IL DUBBIOLa vita non è fatta solo di terra da arare o produttiva, ma anche di montagne di sogni e di sotterranei di dolore ¨ Abraham Heschel |
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LA POESIA
"Quando il potere spinge l'uomo all'arroganza, la poesia gli ricorda i suoi limiti. Quando il potere restringe il campo dei suoi interessi, la poesia gli ricorda la ricchezza e diversità della sua esistenza. Quando il potere corrompe, la poesia purifica"
John Fitzgerald Kennedy - pochi mesi prima di essere assassinato ...
DEDICATO ALLA CLASSE POLITICA ITALIANA
"Bisogna sempre tener presente questi due principi: primo, agire unicamente secondo ciò che ti suggerisce il bene dell'umanità; secondo, cambiar parere se trovi qualcuno capace di correggerti, rimuovendoti da una certa opinione. Questo nuovo parere, comunque, deve sempre avere una ragione, come la giustizia o l'interesse comune, ed esclusivamente tali devono essere i motivi che determinano la tua scelta, non il fatto che ti sia parsa più piacevole o tale da procurarti maggior gloria."
Tratto dai "Ricordi dell'imperatore Marco Aurelio (121-180 D.C.)
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Chiunque conosca ed abbia letto anche solo pochi post del blog “IL DUBBIO” sa benissimo quali sono le mie posizioni sul personaggio che sta governando il nostro Paese.
Senza dilungarmi andando sulle solite motivazioni del conflitto di interessi, problemi giudiziari, leggi ad personam ecc. ecc. la ragione ancora più plausibile per toglierlo definitivamente dalle scatole è quella che, pur essendo entrato in politica per il “bene del paese” (sic!), contro i comunisti ecc. ecc. più di quindici anni fa e ben 8 anni di governo, non è che abbia fatto proprio del bene all’Italia, anzi … Mi ricordo di certe manifestazioni di piazza di Berlusca contro il governo Prodi che, secondo lui, “impoveriva il paese e martirizzava le libertà …”
Ora nella situazione in cui siamo (complice chiaramente anche la crisi internazionale), sarebbe proprio da sbellicarsi dalle risate e rimpiangere perfino (udite, udite) proprio il governo Prodi …
Ma allora per quale motivo non sono d’accordo su quella manifestazione di piazza promossa dal web svoltasi sabato 5 dicembre?
E’ presto detto. Perché come dice anche il pragmatico Bersani, segretario del PD, il più antiberlusconiano di tutti sarà quello che lo sconfiggerà alle prossime elezioni e qualunque scorciatoia, giudiziaria o politica che sia, sarebbe sempre e comunque un fallimento.
E’ la legge della democrazia, bellezza. Solo con la forza delle idee, delle proposte e perché no, anche di una leadership adeguata, si può sperare di avere un vero ricambio politico in Italia.
Ma, attenzione, non parlo solo per la sinistra che comunque ha già avuto il suo dibattito interno, primarie ecc. ecc. (mancherebbe un ricambio generazionale vero, ma questa è un’altra storia). Parlo soprattutto per la destra costretta dal suo leader ad una vocazione populista e demagogica, vagamente antieuropea a cui, fortunatamente, Fini sta cercando di rimediare, chiaramente scontrandosi frequentemente con Berlusconi.
Qui di seguito un interessante articolo del filosofo Ernesto Galli della Loggia sulla giustezza della linea del PD nel non aver aderito ufficialmente alla manifestazione NO B. DAY:
LE GIUSTE RAGIONI DEL NO ALLA PIAZZA
Il rinnegato Bersani
Ha fatto benissimo il segretario del Pd Pier Luigi Bersani a tenere il suo partito, almeno ufficialmente, lontano dalla manifestazione del «No B-day». Quella che si è conclusa sabato a San Giovanni, infatti, non è stata «la rivoluzione viola », «l'ingresso ufficiale della politica nell'era di internet », «un miracolo italiano », «un giorno che ha cambiato la storia», «la fine decretata della seconda repubblica» come si è subito proclamato con l'abituale sobrietà dalle colonne di Repubblica . In una democrazia che sia minimamente tale cortei e comizi oceanici non cambiano mai realmente il quadro politico. Un anno fa, per esempio, Veltroni radunò al Circo Massimo almeno il doppio dei manifestanti di domenica: e cosa è cambiato? Nulla. Sei mesi dopo, anzi, dovette dimettersi. Comizi e raduni sono al più un segnale. Ma nel nostro caso il «No B-day» non indica uno di quei sommovimenti epocali che a partire dal '68 ci vengono regolarmente annunciati ogni sei mesi, tutte le volte che qualche folla, specie se giovanile, si fa una passeggiata per le vie di Roma e che poi altrettanto regolarmente non avvengono mai. Segnala solo il principale problema politico del Partito democratico: quello di riuscire a difendere e affermare una propria autonoma identità e dunque una propria linea. Un problema che il Pd si tira dietro da quando è nato, ma per risolvere il quale — si deve essere giustamente detto Bersani — la via migliore non può essere certo quella di aderire a una manifestazione che, seppure spontanea, ha però assunto da subito le forme e i contenuti del radicalismo giustizialista dell’Italia dei Valori. Vale a dire di un altro partito, diverso dal Pd e in un senso profondo suo concorrente.
I termini della questione sono semplicissimi: se vuole vincere le elezioni il Pd deve conquistare almeno una parte dell'elettorato di centro; ma poiché è ovvio che questo elettorato rifiuta in genere ogni massimalismo, ne consegue che anche il Pd deve fare altrettanto. Può farlo, però, solo se marca la propria distanza da Di Pietro, se sottolinea la propria decisa avversione verso l'antiberlusconismo parossistico dell'ex pm, verso la sua idea che il codice penale e i tribunali siano l'alfa e l'omega di ogni opposizione. In tutti gli altri Paesi avviene così senza problemi: in Germania, per esempio, l'Spd è aperto avversario della Linke (ci fa talvolta degli accordi di governo locale, ma è tutt’altra questione), in Francia i socialisti non aderiscono certo alle manifestazioni dei vari partiti della sinistra trotzkista. Perché solo in Italia, invece, sembra che non possa accadere lo stesso?
La risposta è che nell'infinita transizione apertasi a sinistra con il crollo del comunismo, con la fine del Pci e con le sue successive trasformazioni in Pds, Ds e ora Pd, l'elettorato di quella parte ha visto progressivamente disgregarsi qualunque profilo identitario realmente strutturato nel quale riconoscersi.Oltre la naturale vischiosità del passato e la nostalgia autobiografica gli è rimasto solo un insieme di principi — costretti peraltro a mantenersi sul vago, troppo sul vago, per la loro difficile traducibilità nell’Italia del grande ceto medio, per giunta paralizzata da un debito pubblico e da una pressione fiscale smisurati, nonché alle prese con la globalizzazione —; oltre a questi vaghi principi è rimasto soprattutto quello che può definirsi «l’opposizionismo». Cioè la volontà di essere comunque contro, l’idea che ogni compromesso è un «inciucio», ogni minimo accordo uno sporcarsi le mani, che i «nostri» interessi sono sempre legittimi mentre i «loro» mai perché in sostanza «noi» siamo il bene e «loro» il male. Dall’«opposizionismo» al radicalismo massimalistico il passo è brevissimo, come si vede.
Il punto cruciale è che quando c’era il Partito comunista almeno due fattori impedivano che tale passo fosse compiuto. Il primo consisteva nel fatto che «loro», gli avversari, erano essenzialmente i cattolici, la Democrazia cristiana, e non era proprio tanto facile dipingere gli uni e l’altra come rappresentanti di un male assoluto: non da ultimo perché in tal modo il «dialogo» con loro sarebbe tra l’altro diventato impossibile. Il secondo fattore era la tradizione comunista plasmata dal leninismo. Una tradizione fatta di diffidenza profonda verso ogni massimalismo che si presentasse come più «radicale», più «coerente»: una tradizione capace di avvalersi dell’estremismo, anche di coltivarlo magari, ma ancora più capace di combatterlo ricorrendo anche ai mezzi più spietati per togliergli qualunque spazio di agibilità politica. Venute meno la tradizione comunista e la sua prassi, è sopravvissuto solo l’«opposizionismo» che ha finito in modo naturale per prendere sempre più spesso, e alla fine in modo abituale, le vesti del massimalismo, minacciando di diventare il vero e unico carattere identitario del popolo di sinistra, a cominciare da quello «democratico».
Che l’avversario ora non fosse più la Dc bensì un personaggio come Berlusconi con tutto il carico delle sue gravi, oggettive, «anomalie» è stato certo importante, ma assai di più secondo me ha pesato altro. Da un lato ha contato l’incapacità del Pd di dare una spiegazione vera e plausibile della fine ambigua della Prima Repubblica, nonché delle ragioni, legate intimamente a quella fine, che sole spiegano la comparsa e il successo dello stesso Berlusconi. Dall’altro il vuoto di programmi veri e di proposte politiche precise, di alleanze strategiche convincenti, di lotte sociali vaste, che il nuovo partito non è riuscito a colmare, finendo così per lasciar sussistere solo «l’opposizionismo» massimalista che lo trascina fatalmente nell’abbraccio stritolante di Di Pietro. A mantenere in vita tale «opposizionismo» contribuisce, per finire, lo spregiudicato uso di sponda che ne fa ai vertici del Pd chiunque intenda far capire di non condividere interamente la leadership ufficiale o voglia comunque mostrare di essere qualcosa di diverso, voglia conservare una propria immagine distinta. Il segretario cerca di opporsi al massimalismo? Di costruire un’opposizione più ragionata?
Bersani non va al «No B-day»? Ed ecco allora che Bindi, Franceschini e gli altri oligarchi, perfino Veltroni, si precipitano immediatamente per far vedere che no, perbacco!, loro invece ci vanno, loro sì che sono contro: loro per fortuna esistono e lottano per la nostra democrazia insieme a Marco Travaglio e Antonio Di Pietro.
Ernesto Galli della Loggia
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