dell’M.P.A. di Raffaele Lombardo. Da lí sono approdati alla “terza via” che, per chi non ne fosse a conoscenza, è la “socializzazione” (nel senso di repubblica sociale italiana) antagonista del Comunismo e del Fascismo. Per i piú, in verità, la “socializzazione” non è altro che il riciclaggio del fascismo alla sua caduta, ma si sa che la nostalgia e soprattutto gli interessi sono duri a morire.Come questi venditori di purtualle (arance) riescano ad uscire di casa è inspiegabile, che poi arrivino addirittura a candidarsi, rimane un mistero. Qualcuno potrebbe definire certe situazioni grottesche, secondo me questo punto è stato già superato da un pezzo. Non ultimo cronologicamente il fatto che si siano definiti “filoborbonici” (la famosa terza via del meridionalismo, o “quarta via” complessiva? Fate voi), la coerenza non è acqua, e neanche la classe. Fino a qualche momento prima questi signori non facevano altro che criticare ferocemente i “borbonici” per le loro retrograde idee (tra l’altro ho domandato a Gennaro De Crescenzo, presidente dell’Associazione Movimento Neoborbonico, chi fosse a professare la monarchia assolutista tra loro e lui di rimando mi ha detto di non sapermi rispondere perché questo di certo non era né è la linea politica del Movimento, né tantomeno quella sua personale). Tant’è, ma visto che il filone “tira” ora si dichiarano anche loro “filoborbonici”. Il problema è che il “picaro” non è il solo. Che il sottobosco del Meridionalismo fosse costernato di gruppi e gruppuscoli fascistoidi e repubblichini era noto, ma che questo sottobosco fosse diventato una palude di liquami fecali sinceramente è scoperta dura da mandare giú anche per i piú pessimisti. Nel frattempo i signori del Nord aiutati dai loro amici politici del Sud (M.P.A., Noi Sud, etc.) fanno i loro porci comodi. Il tutto per la solita e magna summa (del pensiero di questi meridionalisti): Franza o Spagna purché se magna. La grandezza dell’uomo si misura in base a quel che cerca e all’insistenza con cui egli resta alla ricerca, questo è quel che diceva Heidegger, io purtroppo inizio a pensare come Kant: La ragione umana viene afflitta da domande che non può respingere, perché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, e a cui però non può neanche dare risposta, perché esse superano ogni capacità della ragione umana.

di Guglielmo Di Grezia da http://www.duesicilie.org

 
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