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A volte mi domando
perche nessuno parla d'Amore
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come se fossi il solo a sentirlo.

Liberando i desideri
il momento che più amo
discende sempre da un Amore.

Con lo stesso suono 
e lo stesso volto che si perde
col vento,

in un tempo che non si conta
con i numeri, 
perchèil tempo
ha tutto il tempo,
per viverlo.

F.Franco  

 

 

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Post N° 424

Post n°424 pubblicato il 26 Giugno 2008 da CRIUNAMICAXTE

Esame di Sociologia dell'Educazione

26


Colossesi 3:17

Comunicazione di Servizio: dopo un esaltante esito, che
naturalmente non ho conseguito da "sola"...
mi accingo a preparare le valige per la mia imminente partenza per settimana di mare...
tutti al maaaree tutti al mareeeeee a mostrarr le chiaaappeee chiaaaareeeeee!!! ehehe
Ps: si ricorda ai signori e alle signore visitatrici che in questo blog tutti gli utenti possono postare... si tratta di un elevata forma di demoocrazia che non vorrei fosse confusa con anarchia... chi lo desidera dunque è invitato a lasciare traccia di se in mia assenza... a presto Cristina

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Commenti al Post:
CRIUNAMICAXTE
CRIUNAMICAXTE il 27/06/08 alle 00:00 via WEB
a dirla tutta sto disperatamente cercando un passo in cui si dice ... detta a modo mio: che non serve a niente andare a letto tardi o svegliarsi al mattino presto.. ne dannarsi perle fatiche se queste non sono fatte in nome SUo.. un pò è il senso di colossesi 3:17 ma io voglio quell'altro.. arò sta?
 
CRIUNAMICAXTE
CRIUNAMICAXTE il 27/06/08 alle 00:16 via WEB
lunedì 21 aprile 2008 L’espressione “spiritualità dello studio” nel passato serviva ad evocare un approccio totalizzante – da parte dello studente – all’esperienza dello studio universitario, assumendo quest’ultima come un dono ed un compito davvero unici per sviluppare e mettere a frutto i talenti di intelligenza e di buona volontà ricevuti dal Signore. Era segno di un generoso impegno a promuovere tutto ciò che favoriva lo studio e a contrastare ogni elemento che avrebbe potuto rendere meno arricchenti e formativi gli anni dedicati all’Università. Per questo essa è stata molto cara alla FUCI, che aveva trovato nel libro del suo più famoso assistente nazionale, Giovanni Battista Montini una preziosa ed efficace illustrazione: Coscienza universitaria. Note per gli studenti (1931). Oggi la locuzione “spiritualità dello studio” non si intende quasi più da sé. È diventata un vocabolo d’altri tempi, che non raramente suscita negli studenti il sospetto che la Chiesa voglia con questa storia riacciuffarli dopo che se ne erano liberati “grazie” al sacramento della Cresima (!). Certo un tale equivoco non è impossibile: è facile infatti pensare alla spiritualità dello studio come un intervento esterno alla dinamica dello studio, una sorta di spiritualizzazione della fatica intellettuale. Lo studio cioè sarebbe una realtà puramente umana, di certo non peccaminosa, ma quanto meno neutra che abbisognerebbe di una benedizione per poter divenire cristianamente apprezzabile. Tale equivoco va assolutamente rifiutato. Anzi nessun aggiornamento della spiritualità dello studio potrà essere efficacemente svolto se non la si libera da qualsivoglia ambiguità clericale. Il tentativo del presente scritto è proprio quello di assecondare il desiderio di “aggiornare” la spiritualità dello studio, di osarne un pensiero nuovo. Per questo è bene iniziare ad evidenziare e raccogliere i nodi maggiori, intorno cui riflettere. Ma una tale operazione è davvero necessaria e opportuna? Ritengo che nessuno possa onestamente negare che l’attuale configurazione degli studi accademici, dopo le recenti riforme, rischi seriamente di affievolire lo spirito dello studio universitario, di piegarlo a logiche altre, di sfigurarne l’identità. L’Università corre cioè il concreto pericolo di tradire se stessa e quindi di non essere più – come hanno dichiarato 372 Rettori di Università europee, nella Magna Charta Universitatum, firmata a Bologna il 18 settembre 1988 – «un’istituzione che produce e trasmette criticamente la cultura, mediante la ricerca e l’insegnamento». L’esperienza universitaria odierna con crescente difficoltà, in verità, rimane luogo di maturazione, di educazione, perché con sempre maggiore fatica riesce a porre in essere e a preservare le condizioni che garantiscano un’autentica e seria esperienza dello studio, la quale solo ha il potere di allargare gli orizzonti della coscienza umana e di diventare luogo di prova della consistenza del soggetto. Rischia, insomma, di favorire uno studio meno esigente, tradendo così il suo alto profilo di umanizzazione. E se un giovane non cresce lì dove dovrebbe crescere, certamente non potrà crescere lì dove non può crescere. Lo studio universitario, invece, se percorre la sua originale parabola, è momento irripetibile di crescita dell’umano tout court. In tale direzione ci si deve muovere nel ripensare la “spiritualità dello studio”. Essa, oggi, potrebbe indicare l’impegno – declinato a diversi livelli e da diversi soggetti, insomma non più unicamente dagli studenti – perché resti vivo lo spirito dello studio universitario, la sua vera intenzione, ciò che appunto ne è l’anima. Una riflessione su di essa dovrebbe, allora, incominciare con alcuni semplici interrogativi: cosa rispetta e che cosa contraddice lo “spirito” dello studio universitario? Con quale “spirito” si vive oggi l’esperienza dello studio universitario? E, correlativamente, con quale “spirito” l’istituzione accademica propone e promuove tale esperienza? La risposta a tali interrogativi non sfuggirà anche alla questione classica della spiritualità dello studio, sul come cioè essa sia connessa alla questione della fede e del credere dei giovani. Anzi dall’insieme di questa discussione potrebbe derivare qualche luce in più circa l’intenzionalità propria dell’azione ecclesiale verso il mondo dell’Università, chiamata normalmente Pastorale Universitaria. 1. Lo spirito dello studio universitario Tentiamo, dunque, di declinare l’espressione “spiritualità dello studio” secondo l’asse di riferimento che ci siamo dati e cioè come spazio di riflessione intorno alle modalità e condizioni in cui viene a piena realizzazione lo (spirito dello) studio universitario. Iniziamo con un’affermazione netta e precisa: lo “spirito” dello studio universitario consiste nel salvaguardare lo scarto esistente tra sapere il mondo e sapere i libri che parlano del mondo. Sapere il mondo: questo è lo scopo dello studio universitario, la sua differenza rispetto a quello delle scuole secondarie. Gli anni di studio in Università debbono portare lo studente a diventare esperto del mondo, perito del mondo: ovvero uno che entra in contatto diretto con esso, ne fa esperienza. Ex-per-ire significa attraversare il mondo, oltre (cioè non senza ma neppure solo con) i filtri della mediazione offerta dai libri. Per questo lo studio universitario non è finalizzato a sapere i libri che parlano del mondo (figuriamoci le dispense che parlano dei libri che parlano del mondo…). Quest’ultimo è certamente un sapere buono, ma assolutamente insufficiente, perché lo scopo dello studio universitario non è né quello di una preparazione generica né quello di imparare il sapere del docente, bensì quello di acquisire un sapere da specialista. Chi di noi non afferra l’abissale differenza che intercorre tra il sapere di biologia e il sapere da biologo? Il sapere di diritto ed il sapere da giurista, il sapere di filosofia ed il sapere da filosofo? Salvaguardare questo scarto è essenziale. Questo è lo scopo della vita universitaria. Ovviamente salvaguardare questo scarto costa fatica. La fatica dell’intelligenza. Ad essa fa da sempre segno la parola studiare. La conquista di quel salto che indica la differenza tra il sapere il mondo ed il sapere i libri che parlano del mondo è, però, un atto interno alla dinamica dello studio: che deve essere assecondata, insegnata e monitorata. Non è, in ogni caso, uno sforzo titanico del soggetto. 2. La “parabola” dello studio universitario Il verbo “studiare”, al suo livello elementare, significa il prendersi cura di qualcosa, l’interessarsi per qualcosa che abbisogna della nostra attenzione, per qualcosa che da sé non potrebbe sussistere. Indica dunque un uscire del soggetto dal cerchio della sua azione, un suo estraniarsi. Ma che cosa mette in moto l’uomo? Che cosa ne determina il movimento? Come è noto, Aristotele pone all’inizio del “filosofare” insieme il sentimento della meraviglia e quello dell’ignoranza: «Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica» (Metafisica, A2, 982b). All’origine del sapere filosofico, che per Aristotele è il paradigma per eccellenza di ogni altra applicazione dell’intelligenza umana, troviamo anzitutto meraviglia, che è esperienza della sorpresa, cioè dell’essere presi/afferrati da sopra/dall’alto: qualcosa ci prende, senza poter ancora elaborarne pienamente le ragioni. Per questo, di seguito, la meraviglia suscita un senso di dubbio e di stupore. Sono afferrato/affetto da altro, qualcosa mi ri-chiede di venir presa in considerazione da me; ma riconoscendo il mio essere sorpreso, riconosco anche la mia ignoranza circa l’oggetto della mia meraviglia e qui si insinua uno scarto fecondo tra il mio coinvolgimento per e l’interrogazione circa il mio potere di: qui si crea lo spazio per lo studio, perché, solo se vado incontro a ciò che mi ha afferrato, potrò verificare la verità del coinvolgimento e i confini del mio potere. Tale dinamismo è all’opera anche nel momento sempre più delicato ai nostri giorni della scelta del corso di laurea da frequentare: qualcosa del diritto mi affascina, ma ancor di più riconosco di non sapere del diritto, per questo posso decidermi. Lo studio è dunque sempre un voler studiare. Un voler conoscere. Ma che cosa è, in verità, conoscenza? Non di rado pensiamo alla conoscenza come l’accumulo di una serie di notizie riguardo ad un determinato argomento e pensiamo al soggetto della conoscenza come ad una specie di hard disc vuoto da riempire per benino. Su tale binario ci fermeremmo a quello che abbiamo chiamato l’imparare il sapere dei libri che parlano del mondo. La vera conoscenza è – abbiamo detto – sapere del mondo. Cosa è, allora, questo conoscere che è sapere del mondo? Davvero pregnante è la versione francese del termine conoscenza – connaissance –, che deriva dal verbo connaître. Quest’ultimo tradotto letteralmente suonerebbe più o meno come co-nascere. Conoscere è co-nascere. Il francese ci invita a scoprire la profonda parentela tra i due verbi e i relativi sostantivi, nascondendo nel seno del verbo connaître (e della parola connaissance) il verbo che dice “venire alla luce”. E cosa significherebbe, appunto, conoscere se non esattamente un nascere un’altra volta con una nuova coscienza, con un nuovo sguardo sulla vita? Nulla a che vedere quindi con un puro accumulo passivo di ciò che è stato, di ciò che normalmente accade, di ciò che potrebbe accadere; bensì nuovo sguardo sulla vita, sul suo indicibile mistero, sulla sua fragile bellezza, sul suo irripetibile fascino. L’autentica conoscenza è ri-voluzione della soggettività. Ciò richiede, in verità, di seguire fino in fondo la logica del conoscere-conascere: la disponibilità ad attraversare il negativo. Per giungere davvero a sapere il mondo è necessario attraversare l’altro del mondo, che è il soggetto conoscente: attraversare i nostri pre-giudizi, le nostre sicurezze, i nostri miti, le nostre idee, il nostro metodo di lavoro. C’è un fare piazza pulita, un portare in grembo il nuovo ed un lasciarsi guidare alla luce che le cose emanano. Questo è, in verità, il compito insostituibile dei maestri. Perciò possiamo dire che conoscere è anche un e-seguire il dettato del maestro. Ricorderete al proposito la singolare ritrosia di Socrate ad identificarsi con i sapienti del suo tempo: egli affermava, infatti, di non avere alcun sapere da donare ai suoi discepoli, si considerava invece come una levatrice che aiuta il discepolo a partorire da sé il suo incontro con la verità. Educare significa proprio “trarre fuori”. E cosa sarebbe in realtà l’Università e precisamente lo studio universitario se non autentica inter-azione educante? Così essa è nata, e questo porta scritto nel suo codice genetico. Ovviamente seguire i maestri non è facile: bisogna capire non solo le cose che hanno scritto, ma la logica del loro scrivere, del loro ragionare, la direzione delle domande, lo spettro della loro visione. Chiunque ha avuto un maestro porterà per sempre le stigmate di tale discepolato. A costui viene richiesta umiltà, tempo, respiro lungo, in una parola disciplina: che è innanzitutto essere discĭpŭlus di un altro – ovvero di porre le proprie orme in quelle lasciate da colui che viene eletto quale maestro; poi, disciplina è anche un attendibile organizzazione del proprio lavoro. Lavorare con un maestro è un percorso che costa, sì, ma quale guadagno! Mai, infatti, il maestro insegna semplici strade, invero egli dona l’arte della costruzione delle mappe. Ed aiuta ad incanalare quel dinamismo del ricercare che è tipico dell’umano. È proprio Nietzsche a ricordare che l’uomo è un essere mai completamente adattato, perché l’orizzonte della sua coscienza non coincide tout court con quanto gli è dato di sperimentare. Proprio per questo ogni intervento sulla realtà – quella realtà che ha sollecitato, invocandola, l’azione primaria dello studiare – non sarà mai quello definitivo: l’ambiente modificato gli apparirà ancora passibile di miglioramento, quindi di altro studio e quindi di altri interventi. Gli spazi universitari che definiscono, codificandola, la ricerca sono la risposta più eloquente che l’uomo ha dato al suo mai quieto con-tatto con il reale. Normalmente, infine, al termine del percorso universitario uno viene dichiarato “dottore”, cioè persona che può insegnare o può esercitare una professione. Insegnare è infatti il ricevere in affidamento i cuccioli dell’uomo, cioè un pezzo di futuro, perché venga segnato verso una direzione, perché venga dato un senso a ciò che ancora si presenta informe. La professione, poi, denota lo svolgere un’attività qualificata; professione, però, indica pure l’emissione dei voti solenni di consacrazione, e tale coincidenza non appare per nulla priva di provocazioni a pensare. 3. Il travaglio della coscienza Perché tutto questo dovrebbe ora essere anche interesse prioritario della comunità ecclesiale? Perché essa dovrebbe trovare in quanto esposto quasi un fondamento dello statuto della pastorale universitaria? Certo è vero che la pastorale universitaria non può essere ridotta alla semplice cura degli studenti, comprendendo anche altri ambiti di azione: attenzione ai docenti e al personale tecnico-amministrativo, rapporti con il territorio, inculturazione della fede. Ma l’organizzazione del lavoro di questi ambiti segue una gerarchia di urgenze, tra le quali quella degli studenti è al primo ordine e resta sempre intenzionata in ogni impegno di pastorale universitaria. Per questo, per quanto banale possa apparire, bisogna riaffermare che l’università è per gli studenti. E nel contesto specifico della cura degli studenti, la spiritualità dello studio – quale impegno a che lo studio universitario non perda il suo spirito – possiede la priorità. Vediamone le ragioni. Prima è necessaria una brevissima premessa. L’appello di Giovanni Paolo II alla nuova evangelizzazione dei paesi di lunga tradizione cristiana aveva preso il suo punto di partenza dalla consapevolezza dello scollamento tra fede e quotidiano, della mancata loro articolazione nella coscienza del credente; ora la linea per il suo rilancio si è collocata quasi sempre sul binario della riformulazione delle verità della fede. Mentre l’altro elemento del credere che è quello che tocca il soggetto dell’atto di fede, le sue disposizioni interiori, i passi che gli toccano compiere non è stato adeguatamente preso in considerazione. Si pensa e si agisce come se il venire alla fede, nel senso paolino del vivere i sentimenti di Gesù, sia un gesto che non richieda cammino, fatica, disponibilità: in una parola un travaglio - che è viaggio, fatica, mettere al mondo una creatura nuova. Credere - certamente - è il modo umanamente più conveniente di prendersi cura della propria vita, ma non è qualcosa di semplice. Per questo si dovrebbe addirittura provocatoriamente e paradossalmente riflettere che nessuno prima di una certa età possa davvero (affermare di) credere, almeno secondo il dettato di Dei Verbum, 4, dove l’atto di fede è indicato come un totale aprirsi/affidarsi dell’uomo al Dio che si rivela. Ove non si dà una completa maturazione dell’umano non si può attendere una perfetta esecuzione dell’atto della fede. Proprio la questione intorno alle forme che permettono un’educazione della coscienza per uno stile maturo di vita cristiana è rimasta poco indagata nell’ambito della cura pastorale dei giovani. Anzi non si è lontano dal vero se si afferma che su questo terreno siamo in gravissimo ritardo. A volte addirittura, potrebbe sorgere l’impressione che non se ne tenga affatto conto. Anziché impegnarsi in un’opera di affinamento, di sensibilizzazione della coscienza giovane, sostituiamo il travaglio della coscienza con singolari coreografie dove insistendo unicamente sull’enunciazione più nitida delle verità del credo cristiano (fides quae) pensiamo di colpire al cuore. Ma il cuore è (una) corda e chi abbia pratica di strumenti musicali a corda sa che ci vuole tempo perché la corda nuova vibri secondo la tonalità giusta: deve distendersi lungo lo strumento e trovare la precisa tensione. Occorre, insomma, riconoscere il profilo drammatico di ogni decisione che spetta alla coscienza prendere. La coscienza non è un negativo sul quale possano incidersi a caratteri cubitali le verità della fede e non è neppure un semplice specchio che le possa riflettere. Esiste una corporeità/corposità della coscienza strabiliante: una densità sensibile della coscienza. La lingua elementare ce lo conferma, quando ritiene sinonimi il perdere i sensi ed il perdere coscienza, il riprendere i sensi e il riprendere coscienza. La domanda che proprio dal Convegno di Verona sentiamo essere stata rilanciata con ogni forza è la seguente: che cosa fa crescere, maturare la coscienza giovane sì che diventi coscienza credente? Per corrispondere, dunque, all’appello della nuova evangelizzazione è doveroso prendersi cura della crescita/educazione della coscienza: lo stesso Vangelo ci mostra che la chiamata alla sequela non coincide con la sequela, ovvero con la proclamazione della fede da parte dei discepoli. E noi non possiamo che promuovere tutte quelle esperienze che allenino la coscienza perché possa diventare terreno buono, che la rendano sempre più sensibile alla pertinenza e alla bellezza della parola del Vangelo. È opera di pre-evangelizzazione. Ebbene lo studio è da questo punto di vista un’occasione privilegiata: esso allena, rinvigorisce la coscienza, la costringe a mettersi in moto, ad entrare nella giusta tensione, ne prova e fortifica la consistenza. È ovvio che altre esperienze permettono una tale crescita della coscienza, ma la via dello studio non può non venir riconosciuta come la migliore. Basterebbe pensare allo straordinario intreccio che tra studio e formazione si instaura nella vita di coloro che scelgono di seguire Cristo sulla via del sacerdozio o della vita consacrata. L’educazione della coscienza è dunque tema sul quale non si ammettono più semplificazioni e scorciatoie; bisogna prendere atto della sua complessità e provarne a realizzare una teoria più unificata. Mi preme sottolineare che per studio non si intende qui acquisire cultura nel senso dell’aumento esponenziale di cose che vengono sapute, ma si intende esperienza dello studiare, fatica dell’intus/intra-leggere, azione del conoscere/conascere, discepolato intellettuale. Se questo è vero, è altrettanto vero che un esercizio dell’intelligenza estremamente ridotto, non aiuterà che minimamente l’esperienza del credere. Da ciò origina l’impulso che la comunità credente deve rivolgere all’Università perché permetta e richieda agli studenti un’esperienza dello studio davvero severa. L’interesse della comunità credente per la spiritualità dello studio risulterà poi ancora più motivato se si afferra un ultimo e decisivo passaggio sul quale vorrei concentrare la mia attenzione. Il passaggio è quello che riguarda il riconoscimento del fatto che lo studiare ed il credere cristiano, sotto il profilo umano, siano due registri che hanno molto in comune: l’esercizio dello studio universitario secondo il suo autentico spirito di sapere del mondo possiede una non remota parentela con la struttura fondamentale del venire alla fede. Perciò lo studio assume un valore ancora più prezioso nell’opera della pre-evangelizzazione: intanto come occasione per la crescita della coscienza, e poi perché, mettendo in opera un dinamismo simile a quello della struttura del credere cristiano, ne può agevolare l’esecuzione. Per fare un esempio, è come quando uno impara una lingua straniera e poi ne debba imparare una che appartenga allo stesso ceppo linguistico: la fatica compiuta per l’apprendimento della prima lingua agevolerà sicuramente quella richiesta per la seconda. 4. La dinamica del credere Urge allora che la riflessione teologico-pastorale contemporanea maggiormente sosti sul dinamismo del credere cristiano in ordine alla nuova evangelizzazione ed in questo giunga a riconoscere quale sicuro vantaggio rappresenti, per la coscienza credente giovane, lo studio universitario. Il dinamismo del “cristianamente credere” trova la sua pienezza quando diventa vita “secondo” i sentimenti di Cristo: guardare e giudicare di Dio, di mondo e di se stessi “secondo Gesù”. Ma quali sono i passaggi per giungere a questo traguardo? Quali passi è chiamata a compiere la coscienza per diventare appunto coscienza cristianamente credente? Tentiamo anche in questo caso una restituzione fenomenologica di tale plesso. La fede nasce sempre dall’ascolto: c’è una parola su Dio, quella di Gesù, che in qualche modo mi raggiunge come promessa e premessa di una vita buona e felice; è la missione della Chiesa: farsi eco di Gesù. Per questo la fede può, almeno inizialmente, essere intesa come un fidarsi della parola della Chiesa intorno alle questioni del senso. Ma appunto inizialmente: per poter apprezzare la parola di Cristo come mia parola è necessario ciò che il Vangelo chiama conversione. Che è un fermarsi ed un tornare indietro. Ci si ferma quando si afferra in uno la bellezza dell’esistenza e la sua fragilità, perché totalmente affidata alla mia libertà, la quale sempre mi impone di trovare un orizzonte per il suo esercizio e di certo non potrei vivere se non mi fossi già in qualche momento deciso per il bene e per il male e non avessi legato a tale decisione il futuro della mia felicità. Si torna indietro proprio quando mi accorgo che non sono infallibilmente attrezzato a decidermi (per il) bene, solo allora posso guardare alla parola di Gesù una seconda volta, posso riguardarla nel suo riguardarmi. Qui il cammino verso la fede cristiana è chiamato ad affrontare il passaggio più faticoso: fede è, infatti, nascere di nuovo, è diventare “nuova creatura”. E per nascere di nuovo vi è la necessità di un morire. Morire in che senso? Abbiamo detto che l’esercizio della libertà è impossibile senza un orizzonte che stabilisca il parametro del mio giudicare e a cui legare il mio desiderio di una vita buona e felice: proprio tale orizzonte deve essere messo in discussione. Perché quell’orizzonte è il posto di Dio e quando uno è un-non-ancora-cristianamente-credente quel posto è occupato da altro, che con un termine tradizionale indichiamo come idolo. M. Scheler ha scritto una cosa decisiva al riguardo: «l’uomo crede a Dio oppure in un idolo. Non si dà una terza possibilità!». Ora riconoscere questa idolatria non è semplice, proprio perché la fede nascente dichiara che il mio orizzonte-“dio” (i soldi, la carriera, il potere, la famiglia, il piacere) è un idolo, e che Dio è “secondo” Gesù; che ciò che da sempre cercavo – il baricentro della mia libertà – mi giunge come scomunica di ciò che ho fino a quel momento trovato. Ecco il senso del discorso di Gesù a Nicodemo (cfr Gv 3) e le parole chiarissime di San Paolo del nostro morire e risorgere – grazie al Battesimo – con ed in Cristo ad una vita nuova (cfr Rm 6). Fede è conversione del cuore e degli occhi: è diventare discepoli di Gesù. Il credente, partecipando dello stesso Spirito di Cristo, potrà guardare il mondo come lo ha visto Gesù, e da questa prospettiva giudicare della sua esistenza. Ma il divenire discepoli comporta anche disciplina, cioè custodia e alimento del proprio cuore. Gesù dice chiaramente che «non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo»; e poi spiegando aggiunge: «Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7,20-23). La cura del cuore richiede umiltà, discernimento, richiede una guida spirituale, con l’aiuto della quale mettere ordine nella propria vita, richiede l’impegno a trovare tempi forti da dedicare alla cura del proprio spirito, come per esempio il tempo degli Esercizi spirituali, e più praticamente richiede di non tralasciare l’“esame di coscienza”. La crescita nella fede deve essere accompagnata e illuminata (“un cieco non può accompagnare un altro cieco”, ricorda sempre Gesù). Non può essere lasciata al caso per un duplice motivo. Innanzitutto, perché nulla nello spirito accade in modo automatico; e poi perché nella vita dello spirito quando non si procede in avanti, cioè quando si vivono momenti di stallo e di stasi, in realtà si torna indietro. Per questo è necessario coltivare il tesoro del proprio cuore, secondo una bella metafora del Vangelo. Il cuore dell’uomo è davvero un tesoro, dal quale l’uomo cattivo trae fuori il male, mentre l’uomo buono ne trae il bene. La differenza è la disciplina, il discernimento e l’attenzione. Essere discepoli di Gesù significa anche condividere e spendersi per la causa del Regno, la Sua causa, quale serio impegno perché vengano rimosse tutte quelle condizioni che oggettivamente costringono alcuni a maledire la propria esistenza. 5. Conclusione La nostra riflessione ha voluto tentare di aggiornare l’antica espressione della spiritualità dello studio. La sua conclusione non può che essere ampiamente interlocutoria, assumendo precisamente la forma dell’invito ad approfondire il profilo antropologico dello studiare e del credere ed in particolare il riconoscimento della loro strutturale parentela. Su questa base teorica, vorrebbe poi esortare a scoprire quasi una sorta di “vangelo dello studio”: ovvero a considerare sempre più e sempre meglio lo studio come ciò che fa brillare - manifestare ed esplodere - le potenzialità della libertà umana e che rende buono il terreno della coscienza. Per questo suggerisce tre impegni concreti: accompagnare il “salto” dal Liceo all’Università; riscattare la qualità propria – lo spirito – dello studio universitario anche contro la riforma degli studi accademici; 3) osare: mai più dispense!
Don Armando Matteo
Assistente Nazionale FUCI

poi passo a rileggerlo con calma intanto ve lo lascio
 
ociatt0
ociatt0 il 27/06/08 alle 09:13 via WEB
CIAO cRY NON PENSERAI CHE UNO SI LEGGA TUTTO STU' PAPIEL' CMQ ERO PASSATO PER SALUTARTI E DIRTI CHE NON TI HO RISPOSTO MA HO POSTATO LA RISPOSTA.PER IL VERSO UNO FORSE ANDREBBE BENE Ecclesiaste 12:14 Del resto, figlio mio, sta' in guardia: si fanno dei libri in numero infinito; molto studiare è una fatica per il corpo.BUONA GIORNATA
 
CRIUNAMICAXTE
CRIUNAMICAXTE il 27/06/08 alle 13:38 via WEB
l'articolo l'ho piazzato qui perchè volevo leggerlo io dopo...è un breve trattato sulla spiritualità dello studio... e come sai ci son dentro fino al collo... il verso non è quello che mi hai scritto anche se concordo.. studiare troppo fa male...debilita ehehe (io non corro questo rischio.. ahimè sono ancora da studio intensivo.. e ancora devo imparare il metodo.. anche se mi giustifica il fatto che ho poco tempo... ma pure sono una gra pigra.. per il resto vado a leggere
 
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fino a quando Tu vorrai
non avrò paura sai
se Tu sei con me
io ti prego resta con me. (...)

 

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