Le dita di Dio

Camminiamo sulle orme dei veri saggi: i santi. Il resto è follia. Chiara Lubich

 

SANTI NATI DALL'ANNO 1000 ALL'ANNO 1200

Antonio da Padova - Stanislao Vescovo e martire - Ubaldo da Gubbio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SANTI NATI DALL'ANNO 1201 ALL'ANNO 1400

Caterina da Siena - Francesca Romana -   

 

 

 

 

 

 

SANTI NATI DALL'ANNO 1401 ALL'ANNO 1600

SANTI NATI DALL'ANNO 1601 ALL'ANNO 1800

SANTI NATI DALL'ANNO 1801 ALL'ANNO 2000

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Citazioni nei Blog Amici: 5
 

 

Oh, Pier Giorgio, sei diventato bigotto? No! Sono rimasto cristiano!

Post n°11 pubblicato il 29 Aprile 2013 da leditadidio

 

« Vivere senza fede, senza un patrimonio da difendere, senza sostenere una lotta per la Verità non è vivere ma vivacchiare... »

(Pier Giorgio Frassati)

Nasce nel 1901 a Torino da una famiglia ricca borghese. Quando, fanciullo, apprese i primi racconti del Vangelo, Pier Giorgio ne restò colpito, a volte in modo così profondo da diventare protagonista di gesti inattesi in un bimbo tanto piccolo. Dopo l'infanzia venne istruito con la sorella privatamente, e successivamente fu avviato alle scuole statali, ma Pier Giorgio in questi primi studi non mostrava molta attenzione, tanto che un anno fu bocciato. Vista la non brillante carriera scolastica, la famiglia lo affidò al salesiano don Cojazzi che oltre ad insegnargli la letteratura lo accosterà alla spiritualità cristiana.

I Frassati erano una delle famiglie più in vista della città, di estrazione alto-borghese. Il padre Alfredo era proprietario del quotidiano «La Stampa», ma Pier Giorgio, che non voleva i soldi di suo padre, aveva dichiarato pubblicamente che la sua eredità l'avrebbe divisa tutta con i poveri. Per essi aveva intrapreso gli studi molto difficili di ingegneria per diventare ingegnere minerario e così potersi dedicare al servizio di Cristo fra i minatori, tra i più derelitti degli operai. Avrebbe potuto allietare la sua giovinezza con ricevimenti e feste da ballo, ma preferiva essere il "facchino" dei poveri, trascinando per le vie di Torino i carretti carichi di masserizie degli sfrattati... e come membro della Conferenza di S. Vincenzo visitare le famiglie più bisognose per portarvi conforto e aiuto materiale. Vi si recava generalmente al mattino, prima delle lezioni all'Università, oppure nelle uscite serali, carico di pacchi, vincendo con la carità l'umana ripugnanza che si accompagnava al tanfo nauseante di certi tuguri.

Dinamico, volitivo, pieno di vita, Pier Giorgio amava i fiori e la poesia, le scalate in montagna. Spesso raggiungeva a piedi il Santuario della Madonna di Oropa, il grande tempio mariano del Piemonte. Arrivato al Santuario, dopo un'ora di marcia e completamente digiuno, era solito assistere alla Santa Messa, poi faceva la Comunione, quindi si raccoglieva in preghiera nel transetto di destra, davanti all'immagine della Vergine Bruna. Nel ritorno verso casa recitava il Rosario lungo la via, ad alta voce, cantando le Litanie. Pier Giorgio amava anche comporre dei rosari con i semi di una pianta di Pollone, che poi regalava agli amici. Era questo un modo per ricordare loro l'impegno della preghiera e la devozione verso la Vergine, che per lui era irrinunciabile.

Il 28 maggio 1922, nella chiesa torinese di San Domenico, ricevette l'abito di terziario domenicano: Pier Giorgio, da fervente discepolo di San Domenico, recitava ogni giorno il Rosario, che portava sempre nel taschino della giacca, non esitando a tirarlo fuori in qualsiasi momento per pregare, anche in tram o sul treno, persino per strada.

 "Il mio testamento - diceva, mostrando la corona del Rosario - lo porto sempre in tasca". Il 30 giugno 1925 Pier Giorgio accusa degli strani malesseri, emicrania e inappetenza: non è una banale influenza, ma una poliomielite fulminante che lo stronca in soli quattro giorni, il 4 luglio, tra lo sconcerto e il dolore dei suoi familiari e dei tanti amici e conoscenti, a soli 24 anni. Sulla sua scrivania, accanto ai testi universitari, erano aperti l'Ufficio della Madonna e la vita di Santa Caterina da Siena. Nasceva alla vita del Cielo di sabato, giorno mariano, così come anche di sabato, il Sabato Santo di ventiquattro anni prima, era venuto al mondo. È stato beatificato da Giovanni Paolo II il 20 maggio 1990.

 LA COMPAGNIA DEI TIPI LOSCHI

La Compagnia dei “Tipi Loschi del beato Pier Giorgio Frassati” nasce nel 1993.

Marco Sermarini e la sua futura moglie Federica, il 17 di ottobre di quell’anno invitarono gli amici a passare un pomeriggio insieme a Casa San Francesco di Paola, a Grottammare (AP). Si presentarono oltre quaranta persone di diverse età.

Giocammo al gioco del fazzoletto finchè ci fu luce e fiato. E così fu che il sabato pomeriggio divenne da allora giorno di appuntamento per incontrarci, per ascoltare insieme la riunione, giocare e andare infine alla messa. Da quel 17 ottobre tanti altri giovani si aggiunsero a quel gruppo di amici. Il Vescovo diocesano di allora, Mons. Giuseppe Chiaretti, ci permise di restare a Casa San Francesco esortandoci anche a andare avanti, intravedendo probabilmente in questa novità, qualcosa di buono e non casuale.

I più grandi del gruppetto -che non aveva ancora un nome- avevano “conosciuto” il beato Pier Giorgio Frassati e lo avevano preso come riferimento; così lo cominciarono a far conoscere a tutti quelli che venivano il sabato a “San Francesco”.

Il primo novembre successivo lo stesso Mons. Giuseppe Chiaretti, durante la Santa Messa, disse che in diocesi era nato un nuovo movimento che si chiamava “Compa-gnia dei Tipi Loschi del beato Pier Giorgio Frassati”, dandoci così un nome proprio, confermando la sua fiducia e incitandoci a proseguire. Da allora il 1 novembre, Solennità di Tutti i Santi, è per i Tipi Loschi anche la festa della Fondazione della Compagnia che festeggiamo solitamente recandoci a Loreto per ringraziare Dio, la Madonna e tutti i Santi del dono che abbiamo ricevuto.

La Compagnia è oggi una realtà cresciuta fuori da ogni nostra realistica aspettativa. E’ divenuta una presenza fra i giovani, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. Alcuni poi hanno dato vita a un’Associazione di volontariato (Associazione Papa Giovanni Paolo II onlus), a due Cooperative (Cooperativa Capitani Coraggiosi a r.l. e la Hobbit soc. coop. sociale), ultimamente è nata una scuola libera intitolata a “G.K. Chesterton”... E ancora: un coro musicale, una compagnia teatrale dal nome simpatico (come era simpatico il nostro patrono) “Pochi ma buoni come i maccheroni” (proprio così, era questo un modo di dire di Pier Giorgio)... Un’altra frase di Pier Giorgio ha ispirato il titolo del mensile che la Compagnia pubblica da oltre quindici anni: “Vivere e non vivacchiare”. Con Pier Giorgio nel cuore vogliamo attuare un’amicizia fondata radicalmente in Gesù Cristo, attraverso la quale dare un giudizio alle vicende della vita, aiutarci nelle circostanze quotidiane, un’amicizia che non rimanga chiusa in se stessa, ma che generi opere e si allarghi a tutte le persone che si incontrano, prendendole a cuore e aiutandole nelle necessità quotidiane. Vogliamo vivere dunque una fede che c’entra con la vita. L’incontro con Pier Giorgio ci ha dato infatti la conferma che la santità non è un limite per un uomo, nè un “mestiere” di pochi, ma una completezza e un coronamento della nostra personalità e soprattutto è la vocazione a cui tutti siamo chiamati. La Compagnia dei Tipi Loschi del beato Pier Giorgio Frassati è stata riconosciuta canonicamente con decreto del 31.01.2004 di mons. Gervasio Gestori, Vescovo della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, e con analogo decreto è stata eretta come associazione privata di fedeli di diritto diocesano con personalità giuridica il cui statuto, approvato per cinque anni ad experimentum, è stato confermato in via definitiva il 31.01.2009.

 
 
 

“Non posso più vivere, o Dio, non posso più vivere. Chiamami a te!”.

Post n°10 pubblicato il 26 Aprile 2013 da leditadidio

 

 

 

Beata Maria di Gesù Crocifisso

 

“A chi assomiglio io, Signore? 

Agli uccelletti implumi nel loro nido.

Se il padre e la madre

non portano loro il cibo

muoiono di fame.

Così è l’anima mia, senza di te, o Signore.

Non ha sostegno, non può vivere ...”.

 

 

Nacque ad Abellin (Galilea) il 5 gennaio 1846 da una famiglia araba ma cattolica, di rito greco-melchita.

I genitori Giorgio Baouardy (lavoratore della polvere da sparo) e Mariam Chahyn, erano ferventi credenti ma infelici, perché avevano perso ben dodici figli, morti in tenerissima età.

Un giorno intrapresero un pellegrinaggio di 170 km a piedi, diretti a Betlemme per pregare sulla culla di Gesù Bambino, chiedendo alla Santa Vergine il dono di una figlia, che avrebbero chiamata Mirjam in suo onore.

Il loro desiderio fu esaudito e nove mesi dopo nacque la bimba, che fu battezzata e cresimata nello stesso giorno, secondo il rito orientale; un anno dopo nacque anche un maschietto, Baulos (Paolo).

Ma la felicità dopo tante angosce, fu di breve durata, quando Mirjam (o Mariam) non aveva ancora tre anni, morì il padre e dopo pochi giorni anche la mamma per il dolore.

I due orfani furono adottati da parenti, Mariam da uno zio paterno e il fratellino da una zia materna residente in un vicino villaggio.

Nel 1854 quando Mariam aveva otto anni, lo zio si trasferì ad Alessandria d’Egitto portandola con sé, così i due fratellini non si rividero più.

L’infanzia trascorse con tranquillità, fece la Prima Comunione un paio d’anni prima del tempo fissato, perché dietro le sue insistenze, il prete distrattamente disse di sì.

Non ebbe un’istruzione (soltanto molto più tardi imparò a leggere e scrivere stentatamente); cresceva nella sua semplicità e umiltà come un angelo; in un momento di sconforto per la morte di due uccellini che accudiva, avvertì dentro di sé una voce: “Vedi, tutto passa! Ma se tu vuoi dare a me il tuo cuore, io resterò con te per sempre”.

Verso i dodici anni fu fidanzata a sua insaputa, secondo l’uso orientale, ad un cognato dello zio e quando aveva 13 anni le dissero che era arrivato il momento del matrimonio; giunse il fidanzato portando ricchi gioielli e la sua famiglia adottiva le preparò vesti ricamate e sontuose.

Ma Mariam non voleva affatto sposarsi e lo comunicò agli stupiti zii, questi non capivano il perché e pensando ad un capriccio di adolescente, coinvolsero il prete e il vescovo della comunità, affinché la convincessero ad ubbidire a loro; ma tutto fu inutile, quando il giovane proveniente dal Cairo, si presentò per la cerimonia, tutti aspettavano che Mirjam uscisse dalla sua stanza in abiti nuziali, invece lei si presentò con i lunghi capelli recisi, deposti in un vassoio.

Questo gesto l’espose all’ira degli zii, i quali la relegarono in cucina tra le schiave di casa e soggetta alle loro prepotenze.

Dopo tre mesi la ragazza si ricordò del fratello Baulos rimasto in Palestina e tentò di mettersi in contatto con lui.

Si fece scrivere una lettera di nascosto e una sera si recò a portarla ad un servo arabo musulmano, conosciuto in casa degli zii e che sapeva in procinto di partire per Nazareth.

Ma a casa di quest’uomo ci fu una sgradita sorpresa, la famiglia inizialmente l’accolse con gentilezze e ascoltò le sue peripezie familiari, poi l’uomo nell’ascoltarla si incolleriva sempre più e alla fine esortò Mirjam a lasciare il cristianesimo e convertirsi all’Islam.

La ragazza oppose un fiero rifiuto: “Musulmana io? Mai! Sono figlia della Chiesa Cattolica e spero di restare tale per tutta la vita”.

In quel tempo gli odi religiosi erano violenti e pronti a scoppiare per un niente; la risposta imbestialì l’uomo che le sferrò un violento calcio, che la fece stramazzare a terra e poi con la scimitarra le diede un fendente alla gola. 

Credendola morta, Mariam fu avvolta in un lenzuolo e depositata in un’oscura stradina. Cosa accadde poi, lo rivelò molti anni dopo la stessa Mariam, come in un sogno le sembrò di essere in Paradiso e aveva rivisto i suoi genitori; una voce le aveva detto: “Il tuo libro non è ancora tutto scritto”; risvegliatosi si era trovata in una grotta assistita e curata da una giovane donna, che come una suora portava un velo azzurro. Dopo circa quattro settimane, quella donna l’aveva condotta alla chiesa dei Francescani lasciandola lì.

Maria Baouardy raccontò sempre, che per lei era la Vergine che l’aveva curata e mostrava la lunga cicatrice che le attraversava il collo; in effetti 16 anni dopo, un celebre medico non credente, che l’aveva visitata a Marsiglia, constatò che le mancavano alcuni anelli della trachea, esclamando disse: “Un Dio ci deve essere, perché nessuno al mondo, senza un miracolo, potrebbe vivere dopo una simile ferita”.

Mariam celebrava sempre con solennità la festa della Natività di Maria, in ricordo di quell’otto settembre, quando fu ferita così gravemente.

Abbandonata ormai la famiglia adottiva, con l’aiuto di un francescano, Mariam a 13 anni si mise al servizio come domestica di famiglie non agiate, ad Alessandria, Beirut, Gerusalemme, dove sul Santo Sepolcro emise il voto di castità perpetua; si spostava volontariamente presso famiglie sempre più bisognose, fino a prendersi cura di una famigliola malata e ridotta in miseria, per la quale si mise lei stessa a mendicare.
Nel 1863, la famiglia siriana Nadjar presso la quale serviva, si trasferì a Marsiglia in Francia, portando con sé la diciassettenne Mariam, analfabeta.
Qui avvertì più chiaramente la chiamata di Dio ad una vita consacrata; non riuscì ad entrare fra le Figlie della Carità, a causa dell’intervento della sua padrona, che non voleva perderla.
Nel 1865 a 19 anni, fu ammessa fra le postulanti delle Suore di San Giuseppe dell’Apparizione; non poteva offrire altro che il suo lavoro manuale, per le incombenze più pesanti, a cui non si sottraeva, anzi anticipava le altre consorelle, tranquillizzandole nel suo approssimativo francese, dava del ‘tu’ a tutti e questa fu la sua caratteristica per sempre.
Stava quasi sempre in lavanderia o cucina, ma in questi luoghi cominciò ad andare in estasi e aveva visioni; il giovedì e venerdì, comparivano sulle mani e piedi, stimmate sanguinanti, la prima volta fu il 29 marzo 1867; Mariam credeva che si trattasse di una malattia e vergognandosene, nascondeva le ferite con cura; credendo che potesse trattarsi di lebbra, visto che in Palestina aveva contattato dei lebbrosi, raccomandava alla Madre Superiora di stare lontana da lei, ma la Madre che aveva compreso l’eccezionalità del fenomeno, la tranquillizzava.
Ma qualche mese dopo, sempre nel 1867, in assenza della Madre Generale, che la capiva e proteggeva, fu allontanata dall’Istituto, perché i suoi fenomeni turbavano troppo la comunità, consigliandola di entrare in un Istituto di vita contemplativa, più adatta per lei.
Il 14 giugno 1867 Mirjam entrò nel Carmelo di Pau (Bassi Pirenei), presentata dalla sua vecchia maestra di noviziato, suor Veronica della Passione, che garantiva e dichiarò poi “quella piccola araba era obbediente fino al miracolo”.
Il 27 luglio 1867, indossò l’abito carmelitano, prendendo il nome di Maria di Gesù Crocifisso; la sua condizione di analfabeta la relegava fra le converse e per lei che voleva solo servire, andava bene così; ma fu deciso invece di ammetterla come corista e la obbligarono ad imparare a leggere e scrivere, purtroppo senza successo, per cui nel 1870 ritornò conversa.
Intanto continuavano le estasi, lei se ne vergognava, convinta che non sapesse resistere al sonno e si addormentava; non riusciva a completare una preghiera, come iniziava, dopo qualche strofa, diceva lei, si addormentava.
Le stimmate sanguinavano nel giorno della Passione di Cristo, e si era aperta una piaga sul costato simile a quella di Gesù in croce.
A 21 anni ne dimostrava dodici, tanto era minuta e come una bambina ne possedeva il candore senza conoscere alcuna malizia.
Con le sue visioni, ebbe la facoltà di prevedere alcuni attentati contro il papa Pio IX, come la distruzione della caserma pontificia ‘Serristori’ di Borgo Vecchio, che saltò in aria il 23 ottobre 1869, da allora la Santa Sede prese ad interessarsi di quella novizia in Francia.
Il 21 agosto 1870 fu inviata insieme ad altre carmelitane a fondare il primo Carmelo a Mangalore in India, anche in terra di missione, aveva gli straordinari fenomeni, che lei cercava di nascondere e benché fosse impedita nel fisico prostrato, non mancava ai suoi doveri in cucina e nei lavori pesanti; spesso sembrava che il demonio prendesse possesso di lei, alternando momenti di manifestazioni straordinarie di grazia.
Con l’andare del tempo, la cosa impensierì sia la superiora che il vescovo, che l’accusarono di essere una visionaria, di ferirsi col coltello, di avere una troppa fervida immaginazione orientale, e forse di essere un’indemoniata.
A Mariam, Satana le faceva commettere, ma solo esteriormente, serie mancanze contro la Regola, questo capitava proprio a lei che era sempre stata di un’obbedienza esemplare; le sembrava a volte di essere immersa in un lago circondato da serpenti e la Madonna le diceva: “Io sono tua Madre. Ti metto io in quest’acqua. Non ti muovere. Tu non mi vedrai, ma io veglierò su di te”.
Alla fine nel settembre 1872 fu rimandata al Carmelo di Pau in Francia; riprendendo la semplice vita di conversa, fatta di tanto lavoro intervallato dagli episodi prodigiosi; illetterata com’era, componeva bellissime poesie incantata dalla natura e inventava strane e dolci melodie per cantarle.
Intanto i prodigi continuavano a Pau; per sei giorni consecutivi fra luglio e agosto 1873, fu trovata in cima ad un gigantesco tiglio, poggiata sui debolissimi rami; solo quando la superiora, a voce alta le ordinava di scendere, lei leggera, quasi senza toccare i rami e le foglie, scendeva e si ridestava dall’estasi, raccontando che Gesù le tendeva le mani e la sollevava mentre saliva, ma in genere non ricordava nulla di tutto ciò, le consorelle con premura non le dicevano niente, facendogli trovare ai piedi dell’albero altri sandali, velo, cintura, che le erano rimasti impigliati negli alti rami.
Nello stesso 1872 confidò ai Superiori, che il Signore voleva un Carmelo a Betlemme in Terra Santa, assicurando che le grandi difficoltà sarebbero state superate. 
Papa Pio IX in persona autorizzò la fondazione e così nell’agosto del 1875, dopo un pellegrinaggio a Lourdes, suor Maria di Gesù Crocifisso, con altre otto carmelitane, salpò per il Medio Oriente.
Il 6 settembre era a Gerusalemme e l’11 giunse a Betlemme, dove fu costruito il primo monastero carmelitano a forma di torre sulla ‘collina di Davide’, secondo un progetto ideato da lei stessa, che diresse anche i lavori di costruzione; fu inaugurato il 24 settembre 1876 e il 21 novembre le suore poterono entrarvi.
Progettò anche la fondazione di un Carmelo a Nazareth, dove si recò nel 1878 a vedere il terreno adatto; si recò in pellegrinaggio anche ad Ain Karem, ad Emmaus, al Monte Carmelo e ad Abellin, senza perdere il contatto con la presenza di Dio un solo istante.
Fece arrivare in Terra Santa i Padri di Betharram, fondati da s. Michele Garicoïts e per i quali si adoperò per l’approvazione delle Costituzioni.
Umile e illetterata seppe dare consigli e spiegazioni teologiche con chiarezza cristallina, frutto del dialogo continuo con lo Spirito Santo.
Lo Spirito la faceva partecipe degli avvenimenti anche lontani, del mondo cattolico, dalle missioni in Asia all’attività apostolica del ‘suo’ papa Pio IX, alla cui morte partecipò in estasi, il 7 febbraio 1878; come sempre in estasi, partecipò all’elezione del successore papa Leone XIII.
Continuò a vivere a Betlemme i suoi ultimi anni della sua breve esistenza, fra estasi, visioni, levitazioni, bilocazioni, stimmate, ma anche tormenti demoniaci, ossessioni del maligno; sempre più attratta da Dio, pregava: “Non posso più vivere, o Dio, non posso più vivere. Chiamami a te!”.
Il 22 agosto del 1878, mentre trasportava due secchi d’acqua per dare da bere ai muratori che lavoravano nel giardino del monastero, cadde inciampando su una cassetta di gerani fioriti e si ruppe un braccio in più parti, mentre la soccorrevano mormorò: “È finita”; il giorno dopo s’era già sviluppata la cancrena.
Alle cinque del mattino del 26 agosto, baciando per l’ultima volta il crocifisso, morì a soli 32 anni; la “piccola araba” la cui breve vita fu straordinaria sotto tutti gli aspetti, fu tumulata nello stesso convento carmelitano di Betlemme.
Ad Abellin suor Maria di Gesù Baouardy è venerata come “la Kedise” (la santa), sia da cristiani che da musulmani e tanti devoti raccontano di aver ricevuto miracoli per sua intercessione.
La “piccola araba” è stata proclamata Beata il 13 novembre 1983, da papa Giovanni Paolo II, durante l’anno del Giubileo della Redenzione.
Uno sguardo ai suoi Pensieri.....  Pensieri.....Pensieri.....
 
 
 

"Nel regno della carità si preferisce scomodarsi, anziché far scomodare gli altri"

Post n°9 pubblicato il 24 Aprile 2013 da leditadidio

 

San Vincenzo de' Paoli

 

"Non devo considerare i poveri dal loro aspetto o dalla loro apparente mentalità: molto spesso non hanno quasi la fisionomia, né l’intelligenza delle persone ragionevoli, talmente sono rozzi e materiali. Ma girate la medaglia e vedrete con la luce della fede che il Figlio di Dio, il quale ha voluto essere povero, c’è in essi raffigurato"

"La Chiesa ha, per misericordia di Dio, un sufficiente numero di persone che vivono nella solitudine; ma ne ha tante che sono inutili, e ancora di più ne ha che la straziano. Il suo grande bisogno è di avere uomini che lavorino per purgarla, illuminarla e unirla al suo Sposo divino".

"Guardatevi dal voler far troppo. È un'astuzia del diavolo per ingannare le anime buone quella d'incitarle a far più di quello che possono; affinché non possano poi far nulla. Invece lo Spirito di Dio incita dolcemente a fare il bene che ragionevolmente si può fare, così che si possa fare con perseveranza e a lungo". 
"Non c’è vocazione né onore più grande di quello di servire i poveri"

"La vera religione è in mezzo ai poveri"

"Dobbiamo amare Dio e servire i poveri ma a spese delle nostre braccia e col sudore della nostra fronte"

"Noi siamo stati scelti da Dio come strumenti della sua immensa e paterna carità, la quale vuole stabilirsi e dilatarsi nelle anime"

"Dieci volte al giorno andrete a visitare gli ammalati, e dieci volte vi incontrerete con Dio!"

"Dovete visitare i Poveri con lo spirito che vorreste vedere in chi visitasse voi, trovandovi nelle medesime condizioni; e, inoltre, nella fede di visitare in essi nostro Signore Gesù Cristo"

Vincenzo Depaul, in italiano De’ Paoli, nacque il 24 aprile del 1581 a Pouy in Guascogna, benché dotato di acuta intelligenza, fino ai 15 anni non fece altro che lavorare nei campi e badare ai porci, per aiutare la modestissima famiglia contadina.
Nel 1595 lasciò Pouy per andare a studiare nel collegio francescano di Dax, sostenuto finanziariamente da un avvocato della regione, che colpito dal suo acume, convinse i genitori a lasciarlo studiare; che allora equivaleva avviarsi alla carriera ecclesiastica.
Dopo un breve tempo in collegio, visto l’ottimo risultato negli studi, il suo mecenate, giudice e avvocato de Comet senior, lo accolse in casa sua affidandogli l’educazione dei figli.
Vincenzo ricevette la tonsura e gli Ordini minori il 20 dicembre 1596, poi con l’aiuto del suo patrono, poté iscriversi all’Università di Tolosa per i corsi di teologia; il 23 settembre 1600 a soli 19 anni, riuscì a farsi ordinare sacerdote dall’anziano vescovo di Périgueux, poi continuò gli studi di teologia a Tolosa, laureandosi nell’ottobre 1604.
Sperò inutilmente di ottenere una rendita come parroco, nel frattempo perse il padre e la famiglia finì ancora di più in ristrettezze economiche; per aiutarla Vincent aprì una scuola privata senza grande successo, anzi si ritrovò carico di debiti.
Fu di questo periodo la strabiliante e controversa avventura che gli capitò: verso la fine di luglio 1605, mentre viaggiava per mare da Marsiglia a Narbona, la nave fu attaccata da pirati turchi ed i passeggeri, compreso Vincenzo de’ Paoli, furono fatti prigionieri e venduti a Tunisi come schiavi.
Vincenzo fu venduto successivamente a tre diversi padroni, dei quali l’ultimo, era un frate rinnegato che per amore del denaro si era fatto musulmano.
La schiavitù durò due anni, finché riacquistò la libertà fuggendo su una barca insieme al suo ultimo padrone da lui convertito; attraversando avventurosamente il Mediterraneo, giunsero il 28 giugno 1607 ad Aigues-Mortes in Provenza.
Ad Avignone il rinnegato si riconciliò con la Chiesa, nelle mani del vicedelegato pontificio Pietro Montorio, il quale ritornando a Roma, condusse con sé i due uomini.
Vincenzo rimase a Roma per un intero anno, poi ritornò a Parigi a cercare una sistemazione; certamente negli anni giovanili Vincenzo de’ Paoli non fu uno stinco di santo, tanto che alcuni studiosi affermano, che i due anni di schiavitù da lui narrati, in realtà servirono a nascondere una sua fuga dai debitori, per la sua fallimentare conduzione della scuola e pensionato privati.
Riuscì a farsi assumere tra i cappellani di corte, ma con uno stipendio di fame, che a stento gli permetteva di sopravvivere, senza poter aiutare la sua mamma rimasta vedova. 

Finalmente nel 1612 fu nominato parroco di Clichy, alla periferia di Parigi; in questo periodo della sua vita, avvenne l’incontro decisivo con Pierre de Bérulle, che accogliendolo nel suo Oratorio, lo formò a una profonda spiritualità; nel contempo, colpito dalla vita di preghiera di alcuni parrocchiani, padre Vincenzo ormai di 31 anni, lasciò da parte le preoccupazioni materiali e di carriera e prese ad insegnare il catechismo, visitare gli infermi ed aiutare i poveri.
Lo stesso de Brulle, gli consigliò di accettare l’incarico di precettore del primogenito di Filippo Emanuele Gondi, governatore generale delle galere.
Nei quattro anni di permanenza nel castello dei signori Gondi, Vincenzo poté constatare le condizioni di vita che caratterizzavano le due componenti della società francese dell’epoca, i ricchi ed i poveri. 
I ricchi a cui non mancava niente, erano altresì speranzosi di godere nell’altra vita dei beni celesti, ed i poveri che dopo una vita stentata e disgraziata, credevano di trovare la porta del cielo chiusa, a causa della loro ignoranza e dei vizi in cui la miseria li condannava.
Anche la signora Gondi condivideva le preoccupazioni del suo cappellano, pertanto mise a disposizione una somma di denaro, per quei religiosi che avessero voluto predicare una missione ogni cinque anni, alla massa di contadini delle sue terre; ma nessuna Congregazione si presentò e il cappellano de’ Paoli, intimorito da un compito così grande per un solo prete, abbandonò il castello senza avvisare nessuno.


Gli inizi delle sue fondazioni – Le “Serve dei poveri”

Lasciato momentaneamente il castello della famiglia Gondi, Vincenzo fu invitato dagli oratoriani di de Bérulle, ad esercitare il suo ministero in una parrocchia di campagna a Chatillon-le-Dombez; il contatto con la realtà povera dei contadini, che specie se ammalati erano lasciati nell’abbandono e nella miseria, scosse il nuovo parroco.
Dopo appena un mese dal suo arrivo, fu informato che un’intera famiglia del vicinato, era ammalata e senza un minimo di assistenza, allora lui fece un appello ai parrocchiani che si attivassero per aiutarli, appello che fu accolto subito e ampiamente.
Allora don Vincenzo fece questa considerazione: “Oggi questi poveretti avranno più del necessario, tra qualche giorno essi saranno di nuovo nel bisogno!”. Da ciò scaturì l’idea di una confraternita di pie persone, impegnate a turno ad assistere tutti gli ammalati bisognosi della parrocchia; così il 20 agosto 1617 nasceva la prima ‘Carità’, le cui associate presero il nome di “Serve dei poveri”; in tre mesi l’Istituzione ebbe un suo regolamento approvato dal vescovo di Lione.
La Carità organizzata, si basava sul concetto che tutto deve partire da quell’amore, che in ogni povero fa vedere la viva presenza di Gesù e dall’organizzazione, perché i cristiani sono tali solo se si muovono coscienti di essere un sol corpo, come già avvenne nella prima comunità di Gerusalemme.
La signora Gondi riuscì a convincerlo a tornare nelle sue terre e così dopo la parentesi di sei mesi come parroco a Chatillon-les-Dombes, Vincenzo tornò, non più come precettore, ma come cappellano della massa di contadini, circa 8.000, delle numerose terre dei Gondi.
Prese così a predicare le Missioni nelle zone rurali, fondando le ‘Carità’ nei numerosi villaggi; s. Vincenzo avrebbe voluto che anche gli uomini, collaborassero insieme alle donne nelle ‘Carità’, ma la cosa non funzionò per la mentalità dell’epoca, quindi in seguito si occupò solo di ‘Carità’ femminili.
Quelle maschili verranno riprese un paio di secoli dopo, nel 1833, da Emanuele Bailly a Parigi, con un gruppo di sette giovani universitari, tra cui la vera anima fu il beato Federico Ozanam (1813-1853); esse presero il nome di “Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli”.
Intanto nel 1623 Vincenzo de’ Paoli, si laureò in diritto canonico a Parigi e restò con i Gondi fino al 1625.

Le “Dame della Carità”

Vincenzo de’ Paoli, vivendo a Parigi si rese conto che la povertà era presente, in forma ancora più dolorosa, anche nelle città e quindi fondò anche a Parigi le ‘Carità’; qui nel 1629 le “Suore dei poveri” presero il nome di “Dame della Carità”.
Nell’associazione confluirono anche le nobildonne, che poterono dare un valore aggiunto alla loro vita spesso piena di vanità; ciò permise alla nobiltà parigina di contribuire economicamente alle iniziative fondate da “monsieur Vincent”.
L’istituzione cittadina più importante fu quella detta dell’”Hotel Dieu” (Ospedale), che s. Vincenzo organizzò nel 1634, essa fu il più concreto aiuto al santo nelle molteplici attività caritative, che man mano lo vedevano impegnato; trovatelli, galeotti, schiavi, popolazioni affamate per la guerra e nelle Missioni rurali.
Fra le centinaia di associate a questa meravigliosa ‘Carità’, vi furono la futura regina di Polonia Luisa Maria Gonzaga e la duchessa d’Auguillon, nipote del Primo Ministro, cardinale Richelieu.
Le prime ‘Carità’ vincenziane sorsero in Italia a Roma (1652), Genova (1654), Torino (1656). 

I “Preti della Missione” o “Lazzaristi”

Anche in questa fondazione ci fu l’intervento munifico dei signori Gondi; la sua origine si fa risalire alla fortunata predicazione che il fondatore tenne a Folleville il 25 gennaio 1617; le sue parole furono tanto efficaci che non bastarono i confessori.
Il bene ottenuto in quel villaggio, indusse la signora Gondi ad offrire una somma di denaro a quella comunità che si fosse impegnata a predicare periodicamente ai contadini; come già detto non si presentò nessuno, per cui dopo il suo ritorno a Parigi, Vincenzo de’ Paoli prese su di sé l’impegno, aggregandosi con alcuni zelanti sacerdoti e cominciò dal 1618 a predicare nei villaggi.
Il risultato fu ottimo, ed altri sacerdoti si unirono a lui, i signori Gondi aumentarono il finanziamento e anche l’arcivescovo di Parigi diede il suo appoggio, assegnando a Vincenzo ed ai suoi missionari rurali, una casa nell’antico Collegio dei Bons-Enfants in via S. Vittore; il contratto fra Vincenzo de’ Paoli ed i signori Gondi porta la data del 17 aprile 1625.
La nuova comunità, si legge nel contratto, doveva fare vita comune, rinunziare alle cariche ecclesiastiche, e predicare nei villaggi di campagna; inoltre occuparsi dell’assistenza spirituale dei forzati e insegnare il catechismo nelle parrocchie nei mesi estivi.
La “Congregazione della Missione” come si chiamò, fu approvata il 24 aprile 1626 dall’arcivescovo di Parigi, dal re di Francia nel maggio 1627 e da papa Urbano VIII il 12 gennaio 1632.
Intanto i missionari si erano spostati nel priorato di San Lazzaro, da cui prenderanno anche il nome di “Lazzaristi”.
In seguito Vincenzo accettò che i suoi Preti della Missione o Lazzaristi, riuniti in una Congregazione senza voti, si dedicassero alla formazione dei sacerdoti, con Esercizi Spirituali, dirigendo Seminari e impegnandosi nelle Missioni all’estero come in Madagascar, nell’assistenza agli schiavi d’Africa.
Quando morì nel 1660, la sola Casa di San Lazzaro, aveva già dato 840 missioni e un migliaio di persone si erano avvicendate in essa, per turni di Esercizi Spirituali.

Le “Figlie della Carità”

La feconda predicazione nei villaggi, suscitò la vocazione all’apostolato attivo, prima nelle numerose ragazze delle campagne poi in quelle della città; desiderose di lavorare nelle ‘Carità’ a servizio dei bisognosi, ma anche consacrandosi totalmente.
Vincenzo de’ Paoli intuì la grande opportunità di estendere la sua opera assistenziale, lì dove le “Dame della Carità” per la loro posizione sociale, non potevano arrivare personalmente.
Affidò il primo gruppo per la loro formazione, ad una donna eccezionale s. Luisa de Marillac (1591-1660) vedova Le Gras, era il 29 novembre 1633; Luisa de Marillac le accolse in casa sua e nel luglio dell’anno successivo le postulanti erano già dodici.
La nuova Congregazione prese il nome di “Figlie della Carità”; i voti erano permessi ma solo privati ed annuali, perché tutte svolgessero la loro missione nella più piena libertà e per puro amore; l’approvazione fu data nel 1646 dall’arcivescovo di Parigi e nel 1668 dalla Santa Sede.
Nel 1660, anno della morte del fondatore e della stessa cofondatrice, le “Figlie della Carità” avevano già una cinquantina di Case.
Con il loro caratteristico copricapo, che le faceva assomigliare a degli angeli, e a cui le suore hanno dovuto rinunciare nel 1964 per un velo più pratico, esse allargarono la loro benefica attività d’assistenza ai malati negli ospedali, ai trovatelli, agli orfani, ai forzati, ai vecchi, ai feriti di guerra, agli invalidi e ad ogni sorta di miseria umana.
Ancora oggi le Figlie della Carità, costituiscono la Famiglia religiosa femminile più numerosa della Chiesa.

La formazione del clero

Attraverso l’Opera degli Esercizi Spirituali, i Preti della Missione divennero di fatto, i più prestigiosi e qualificati formatori dei futuri sacerdoti, al punto che l’arcivescovo di Parigi dispose che i nuovi ordinandi, trascorressero quindici giorni di preparazione nelle Case dei Lazzaristi, in particolare nel Collegio dei Bons-Enfants di cui Vincenzo de’ Paoli era superiore.
Più tardi, nel priorato di San Lazzaro, l’Opera degli Esercizi Spirituali si estese a tutti gli ecclesiastici che avessero voluto fare un ritiro annuale e anche a folti gruppi di laici.
Da ciò scaturì nei sacerdoti il desiderio di riunirsi settimanalmente, per esortarsi a vicenda nel cammino di una santa vita sacerdotale; così a partire dal 1633, un folto gruppo di ecclesiastici, con la guida di Vincenzo de’ Paoli, prese a riunirsi il martedì, dando vita appunto alle “Conferenze del martedì”.
Tale meritoria opera di formazione non sfuggì al potente cardinale Richelieu, il quale volle essere informato sulla loro attività e chiese pure al fondatore, una lista di nomi degni di essere elevati all’episcopato.
Lo stesso re Luigi XIII, chiese a ‘monsieur Vincent’, una seconda lista di degni ecclesiastici adatti a reggere diocesi francesi; il sovrano poi lo volle accanto al suo letto di morte, per ricevere gli ultimi conforti spirituali.
Anche la direzione dei costituendi Seminari delle diocesi francesi, voluti dal Concilio di Trento, vide sempre nel 1660, ben dodici rettori appartenenti ai Preti della Missione.
 
Alla corte di Francia

Nel 1643, Vincenzo de’ Paoli fu chiamato a far parte del Consiglio della Coscienza o Congregazione degli Affari Ecclesiastici, dalla reggente Anna d’Austria; presieduto dal card. Giulio Mazzarino, il compito del Consiglio era la scelta dei vescovi ed il rilascio di benefici ecclesiastici. 
Il potente Primo Ministro faceva scelte di opportunità politica, soprassedendo sulle qualità morali e religiose; era inevitabile lo scontro fra i due, Vincenzo gli si oppose apertamente, anche criticandolo nelle sue scelte di politica interna, specie nei giorni oscuri della Fronda, quando Mazzarino tentò di mettere alla fame Parigi in rivolta, Vincenzo allora organizzò una mensa popolare a San Lazzaro, dando da mangiare a 2000 affamati al giorno.
Nel 1649 giunse a chiedere alla regina, l’allontanamento del Mazzarino per il bene della Francia; la richiesta non poté aver seguito e quindi Vincenzo de’ Paoli cadde in disgrazia e definitivamente allontanato dal Consiglio di Coscienza nel 1652.
La reggente Anna d’Austria gli concesse l’incarico di Ministro della Carità, per organizzare su scala nazionale gli aiuti ai poveri; si disse che dalle sue mani passasse più denaro che in quelle del ministro delle Finanze.

Altri aspetti della sua opera

Vincenzo de’ Paoli divenne il maggiore oppositore alle idee gianseniste propugnate in Francia dal suo amico Giovanni du Vergier, detto San Cirano († 1642) e poi da Antonio Arnauld; dopo la condanna del giansenismo da parte dei papi Innocenzo X nel 1653 e Alessandro VIII nel 1656, Vincenzo si adoperò, affinché la decisione pontificia fosse accettata con sottomissione da tutti gli aderenti alle idee del vescovo olandese Giansenio (1585-1638).
Il movimento eterodosso del giansenismo affermava, che per la salvezza dell’uomo, a causa della profonda corruzione scaturita dal peccato originale, occorreva l’assoluta necessità della Grazia, la quale sarebbe stata concessa solo ad alcuni, per imperscrutabile disegno di Dio.
Fu riformatore della predicazione, fino allora barocca, introducendo una semplice tecnica oratoria: della virtù scelta per argomento, ricercare la natura, i motivi di praticarla, ed i mezzi più opportuni
Per lui apostolo della carità fra i prigionieri ed i forzati, re Luigi XIII, su suggerimento di Filippo Emanuele Gondi, istituì la carica di Cappellano capo delle galere (8 febbraio 1619), questo gli facilitò il compito e l’accesso nei luoghi di pena e di partenza dei galeotti rematori; dal 1640 il compito passò anche ai suoi Missionari e alle Dame e Figlie della Carità.
Inoltre si calcola che tra il 1645 e il 1661, Vincenzo de’ Paoli e i suoi Missionari, liberarono non meno di 1200 schiavi cristiani in mano ai Turchi musulmani.
Monsieur Vincent fu fin dai primi anni, membro attivo della potente “Compagnia del SS. Sacramento”, sorta a Parigi nel 1630, composta da ecclesiastici e laici insigni e dedita ad “ogni forma di bene”.
Vincenzo de’ Paoli fu spesso ispiratore della benefica attività della Compagnia e da essa ricevé aiuto e collaborazione, per le sue tante opere assistenziali. 

Il pensiero spirituale

Nei dodici capitoli delle “Regulae”, Vincenzo ha condensato lo spirito che deve distinguere i suoi figli come religiosi: la spiritualità contemplativa del pensiero del card. de Bérulle, sotto la cui direzione egli rimase per oltre un decennio; l’umanesimo devoto dis. Francesco di Sales, suo grande amico, del quale lesse più volte le opere spirituali e l’ascetismo di s. Ignazio di Loyola, del quale assimilò il temperamento pratico; elaborando da queste tre fonti una nuova dottrina spirituale. 
Le virtù caratteristiche dello spirito vincenziano, secondo la Regola dei Missionari, sono le “cinque pietre di Davide”, cioè la semplicità, l’umiltà, la mansuetudine, la mortificazione e lo zelo per la salvezza delle anime.

La morte, patronati

Il grande apostolo della Carità, si spense a Parigi la mattina del 27 settembre 1660 a 79 anni; ai suoi funerali partecipò una folla immensa di tutti i ceti sociali; fu proclamato Beato da papa Benedetto XIII il 13 agosto 1729 e canonizzato da Clemente XII il 16 giugno 1737.
I suoi resti mortali, rivestiti dai paramenti sacerdotali, sono venerati nella Cappella della Casa Madre dei Vincenziani a Parigi.
È patrono del Madagascar, dei bambini abbandonati, degli orfani, degli infermieri, degli schiavi, dei forzati, dei prigionieri. Leone XIII il 12 maggio 1885 lo proclamò patrono delle Associazioni cattoliche di carità.
In San Pietro in Vaticano, una gigantesca statua, opera dello scultore Pietro Bracci, è collocata nella basilica dal 1754, rappresentante il “padre dei poveri”.
La sua celebrazione liturgica è il 27 settembre.

 

 
 
 

"Potessi vedere ancora quella mangiatoia dove fu deposto il Signore.....

Post n°7 pubblicato il 18 Aprile 2013 da leditadidio

 

 

San Girolamo

 

Nato a Stridone (Dalmazia) nel 347 e morto a Betlemme il 30 settembre dell'anno 419/420, Girolamo rappresenta uno dei maggiori esponenti del monachesimo ascetico, nonchè dottore della Chiesa.

La sua formazione avvenuta in primo luogo nella sua famiglia di fede cristiana, lo portò a conseguire gli studi prima a Milano e poi a Roma alla scuola dei celebri retori Donato e Rufino di Aquileia. Il fascino di questa città lo attrasse sia per la vita di studi che per quella mondana.

Ma alla ricerca di una profonda conversione e della vita ascetica dedicata alla contemplazione, dopo il battesimo avvenuto all'età di 19 anni, iniziò la sua vita ritirata.

Terminati gli studi e recatosi a Treviri per iniziare la sua carriera, scoprì la bellezza dell'esperienza monacale. Così contro il volere della sua famiglia si ritirò ad Aquileia insieme all'amico Rufino. Da lì decise di recarsi in Oriente, nella culla del monachesimo, alla ricerca di un'esperienza ancora più ascetica e si fermò ad Antiochia presso il vescovo Evagrio, dal quale imparò la lingua greca.
In questo periodo fece un'esperienza ascetica e spirituale molto forte, sia per l’assidua lettura della Parola di Dio, che per la grave malattia che lo colpì. Dopo questa forte e profonda esperienza Girolamo scelse di recarsi nel deserto di Calcide ai confini della Siria e iniziò una dura vita da anacoreta. In questo periodo imparerà l'ebraico per leggere in lingua originale l'Antico Testamento.
A seguito della sua esperienza nel deserto, che lo segnò ancora più profondamente, fu incaricato di tradurre la Sacra Scrittura. Il risultato del suo lavoro, in cui profuse tutto il suo talento, risultò un dono prezioso per la Chiesa d'Occidente. La sua Bibbia, chiamata Vulgata, resta fino a oggi il testo ufficiale garantito dall'autorità della Chiesa. Dopo una breve esperienza, precenobitica a Roma presso l'Aventino, si ritirò a Betlemme dove visse gli ultimi anni della sua vita, e dove poté portare avanti il suo lavoro di traduzione della Bibbia.
A Betlemme fu raggiunto da Paola e la figlia Eustochio, due patrizie romane, che garantirono una ricca somma con la quale vennero costruiti due monasteri, uno maschile e l'altro femminile, un ospizio per i pellegrini e una scuola monastica. Questa fu la prima esperienza di insediamenti monastici nelle prossimità della Grotta della Natività. Anche se non è chiara la posizione dei complessi monastici, è certo che Girolamo si raccogliesse in meditazione e preghiera nelle grotte prossime alla Santa grotta.
Emblematica della sua spiritualità è la riflessione sulla mangiatoia della Grotta della Natività che, per dare al luogo una degna sistemazione, era stata sostituita già a quel tempo con una vasca di argento: 
"Potessi vedere ancora quella mangiatoia dove fu deposto il Signore. Ora noi, come se questo fosse ad onore di Cristo, abbiamo tolto quella di fango e ne abbiamo messa una d’argento; ma, per me, era molto più preziosa quella che è stata tolta. Argento e oro convengono al paganesimo, alla fede cristiana conviene che sia di fango quella mangiatoia! Colui che là è nato, in quella mangiatoia, disprezza l’oro e l’argento. Non intendo condannare chi ha fatto questo pensando di rendere onore a Cristo (non condanno neppure quelli che fecero le suppellettili d’oro per il tempio) però ammiro di più il Signore che, pur essendo il creatore del mondo, non nasce in mezzo a oro e argento ma nel fango." (Girolamo, Omelia per la Natività del Signore [fine IV sec. d.C.]) 

Dall'Epistulae ad Paulinum, 395 dC

Luogo dell'incarnazione

 ".....parliamo ora del paesello di Cristo e del rifugio di Maria (dato che ognuno loda maggiormente ciò che possiede); però con quali parole e in quale lingua possiamo spiegarti la grotta del salvatore? E quel presepio, in cui Egli da bambino vagì, bisogna venerarlo più col silenzio, che con parole inadeguate. Dove sono gli spaziosi portici, dove sono i soffitti dorati? dove sono i palazzi ornati con i sacrifici dei poveri e col lavoro degli schiavi? dove sono le basiliche che, a somiglianza dei palazzi, sono costruite con le ricchezze dei privati, al solo scopo di far camminare questo nostro piccolo e miserabile corpo umano in un ambiente più prezioso, e come se in questo mondo vi possa essere qualche cosa di maggior ornamento, si preferisca contemplare più le cose fatte bene, che il cielo?

(Ma) ecco che in questo piccolo buco della terra è nato il Creatore dei cieli; qui fu avvolto nei panni; qui fu visto dai pastori; qui fu indicato dalla stella; qui fu adorato dai Magi. E io credo che questo posto è più sacro della rupe Tarpea, che per essere stata più volte colpita da fulmini del cielo, ci fa capire che essa dispiaceva al Signore..." (Epistola 46)

Venerazione di Giove al tempo di Adriano nel Luogo santo

Dai tempi di Adriano fino all’imperatore Costantino, per circa 180 anni, fu venerata una immagine di Giove sul luogo della Risurrezione e una statua marmorea di Venere sul luogo della Crocifissione ... E quanto a Betlemme, ora nostra, quel santissimo tra i luoghi della terra del quale il salmista canta: “La verità germoglierà dalla terra” era ombreggiato da un boschetto sacro a Tammuz, cioè Adone, e nella grotta dove un tempo Cristo, bambino, aveva vagito si piangeva l’amante di Venere". (Epistola 58)

Nel trattato Adversus Iovinianum, scritto nel 393 in due libri, l'autore esalta la verginità e l'ascetismo, tra gli altri argomenti, in esso Girolamo difende strenuamente l'astinenza dalla carne dimostrandosi un vegetariano ante litteram:

«Fino al diluvio non si conosceva il piacere dei pasti a base di carne ma dopo questo evento ci è stata riempita la bocca di fibre e di secrezioni maleodoranti della carne degli animali.
Gesù Cristo, che venne quando fu compiuto il tempo, ha collegato la fine con l'inizio. Pertanto ora non ci è più consentito di mangiare la carne degli animali.»

(Adversus Jovinanum, I, 30)

Il rigore morale di Girolamo, però, il quale era decisamente favorevole all'introduzione del celibato ecclesiastico e all'eradicazione del fenomeno delle cosiddette agapete, non era ben visto da buona parte del clero, fortemente schierato su posizioni giovinianiste. In una lettera ad Eustochio, Girolamo si esprime contro le agapete nei seguenti termini:

« Oh vergogna, oh infamia! Cosa orrida, ma vera! Donde viene alla Chiesa questa peste delle agapete? Donde queste mogli senza marito?
E donde in fine questa nuova specie di puttaneggio? »
(dalla Lettera a Eustochio, Sofronio Eusebio Girolamo)

Esistono due iconografie principali di Girolamo: una con l'abito cardinalizio e con il libro della Vulgata in mano, oppure intento nello studio della Scrittura. Un'altra nel deserto, o nella grotta di Betlemme, dove si era ritirato sia per vivere la sua vocazione da eremita sia per attendere alla traduzione della Bibbia, in questo secondo caso viene mostrato senza l'abito e con il cappello cardinalizio gettato in terra a simbolo della sua rinuncia agli onori. Spesso si vede il leone a cui tolse la spina dal piede e, magari, un crocifisso a cui rivolgere l'adorazione, un teschio come simbolo di penitenza o la pietra con cui soleva battersi il petto.

A Firenze è presente un'iconografia di S. Girolamo penitente in piedi, in logora veste bianca, che si batte il petto con un sasso. In quest'iconografia - Andrea del Castagno presso la basilica della SS.ma Annunziata, scultura in terracotta di un anonimo plastificatore fiorentino (circa 1454) presso l'Oratorio di S. Girolamo e S. Francesco Poverino (Antonio del Pollaiolo?) è da sottolineare il nervosismo degli arti e la tragicità del volto.

Sebbene l'abito rosso da cardinale sia stato molto usato nelle rappresentazioni pittoriche del santo, non è storicamente confermato che egli sia stato effettivamente un cardinale.

 
 
 

“Se stessi in ginocchio tutta la vita, non dirò mai abbastanza tutta la mia gratitudine al buon Dio”

Post n°6 pubblicato il 15 Aprile 2013 da leditadidio

 

 

Santa Giuseppina Bakhita

 

Nacque nel 1869 a Oglassa (Darfur, Sudan) nel 1869. 

All'età di sette anni, fu rapita da mercanti arabi di schiavi. Per il trauma subìto, dimenticò il proprio nome e quello dei propri familiari: i suoi rapitori la chiamarono Bakhita, che in arabo significa "fortunata".

Venduta più volte dai mercanti di schiavi sui mercati di El Obeid e di Khartum, conobbe le umiliazioni, le sofferenze fisiche e morali della schiavitù. In particolare, subì un tatuaggio cruento mentre era a servizio di un generale turco: le furono disegnati più di un centinaio di segni sul petto, sul ventre e sul braccio destro, incisi poi con un rasoio e successivamente coperti di sale per creare delle cicatrici permanenti.

Nella capitale sudanese viene infine comprata da Callisto Legnani, console italiano residente in quella città: il proposito di Legnani è quello di liberarla. L'italiano già in precedenza aveva comprato bambini schiavi per restituirli alle loro famiglie. Nel caso di Bakhita il ricongiungimento non si rendeva possibile, non solo per la grande distanza del villaggio di origine, soprattutto a causa del vuoto di memoria della bambina riguardo ai nomi dei propri luoghi e dei propri familiari. Bakhita si ferma a vivere nella casa del console per due anni, serenamente, lavorando con gli altri domestici senza che nessuno l'abbia più considerata una schiava.

In seguito alla Rivolta Mahadista, nel 1884 il diplomatico italiano deve fuggire dalla capitale: Bakhita lo implora di non abbandonarla. Insieme ad Augusto Michieli, amico del signor Legnani, si imbarcano per Genova. In Italia, Augusto Michieli e la moglie prendono Bakhita con loro, perchè diventi bambinaia della figlia Mimmina. Per tre anni Bakhita vive nella loro casa a Zianigo, località frazione di Mirano. I coniugi De Michieli si traferiscono poi in Africa, a Suakin, dove possedevano un albergo, lasciando in affidamento temporaneo la figlia Mimmina e Bakhita, presso l'Istituto dei Catecumeni in Venezia, gestito dalle Figlie della Carità (Canossiane). Bakhita viene ospitata gratuitamente come catecumena: comincia così a ricevere un'istruzione religiosa cattolica.

Quando la signora Michieli ritorna dall'Africa per riprendersi sia la figlia che Bakhita, l'africana con grande coraggio e decisione le manifesta la sua ferma intenzione di rimanere in Italia con le suore Canossiane. Anche se la signora Michieli non è assolutamente d'accordo, Giuseppina riesce a rimanere nel convento delle Canossiane e il 9 gennaio 1890 riceve i sacramenti dell'iniziazione cristiana con i nomi Giuseppina Margherita Fortunata. Il 7 dicembre 1893 entra nel noviziato dello stesso istituto e l'8 dicembre 1896 pronuncia i suoi primi voti religiosi.

Nel 1902 viene trasferita in un convento dell'ordine a Schio (Vicenza) dove trascorrerà il resto della vita.

Qui Bakhita lavora come cuciniera e sagrestana. Nel corso della Prima Guerra Mondiale, parte del convento viene adibito ad ospedale militare e le capita di lavorare come aiuto infermiera. A partire dal 1922 le viene assegnato l'incarico di portinaia, servizio che la metteva in contatto con la popolazione locale: gli abitanti del posto sono incuriositi da questa insolita suora di colore, che non parla bene l'itliano, almeno non quanto il dialetto locale (veneto). Grazie ai suoi modi gentili, la voce calma, il volto sempre sorridente, iniziano ad amarla, tanto che viene ribattezzata "Madre Moreta".

Bakhita ha un particolare carisma personale; i suoi superiori lo sanno e in più occasioni le chiedono di dettare le sue memorie. Il primo racconto viene dettato a suor Teresa Fabris nel 1910, che produce un manoscritto di 31 pagine in italiano. Nel 1929, su invito di Illuminato Chicchini, amministratore della famiglia dei coniugi Michieli, persona a cui Bakhita era particolarmente legata e riconoscente, si racconta ad un'altra consorella, suor Mariannina Turco; questo secondo manoscritto è andato perduto, probabilmente distrutto dalla stessa Bakhita.

Su richiesta della superiora generale dell'ordine delle Figlie della Carità, all'inizio del mese di novembre 1930 vienne intervistata a Venezia da Ida Zanolini, laica canossiana e maestra elementare. Questa nel 1931 pubblica il libro "Storia Meravigliosa", che sarà ristampato 4 volte nel giro di sei anni.

La fama di Bakhita si estende così per tutto il paese: sono molte le persone, le comitive e le scolaresche che si recano a Schio per incontrare Suor Bakhita.

Dal 1933, assieme a suor Leopolda Benetti, suora missionaria di ritorno dalla Cina, inizia a girare l'Italia per tenere conferenze di propaganda missionaria. Timida di natura e capace di parlare solo in dialetto veneto, Bakhita si limitava a dire poche parole alla fine degli incontri; era la sua presenza tuttavia ad attirare l'interesse e la curiosità di migliaia di persone.

L'11 dicembre 1936, Bakhita con un gruppo di missionarie in partenza per Addis Abeba, vengono ricevute da Benito Mussolini nel Palazzo Venezia a Roma.

Dal 1939 cominciò ad avere seri problemi di salute e non si allontanò più da Schio. Morì l'8 febbraio 1947 dopo una lunga e dolorosa malattia. La salma venne inizialmente sepolta nella tomba di una famiglia scledense, i Gasparella, probabilmente in vista di una successiva traslazione nel Tempio della Sacra Famiglia del convento delle Canossiane di Schio, traslazione poi avvenuta nel 1969.

Il processo di canonizzazione iniziò nel 1959, a soli 12 anni dalla morte. Ai fini della canonizzazione, la Chiesa cattolica ritiene necessario un secondo miracolo, dopo quello richiesto per la beatificazione: nel caso di Giuseppina Bakhita, ha ritenuto miracolosa la guarigione di Eva da Costa Onishi, guarita nel 1992 daulcerazioni infette agli arti inferiori, causate da diabete e ipertensione.

Il 1º dicembre 1978 Papa Giovanni Paolo II firmò il decreto dell'eroicità delle virtù della serva di Dio Giuseppina Bakhita. Durante lo stesso pontificato, Giuseppina Bakhita fu beatificata il 17 maggio 1992 e canonizzata il 1º ottobre 2000.

 

Bakhita si esprimeva in lingua veneta e alcune sue frasi ed espressioni sono diventate famose.

Parlava di Dio come el Parón: «queło che vołe el Parón», «quanto bon che xé el Parón», «come se fa a no vołerghe ben al Parón» (quello che vuole il Signore, quanto buono è il Signore, come si fa a non voler bene al Signore).

Di se stessa: «Mi son on povero gnoco, come gai fato a tegnerme in convento?» (Non valgo niente, come hanno fatto a tenermi in convento?).

Quando la gente la compiangeva per la sua storia: «Poareta mi? Mi no son poareta perché son del Parón e neła so casa: quei che non xé del Parón i xé poareti» (Povera io? Io non sono povera perché sono del Signore e nella sua casa: quelli che non sono del Signore sono i veri poveri).

Soffrì parecchio nel subìre la curiosità della gente e l'acquisita notorietà: «Tuti i vołe védarme: son propio na bestia rara!» (Tutti vogliono vedermi: sono proprio una bestia rara!).

Frasi di Bakhita


• Ho passato tutto il mio Signore, Egli si prenderà cura di me. 
• Non è bello essere quello che sembra bello ma ciò che il Signore vuole.    
• Ho ricevuto il Santo Battesimo con una tale gioia che solo gli angeli 
   potrebbe descrivere. 
• O Signore, se potessi volare e andare dal mio popolo e proclamare tutta la tua bontà, oh, quante anime  potrei portare a Te
• La Madre di Dio mi ha protetta, prima ancora che l'ho conosciuta. 

 E altre ancora.....

“Se stessi in ginocchio tutta la vita, non dirò mai abbastanza tutta la mia gratitudine al buon Dio”

 “Tutta la mia vita è stata un dono di Dio: gli uomini suoi strumenti; grazie a loro, per avermi procurato il dono della fede.”

 “Fortunati voi che siete nati in un Paese cattolico. Io ci sono arrivata tardi. Siatene riconoscenti a Dio e alla Madonna.”

 “Facciamo tutto per far contento el Paròn.”

 “Le cose di questo mondo sono niente, è terra; ciò che preme a noi sono le cose dell'alto: è il Padrone.”

 “Io dò tutto al Padrone, Lui penserà a me: ne è obbligato.”

 “Nella volontà di Dio è grande pace.”

 “Quando una persona ama tanto un'altra, desidera ardentemente andarle vicino: dunque, perché avere tanto paura della morte? La morte ci porta a Dio".

 
 
 
 
 

INFO


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Data di creazione: 03/04/2013
 

SANTI NATI PRIMA DI CRISTO

Andrea - Antonio abate - Valentino

 

 

 

 

 

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