Creato da m_de_pasquale il 05/10/2009
"il sapere ha potenza sul dolore" (Eschilo) ______________ "Perchè ci hai dato sguardi profondi?" (Goethe)
 

 

l'unità prima della differenza

Post n°75 pubblicato il 30 Ottobre 2011 da m_de_pasquale
 
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Il sacro come indifferenziata unità dei contrari. Il pensiero delle origini sembra condurci in questa direzione quando Eraclito in un suo frammento dice: “Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma”. Le mitologie, i simboli, le fantasie - le prime forme attraverso cui l’uomo ha parlato del divino e del sacro – esprimono spesso significati incompatibili secondo la logica dettata dalla ragione, sì da farci pensare che tali forme espressive attingano da un comune sfondo pre-umano, pre-razionale dove appunto la luce della ragione con la sua capacità di stabilire differenze - secondo il principio d’identità e non contraddizione - non ancora agisce. Cos’è questo sfondo pre-umano, pre-razionale? con la civiltà è stato assorbito dalla ragione e di conseguenza oggi non ve ne è più traccia? o continua ad esercitare la sua influenza sull’azione dell’uomo nonostante egli sia asservito al dominio della ragione? Il grande storico delle religioni, Eliade ritiene che l’uomo contemporaneo “a-religioso”, epigono del processo di desacralizzazione che ha caratterizzato la nostra civiltà, a sua insaputa si comporta ancora religiosamente – si pensi alle superstizioni, ai ritualismi che accompagnano le tappe della sua vita, a quell’ “officina di sogni” che sono il cinema e la televisione che spesso riprendono i motivi delle antiche mitologie, alla struttura mitologica di movimenti politici - perché egli “è il diretto discendente dell’homo religiosus e non può annullare la propria storia, cioè il comportamento dei suoi antenati, che lo hanno costituito nella sua forma attuale. Tanto più che gran parte della sua esistenza è alimentata da impulsi che nascono dal più profondo del suo essere, da quella zona, cioè, che oggi viene chiamata inconscio: i suoi contenuti e le sue strutture sono il risultato di situazioni primordiali antichissime, ed è per questo che l’inconscio è avvolto in un’aura religiosa … Nell’uomo contemporaneo la religione e la mitologia si sono occultate nelle tenebre del suo inconscio”. L’inconscio, quindi, come luogo privilegiato dove rinvenire le tracce del sacro. Compito possibile se l’inconscio viene inteso non solo come luogo dei contenuti dell’esperienza personale rimossi (inconscio personale), ma anche come luogo dei contenuti che non sono mai stati nella coscienza e perciò mai acquisiti individualmente, ma che devono la loro esistenza esclusivamente all’ereditarietà (inconscio collettivo). Il suo contenuto, è costituito essenzialmente da immagini archetipiche, immagini universali presenti fin dai tempi più remoti, che per Jungrappresentano la sempiterna esperienza della divinità, di cui hanno sempre dischiuso all’uomo il presentimento, proteggendolo contemporaneamente dal contatto diretto di essa”. L’inconscio è impossibile inquadrarlo nella logica della ragione essendo i suoi contenuti ambivalenti, sincronici, insomma non regolati dal principio d’identità e non contraddizione che caratterizza l’azione della ragione. Non è l’esperienza dell’irrazionale (inteso come il contrario della ragione), ma è l’esperienza di quella dimensione che precede la distinzione tra la ragione e il suo opposto, una dimensione in cui c’è l’uno e l’altro insieme (unità indifferenziata dei contrari). E’ la dimensione che è possibile esprimere solo attraverso il simbolo (in greco syn-ballein che significa “tenere insieme”, contrario di “separare” che è l’azione che compie la ragione grazie al principio di non contraddizione) caratterizzato dall’ambivalenza (questo e quello insieme) di custodire in maniera indifferenziata le successive differenziazioni imposte dalla ragione. Non tenendo conto del modo ordinario d’intendere il simbolo come segno rinviante ad un preciso significato fornito dalla ragione (ad es. il “segno” bandiera rinvia al “significato” patria),  il simbolo rappresenta un cedimento dell’ordine della ragione perché esso non rinvia ad un significato ma è l’azione di composizione degli opposti, e pertanto rende possibile l’accesso a quell’universo pre-razionale dove sono custodite le tracce del sacro. Per comprendere il sacro è indispensabile che la ragione non sia più dominante pur rimanendo spettatrice, che non faccia uso dei concetti ma dei simboli, gli unici ad essere capaci di mediare tra la ragione e il suo altro. La ragione non si annienta ma si apre a ciò che si annuncia oltre i suoi limiti, si apre a quello sfondo misterioso. In effetti sostiene Eliade che ”l’uomo, in virtù dei simboli, esce dalla sua situazione particolare per aprirsi verso il generale e l’universale … Di fronte a un albero qualunque, simbolo dell’Albero del Mondo e immagine della Vita cosmica, un uomo delle società premoderne è capace di raggiungere la più alta spiritualità: comprendendo il simbolo, è in grado di vivere l’universale”. La dimensione simbolica presentandosi come uno sporgere oltre ed al di là, viene a coincidere con la possibilità della trascendenza, ovvero con l’apertura ad un senso che non coincide con i soli significati imposti dalla ragione. E’ quel processo che Jung definisce d’individuazione. (sacro - 2  precedente  seguente)

 
 
 

incontrare la differenza

Post n°74 pubblicato il 22 Ottobre 2011 da m_de_pasquale
 
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percorso: inizio (41° 45' 46.70" N,  15° 32' 50.18" E) - Castelpagano [AR 7 km]

E’ suggestivo fare la camminata ripensando alla storia che aleggia in questi luoghi, quella del principe saraceno Mohan, signore di Castelpagano, innamorato della principessa cristiana Dolcebruna, figlia del signore di Voltapianezza, l’altura prospiciente al di là della vallata. Un amore impossibile per la diversità delle fedi religiose dei due amanti la cui impraticabilità è raccontata dalla leggenda  con l’impossibilità di percorrere a piedi lo spazio relativamente breve che divideva i due luoghi perchè infestato da rovi e serpenti. Una soluzione viene trovata solo con la costruzione di un ponte di legno sopraelevato  sulla vallata, ancorato a migliaia di cinghie di cuoio che avrebbe unito direttamente i due luoghi. Si abbatterono tantissimi alberi per procurarsi il legno e si ammazzarono una quantità enorme di animali per procurarsi il cuoio. La montagna si trasformò in una pietraia brulla e sterile, come appare ancora oggi.  Ma alla fine i due amanti si potettero incontrare. Spesso le leggende usando un linguaggio simbolico, raccontano verità profonde che poi la filosofia si incarica di trasformare in concetti. Questa leggenda non racconta, forse, dell’incontro drammatico con la differenza? dell’incontro problematico di due amanti con fedi religiose differenti?  Fin quando lo spazio frequentato ci è familiare perché riconosciamo i punti di riferimento condivisi nessuna incertezza ci coglie, ma appena ciò che non è riferibile al nostro universo mentale fa la sua comparsa, lo spazio si presenta infestato da rovi e serpi. Qual è la nostra reazione? Rinserrarci sul monte benedicendo la valle che ci separa dall’altro monte  o costruire il ponte per l’incontro? Ma non può essere un ponte che poggia solidamente sulla terra che conosciamo (i nostri principi, le nostre leggi, le nostre consuetudini), può essere solo un ponte sospeso sopra la terra e per giunta oscillante, fondato, cioè, sulla consapevolezza della relatività dei nostri principi, delle nostre leggi, delle nostre consuetudini.  Pertanto la condizione perché possa avvenire l’incontro è la nostra dislocazione (àtopia) ovvero la capacità di indebolire il  radicamento nel mondo abituale per esporsi all’insolito. La dislocazione che indebolisce le certezze e gli ancoraggi è l’unica possibilità per incontrare la differenza; quando si pretende d’incontrare l’altro mantenendo il proprio orizzonte come punto di riferimento,  si incontra solo la colonizzazione del diverso.  Del resto l’esperienza dell’insolito è una costante del camminatore che spesso nei suoi percorsi di fronte alle novità, agli imprevisti è costretto a ricollocarsi, a riorganizzare il suo orizzonte affinchè possa muoversi agevolmente in esso.  Sembra quasi che la sua vita si risolva nel movimento continuo di liberazione da ogni legame, interiore ed esteriore, per trovare la propria stabilità appunto nella continua trasformazione. Ma cosa potrebbe essere questa differenza che ci impaurisce, il diverso che ci intimorisce ed affascina allo stesso tempo? Mi viene da pensare al Simposio di Platone dove,  parlando delle persone “a metà” che si desideravano, ipotizzava che ciò non è spiegabile solo con l’attrazione sessuale provata dalle due metà ma col desiderio di entrare in contatto con il fondo enigmatico e buio che ci abita nel profondo: non, quindi, incontro con l’altro da me, ma con l’altro che sono io a me stesso. Ed allora il diverso che ci spaventa  potrebbe essere quella parte più profonda di noi stessi non illuminata,  quella parte dell’anima che è la meno spirituale perché è la più istintiva?  Quella parte dell’anima che il camminatore sente in particolare perché si fonde con gli odori della natura, patisce le variazioni di temperatura, sente i suoni, il vento, subisce il sole che gli cuoce sulla testa e conduce i suoi pensieri su vie associative inconsuete? (camminare - 5  precedente  seguente)

 
 
 

prima di Dio il sacro

Post n°73 pubblicato il 15 Ottobre 2011 da m_de_pasquale
 
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Per quanto Dio abbia perso la centralità che aveva nelle società passate, è, oggi, una questione che continua ad affascinare. Quando penso alla persistenza del “problema di Dio” certamente non lo addebito alla pervasività dell’azione della Chiesa e dello stuolo di seguaci più o meno credenti – esiste anche la categoria degli atei devoti - nella vita politica e sociale del nostro Paese che si manifesta ponendo veti nell’affrontare determinate questioni, influenzando leggi basate su discutibili principi, sostenendo scandalosi privilegi per la Chiesa. Credo che queste influenze abbiano poco a che fare con la questione di Dio, ma siano riferibili ad un esercizio arrogante del potere. Il “problema di Dio” si pone su un piano più serio, più profondo, più esistenziale. Nonostante la critica atea del pensiero degli ultimi due secoli che ha spiegato Dio come una creazione “umana, troppo umana” - inganno per Nietzsche, proiezione antropologica per Feuerbach, sospiro della creatura oppressa per Marx, illusione per Freud -, il pensiero di Dio mantiene un richiamo misterioso per l’uomo. Perché continua ad essere affascinante un “ente” di cui la critica atea ha distrutto l’originarietà decretandone la derivazione dall’uomo? Come è possibile che un prodotto umano – Dio creato dall’uomo – abbia il potere di sconvolgere esistenze (quante scelte radicali di vita sono fatte in nome di Dio?), favorisca l’accesso alle dimensioni più profonde della propria interiorità come è riscontrabile nei dialoghi dei mistici, assicuri una felicità di vita disperatamente cercata? Nel solco della tradizione giudaico-cristiana, pensiamo Dio come una persona con cui è possibile intrattenere una relazione di parola (la preghiera non è forse questo?), avere una relazione d’intimità che sfocia nella identificazione con lui (la gioia mistica non coincide con questo senso di pienezza prodotto dalla identificazione con Dio?), una relazione che ci fa sperimentare un senso di appagamento: vivere di Dio, con Dio, in Dio è forse l’esperienza più alta che si possa fare. Ma cosa si nasconde dietro questo ente che definiamo Dio? Potremmo intendere “Dio” come una risposta ad una domanda, la risposta ad una esigenza? Ma se Dio è la risposta ad una domanda, non è forse più interessante saperne di più sull'esigenza che lo ha prodotto? L'interesse per Dio si giustifica per la luce che può portare sulla domanda. Dio è un’acquisizione recente nella religione che, prima della nascita della filosofia, ha costituito il tentativo dell’uomo di curarsi dall’angoscia provata di fronte all’ignoto. L’uomo ha sentito il bisogno di proteggersi da potenze che non potendo dominare avvertiva come superiori a sé e come tali attribuibili a una dimensione “divina”, “altra” rispetto al mondo degli uomini. Da questa dimensione l’uomo tendeva a tenersi lontano come fa di fronte a ciò che teme (tremendum), ma al tempo stesso ne era attratto (fascinans) come se questa dimensione contenesse qualcosa da cui egli si era emancipato. Questo rapporto ambivalente di terrore e fascino è l’essenza di ogni religione che recinge tenendola in sé raccolta (re-legere) quest’area terribile in modo da garantirne separazione e contatto. Sembra che tutto ciò sia stato presentito dall’umanità prima d’invocare qualsiasi divinità. Ecco perché Dio nella religione è arrivato con ritardo. La dimensione originaria è il sacro. Le religioni sono nate, appunto, per controllare il sacro, per regolare il rapporto con una dimensione terribile ed affascinante. La separazione e l’accesso rituale favorivano il mantenimento di un rapporto non pericoloso per l’uomo. Gradualmente si è andata imponendo la posizione di Dio identificabile con la parte affascinante del sacro separata da quella terribile, violenta, animale, malefica. La ragione filosofica ha contribuito a fare di Dio la causa prima, il fondamento di tutto, fornendo sicurezza ad un uomo angosciato dal divenire. Dio diventava sempre più un ente alla mercè dell’uomo, spogliato di quegli aspetti incomprensibili alla ragione. Non più il numinoso, ma un ente a disposizione dell’uomo. E’ stato l’inizio del processo di desacralizzazione: Dio veniva mondanizzato, umanizzato, si inseriva coerentemente in quel processo di secolarizzazione che ha caratterizzato gli ultimi secoli della nostra civiltà. Il naturale epilogo del percorso è stato l’annuncio nietzschiano della sua morte. Dopo la morte di Dio ha ancora senso parlare di Dio? Sì, nella misura in cui è possibile ritrovare in Lui le tracce del sacro. Paradossalmente la morte di Dio apre la possibilità di tornare alla dimensione da cui Dio ha avuto origine: il sacro nella sua indifferenziata unità di contrari.  (sacro - 1  seguente)

 
 
 

l'etica del viandante

Post n°72 pubblicato il 01 Ottobre 2011 da m_de_pasquale
 
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percorso: Biccari (41° 23' 43.68" N, 15° 11' 28.77" E) - lago Pescara - monte Cornacchia - bosco Cerasa - Biccari [18 km]

Quando si fa una camminata ci si può anche perdere. Nonostante si sia programmato in anticipo il percorso fissando luoghi e distanze, può accadere che si scambi un sentiero per un altro e dopo una serie di tentativi, incamminandosi tra i vari sentieri che si offrono alla nostra scelta, ci si perda. A quel punto non ci si sente più nella condizione di colui che, guardando alla meta da raggiungere, considera ogni luogo che incontra solo come una tappa sulla via che porta verso il traguardo, ma si sperimenta lo smarrimento del viandante che proprio perché non ha una meta che lo conforti può aderire ai paesaggi che di volta in volta incontra sul suo cammino non considerandoli più semplicemente come luoghi di transito in vista della meta. Il cammino prende il sopravvento sulla meta, e la meta non rappresenta più una consolazione che allevia le fatiche del percorso. La condizione del viandante costituisce una potente metafora del nostro essere al mondo. Afferma Nietzsche: “Io sono un viandante che sale su per i monti, diceva Zarathustra al suo cuore, io non amo le pianure e, a quanto sembra, non mi riesce di fermarmi a lungo. E, quali siano i destini e le esperienze che io mi trovi a vivere, vi sarà sempre in essi un peregrinare e un salire sui monti: alla fine non si sperimenta che se stessi”. Il viandante è come l’uomo che rifiutando le illusioni protettive, le speranze consolatorie, il rinvenimento di un senso orientato nel futuro, accetta coraggiosamente la indecifrabilità del suo destino, sceglie di abitare la casualità del presente, si abbandona alla corrente della vita. Il viandante come il nomade, uscendo dall’abituale, dal noto, dal programmato, dal prevedibile, vive un’esperienza insolita del mondo e comprende che “la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale e che ogni progetto che tenta la comprensione e l’abbraccio totale è follia” (Galimberti). Il viandante, quindi, ha dimestichezza con la diversità, con la differenza, con l’altro. Così intesa, la condizione del viandante potrebbe offrire interessanti suggestioni per ripensare l’etica che si pone il compito di riflettere sui criteri in base ai quali valutare comportamenti e scelte in una società come quella contemporanea dominata dalla tecnica. Fin quando l’etica si è mossa in uno scenario caratterizzato da saldi principi a cui poteva riferirsi e dalla possibilità di prevedere le conseguenze delle nostre azioni, le etiche tradizionali – sia quella cristiana fondata sul primato dell’intenzione, sia quella laica che guardava all’effetto delle nostre azioni – hanno potuto costituire un valido orientamento per valutare i comportamenti dell’uomo. Ma oggi, a fronte della consapevolezza della relatività di quei principi che ritenevamo eterni, a fronte della impossibilità di valutare le conseguenze delle nostre azioni che grazie alla crescita della tecnica non riusciamo più a controllare (il nostro “fare” ha preso il sopravvento sull’”agire” cioè sulla nostra capacità di governare le azioni), ci rendiamo conto che le etiche tradizionali – quella cristiana, quella kantiana, quella della responsabilità – non sono più in grado di svolgere il loro compito. Che potere d’intervento potrebbero avere le etiche tradizionali di fronte all’imprevedibilità delle conseguenze che possono scaturire dai processi nucleari o biotecnologici? Non avendo mete, punti di partenza (i principi assoluti di una volta) e di arrivo (la capacità previsionale), l’etica del viandante, che non conosce il suo avvenire, potrebbe costituire il punto di riferimento di una umanità a cui la tecnica ha consegnato un futuro imprevedibile? Non ci troviamo nella stessa condizione del viandante sulle cui sole spalle pesa la scelta del sentiero da intraprendere non possedendo più riferimenti esterni certi? L’unica etica possibile non è forse quella che si fa carico della pura processualità che – come il percorso del viandante – non ha in vista una meta per cui l’imperativo etico può esser dedotto solo dagli effetti del fare tecnico? Come il viandante che nello spaesamento della perdita deve decidere sul momento e nella solitudine il sentiero su cui incamminarsi, anche l’uomo nella sua scelta etica si troverà a dover decidere volta per volta fondandosi solo sulla limitatezza dei mezzi a sua disposizione, senza avere alcuna pretesa che quella scelta possa avere una valenza universale.   (camminare - 4  precedente seguente)

 
 
 

le radici della natura

Post n°71 pubblicato il 23 Settembre 2011 da m_de_pasquale
 
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percorso: porticciolo turistico Campomarino (41° 56' 29.09" N, 15° 04' 28.32" E) - foce del Saccione [AR 12 km]

Sentire sul corpo il calore infuocato del sole, la carezza del vento che viene dal mare, confondersi con l’acqua rivivendo la situazione prenatale, affondare i piedi nella sabbia avvertendone allo stesso tempo morbidezza e durezza, sono alcune delle sensazioni che si provano in questa camminata. Una camminata fatta di sensazioni intense capaci della  compenetrazione con gli elementi costitutivi della natura: fuoco, aria, acqua e terra. Empedocle che individuava in essi le quattro radici delle cose, pensava che il sentire fosse possibile per la relazione simpatetica tra uomo e natura: “Con la terra vediamo la terra, l’acqua con l’acqua, con l’aria l’aria divina, e poi col fuoco distruttore il fuoco distruttore”. Credeva che dalle cose e dai pori delle cose si sprigionassero effluvi che colpivano gli organi di senso, i quali, sollecitati nelle parti simili, riconoscevano le parti consimili degli effluvi provenienti dalle cose. Per lui anche il pensiero segue la stessa logica: esso ha sede nel cuore dove il sangue che scorre è costituito dalle quattro radici (aria, acqua, terra e fuoco) del cosmo e pertanto essendo simile alla natura poteva conoscerla compenetrandosi con essa. Una relazione, quindi, simpatetica con la natura favorita dalla intensa stimolazione dei nostri sensi da parte degli elementi primordiali: l’immersione/confusione nel mare, nel senso della progressiva perdita della propria identità nel Tutto dell’acqua; il silenzio assordante del caldo ed il profumo delle cose sprigionato grazie al calore del sole; il piacere sottile di essere investiti dalla brezza marina che rinfranca dalla fatica. Siamo aria, acqua, terra e fuoco, un microcosmo che rispecchia la totalità del cosmo, che anche nell’azione del camminare ritorna ai quattro elementi fondamentali. Se camminiamo la prima azione che compiamo è sollevare il piede sperimentando la leggerezza di esso come il fuoco che rende le cose leggere e diventando leggere si sollevano; dopo averlo sollevato, spostiamo il piede in avanti provocando un movimento da un luogo ad un altro e favorendo così un flusso d’aria; poi appoggiamo il piede sentendone la sua pesantezza che è una delle caratteristiche dell’acqua che a causa della pesantezza tende a gocciolare verso il basso; infine premiamo il piede contro il suolo e prestando attenzione alla pressione del piede contro il terreno, percependone la durezza o la morbidezza, sperimentiamo la natura dell’elemento terra. Le quattro radici sono la vita del mondo, una vita che si alimenta nella misura in cui le radici si riconoscono e si riuniscono: perciò nella relazione simpatetica con la natura l'uomo trova il suo ambiente e rafforza quindi la sua energia vitale, tende a diventare un tutt'uno con la natura; ma ciò accade - sostiene Empedocle - quando la forza prevalente è Amore per cui nessuno degli elementi si distingue dagli altri, ma tutti sono insieme raccolti nell'Uno: "Ma da ogni parte era uguale e per tutto infinito, Sfero rotondo che di sua avvolgente solitudine gode".   (camminare - 3  precedente  seguente)

 
 
 

il bosco e l'essere

Post n°70 pubblicato il 10 Settembre 2011 da m_de_pasquale
 
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percorso: Pila del ladro (41° 32' 20.26" N, 15° 05' 06.91" E) - Casone - 5 confini - Piano del Sorbo [AR 12 km]

Il piacere prodotto da una serie di sensazioni durante una camminata in un bosco è un’esperienza abbastanza comune: l’odore tipico che avvertiamo non appena ci inoltriamo per il sentiero, la vista di alberi alti e robusti, i versi degli uccelli che risuonano nel silenzio assoluto, la volpe intravista nel mezzo del sentiero che stiamo percorrendo … Però un’impressione ci accompagna: un qualcosa di impercettibile che ci avvolge, un tutto avvolgente ma non oggettivabile come può esserlo invece l’albero o l’animale visto. E se non è oggettivabile è indefinibile, è infinito. Sembrano i caratteri che Anassimandro dava all’àpeiron, il principio di tutte le cose: ciò che abbracciando fornisce l’essere alle cose. Jaspers, riprendendo l’intuizione di Anassimandro, ha parlato di Umgreifende, ovvero l’Essere che “fa essere” tutte le cose, ma nel far essere le cose “non è”, nel senso che non è determinabile, circoscrivibile, oggettivabile. Insomma non può essere percepito come le altre cose che costituiscono il nostro mondo, è assente nel rendere presente, si nasconde mentre rivela. Quando ripensiamo alla camminata e alle sensazioni provate, riusciamo a definire i singoli momenti (la volpe avvistata sul sentiero, lo scorcio di paesaggio straordinario, la sensazione di fatica dopo una salita, …), ma se tentiamo di circoscrivere l’idea dell’Essere – il Tutto avvolgente - non riusciamo ad ingabbiarla nelle categorie di spazio e tempo. Se essere nel tempo è la condizione per fare esperienza oggettiva delle cose, ciò che è inoggettivabile è fuori dal tempo. Diciamo che l’Essere “è” perché ci mostra le cose, ma nell’atto di mostrarcele “è assente”: insomma il segno della sua presenza è l’assenza. Potrebbe l’Essere – il Tutto avvolgente – essere la somma di tutte le esperienze? No, perché il Tutto è più della somma delle singole parti. In questo “di più” c’è il suo “non essere” oggetto ma soggetto-oggetto (per l’impossibilità di separare, circoscrivere, definire, …). Ed allora la sua conoscenza non può essere sulla strada della conquista che caratterizza il nostro rapporto con le cose oggettivabili del mondo, ma su quella della rivelazione come sosteneva Heidegger che riprendendo l’antico senso della parola aletheia, parla di svelamento del senso dell’Essere. In un passo del Tao te Ching, Lao Tzu scrive: “Trenta raggi si riuniscono in un centro vuoto ma la ruota non girerebbe senza quel vuoto. Un vaso è fatto di solida argilla, ma è il vuoto che lo rende utile”. Il vuoto è assenza ma fa funzionare la ruota e rende utile il vaso. L’Essere è come il vuoto: ci accorgiamo che “è” quando è riempito, ma se è riempito “non è” più. (camminare - 2  precedente  seguente)

 
 
 

pensare con i piedi

Post n°69 pubblicato il 30 Agosto 2011 da m_de_pasquale
 
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percorso: Piano del Sorbo (41° 32' 25.72" N, 15° 02' 27.04" E) - bosco Puzzano - monte Miano - piano del Sorbo [15 km]

La specie umana ha inizio con i piedi anche se la maggior parte dei nostri contemporanei crede di discendere dall’automobile” afferma ironicamente Le Breton. Pur essendo fatti per camminare ed avere costantemente il contatto con la terra, oggi facciamo scarso uso della mobilità e della resistenza fisica individuale. Non ci rendiamo conto che riducendo l’attività fisica del nostro corpo, intacchiamo la nostra visione del mondo, limitiamo il nostro campo di azione nel reale, diminuiamo il senso di consistenza del nostro io. “I piedi servono più che altro per guidare l’auto, o per sorreggere il pedone al momento di salire sulla scala mobile, e i loro proprietari sono ridotti per lo più al rango di infermi cui il corpo non serve più a niente se non a mortificare l’esistenza. Per il resto, essendo sottoutilizzati, diventano spesso causa di fastidio, e potrebbero tranquillamente essere sistemati in una valigia. Perdere tempo a camminare appare come un atto anacronistico in un mondo dominato dalla fretta.” Ma il camminare ci introduce ad una dimensione dilettevole del tempo come dei luoghi che fa del camminatore un uomo del piacere. Il camminare rappresenta uno sberleffo alla modernità rafforzando il carattere di resistente per chi lo pratica. E’ qualcosa che intralcia il ritmo sfrenato della nostra vita, un momento pacifico del prendere le distanze, produce un uomo della lentezza, del silenzio e della conversazione. Dal camminare prende forma il nostro pensiero. Il complesso d’inferiorità del movimento del corpo rispetto all’attività del pensiero è figlio di quel dualismo che affermatosi con i greci – per Platone il corpo è il carcere dell’anima – si è perfezionato con Cartesio per cui l’essenza dell’uomo coincide con la res cogitans. Ancora oggi quando si vuol stigmatizzare un pensiero non troppo intelligente si dice che quell’individuo ragiona con i piedi. Ma se il pensiero non vuol rischiare di essere un’astrazione incomprensibile deve mantenere il contatto con la terra, quella terra che non viene mai abbandonata dai nostri piedi. E così il camminare diventa esperienza estetica (aisthesis = sensazione), capacità, cioè, di fare contatto sensibile col mondo, possibilità di guadagnare una visione del mondo. Il camminare racchiude una potente metafora della nostra esistenza: l’andare oltre. Infatti il camminare rinvia a quel senso che la stanzialità delle nostre abitudini, l’immobilià a cui destiniamo i nostri corpi, tende a dimenticare. Camminare è simbolo della trascendenza che costituisce la natura più propria del nostro essere: ci ricorda che per quanto il desiderio di stabilità sia forte, sempre avvertiamo la tensione a guardare oltre quasi che il senso del nostro esserci non possa essere rintracciato nella immobilità ma nel movimento che ci predispone ad una apertura continua. (Camminare - 1 seguente)

 
 
 

campo filosofico 2011: l'altra faccia del potere

Post n°68 pubblicato il 21 Giugno 2011 da m_de_pasquale
 
Tag: potere
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Le rivoluzioni sono possibili, non quelle violente che sembrano cambiar tutto e poi non cambiano niente, ma quelle lente, nonviolente, partecipate, quelle da cui nasce un mondo diverso che dura. Un altro mondo è possibile quando si sogna insieme. E' quello che è accaduto con trenta straordinari giovani che hanno condiviso per quattro giorni nel magico scenario delle montagne Daune le loro vite. Questi ragazzi hanno avuto il potere di comunicarmi il loro contagioso entusiasmo, ho ammirato la loro disponibilità, l'attenzione sincera verso tutti, quell'attenzione che non fa differenze per chi è diverso. Sono le forme dell'amore, potente fattore della trasformazione, capace di condurre le nostre vite verso la realizzazione della visione.

"La pace di questo posto, trenta ragazzi, una guida: gli ingredienti fondamentali per capire che il potere più grande è dentro noi stessi, è nel guardare un bellissimo panorama e sentirsi parte dell'immensità del mondo, quel mondo che vive insieme a noi e che ci sta chiedendo aiuto. Abbiamo il potere di aiutarlo, abbiamo le idee e il coraggio di attuarle?"

"Di questa esperienza una frase mi è rimasta impressa nella mente Quando si sogna da soli è un sogno, quando si sogna in due comincia la realtà; sarà davvero possibile cambiare le cose in meglio sognando insieme? Credo che toccherà a noi scoprirlo ... Ed inoltre mi mancherà il muretto vicino al camino dove ogni tanto andavo da solo a pensare"

"Con l'esperienza del campo filosofico ho vissuto la diversità ... Vivere giorni in modo diverso dalla solita quotidianità ed in cui ho condiviso escursioni avventurose e dibattiti interessanti. Credo che la filosofia ancora una volta ha allargato gli orizzonti su un concetto - quello di potere - che ormai è radicato nella nostra società secondo stereotipi ben definiti" [la psicologa Valentina]

                        

"Ero: abituata - demotivata - disinformata - rassegnata; avevo: idee morte. Sono: disabituata - dislocata - informata - confusa; ho: progetti. In questi quattro giorni ho imparato ad ascoltare, a rivalutare, a prendermi in considerazione ... ho quasi trovato il mio potere!" [Sara]

"Quando si sogna da soli è un sogno, quando si sogna in due comincia la realtà. Wooooooow"

                        

"Questo terrazzo è il luogo d'ispirazione preferito da tutti. Salire qui e vedere ciò che ci circonda fa provare dei sentimenti forti, così come il rendersi conto che ci sono tanti ragazzi come me che, facendo questa - purtroppo brevissima - esperienza hanno sentito che qualcosa dentro se stessi cambiava. Il mio grande limite è vergognarmi di ciò che scrivo, perciò sicuramente su questo foglio non riuscirò a farvi capire tutto quello che questo campo ha stimolato in me. Idee nuove, emozioni ... il sentirsi liberi di esprimersi perchè nessuno avrebbe criticato o attaccato un'idea diversa dalla propria. Credo sia questo il grande potere della filosofia ... Grazie a tutti."

"Salve prof volevo ringraziarvi per un mucchio di cose. Mi avete insegnato ad aprirmi alle diversità e alle nuove e sperienze, avete tirato fuori la parte di me che da tanto cercavo. Secondo me, un'esperienza del genere, a contatto con la natura, servirebbe a tutti i giovani con il fine di fargli intendere che certe argomentazioni non sono così lontane dalla nostra vita, anzi, ci toccano direttamente. Ho conosciuto tanta nuova gente e soprattutto tantissime nuove ricette (XD). Spero di approfondire la ricerca del mondo e del sistema durante gli incontri ad Art Village, ma spero soprattutto che un giorno le cose che ora ci sembrano utopie irrealizzabili, potranno dar vita ad una nuova, splendida realtà. Grazie ancora." [Viola]

"L'influenza di una nota. Come un la che ripetutamente influisce in una melodia ... da sola non fa musica, non da vita ad un'ispirazione, non ha potere. Provate ad accompagnarla con un do, con un sol, ancora con un fa ... Voi lo sentite il la? Eppure è lì, che fa compagnia ... E' diversa dal do, dal sol e dal fa ... lei è lì ... E' questo lo spazio riservato ad ogni anima nel sistema Terra ...Il la è l'ascendente; il la è l'idea diversa per ognuno di noi sull'umanità; da sola non ha senso, ma la sua presenza è indispensabile." [Ida e Maria]

         

"Non conta la quantità ma la qualità!! ... e in questi giorni la qualità è stata ottima"

"Prof devo ammetterlo: quest'anno vi siete superato. L'esperienza si è rivelata conforme alle già alte aspettative sin dai primi giorni e quest'ultimo incontro ha dato definitivamente il colpo finale - o sarebbe meglio considerarlo come un inizio - al sistema. Sono stati quattro giorni di scoperta continua senza sentire minimamente la fatica - se non solo quella di pelare i pomodori -  e il mio più grande ringraziamento va alle vostre parole che hanno riacceso in me quella speranza di rinnovamento che col tempo stava morendo. Quattro giorni fa mi sentivo una sconfitta dal sistema, incapace di combatterlo perchè troppo parte di esso, vivevo una contraddizione dentro frustrante ... ora, sia per i lunghi discorsi, sia per la proposta  indecente (XD) mi sento pronta a cercare di cambiare il guasto con la sicurezza della compagnia di altri come me. Che dire ancora, mi dispiace di fare già il quarto anno sapendo che il prossimo non potrò partecipare ad un'esperienza così emozionante, mangiare tanto bene e soprattutto vedervi cantare anima mia e la pupa di jomme. Grazie davvero per la forza e la carica datami magicamente. Ho intenzione di regalarvi un tamburello nel caso vogliate suonarle a M...o. Ci si rivede ad Art Village!!" [Maria]

"Di questi quattro giorni ci sarebbero tante cose da dire, da scrivere. Ma il foglio è quello che è, perciò l'unica cosa che mi viene da dire è questa: il potere di un sorriso è qualcosa di potente! Potente perchè è un qualcosa che riesce a cambiare l'umore di una persona, cosa c'è di più potente della felicità?"

            

"Caro prof all'inizio del campo tutti avevamo un'idea un po' contorta del potere - me compresa-. Riflettendo e filosofando, però, sono arrivata alla conclusione che non sempre il potere è una cosa negativa: c'è il potere del popolo, la democrazia che regna in Italia, ma soprattutto esiste il potere di fare del bene, di fare del proprio meglio per aiutare le persone. Il potere di riunirsi sotto un'unica idea, un unico principio, e lottare finchè si realizzi. Il potere è un aspetto importante della vita di tutti: va usato con cautela, e solo a fini giusti e pacifici. Questo campo è stato fantastico e le lasagne buonissime." [M.S.]

"Quello che ho capito da questo campo filosofico è che io posso, io ho potere, e ho potere in quanto ho raggiunto la consapevolezza che non devo necessariamente considerarmi un essere piccolo e impotente nella società. Smuovendo le mie idee ho capito che anch'io come tutti posso pensare a qualcosa di utile e buono da fare per la vita e il sistema in generale. E trovo che questo, questa consapevolezza sia il potere più grande cui una persona possa aspirare, il più vero ed autentico. Spero di non dimenticare mai questo insegnamento nella mia vita futura. Quello che davvero mi ha colpita in questi giorni è stato vedere come con i giusti mezzi e sistemi ognuno di noi, in un modo o nell'altro, sia stato in grado di tirar fuori progetti e conclusioni interessanti. E soprattutto come idee diverse siano state comunque ascoltate, accettate ed apprezzate. Ringrazio tutti i partecipanti per avermi permesso di conoscere più a fondo la loro interessante personalità attraverso le diverse attività. E soprattutto ringrazio il prof per avermi offerto questa possibilità e per avermi dimostrato - non solo detto - che sebbene si parta da un sogno si può giungere alla realtà, e per avermi trasmesso un po' della sua passione. Spero di continuare a vivere esperienze di questo tipo perchè ho notato che filosofando ci si sente davvero meglio." [Edvige]

         

"Come tutte le esperienze fantastiche anche questa mi ha lasciato un segno, e ora sento dentro di me tristezza e gioia. In questo campo ho iniziato a conoscere il vero vuoto che c'è in ogni persona, cercando piano di riempirlo. Stando a contatto con altri ragazzi e confrontandomi con loro, sono aumentate le mie conoscenze su alcuni argomenti come Dio, amore, felicità e potere. In questo campo sono riuscita a riflettere e meditare maggiormente rispetto a quando resto sola a casa, questo perchè ho aperto la mia mente guardando l'orizzonte che si vede dal terrazzo - spettacolare -. Grazie a questo campo sono riuscita a darmi alcune - ancora poche - risposte alle mie molteplici domande. Per prima cosa sono riuscita a capire meglio cos'è il potere: presunzione dell'uomo a comandare sulla natura e sui suoi simili. Un qualcosa che in un modo o in un altro esercitiamo tutti. Il potere è qualcosa che fa sì che l'uomo agisca delle volte in bene, altre - spesso - in male. Dalla riflessione sul potere è scaturita subito la riflessione sulla libertà che mi ha portato a pensare alla felicità - argomento molto importante per me -. E sono finalmente riuscita a giungere alla conclusione che solo conoscendo la morte conosci la felicità, perchè è solo nel momento in cui stai per morire che ripensi a fondo il senso della tua vita e puoi capire se e quando sei stata felice; perchè alla fine la felicità è qualcosa di personale che non si può generalizzare, è assolutamente personale. Questo però mi fa anche sorridere pensando che noi uomini viviamo una vita correndo dietro la felicità capendola solo nell'ultimo istante della vita, e solo allora, forse, ci rendiamo conto di essere stati felici per tutta la nostra vita perchè, per me, il solo vivere è felicità. Questa esperienza è stata fantastica e sicuramente indimeticabile, mi lascerà un segno che però potrò sempre rivivere chiudendo gli occhi e immaginandomi la veduta della natura dal terrazzo pensando alle risate e al silenzio. Com'è bella la vista da quassù."

             

"Bellissima esperienza ... ho imparato a conoscere un'altra parte di me ... affrontare nuove tematiche e confrontarmi con gli altri ... e soprattutto imparare ancora di più a conoscere la diversità ... Spero di continuare e allargare quest'esperienza ad altre persone ..." [Baby]

"Grazie per avermi fatto scoprire che la realtà ha altre facce, non solo quelle che la società ci impone; di avermi dato l'input, la spinta per riflessioni ed idee che senza questa esperienza non avrei mai pensato. Ma soprattutto grazie per avermi fatto capire che ognuno di noi ha un grande potere che può esercitare per migliorare la società, la realtà, la vita"

"Cosa ti ha colpito? L'affermazione di Hillman: I campi di sterminio continuano a far parte della nostra coscienza perchè la devozione all'efficienza è ancora viva nell'inconscio della psiche occidentale. Premettendo, poi, che l'efficienza oggi è fine a se stessa poichè non si interroga sulle motivazioni per le quali si devono fare determinate cose, viviamo in una realtà mentalmente statica e limitata che protende all'appagatezza delle proprie tasche ma non comprende ancora che non è in ciò che vi troviamo la felicità dell'anima; trionfa l'inettitudine del vivere nel sociale dove ad ogni relazione si è ostili per motivi di fondo come la competizione. Unico obiettivo è l'avvicinarsi il più possibile al Dio Danaro ... vanno così svanendo le voci della buona coscienza umana totalmente messa da parte perchè ritenuta meno soddisfacente del futile motivo economico. Questa logica unidirezionale limita la prospettiva dell'uomo rendendolo facilmente paragonabile ad un animale, quello che noi chiamiamo essere senza ragione; dunque questo modello di comportamento contro natura allontana sempre più l'uomo dalla felicità." [Linda]

         

"In questi quattro giorni bellissimi ho imparato a vedere le cose sotto varie forme e a conoscere il potere nei suoi lati positivi e negativi, a distinguere tra le varie sfaccettature in cui lo possiamo percepire. Abbiamo visto come le nostre vite sono controllate da altri, da potenti che con sotterfugi ed azioni subdole ci assogettano e ci sottomettono; ma la cosa più importante che ho imparato è che non sono solo e che quando due o più persone con uno stesso ideale si muovono per rovesciare un potere, possiamo farcela. Non è necessaria la violenza, basta solo usare l'intelligenza e l'eloquenza che molte volte possono fare la differenza: quando due persone fanno lo stesso sogno, il sogno diventa realtà. Spero di poter approfondire in futuro quanto ho appreso in questi giorni. Mi auguro di rivivere un'altra volta un'esperienza così. Grazie mille di tutto." [Giorgio]

"Caro professore, la ringrazio per questa magnifica esperienza. Spero con tutto il cuore di riuscire a viverla al di fuori del campo di Biccari e di trasmetterla nella nostra realtà di san severo a molti dei nostri coetanei. Sono davvero convinto di ciò che ho imparato; sono arrivato al campo ansioso e incuriosito dal mito del potere, e me ne sono andato in un certo senso cambiato. Sento di poter dare una mano per rendere migliore il mondo! Il progetto da lei proposto mi attira tantissimo e so con certezza che si attuerà perchè credo in ciò che ci avete insegnato, ovvero se un uomo sogna da solo il suo rimane solamente un sogno, ma se più persone sognano insieme ciò diventa realtà!!!" [Giuseppe]

"Caro professore, la ringrazio per questa fantastica esperienza di vita passata insieme a persone altrettanto straordinarie. Sono stati solo quattro giorni ma di una incredibile intensità in cui ho imparato a conoscere il vero significato della parole potere, della brutalità e della paura a cui può portare, ma anche di come può aiutare una persona giusta a trasformare il mondo in modo da renderlo meno corrotto e ingiusto di quanto è. Non scorderò mai la bellissima escursione sul monte Cornacchia tra quella natura verde che creava un paesaggio quasi unico nella sua bellezza. Spero che portiate avanti il magnifico progetto che avete in mente per trasformare la città di San Severo, creare una compagnia filosofica che lotti contro le ingiustizie. Sognando tutti insieme riusciremo a realizzare quello di cui abbiamo tanto parlato in questi giorni."

                    

"La scalata. Le fatiche del corpo, la perseveranza che ci accompagna durante la scalata, quella voglia di arrivare in cima, di non mollare,  perchè lì la vista è fantastica. Dinnanzi a te un panorama che mozza il fiato, l'immensità, è come assaporare l'intero universo; una consapevolezza ti pervade: nonostante l'affievolirsi delle forze del corpo, una forza differente, lieve, interiore si manifesta. E' come scoprire se stessi, l'esterno, l'esteriorità non conta, è sentirsi parte del tutto, una presenza così piccola e insignificante, eppure ... indispensabile, armonica! Potere dell'ascendenza." [I.N.]

        

"Dopo questi quattro giorni sono convinto nella maniera più assoluta che partecipare a questo campo sia stata la scelta migliore che io abbia mai fatto. Sin dal primo momento ho capito che in qualche modo sarei cresciuto un po', e così è stato; nel nostro primo incontro abbiamo toccato il tema della solitudine che, per inciso, era la mia paura più grande: io non sono mai stato bravo a farmi nuovi amici - almeno fino in terza media -; e passando sempre molto tempo da solo - perchè sono anche figlio unico - avevo maturato il grande timore di vivere da solo, la sola idea mi faceva rabbrividire, finchè non ho capito, durante questi giorni, che la solitudine può essere anche un momento di raccoglimento in se stessi e di riflessione. Ho imparato a vedere i lati positivi di tante cose che credevo negative, tipo il potere, che precedentemente associavo sempre a tiranni e dittature. Inoltre, per la prima volta, mi sono sentito utile, come se far parte di questa piccola comunità per soli quattro giorni mi abbia fatto capire l'importanza del convivere e cooperare con qualcuno. Sono stato anche molto felice di aver lavorato e vissuto insieme a tutte queste persone straordinarie, condividendo con loro i miei pensieri e le mie emozioni. Malgrado abbia saltato l'escursione in montagna, sono stato contentissimo di aver passato il mio diciottesimo compleanno in vostra compagnia. Spero vivamente che la nostra esperienza non si fermi qui, ma continui anche in futuro, per dimostrare che possiamo realmente cambiare lo stato attuale delle cose realizzando i nostri sogni comuni. Comunque vadano le cose, porterò sempre nel cuore questi giorni stupendi. Grazie di tutto." [Luca]

                

"Caro prof, cari ragazzi ammetto di esser venuto inizialmente solo come passatempo. In questi giorni invece ho scoperto una nuova forma di divertimento, insegnamento e nuovi argomenti a cui non credevo di potermi interessare. Ho conosciuto nuovi amici e ho rafforzato legami con quelli vecchi. Sto riflettendo su molte cose in questo momento. Quello che mi ha sorpreso è la scoperta di un potere che ci permette di cambiare questa realtà di cui non mi ero mai accorto e su cui non mi sono mai soffermato ad analizzare. Oggi, in questi ultimi momenti, sto pensando a come poter partecipare attivamente al progetto che il visionario ci ha sottoposto. Naturalmente ho bisogno di sapere di più su ciò che mi circonda e come migliorarlo. E' un'esperienza che rifarei volentieri affrontando nuovi argomenti e nuove realtà che finora ho ritenuto lontane da me. Voglio applicare ciò che ho compreso al mondo per vedere i cambiamenti che possono avvenire. Per questi cambiamenti c'è bisogno dell'aiuto di tutti voi. Grazie di tutto per questi giorni stupendi e soprattutto per gli stupendi piatti mangiati XD. Buone vacanze a tutti e spero di rivedervi il giorno in cui daremo inizio ai sogni."

"E' la seconda volta che partecipo al campo filosofico e nonostante questo ho avuto modo di sperimentare emozioni, sensazioni e realtà nuove ... è difficile, forse improbabile per me individuare un momento particolarmente diverso perchè credo di aver colto in ogni momento un qualcosa di diverso che mi ha anche portato a conoscere ognuno degli altri ragazzi. Ho riscoperto in ognuno di loro caratteristiche che non avrei mai immaginato di attribuirgli. Il momento che massimamente mi ha permesso di capire ciò è stato sulla salita più ripida del monte Cornacchia dove ho incontrato una forza davvero potente: la grinta con la quale grazie a due ragazze sono riuscita a trasformare la fatica in un immenso piacere. Tuttavia quello che più mi ha colpito di questa esilarante esperienza è stata la grandissima disponibilità e la straordinaria capacità di un uomo in grado di aver estrapolato da tutti noi ragazzi dei pensieri profondissimi rendendoci in grado di sognare. Grazie prof." [Vale]

                

 

(Potere - 11 precedente)

 
 
 

slow economy

Post n°67 pubblicato il 29 Gennaio 2011 da m_de_pasquale
 
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Dicevamo che l’economico è diventato l’orizzonte di riferimento delle nostre idee e quindi anche di quella di potere. La preoccupazione per la contabilizzazione, il profitto, la crescita, il mercato, caratterizza il nostro sguardo sul mondo. Abbiamo parlato di sistema economico-tecnico come di una gabbia all’interno della quale  ci muoviamo; in questa gabbia, di fatto, siamo determinati nelle nostre azioni anche se apparentemente ci sentiamo liberi. Ci stiamo chiedendo se in questa situazione ci siano spiragli per una effettiva libertà dalla tirannia della “mentalità economica”, se è possibile, cioè, esercitare un potere non determinato dai significati ricorrenti dell’economico (crescita, profitto, interesse, …). Insomma è possibile una “umanizzazione” dell’economia, è possibile sviluppare uno sguardo “economico” che non privilegi la contabilità, l’aumento ecc., ma punti l’attenzione sul benessere delle persone? Maturare questo sguardo diverso ci conviene se consideriamo gli effetti della grave crisi economica che stiamo attraversando. L’attuale crisi è figlia di un sistema che, come abbiamo detto, pone al centro il “dio produzione” , la crescita esponenziale: ma come si concilia una crescita esponenziale della produzione con la natura finita del mondo, con i bisogni finiti dell’uomo? Era prevedibile che l’irrazionalità del sistema, prima o poi, avrebbe inceppato il meccanismo. La crisi economica attuale è una crisi di produzione: la fine della fase espansiva delle economie dei paesi ricchi ha comportato una saturazione della domanda alla quale si cerca di rispondere con un consumo di sostituzione (automobili, nuove tecnologie, …) stimolando la domanda con misure sempre più aggressive (pubblicità). Nell’intento di raschiare il fondo del barile, si attivano pratiche pericolose in un periodo di recessione come la creazione di credito per sostenere i consumi (mutui subprime, credito al consumo, moneta elettronica), la creazione di debito pubblico per stimolare la domanda, la trasformazione progressiva di beni in merci (privatizzazione dell’acqua).  Sono pratiche pericolose perché si collocano in una situazione  che, oltre a non prospettare una ripresa dell’economia (con conseguente impossibilità di ripagare i debiti contratti: povertà irreversibili delle famiglie, aumento del deficit degli stati), è fortemente ingiusta. Il capitalismo contemporaneo non ha avuto la preoccupazione della redistribuzione, non ha perseguito l’ideale di assicurare i livelli minimi a tutti nella generale crescita come auspicava Rawls quando sosteneva che le ineguaglianze possono sussistere a patto che si massimizzino le posizioni dei più svantaggiati. Le nostre società conoscono disparità maggiori che nel passato. Afferma Berselli: “Nella società fordista veniva considerato equo che il presidente o l’amministratore delegato di una grande impresa guadagnasse trenta volte lo stipendio di un usciere. Oggi si considera normale che il reddito del grande manager ammonti da tre  a quattrocento volte la retribuzione di un impiegato di basso livello. In Italia il 10 per cento delle famiglie ricche possiede il 44 per cento dell’intero ammontare di ricchezza netta”. Insomma ci dobbiamo convincere che un sistema a sviluppo lineare in un ambiente limitato non può durare in eterno, né crescere all’infinito; dobbiamo renderci conto che abbiamo problemi economici con importanti risvolti sociali a causa delle diseguaglianze, gravi problemi ambientali (riscaldamento del pianeta, …), problemi finanziari legati agli effetti del consumismo compulsivo; dobbiamo essere consapevoli che stiamo sfruttando le risorse del pianeta oltre la sua capacità di rigenerarle, stiamo mangiando il futuro dei nostri figli che vivranno peggio di come stiamo vivendo noi. La crisi che stiamo vivendo, dolorosa e problematica, potrebbe costituire un’opportunità per il cambiamento? Potrebbe favorire il passaggio da un’economia centrata sulla produzione e sulla crescita con le conseguenze prima descritte, ad un’economia che, consapevole della limitatezza delle risorse a disposizione ed attenta ai bisogni esistenziali delle persone, persegua l’obiettivo del benessere degli individui?  Da un’economia che trasforma i beni in merce (monetizzando tutto) attenta solo ad aumentare la circolazione di queste in modo da incrementare il PIL (= prodotto interno lordo), ad un’economia preoccupata delle relazioni umane dove la produzione di beni e la loro circolazione costituisce lo strumento (non più il fine) del benessere generale (che diventa il vero fine dell’economia)? Da un’economia centrata sullo scambio  mercantile con la conseguente preoccupazione del profitto ad un’economia fondata sullo scambio di reciprocità e dono col conseguente rafforzamento delle relazioni umane? Da un’economia dove è centrale il capitale ad un’economia dove è centrale il lavoro? Da un’economia preoccupata per le quantità ad un’economia attenta alle qualità?  Da un’economia della dismisura (hybris) e dello spreco ad un’economia della misura e della sobrietà? Non stiamo parlando del sogno di un’economia diversa, ma di una realtà che faticosamente e gioiosamente si sta già sperimentando in varie parti del mondo come ad esempio nel movimento delle Transition Towns, intere città che adottano politiche per passare da un vecchio ad un nuovo modello economico. In Italia, ormai da anni, sono operanti organizzazioni civiche – perlopiù gruppi di decine di famiglie – che adottano scelte di consumo a basso impatto sull’ambiente, finalizzate al rafforzamento dei legami sociali, tese a migliorare la qualità della vita: sono i GAS e quelli che aderiscono al movimento Bilanci di giustizia. Ci sono ancora gruppi che per liberarsi dalla tirannia del mercato e quindi dalla circolazione eccessiva delle merci, sviluppano le loro capacità autoproduttive  con i conseguenti benefici di rafforzamento delle relazioni umane  e di scarso impatto ambientale perché i beni sono prodotti a km 0:  uno dei tanti esempi potrebbe essere l’Università del saper fare. Da oltre un decennio è operante in Italia un cartello di organizzazioni civiche animatore della campagna Sbilanciamoci finalizzata ad orientare l’economia verso i principi della solidarietà, dell’eguaglianza, della sostenibilità, della pace. Una loro interessante iniziativa è quella di mostrare l’Italia “come non l’avete mai vista” prendendo in considerazione indicatori spesso trascurati nei vari rapporti ufficiali. Un importante convegno è stato quello che si è svolto a Perugia nell’ottobre 2010 su Progettare il futuro, un tentativo di rilancio dell’economia partendo dallo sviluppo della sostenibilità ambientale. (Potere -10  precedente  successivo)


 
 
 

un potere nonviolento

Post n°66 pubblicato il 18 Gennaio 2011 da m_de_pasquale
 
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Le relazioni umane sono il luogo privilegiato dell’esercizio del potere che è la capacità di un soggetto d’influenzare il corso delle azioni di un altro soggetto posta, appunto, una determinata sfera di relazioni significativa tra i due. Quando dico “soggetto” intendo non solo la singola persona che detiene ed esercita potere, ma anche una collettività, anche un soggetto istituzionale. Generalmente condividiamo l’idea che l’influenza del potere, la capacità di modificare le azioni dell’altro, debba essere necessariamente aggressiva, violenta, per essere efficace. Per eliminare in maniera duratura gli effetti nefasti del potere che ci sta di fronte, dobbiamo abbatterlo, cancellarlo con una azione radicale, una rivoluzione. Riteniamo che solo quando saremo in grado di mettere insieme una forza superiore a quella che contrastiamo, avremo la possibilità di togliere di mezzo il potere che ci angustia perché condividiamo una concezione monolitica del potere (Sharp la definisce Monolith Theory) secondo cui il potere di un soggetto è una forza indipendente, duratura, capace di rafforzarsi e perpetuarsi da sé. Pertanto, si ritiene, che per controllarlo o abbatterlo ci sia bisogno di un’altra forza particolarmente distruttiva e violenta. E se invece la forza del potere di un soggetto non gli venisse da sé, non fosse insita, ma gli provenisse da altre fonti? Se questo potere non fosse autonomo e di conseguenza monolitico, ma dipendente e pertanto fragile (Sharp definisce questa idea Theory of multiple dependence)? Etienne la Boetie vissuto nel XVI secolo aveva teorizzato ciò: “Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte, sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato […] Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? E i piedi coi quali calpesta le vostre città non sono forse i vostri? Come fa ad avere potere su di voi senza che voi stessi vi prestiate al gioco? E come oserebbe balzarvi addosso se non fosse già d’accordo con voi? Che male potrebbe favi se non foste complici del brigante che vi deruba, dell’assassino che vi uccide, se insomma non foste traditori di voi stessi? Costui che spadroneggia su di voi non ha che due occhi, due mani, un corpo e niente di più di quanto possiede l’ultimo abitante di tutte le vostre città. Ciò che ha in più è la libertà di mano che gli lasciate nel fare oppressione su di voi fino ad annientarvi. Siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi. Come il fuoco che da una piccola scintilla si fa sempre più grande e più trova legna e più ne brucia, ma si consuma da solo, anche senza gettarvi dell’acqua, semplicemente non alimentandolo … così basta che non sosteniate più il tiranno e allora lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il basamento”.  Il potere di chi ci sta di fronte – sia esso una persona, una collettività, una istituzione -  si fonda sul consenso che gli accordiamo, siamo noi la fonte del suo potere! Il suo potere sarà tale fintanto che noi lo alimentiamo col nostro consenso; ma appena ritiratolo quel potere si sfalderà come “colosso a cui sia stato tolto il basamento”. A questo punto dobbiamo mettere in discussione la convinzione consolidata che il potere per essere efficace debba essere per forza violento chiedendoci se un esercizio nonviolento del potere (= ritiro del consenso, non alimentare le sue fonti) possa avere altrettanta efficacia o averne di superiore. E’ vero che la storia ci insegna che i rivolgimenti violenti hanno una efficacia immediata, ma sono anche duraturi? Per mantenersi devono tenere in piedi un potere coercitivo di una entità superiore a quello che hanno abbattuto per non soccombere.  Mentre un esercizio nonviolento del potere ha tempi  indubbiamente più lunghi perché bisogna organizzare le fonti del potere, convincerle, coordinarle nelle operazioni di gestione del consenso, però i risultati raggiunti sono certamente più duraturi. Le modalità di ritiro del consenso sono varie e diversificate, nella sua opera Sharp ne elenca duecento. Tra le tecniche elencate ci sono quelle che pratichiamo abitualmente quando, in modo nonviolento, opponiamo il nostro potere ad un altro; però Sharp ne elenca tante altre poco praticate e comunque efficaci. Eccone un veloce elenco: spogliarsi o ricoprire di vernice per protesta, caricature e satira, finte onorificenze, abbigliamenti simbolici, gesti irriverenti, ossessionare o schernire i funzionari, lutto politico, volgere le spalle, boicottaggio sociale, boicottaggio di consumatori, di lavoratori, di produttori, di commercianti, ritiro dei depositi bancari, rifiuto fiscale, varie forme di non collaborazione politica (boicottaggio di elezioni, sottomissione lenta e riluttante, disobbedienza dissimulata, disobbedienza a leggi illegittime, temporeggiamento ed ostruzionismo), sciopero alla rovescia, mercato alternativo.  Negli ultimi anni, in Italia, si vanno sperimentando strategie politiche di lotta nonviolenta da parte di organizzazioni civiche  che spianano la strada ad un esercizio nuovo del potere politico, che supera la schematizzazione ideologica, la vecchia logica partitica, la dipendenza da un leaderismo anacronistico caratterizzante  il deludente scenario italiano. La consapevolezza di avere un grande potere come consumatori spinge molti cittadini a far pesare sul mercato il loro ruolo acquisendo la consapevolezza che se ben organizzati, i consumatori possono influire sul sistema della produzione.  Un esempio è la prassi del consumo critico che consiste nel comprare un prodotto sulla base non solo del prezzo e della “qualità”, ma anche in base all’impatto ambientale e sociale. Il Centro nuovo modello di sviluppo ha addirittura pubblicato una guida al consumo critico che fornisce al consumatore le informazioni necessarie per  acquistare  con consapevolezza senza rendersi complice di ditte coinvolte in guasti ambientali, mancato rispetto dei diritti dei lavoratori, alleate con regimi oppressivi ecc. Il grande potere dei consumatori si manifesta in particolare col boicottaggio, vale a dire la decisione di non acquistare un determinato prodotto come forma di pressione – per il danno economico inflitto - nei confronti della ditta produttrice che si è macchiata di comportamenti censurabili. Tra i boicottaggi più famosi degli ultimi anni: quelli contro la Nestlè, la Nike, la Coca Cola, la McDonald’s. Siamo non solo consumatori ma anche risparmiatori. Di conseguenza un altro versante su cui possiamo giocare con le tecniche nonviolente di ritiro del consenso è quello delle banche presso cui depositiamo i nostri risparmi. Il criterio è sempre lo stesso: scegliere banche “pulite” e punire quelle “sporche” col boicottaggio. Un interessante  esempio  è la Campagna banche armate. (Potere - 9  precedente  successivo)

 
 
 

un potere naturale

Post n°65 pubblicato il 09 Gennaio 2011 da m_de_pasquale
 
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Abbiamo già problematizzato (vedi i post precedenti) l’idea di potere per tentare di recuperare significati nascosti a causa del predominio di altri nel modo comune d’intenderla. In particolare l’obiettivo che ci stiamo proponendo è quello di liberare l’idea di potere dalla tirannia dell’economico che ne esalta sensi aggressivi (dominio, …) funzionali al sistema economico-tecnico, rafforzando la convinzione che per l’uomo c’è poco da decidere in quanto tutto è già deciso. La liberazione di altri significati del potere ritaglia spazi sempre più ampi per la decisione umana mettendo in crisi la tirannia del sistema, la necessità insita in esso. Ora vogliamo tentare delle applicazioni pratiche lavorando su alcuni ambiti caratterizzanti il nostro essere al mondo. Cominciamo dal nostro rapporto con la natura: in alternativa ad un esercizio depredatore del potere sulla natura, è possibile mettere in atto un potere più rispettoso?  La tecnica moderna non rispetta la natura perché la tratta come un “fondo a disposizione”, come materiale da sfruttare. Direbbe Heidegger che se la tecnica antica assecondava il dispiegamento dell’energia della natura, quella moderna intende possedere ed accumulare questa potenza:  “Lo svelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione, la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata. Ma questo non vale anche per l’antico mulino a vento? No. Le sue ali girano sì spinte dal vento, e rimangono dipendenti dal suo soffio. Ma il mulino a vento non ci mette a disposizione le energie delle correnti aeree perché le accumuliamo in un fondo a disposizione”. Quanto pesa questo sfruttamento della natura volto a possedere ed accumulare la sua potenza? E quali conseguenze potrebbe avere per la nostra stessa vita sul pianeta? Dal 1996 due studiosi, Mathis Wackernagel e William Rees, hanno escogitato una formula per misurare con precisione il peso dell’impatto dell’azione umana sulla Terra: il calcolo dell’impronta ecologica. Al di là della complessità della formula matematica (ma esistono modalità di calcolo più accessibili), il concetto di impronta ecologica è semplice. Immaginiamo una città sotto una cupola di vetro emisferica trasparente che faccia passare luce ma non permetta il passaggio di cose materiali; all’interno di questa cupola i cittadini per vivere hanno bisogno di una quantità di terreno (zone agricole, foreste, fiumi ecc.) che dia le risorse necessarie e assorba gli scarti prodotti. Il territorio racchiuso sotto la cupola corrisponde all’ “impronta ecologica” di quei cittadini, mentre la capacità produttiva e quella di sostenere la vita di quel territorio è la “biocapacità”:  in condizioni di equilibrio  la biocapacità (= disponibilità di risorse) deve essere equivalente all’impronta (= domanda di risorse). Pertanto si definisce l’Impronta Ecologica di una data popolazione o economia la superficie di territorio (terra e acqua) - indipendentemente da dove tale territorio sia situato - ecologicamente produttivo (delle diverse categorie quali terreni agricoli, pascoli, foreste,  ecc.) che è necessaria per: a) fornire - a tempo indeterminato - a quella popolazione tutte le risorse di energia e materie prime; b) assorbire - a tempo indeterminato - gli scarti di quella popolazione, considerato il suo attuale livello tecnologico. Gli ultimi dati a nostra disposizione, quelli del 2007, ci dicono che l’impronta ecologica sopravanza la biocapacità della terra della metà come attestato dal Living Planet  Report 2010: “Durante gli anni ’70, l’umanità ha oltrepassato la soglia in cui l’Impronta ecologica annuale era pari alla biocapacità annuale della Terra, ossia, l’umanità ha iniziato a consumare le risorse rinnovabili a una velocità maggiore di quella impiegata dagli ecosistemi per rigenerarle e a rilasciare un quantitativo di biossido di carbonio maggiore di quello che gli ecosistemi riescono ad assorbire. Questa situazione è chiamata “superamento dei limiti ecologici” (overshoot) e, da allora, è progredita ininterrottamente. L’ultimo calcolo dell’Impronta ecologica mostra come questo trend non abbia subito alcuna flessione. Nel 2007, l’Impronta dell’umanità ammontava a 18 miliardi gha [1 gha rappresenta la capacità produttiva di 1 ettaro – ha - di superficie con la produttività media mondiale], o 2,7 gha pro capite. La biocapacità della Terra era pari solo a 11,9 miliardi gha, o 1,8 gha pro capite. Ciò equivale a un superamento dei limiti ecologici del 50%. Ciò significa che la Terra necessiterebbe di 1 anno e mezzo per rigenerare le risorse rinnovabili utilizzate dall’umanità nel 2007 e assorbire tutta la CO2 prodotta. In altre parole, nel 2007 l’umanità ha utilizzato l’equivalente di 1 pianeta e mezzo per sostenere le proprie attività”. Nel 2010 il giorno del superamento dei limiti ecologici (Earth Overshoot Day) è stato il 21 agosto. Come è ovvio l’impronta ecologica non è la stessa per tutte le parti del pianeta, esiste una grande differenza fra la domanda esercitata sugli  ecosistemi da persone che vivono in paesi diversi. Per esempio, se ogni persona nel mondo vivesse come un abitante medio degli Stati Uniti o degli Emirati Arabi Uniti, per fare fronte ai consumi e alle emissioni di CO2 di tutta l’umanità sarebbe necessaria la biocapacità di 4,5 pianeti Terra. Di contro, se ognuno vivesse come un abitante medio dell’India, l’umanità utilizzerebbe meno della metà della biocapacità attuale della Terra.  Ed allora come declinare il nostro potere nei confronti della natura affinchè essa non venga distrutta estinguendo la vita sulla terra? Scoprendo otto significati nascosti dell’idea di potere: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. (Potere - 8  precedente   successivo)

 
 
 

oltre il mito del potere

Post n°64 pubblicato il 31 Dicembre 2010 da m_de_pasquale
 
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L’idea di potere è un’idea dominante tra quelle che orientano la nostra vita ed i significati ricorrenti con cui si manifesta sono guadagno, possesso, profitto, mercato, proprietà, risparmio … le domande usuali che regolano il nostro rapporto col mondo – e quindi l’esercizio del nostro potere – non sono forse: a che serve? che ci guadagno?  L’orizzonte economico è l’humus nel quale si sviluppano le nostre vite e pertanto anche le nostre idee sono determinate da questo orizzonte: la “religione” dell’economia è la vera religione del mondo attuale. Ma se l’economia condiziona/determina le nostre idee che sono quelle che orientano il nostro agire, se vogliamo coltivare una speranza di cambiamento – gli effetti aggressivi della nostra azione sul mondo sono evidenti! – dobbiamo, necessariamente, lavorare sulle nostre idee, studiare la loro dipendenza dall’orizzonte economico, ipotizzare il modo per liberarle da questa dipendenza nella speranza, così, di mettere in campo azioni “rispettose” del mondo. Bene, riflettiamo, allora, sul fatto che l’economia sia diventato l’orizzonte predominante e che tutte le nostre produzioni siano influenzate dall’orizzonte economico. L’idea centrale dell’economia è la produzione;  la produzione si prospetta come il “fine” dell’economia. Nel passato la produzione era un “mezzo”, infatti l’uomo aveva dei bisogni e per soddisfarli doveva produrre dei beni: il “fine” era il consumo di un bene, il “mezzo” era la produzione di un bene. Oggi è ancora così? Non assistiamo ad una inversione di mezzi e fini per cui la produzione diventa il “fine”? Se facciamo attenzione, oggi non si produce per consumare, ma si consuma per produrre. Il consumo diventa il mezzo per perpetuare la produzione: la grande alleata di questo imperativo è la pubblicità, la moda, accomunate nel disegno di distruzione dei beni (l’abito non è più di moda … i prodotti hanno la scadenza e devono essere buttati … il nuovo modello di cellulare che soppianta il precedente anche se ancora funzionante …) per consentire la produzione di altri beni. Questa inversione del rapporto normale tra mezzi e fini acquisisce nella contemporaneità una tale insensatezza che la produzione va allentando sempre più il legame col consumo, e nel suo impazzimento diventa normale produrre e basta, produrre per produrre. Sembra quasi che la frenesia della produzione abbia talmente drogato la stessa produzione che se si dovesse chiedere “ma perché si produce?” l’unica risposta possibile sarebbe “per produrre sempre di più!” . E’ un meccanismo che si autoalimenta. Se proprio volessimo trovare l’ombra di un “fine” nella questione, potrebbe essere quello di produrre in modo sempre più efficiente, con un buon rapporto costi/benefici (risparmio), velocemente, ottenendo un profitto sempre più alto … insomma ritorna la solita litania di idee dominanti che abbiamo già considerato che fanno riferimento ad un’altra parola dominante: tecnica. Una produzione tecnicamente perfetta è appunto quella caratterizzata da un ottimo rapporto tra costi e benefici. L’orizzonte economico-tecnico è diventato il nostro universo di riferimento, un orizzonte che determina le nostre idee e che, di conseguenza, informa il nostro agire. Determina o condiziona? Se diciamo “condiziona” riserviamo ancora un margine di libertà, di soggettività all’uomo che pensa e che agisce, ma se diciamo “determina” l’uomo non è più soggetto, è obbligato in determinati percorsi; si crede, forse, ancora libero, ma di fatto non lo è! Com’è la situazione attuale? Più che la funzione di soggetto libero, l’uomo non svolge il ruolo dell’impiegato, del funzionario di un sistema? Paradossalmente, oggi, l’uomo non si sente libero proprio perché è funzionale, perché è al servizio di un sistema? Il sistema economico-tecnico in cui l’uomo è oggi ingabbiato è avvertito come una costrizione esterna, o piuttosto è stato interiorizzato e ci governa dall’interno così da sembrare quasi una religione, la vera religione del mondo attuale? Ed essendo una “costrizione” interiore non ci sentiamo “in pace” (= liberi) solo quando aderiamo intimamente ad essa? Pertanto non è vero, allora, che solo nella nostra funzionalità, nel fatto che siamo degli “impiegati”, sperimentiamo la nostra libertà? O addirittura, non abbiamo la possibilità di comprendere noi stessi solo all’interno di questa condizione di funzionalità? La messa in crisi della soggettività dell’uomo a causa del predominio dell’orizzonte economico-tecnico, non significa messa in crisi di tutte quelle che erano espressioni dell’umanismo come le ideologie (c’è ancora spazio per l’ideazione umana se la vita dell’uomo è già programmata dall’apparato economico?), la politica (c’è ancora la possibilità di trasformare il mondo a partire dall’impegno degli uomini se il mondo funziona solo obbedendo alle leggi dell’economia?), l’etica (ha senso parlare di responsabilità umana e quindi di una azione che deve tener presente dei fini da raggiungere se la tecnica si è così evoluta che per l’uomo è impossibile percepirne gli sviluppi?)? Insomma, dobbiamo rassegnarci alla sconfitta di ogni protagonismo umano convicendoci di condurre vite come automi determinati dal sistema economico-tecnico? Se, come abbiamo visto, all’origine di tutto ci sono le idee che si traducono nel fare, se le idee dominanti sono quelle funzionali al sistema, se proprio questo tipo di idee funzionali rafforzano in tale modo il sistema da farlo apparire come un organismo autonomo che può addirittura fare a meno dell’uomo (fine del soggettivismo, tramonto dell’umanismo), penso che si possa coltivare una ragionevole speranza per liberarsi dalla morsa dell’apparato economico-tecnico. In che modo? Lavorando sulle idee. Evidenziandone i pregiudizi, esplicitandone i sensi nascosti, liberandole dall’irrigidimento in cui il mito (= il modo omologato d’intenderle) le colloca. Solo problematizzando le idee – che poi è il lavoro della filosofia -  potremo smuoverle dal loro assopimento (= fissazione nei miti del nostro tempo), liberarle dalla tirannia dell’apparato economico-tecnico. Solo così potrà presentarsi un altro mondo all’interno del quale potremo giocare una presenza attiva e partecipe recuperando un ruolo per la nostra soggettività. (Potere - 7  precedente  successivo)

 
 
 

tante facce del potere

Post n°63 pubblicato il 18 Dicembre 2010 da m_de_pasquale
 
Tag: potere
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Usiamo una pluralità di idee diverse per pensare il potere che spesso si combinano tra loro dando origine  alle nostre concrete azioni di potere. Sarebbe interessante riuscire a raggiungere le idee incluse nel linguaggio che riguarda il potere così da avere la possibilità di conoscere ciò di cui si compone il potere. Per cogliere la complessità del potere, si potrebbero analizzare situazioni, stati, emozioni, caratteri che hanno a che fare col potere individuandone i pregiudizi ma anche i valori nascosti. Si potrebbe tentare una fenomenologia del potere. La fenomenologia è un metodo di analisi che come dice la parola (phainomenon) intende cogliere tutto quello che appare ai sensi o alla mente, raccontare come le cose si manifestano. Questo significa – nel nostro caso - andare alla ricerca di quell’insieme di fantasie e di eventi che si muovono per la mente e per il mondo, perlopiù indistinguibili gli uni dagli altri, un insieme che richiede un’enorme quantità di termini per poter arrivare a cogliere quel grappolo di concetti che il nostro linguaggio sottintende quando parla di potere. La mappa di domande che segue vorrebbe imbarcarsi in questo tentativo:

(Potere - 6  precedente   successivo)

 
 
 

il potere del servizio

Post n°62 pubblicato il 07 Dicembre 2010 da m_de_pasquale
 
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C’è un’idea che opportunamente intesa potrebbe contribuire a scardinare il mito della crescita e dell’efficienza come costituenti del potere: l’idea di servizio. E’ un’idea spesso costretta – nell’uso abituale - nel paradigma della produttività: parliamo di un buon “servizio” quando esso è efficiente, rapido, privo di errori; quando sa interpretare (o inventare) i bisogni del consumatore soddisfacendo pienamente il suo desiderio rafforzando così la logica di consumare per produrre (e non viceversa come sarebbe naturale). Sostiene Hillmann: “Per cambiare la nostra idea del servizio dovremmo ripulire il nostro consueto modo di parlare, focalizzato in modo ossessivo sulla distribuzione, l’attuazione, la razionalizzazione e la performance, che trae i suoi modelli dai sistemi di servizio rapido alla McDonald’s…”. In effetti dovremmo spostare la nostra attenzione dagli aspetti quantitativi a quelli qualitativi del servizio, da una amministrazione del reale alla tensione verso l’ideale. Sempre Hillmann: “Il servizio di qualità migliora la vita non perdendo mai di vista l’ideale, aspirando alla purezza della perfezione … l’ideale implica qualità che vanno al di là di qualsiasi descrizione prestabilita. E’ soltanto qualcosa che offre degli indizi su come le cose dovrebbero essere e, forse, su come desiderano essere, quasi che in ogni  momento della vita ci fosse qualcosa che ha bisogno di trascendersi […] il nostro servizio nella vita cerca di restituire tutto ciò che facciamo a una visione utopica […]”. Con l’attenzione alla qualità cambia il nostro sguardo sul mondo. La persona guadagna il primo piano facendo passare sullo sfondo il compito, riusciamo, cioè, a dedicare maggiore attenzione alla relazione tra chi riceve il servizio e chi lo presta, e non all’obiettiva natura del compito. Inoltre, il servizio di qualità tratta le cose come se avessero un’anima, le tratta con cura, le rispetta, non le usa solamente. “Il nostro mondo, questo pianeta, è un organismo unitario che respira. E’ tutto e dovunque vivo, e dispone di gradi di coscienza, dove la coscienza non è più definita come proprietà esclusiva degli esseri umani, […] l’idea è antica come la filosofia presocratica, come la cosmologia degli stoici, come l’anima mundi dei neoplatonici…” continua ancora Hillmann: “Se tratto quel sedile come se fosse animato da un suo proprio spirito, sarà meno probabile che lo maltratti e più probabile che ne abbia cura. Un sedile del quale si ha cura funzionerà meglio e il suo servizio durerà più a lungo”. Insomma ci stiamo muovendo in un contesto molto diverso da quello del produttivismo e dell'efficientismo; ci muoviamo, invece, in un orizzonte dove servizio ha a che fare con l’idea di disponibilità (racchiusa in parole affini come servo, servitore, …) di abbandono, di resa, di attenzione. Potremmo condensare questi significati nella bella espressione che è prendersi cura da cui deriva terapia. Un’idea terapeutica di servizio. La cura, l’attenzione continua si esplica nella manutenzione che ormai non costituisce più una preoccupazione per le nostre società. Come interpretare lo scempio delle nostre belle campagne per la disseminazione di rifiuti e l’uso di veleni nell’agricoltura, l’erosione delle nostre coste per le colate di cemento e l’innalzamento dei mari, l’inquinamento dei mari per lo sversamento dei veleni industriali, se non come disinteresse per la manutenzione, come negligenza nei confronti delle cose perché le si tratte come risorse da sfruttare e non come beni da usare salvaguardandoli per le future generazioni? Se effettivamente i nostri comportamenti sono determinati dalle nostre idee e se le idee si curano solo con altre idee, questa riflessione sulle idee del potere che stiamo facendo non è un puro esercizio intellettuale non avente alcuna incidenza pratica perché come conclude Hillmann: “Non sono il deficit della bilancia commerciale, il prodotto interno lordo, il tasso di disoccupazione, l’indice dei prezzi al consumo e così via, a determinare il comportamento attuale, quanto l’azione delle nostre idee: l’adorazione della crescita, la mania dell’efficienza, l’avversione per il servizio e la denigrazione per la manutenzione”. (Potere - 5  precedente   successivo)

 
 
 

il potere del vuoto

Post n°61 pubblicato il 01 Dicembre 2010 da m_de_pasquale
 
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Se le idee si curano con altre idee, proviamo a curare l’idea unidimensionale di crescita - che associamo a quella del potere - disponendola alla contaminazione di altre idee. Unidimensionale perché sottoposta alla dittatura del quantitativo, del “di più”, dell’aumento. Ma il di più va solo verso l’alto o può dirigersi anche verso il basso? Esiste anche un “di più” orientato sul versante della profondità. Afferma Hillmann: “le cose non possono crescere verso l’alto se contemporaneamente non crescono anche verso il basso, come avviene per la maggior parte delle piante”. Approfondimento è il potere di fermarsi, di concentrarsi per mettere ordine. Normalmente crescita per noi è sinonimo di espansione, ma non è crescita anche la condensazione? Dal simbolo che è forse il massimo della condensazione, della intensificazione, non si sprigionano una pluralità impensabile di sensi! Ed il linguaggio poetico che in una parola riesce ad esprimere un mondo intero? Altre idee potrebbero avere una correlazione con la crescita anche se in apparenza sembrerebbe il contrario. Ad esempio quella di spoliazione, ovvero l’esperienza di crisi radicale che azzera quanto abbiamo faticosamente costruito: quello che proviamo quando le crisi si abbattono all’improvviso sulla nostra anima, forse proprio quando si raggiunge la meta della vita. Sentiamo attaccata ed alluvionata l’essenza stessa della nostra vita, quelle identità alle quali siamo legati in modo acritico e che costituiscono la corazza che ci consente di vivere. E questo ci fa cadere in preda della paura. Anche un’altra idea come quella di ripetizione viene vista come contraria a quella di crescita perché quest’ultima è ritenuta dinamica ed organica a differenza della prima considerata statica ed inanimata. Eppure andrebbe riscoperto il piacere della ripetizione perché ti solleva – essendo un’azione abituale – dall’obbligo del controllo dandoti la possibilità di concentrare le tue energie sulla rifinitura, sulla precisione. E’ quello che succede quando vediamo un artigiano all’opera che proprio perché ha fatto migliaia di volte quella operazione con pochi abili mosse riesce a produrre un bene di cui ammiriamo precisione e rifinitura. Manteniamo un’idea di crescita appiattita sul riempimento continuo (di tempo, di produzione, di divertimento,…) senza soluzione di continuità che l’idea del vuoto ci sconvolge. Anzi la consideriamo come l’opposto della crescita, un processo contrario ad essa. Ma a sentire Lao Tzu dobbiamo ricrederci: “Trenta raggi si riuniscono in un centro vuoto ma la ruota non girerebbe senza quel vuoto. Un vaso è fatto di solida argilla, ma è il vuoto che lo rende utile. Per costruire una stanza, devi aprire porte e finestre; senza quei vuoti, non sarebbe abitabile. Dunque, per utilizzare ciò che è devi utilizzare ciò che non è”. Il vuoto è centrale, sembra che addirittura il potere sia nel vuoto, è il vuoto che consente la crescita: infatti quest’ultima non avrebbe ragione di esplicarsi se non a partire dal mancante, dal non ancora. Se le cose stanno così possiamo far nostre le parole di Hillmann che a proposito dell’invecchiamento delle persone si chiede: “Potremmo considerare il declino e la contrazione che accompagnano l’invecchiamento come un valore aggiunto, e non come una perdita letterale? La smemoratezza e le cadute dell’attenzione, quella vaga goffaggine nei movimenti, quel venir meno delle risposte emotive e quell’impoverirsi del linguaggio, potrebbero non essere soltanto così come appaiono agli occhi di chi è giovane? Forse c’è bisogno di fare spazio; c’è bisogno di una pausa in vista di una musica differente, di uno svuotamento di ciò che è abituale in vista di qualcosa che abituale non è”. (Potere - 4  precedente   successivo)

 
 
 

il potere della crescita

Post n°60 pubblicato il 21 Novembre 2010 da m_de_pasquale
 
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Se l’efficienza è il metodo con cui il potere si conserva, la crescita è la prova del raggiungimento del potere. La crescita è una potente idea che si è affermata a partire dalla rivoluzione industriale, da quando, cioè, l’economia fa il salto da una logica di sussistenza ad una di surplus produttivo, di accumulazione, di profitto inaugurando l’ideologia capitalista. Il mito della crescita – economica – è figlio dell’aberrazione di questa ideologia che sgancia da ogni finalità il senso della produzione o meglio produce per accumulare (ma accumulare perché?). Ho definito la crescita un mito delle nostre società. A differenza delle idee che pensiamo, i miti sono idee che ci possiedono e ci governano con mezzi che non sono logici, ma psicologici, e quindi radicati nel fondo della nostra anima, dove anche la luce della ragione fatica a far giungere il suo raggio; sono idee semplici, comode, che non danno problemi, facilitano il giudizio, ci rassicurano togliendo ogni dubbio alla nostra visione del mondo. Assomigliano molto ad una fede. L’idea di crescita, nelle varie accezioni con cui la utilizziamo, alimenta l’idea del potere. Associamo abitualmente all’idea di potere quella dell’espansione (diventare più grande, aumento delle dimensioni), dell’evoluzione (progredire nella forma, nella funzione), del progresso (migliorare), dell’integrazione (parti che si collegano in sistemi più estesi). Sono tutti significati inerenti all’idea di crescita che è diventata così pervasiva da non riguardare più solamente la dimensione economica (vedi l’idolo venerato dalla religione dell’economia, ovvero la crescita del PIL), ma tutta la nostra vita, è diventata la nostra forma mentis: sentiamo, pensiamo, vediamo il mondo con la lente della crescita. Se un processo si arresta, se le quantità diminuiscono, se prevale il segno meno, se la povertà incombe, l’angoscia ci pervade dato che la nostra valutazione del mondo è condizionata dal mito della crescita. Eppure basterebbero alcune banali considerazioni per renderci consapevoli di essere prigionieri di un mito: le vite che osserviamo (le nostre, degli animali, delle piante) sono caratterizzate dalla crescita infinita o il loro futuro naturale è la decadenza e la morte? le “crescite” che osserviamo sono caratterizzate dal succedersi di progressivi segni più o sono piuttosto un alternarsi di segni più e meno (un traguardo, in genere, è raggiunto attraverso una esperienza di sconfitta, di dolore …)? il “di più” coincide sempre col “meglio”? viviamo in società con tante industrie che producono i tanti beni che noi consumiamo, con tanti mezzi di comunicazione che hanno fatto diventare il mondo poco più di un villaggio, con tante opportunità in più rispetto al passato …: ma tutte queste “quantità” non hanno forse segnato negativamente la “qualità” della nostra vita che deve difendersi da un ambiente sempre più inquinato, sommerso dai rifiuti, più insicuro, povero di relazioni umane e di tempo libero? ed allora la quantità è sempre meglio della qualità? Il mondo organizzato sul modello della crescita, dell’accumulo, dell’espansione deve indurci a porre alcuni interrogativi fondamentali: perché l’attivismo dovrebbe essere meglio dell’ozio? la velocità della lentezza? l’effimero della durata? il futuro del passato? il rinnovamento della conservazione? il nuovo del vecchio? il consumatore del fruitore? il divertimento della gioia? la competizione della collaborazione? il fare della contemplazione? il tempo della produzione del tempo della relazione? il tempo di lavoro del tempo libero? l’aumento della diminuzione? la forza della debolezza? (potere - 3  precedente  successivo)

 
 
 

l'efficienza del potere

Post n°59 pubblicato il 13 Novembre 2010 da m_de_pasquale
 
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Una caratteristica essenziale del potere è l’efficienza, la capacità di ridurre al massimo sprechi e costi e di conseguire il maggiore beneficio possibile. Per far ciò le “cose” devono essere organizzate in un perfetto meccanismo dove tutto è funzionale in vista del risultato. E’ quanto si può ricavare dalla parole di Stangl, direttore generale del campo di sterminio di Treblinka nel seguente dialogo con l’intervistatore: “Quanta gente arrivava con un convoglio?” “Di solito circa cinquemila. Qualche volta di più.” “Ha mai parlato con qualcuna delle persone che arrivavano?” “Parlato? No ... generalmente lavoravo nel mio ufficio fino alle undici — c’era molto lavoro d’ufficio. Poi facevo un altro giro partendo dal Totenlager. A quell’ora, li erano già un bel pezzo avanti con il lavoro.” Voleva dire che a quell’ora le cinque o seimila persone arrivate quella mattina erano già morte. Il “lavoro” era la sistemazione dei corpi, che richiedeva quasi tutto il giorno e che spesso proseguiva anche durante la notte.[...] “Oh, la mattina a quell’ora tutto era per lo più finito, nel campo inferiore. Normalmente un convoglio teneva impegnati per due o tre ore. A mezzogiorno pranzavo... Poi un altro giro e altro lavoro in ufficio”[…] “Ma lei non poteva cambiare tutto questo? Nella sua posizione, non poteva far cessare quelle nudità, quelle frustate, quegli orrori dei recinti da bestiame?” “No, no, no.. - Il lavoro di uccidere con il gas e bruciare cinque e alcuni campi fino a ventimila persone in ventiquattro ore esige il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. Arrivano e, tempo due ore, erano già morti. Questo era il sistema. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile”. Astraendo dai tragici contenuti, che differenza c’è tra un campo di sterminio ed un complesso industriale, tra Stangl e il direttore generale di un’industria? Non operano ambedue in base al solo criterio dell’efficienza? Di efficienza ne parlò per prima Aristotele che nella dottrina delle cause distingueva tra causa materiale, formale, finale ed efficiente. Ma è accaduto che con il passare dei secoli la causa efficiente abbia assunto un ruolo sempre maggiore. Anzi addirittura è diventata – a differenza che per Aristotele che contemplava almeno quattro risposte – l’unica risposta alla domanda “perché?”. Quando la causa efficiente viene spogliata dei suoi tre partner, può perdere ogni contatto con la realtà della vita: l’efficienza diviene un valore assoluto che mette in ombra lo scopo delle azioni, la loro direzione, il loro senso (causa finale), per attestarsi sul principio della pura funzionalità priva di ogni riferimento. Afferma Hillman: “Il fatto che il materiale su cui si opera siano esseri umani, il fatto che la natura essenziale dell’azione sia l’assassinio e la meta finale la morte, sono tutti subordinati in valore o perduti alla consapevolezza, proprio a causa dell’intensa focalizzazione sui processi dell’efficienza. […] Elevare l’efficienza a principio indipendente porta a due conseguenze terribilmente pericolose. In primo luogo, favorisce il pensare a breve scadenza – non si guarda in avanti, fino in fondo – e questo produce un’insensibilità del sentire – non si guarda intorno, ai valori della vita, che così sono vissuti in modo efficiente. In secondo luogo, i mezzi diventano dei fini: il fare qualcosa diventa, cioè, la piena giustificazione del fare, indipendentemente da ciò che si fa”. L’efficienza, quindi, se non vuole risolversi in un pericoloso fare senza senso, deve accompagnarsi sempre con le altre tre cause e chiedersi: Quali sono gli effetti materiali della nostra efficienza, cosa stiamo facendo alla natura materiale del mondo? Qual è l’essenza di ciò che stiamo facendo, qual è il principio formale che lo governa? Ma soprattutto, qual è il suo scopo, ciò in ragione di cui vengono eseguite le nostre azioni efficienti? La domanda sul fine (causa finale) di ciò che facciamo fa sì che l’attenzione non sia rivolta solo alla modalità (causa efficiente) di ciò che facciamo. Ma la nostra società dominata dall’idea del profitto non riesce anche ad imbastardire la domanda sul fine, sullo scopo di quello che facciamo? L’aveva intuito Nietzsche. “Da dove proviene questa smisurata impazienza che fa oggi dell’uomo un delinquente [.. .] i tre quarti della più elevata società si danno alla frode autorizzata e hanno da sopportare la malcoscienza della borsa e della speculazione: Che cos’è che li spinge? A perseguitarli, giorno e notte, non è la necessità vera e propria [...] ma una terribile impazienza [...] nonché un piacere e un amore altrettanto terribili per il denaro accumulato. In questa impazienza e in questo amore viene però nuovamente in luce quel fanatismo della libidine di potenza che un tempo era stato acceso dalla fede di essere in possesso della verità, e che aveva nomi così belli da far sì che si potesse osare di essere con buona coscienza inumani (bruciare ebrei, eretici e buoni libri, e devastare intere culture superiori come quelle del Perù e del Messico). Gli strumenti della libidine di potenza si sono trasformati, ma è ancor sempre in fiamme lo stesso vulcano, l’impazienza e lo smisurato amore vogliono le loro vittime: e quel che si faceva un tempo ‘per amor d’Iddio’, lo si fa oggi per amor del denaro, cioè per amore di ciò che oggi dà sentimento di potenza e buona coscienza al massimo grado”. Il predominio del profitto, facendoci pensare in termini costi-benefici, risolve il fine delle nostre azioni nell’obbedienza al Dio Economia. Ed allora la considerazione che la domanda sul fine che avrebbe potuto arginare la deriva funzionalistica caratterizzante  l’efficienza fa dire ad Hillman che i campi di sterminio continuano a far parte della nostra coscienza perché la devozione all’efficienza è ancora viva nell’inconscio della psiche occidentale, testimoniando il lato oscuro del Dio oggi vivente, l’Economia: un Dio che continua a spingere in avanti la civiltà occidentale attraverso una sempre maggiore efficienza”. (potere - 2  precedente  successivo)

 
 
 

il potere è solo dominio?

Post n°58 pubblicato il 07 Novembre 2010 da m_de_pasquale
 
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L'esercizio del potere deve essere necessariamente coniugato all'azione del dominare? Osserva Hillman: "Nella tradizione occidentale crediamo che la capacità di fare, di agire comporti l'autoritarismo, il dominio, lo spadroneggiamento, il far sentire il proprio peso sulle cose, sulle persone, sull'ambiente: Dio stesso nel latino della Chiesa viene chiamato Dominus. E noi, umili uomini, fatti a sua immagine, diventiamo dei dominatori semplicemente facendo una qualsiasi cosa". E' coerente l'associazione dell'idea di potere a gerarchia, subordinazione, dispotismo, se si analizza l'etimologia della parola potere. La radice della parola è poti, che significa marito, signore, padrone; il greco posis, "marito", da cui deriva des-potes, "signore della casa", da domos e posis, "padrone". Dominus in latino significa "signore", "padrone", "colui che possiede", egli schiavi romani chiamavano il loro padrone dominus, mentre quelli greci lo chiamavano despotes. Perciò ci chiediamo se è possibile esercitare potere senza per questo dominare. Dall'affermazione della società industriale si sono andate radicando, nel nostro immaginario, alcune idee che hanno ulteriormente definito quella di potere: "progresso", "miglioramento", "sviluppo". Idee certamente retaggio di quel darwinismo sociale impostosi nell'800 secondo cui: "il progresso è naturale"; "ciò che è naturale è dato da Dio"; "quindi il progresso è buono"; "il progresso avanza mediante la selezione naturale: ciò che è superiore cresce, e ciò che è inferiore è destinato a finire"; "ci sono più individui in fondo che in cima, sono più le erbacce che le rose, quindi la gerarchia è naturale"; "dato che via via che si sale, la piramide va numericamente a restringersi, la selezione naturale impone la competizione, che permette agli elementi più adatti di sopravvivere"; "solo i più adatti sopravvivono alla competizione"; "la sopravvivenza è assicurata se si raggiunge la cima e vi si rimane". Potremmo condensare tutto in un'unica idea che rappresenta uno dei miti più forti della nostra società contemporanea: la crescita. Un'idea che evoca il diventare grandi, più forti, competitivi, comandanti, insomma un sinonimo di potere perchè la capacità di crescere presuppone un'innata potenzialità di sopravvivenza e di vittoria. Ma l'idea di crescita si accompagna ad un'altra idea altrettanto importante, quella di efficienza: affinchè la crescita sia funzionale alla sopravvivenza è indispensabile che essa sia organizzata. Il "più adatto" che sopravvive deve essere quello più efficiente. (potere - 1  successivo)

 
 
 

l'ambivalenza dell'anima

Post n°57 pubblicato il 20 Ottobre 2010 da m_de_pasquale
 
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Da alcune settimane l’attenzione di giornali e televisioni è concentrata sul delitto di Avetrana dove una ragazzina quindicenne è stata uccisa. Gli investigatori non sanno ancora con certezza se sia stato lo zio o la cugina, e pertanto si susseguono le ipotesi, gli interrogatori dei membri della famiglia perché la giustizia deve stabilire la verità che, sola, tranquillizzerà i nostri animi. Per quanto ogni delitto sia un evento sconvolgente, è incomprensibile che milioni di italiani siano così presi da questa singola morte “familiare” ed ignorino, quasi, le tante morti “sociali” che ogni giorno funestano il nostro Paese: dai suicidi silenziosi frutto della depressione ai morti sul lavoro, dai morti sulla strada a quelli per droga, da quelli per malasanità agli immigrati che affogano in mare. Perché l’attenzione ad una vicenda familiare fa dimenticare un intero Paese che va a rotoli per il sistema di ingiustizie e privilegi sempre più diffuso, per l’illegalità sempre più estesa che mette in pericolo la nostra sicurezza, per la mancanza di lavoro che toglie la dignità a sempre più persone, per la povertà crescente che appare in tutte le forme attorno a noi dall’immigrato che chiede l’elemosina a quelli che rovistano nei cassonetti della spazzatura? Probabilmente le dinamiche di un delitto familiare riescono a rappresentare meglio le nostre dinamiche interiori, troviamo delle corrispondenze tra quello che prova la nostra anima e gli sviluppi della vicenda di cui seguiamo la rappresentazione: le passioni profonde ed inconfessabili che avvertiamo nella nostra interiorità trovano un aggancio in quelle che hanno mosso i protagonisti della triste storia. E’ come se assistessimo ad uno spettacolo dove vediamo rappresentati sentimenti, emozioni che avvertiamo in noi stessi ma che abbiamo paura di confessare. Questa paura la esorcizziamo andando alla ricerca del movente (la causa) che quando difetta di connessioni logiche denominiamo raptus. “Ma il raptus – dice Galimberti non esiste. E’ fanta-psicologia ipotizzare una vita che scorre normalmente e normalmente continua a trascorrere dopo l’eccesso. I raptus sono comode invenzioni per tranquillizzare ciascuno di noi e tacitare il timore di essere anche noi dei potenziali omicidi”. Questo significa che la nostra anima è ambivalente perché l’amore si incatena con l’odio, il piacere con il dolore; e nel profondo, tutte le cose sono intrecciate in un’invisibile disarmonia. Afferma ancora Galimberti: “Le nostre passioni più truci che sonnecchiano nel nostro inconscio trovano negli attori dei crimini di famiglia la loro espressione. La televisione, mettendole in mostra e raccontandocele a più riprese e da più punti di vista ce le fa conoscere, ma come passioni di altri e non come nostre passioni. Così facendo ci fa dono di una troppo facile innocenza che ci gratifica e non ci fa fare un passo verso la ricognizione di noi, perché la riflessione non è proprio una caratteristica della televisione. Anzi. E così, abbarbicati a una storia che ci appassiona perché è nostra, ma che ci viene illustrata come una storia d'altri, finiamo col non riconoscere che anche il nostro amore è orlato di odio, persino l'amore materno, persino quello per i nostri genitori, per i nostri vicini di casa, per i nostri amici, per cui basta una leggera alterazione per trovarci al di là dello schermo, questa volta guardati, dopo aver a lungo seguito con interesse storie di altri che in realtà descrivevano quanto di torbido si agita in noi”. I delitti più sconvolgenti sono quelli delle madri che uccidono i figli. Anche in questo caso è facile rassicurarci parlando di un gesto di follia, ma se si riflette sulle due soggettività che si dibattono nella donna cominciamo a capire quanto sia minima la distanza tra noi “buoni” e loro “cattive”. Nella donna – molto più marcatamente che nel maschio – la soggettività individuale confligge con quella che fa sentire la donna depositaria della specie: ogni figlio vive e si nutre del sacrificio della madre, sacrificio del suo tempo, del suo corpo, del suo sonno, delle sue relazioni, dei suoi affetti. Quando il peso di questo sacrificio diventa così alto da allontanarla dal sogno che ha coltivato per la sua vita, l’ambivalenza amore-odio, comune a tutte le madri, si potenzia e chiede una soluzione. E quando il sacrificio oltrepassa i limiti di sopportazione si affaccia come via d’uscita il più terribile degli eventi: l’evento della morte. Possiamo liberarci dalla potenzialità omicida mossa dall’ambivalenza della nostra anima? Liberarci no, ma governarla sì. Dobbiamo conoscerci meglio nel senso che la ragione deve dialogare con le nostre emozioni. Deve prendere atto che nella nostra anima si muovono sentimenti che sono potenzialmente distruttivi e quindi deve imparare a governarli. Non a reprimerli perché poi potrebbero esplodere in eventi delittuosi, ma a convivere con essi avendone intelligenza: intelligenza delle emozioni che significa capacità di riflessione, di mediazione, di proporzione. I greci parlavano di “giusta misura”. Il contenimento razionale dei sentimenti si esprime politicamente nella cultura, nella civiltà. La cultura, quindi, diventa il grande antidoto dell’istinto di morte. Si uccide e ci si uccide perché si è soli, per uscire dall'anonimato, per rivendicare la propria esistenza, oltre quella soglia dell'insignificanza in cui molti si sentono affogare. Quando si provano sentimenti ignoti a se stessi e non si ha modo di comunicarli e, nella comunicazione, portarli alla coscienza e così diluirli, è facile che si possa compiere il gesto irreparabile. Quando perdono d’importanza valori quali la comunicazione, la relazione, l’aiuto reciproco, quando si scompagina quella trama sociale che tiene legati i cittadini (che la Costituzione chiama solidarietà sociale, politica, economica), il clima che si vive è quello dell’isolamento all’interno del quale l’individuo non può che affidarsi ai suoi sentimenti e sappiamo quanto siano pericolosi se non sono governati dalla ragione.

 
 
 

la guerra santa

Post n°56 pubblicato il 05 Ottobre 2010 da m_de_pasquale
 
Foto di m_de_pasquale

Secondo il sito www.guerrenelmondo.it  ben 46 Paesi sono interessati da guerre. La guerra è più diffusa di quanto si pensi. Anche l’Italia è coinvolta in una guerra; attualmente ci sono truppe italiane in Afghanistan: secondo la versione ufficiale i militari italiani fanno parte del contingente ONU che si trova lì per aiutare l’esercito regolare afghano nella guerra contro i talebani. Sembra che le due guerre mondiali del “secolo barbaro” col loro strascico di violenze e distruzioni, non ci abbiano insegnato niente se continuiamo, ancora oggi, a praticare questa azione primitiva! Facciamo questo perché, nonostante tutto, l’uomo non è cambiato e continua ad essere – come dice Quasimodo - ”ancora quello della pietra e della fionda”, o perché la guerra esercita sull’uomo un suo fascino? Ma non è più esatto dire che, più che la guerra, è il mito della guerra ad affascinare? Il mito della guerra con il richiamo al coraggio, all’eroismo può affascinare a patto che siano cancellati gli elementi essenziali di una guerra. Scrive infatti Hedges: “Non sentiamo odore di carne putrefatta, non ascoltiamo i lamenti dell’agonia e non vediamo davanti a noi il sangue e le viscere che erompono dai corpi. Osserviamo - a distanza – l’ardore e l’eccitazione, ma non viviamo l’ansia che torce le budella e l’umiliazione che accompagna un pericolo mortale”. Il mito si alimenta col patriottismo, con la retorica dell’orgoglio nazionale (“Adesso vi faccio vedere come muore un italiano” esclama Fabrizio Quattrocchi prima di essere sparato dai rapitori iracheni), con le celebrazioni pubbliche (si pensi ai tanti monumenti sorti in Italia dedicati ai “martiri” di Nassiriya), a cui corrisponde lo svilimento del nemico: “se da una parte veneriamo e piangiamo i nostri morti, dall’altra siamo stranamente indifferenti a quelli che ammazziamo noi. I nostri morti e i loro morti non sono uguali. I nostri morti contano, i loro no” (Hedges). Il patriottismo agisce come una religione, un pensiero sacro che non ammette critiche e pertanto chi dissente, chi denuncia le stragi compiute dalla propria parte, viene tacitato e disprezzato. Quando la guerra per apparire giusta viene caricata di sacralità, si abbandona la ragione e viene in primo piano la dimensione propria del sacro che è la pre-razionalità la quale neutralizza la funzione critica e negoziatrice della ragione; quando la guerra si muove in questa dimensione condivide il tratto tipico di ogni religione monoteista che è il principio d’intolleranza: se la verità è unica ed io la possiedo, l’altro è nell’errore e perciò Dio mi assiste nell’annientamento del nemico. Non è forse questo il principio della guerra santa che come si vede non è affatto una prerogativa degli islamici? Secondo Hedges la guerra scatena la necrofilia e la lussuria: “Gli esseri umani diventano oggetti, oggetti da distruggere o da usare per gratificazioni carnali. Il sesso casuale e frenetico, assai frequente in tempo di guerra, spesso passa il segno e si trasforma in perversione e violenza, rivelando un grande vuoto morale. Quando la vita non vale niente, quando non si è sicuri di sopravvivere, quando a governare gli uomini è la paura, spesso si ha la sensazione che rimangano solo la morte o un fugace piacere carnale”. Sono le pulsioni primarie che Freud chiamava Eros e Thanatos. Della guerra non ci si libera facilmente perché essa – a detta di Hedges - genera una specie di tossicodipendenza, e pertanto,  anche quando è finita, i suoi effetti continuano nella vita dei reduci: “La furia della battaglia provoca una dipendenza fortissima e spesso letale, perché anche la guerra è una droga, un tipo di droga che ho mandato giù per molti anni. A spacciarla sono coloro che ne creano il mito. [...] Quando assumiamo la droga della guerra proviamo esattamente quel che provano i nostri nemici, quei fondamentalisti   islamici che definiamo alieni, barbari, incivili. È lo stesso narcotico che anch’io ho consumato per anni. E come per ogni tossicodipendente in fase di recupero, una parte di me continua ad avere nostalgia della semplicità e dell’euforia della guerra, anche se mi tormento per la ferocia che avrei fatto meglio a non vedere di persona. In certi momenti avrei preferito morire così, che tornare al tran tran della vita quotidiana. [...] La pace aveva fatto riemergere in me e in tanti di quelli che ho visto combattere quel vuoto che era stato riempito dalla furia della guerra. Ancora una volta eravamo soli, come forse lo siamo tutti, senza più il legame di un comune senso di lotta, senza essere più sicuri di che cosa sia la vita e di quale senso abbia. [...] Come la droga, infatti, anche la guerra dà l’illusione di eliminare i problemi più spinosi della vita”. Ci si può disintossicare da questa droga? Probabilmente rimane valida l’esortazione di Kant - l’autore di Per la pace perpetua - “Sapere aude”: abbi il coraggio di servirti della tua ragione, l’unica in grado di far tacere il fondo pre-razionale che ha sempre alimentato la guerra e di far riconoscere la dignità e il valore di ogni essere umano al di là di ogni appartenenza.

 
 
 

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