JOHNNY CASH – Dalla prigione di Folsom in California non si vede la luce del sole…… by Jankadjstrummer

 

JOHNNY CASH – Alla Prigione di Folsom non si vede la luce del sole…..

cash

Qualche giorno fa mi è capitato di trovare, nelle scorribande sonore su internet, uno spezzone di documentario che raccontava un evento memorabile nella storia della musica: il concerto che ha tenuto Johnny Cash dentro la prigione di Folsom in California nel 1968 ed immortalato nell’omonimo LP.

 “All you have with you in the cell is your bare animal istinct. I speak partly for experience, I’ve been behind bars a few times”.                                                            Tutto quello che avete con voi nella cella è il nudo istinto animale. Parlo un po’ per esperienza, sono stato dietro le sbarre un paio di volte ”
Johnny Cash non è un personaggio bizzarro che si è messo in testa di varcare i cancelli di un carcere di massima sicurezza per proporre le sue canzoni, per cercare vana gloria ma un uomo provato dalla vita, un uomo che ha conosciuto gli abissi della dipendenza da anfetamine, la crisi esistenziale e qualche volta una  fredda cella del carcere e che cerca di uscirne fuori con la musica e con i suoi compagni d’avventura della band, compresa la dolce June Carter che è in procinto di sposare. Johnny vuole poter parlare ai detenuti alla pari come con dei veri amici, proporre canzoni, esternare sentimenti con l’atteggiamento di chi vuole un dialogo con personaggi sfortunati come spesso si sentiva lui.
Nel concerto in scaletta non inserisce i suoi pezzi classici, quelli che lo hanno immortalato come il “ man in black” ma brani che raccontano storie, che parlano di persone comuni sopraffatte dalla solitudine e dalla morte come in “I Still Miss Someone” e in “The Long Black Veil” due ballate che diventeranno memorabili  oppure storie di detenuti  che  cercano di evadere come in “The Wall” o che si lasciano andare a sentimenti dolorosi ma capaci di scrivere lettere struggenti ai propri familiari come in “Send a Picture Of Mother”. Ma torniamo al concerto, che credo fosse organizzato nella sala mensa, Johnny si presenta al suo pubblico con uno sbrigativo “Hello, I’m Johnny Cash” come a dire sono venuto per condividere con voi qualche ora perché ero anch’io un detenuto, anch’io ho varcato la soglia del carcere per qualche tragica combinazione e sono felice di potervi dare sentimenti e passione con le mie canzoni. Parte, quindi, con Folsom Prison Blues”, caratterizzato da un bel suono galoppante di chitarra, per raccontare il dolore e la sofferenza di chi non ricorda più come sia fatta l’alba di chi non può assaporare il dolce gusto della libertà. Oltre tremila detenuti sono in delirio, applausi, grida di approvazione rimbombano nella sala spoglia, il palco improvvisato quasi non contiene la band dei Family Carter i due chitarristi Perkins e Luther accompagnano il suono potente di Johnny che dimostra di essere un vero e proprio trascinatore rivolgendosi con le liriche al suo particolare pubblico e rapendoli con la sua amichevole umanità, sentimenti  di cui forse hanno più bisogno. Cash tocca nervi scoperti, ferite non rimarginate né per sé  e nè per i suoi amici prigionieri, cosi si lascia andare  e parla di droga come strumento che aiuta l’uomo a sopportare  le crisi e  il malessere esistenziale nell’inno “Cocaine Blues”, parla di amore negato ai detenuti in “Give My Love To Rose”, romanticismo, è vero, ma privo  di sdolcinatezze a  dimostrazione che i suoi brani provengono da un uomo sensibile pronto concedersi senza riserve spogliandosi dei panni della star ma cantando a squarciagola il desiderio di libertà. Ma Cash non vuole portare nella prigione di Folsom solo malinconia o l’inquietudine dei sentimenti umani vuole anche divertire,smorzare i toni tristi di chi è costretto a pagare gli errori, di chi è costretto a privarsi delle passioni ,con ironia, quindi, si prende gioco delle miserie  in una sorta di valzer che è “Busted”,  e scherza anche sugli ultimi minuti prima di salire sul patibolo in “25 Minutes To Go”,  oppure  inventa una storia  molto comica, apprezzata dai reclusi,  in  “Dirty Old Egg-Sucking Dog”, che narra le vicende di un cagnolino senza padrone che mangia le galline. Il country blues di Cash impersonifica  il vagabondo senza legge che armato di sola voce roca e chitarra  racconta le sue storie in uno show  che è un concentrato di  tensione e di tanta emozione controllato dai secondini che placano le esuberanze di ladri ed assassini che, senza falsi moralismi, vengono trattati come  fratelli.

 

Questa storia riversata su un disco è quanto di meglio si possa ottenere da un artista e mette in evidenza le tante sfaccettature della personalità di Cash, considerato nell’arco della sua 50ennale carriera come  drogato,religioso, romantico, galeotto ecc ecc, nella prigione di Folsom  si concentrano le varie anime a dimostrazione che Cash è stato un personaggio che è caduto ma è riuscito a rialzarsi, ha convissuto con le sue fobie con  il suo malessere interiore ma ha combattuto senza tregua fino all’ultimo.

 

  1. 1. Folsom Prison Blues
    Busted *
    3. Dark as the Dungeon
    4. I Still Miss Someone
    5. Cocaine Blues
    6. 25 Minutes to Go
    7. Orange Blossom Special
    8. Long Black Veil
    9. Send a Picture of Mother
    10. The Wall
    11. Dirty Old Egg Sucking Dog
    12. Flushed From the Bathroom of Your Heart
    13. Joe Bean *
    14. Jackson (con June Carter)
    15. Give My Love to Rose (con June Carter)
    16. I Got Stripes
    17. The Legend of John Henry’s Hammer *
    18. Green, Green Grass of Home
    19. Greystone Chapel

 

JANKADJSTRUMMER

 

IL DECOLLO DEGLI U2 scritto da JANKADJSTRUMMER

 

 

Il DECOLLO DEGLI U2. Scritto da Jankadjstrummer

Propongo una biografia della ascesa dei mitici U2 con notizie ed aneddoti pescati di qua e la nel web e romanzati per rendere simpatica la lettura anche per i non amanti della musica rock. E’ un tentativo prendetelo come tale…e buon divertimento!

U2

“Dublino, ottobre 1976”. Fa un freddo cane, tanto è vero che fuori dal portone della Mount Temple School, si aggira solo un giovane liceale, mal vestito e chiaramente in preda ad una crisi di nervi. Si chiama Larry Mullen, ha appena perso il posto di batterista in una delle bande che girano per le vie della città con grancasse e tromboni, fatto fuori perchè non aveva il look giusto: questa la versione ufficiale del suo licenziamento. Sbollita la rabbia, Larry si avvia verso la bacheca degli annunci, per apporre il suo: “Batterista rock cerca musicisti per formare un gruppo”. Non bisogna attendere tanto, pochi giorni e si fanno vivi cinque allievi della stessa scuola: Paul Hewson, i fratelli Dove e Dick Evans, Adam Clayton e Neil Cormick. La formazione a sei, denominata “Feed back”, però, dopo pochi giorni di prove in una cantina di periferia, si rivela un disastro. Neil, infatti, decide di fare le valigie, senza aspettare che qualcuno gli dica di andarsene. I cinque rimasti, visto che non hanno più zavorra, decidono di continuare cambiando il nome in “The Hype”. Dove, che per via della forma a punta della sua testa, viene denominato “The Edge”, si aggiudica la chitarra solista, mentre il fratello Dick deve accontentarsi di quella ritmica; Adam continuerà a suonare il basso, mentre Paul, denominato “Bonovox” (dal nome di un negozio dublinese di cornetti acustici) viene eletto all’unanimità cantante. Bonovox, ancora sotto shock per la morte della madre Iris nel 1974, è un adolescente inquieto. Nella Mount Temple School si fa subito notare per i suoi improvvisi scatti d’ira che lo portano a distruggere tutto quello che gli capita sotto mano. Quando il punk non è ancora un fenomeno di massa, lui si presenta a scuola con capelli rossi sparati in alto, pantaloni viola attillati, giacca stile anni 60 e una catenella di acciaio che va dal naso all’orecchio. Tutto questo lo porta a qualche contrasto con The Edge, l’esatto contrario, un ragazzino timido, figlio di un ingegnere inglese, il cui suo unico interesse nella vita è quello di suonare la chitarra. L’unico vero musicista del gruppo è Adam, che però è il più vispo dei cinque, il ruolo del più figo del liceo gli va a gonfie vele; il suo vero obiettivo, più che a imparare a suonare il basso, è una vita spericolata a base di sesso droga e rock’n roll. Larry Mullen, che in questo periodo è il vero motore della compagnia, organizza la sala prove dove la band muove i suoi primi passi. Il luogo prescelto è un capanno per gli attrezzi nel giardino della casa di The Edge a Malahide, un sobborgo di Dublino. Nonostante il loro impegno ed il loro entusiasmo, i ragazzi si rendono conto, dopo poche settimane, che rifare le canzoni di Patty Smith e dei Talking Heads, è un’impresa superiore alle loro capacità. Decidono così di iniziare a scrivere canzoni. Dick Evans non ci sta e lascia il gruppo per raggiungere i Virgin Prunes. Dopo una bevuta colossale in un pub di Dublino tanto famoso quanto malfamato, un amico di Bonovox, Steve Averill, conia la magica sigla U2. La trasformazione del gruppo è definitiva. U2 può significare “you too” (anche tu), ma è anche il nome del piccolo aereo usato dagli americani alla fine degli anni 50 per spiare le postazioni militari sovietiche. Con una manciata di canzoni appena sfornate, gli U2 si buttano nella mischia e decidono di suonare ovunque ci sia un palco. Una scelta coraggiosa che li porta ad esibirsi in situazioni tragicomiche davanti ad ubriachi cronici. Esauriti i posti dove esibirsi dal vivo, gli U2 afferrano al volo la loro vera prima occasione, stravincendo un concorso per giovani band organizzato dal quotidiano “Evening Press” e dalla birra “Harp Lager”. In palio 500 sterline ed un’audizione presso la CBS. Con l’aiuto del manager Paul Mc Guinnes pubblicano il loro maxi singolo “U2-Three”, in tutto tre canzoni (“Out of Control”, “Stories for Boys” ,”Boy-Girl”) che fanno della band il gruppo di punta della nuova scena irlandese. In pochi giorni la sala prove nel giardino di The Edge viene preso da assalto da centinaia di ragazzine urlanti, costrette ad andarsene per via di una pioggia fastidiosa, provocata dallo scorbutico Larry e dal suo idrante. Il 19 marzo 1980 è il momento della svolta. Bono e compagni vengono arruolati dalla “Island” di Chris Blackwell, l’ uomo che ha fatto conoscere Bob Marley in tutta l’Inghilterra. Il sospirato contratto, però, ha l’effetto di una bomba. In vista delle registrazioni del primo album, la tensione sale alle stelle e gli incontri in studio si trasformano in risse. Gli ultimi giorni di marzo sono i più pesanti, e sono dedicati alla stesura di “I Will Follow”. The Edge è isterico. Ha appena litigato con i genitori, gli ha chiesto di rinviare di un anno l’ iscrizione all’università per concedere una chance agli U2. Alla tensione in sala si aggiunge quella in sala prove, ogni volta che parte con il giro di chitarra di “I Will Follow”, vede Bono scuotere la testa. La scena si ripete un’infinità di volte, si arriva al punto che Bono strappa dalle mani la chitarra di The Edge, ferendolo nel suo orgoglio e scatenando così la reazione di quest’ultimo. Tra liti furibonde, si arriva al 20 ottobre, quando “Boy” compare nei negozi di dischi del Regno Unito. “Finalmente un gruppo pop con il cervello!”: è il coro unanime della critica. Nella prima settimana di dicembre la band sbarca negli States, dove si esibisce al Ritz di New York. L’esperienza americana è devastante, il concerto funziona, ma Barry Ulead, primo manager del gruppo, è scomparso, lo ritroveranno più tardi in un commissariato di polizia dopo aver assistito ad un omicidio. Dopo due giorni viene ucciso John Lennon, a rivolverate, Bono ne rimane sconvolto. Dopo una breve esperienza in Europa, si ritorna in America, ai primi di marzo del 1981, dove quattro simpatiche “grampes” riescono ad introdursi nei camerini rubando una valigietta con 300 dollari ed i testi del nuovo album, “October”. Bono è sull’orlo della depressione, è costretto ad improvvisare in studio i testi delle canzoni. L’atmosfera è tesissima, Bono, Larry e The Edge sono in preda ad una crisi mistica, iniziano a dubitare che la fede cristiana possa sfasare la militanza in un gruppo rock. Nell’aria c’è l’ipotesi dello scioglimento, che a questo punti sembra sicuro, ma, fortunatamente, dopo giorni di riflessione, e forse grazie all’illuminazione divina, i tre si convincono che essere cristiani e suonare in una rock band, non è una contraddizione. Il 1983 è l’anno del terzo album, il quale grazie a pezzi mitici come “Sunday Bloody Sunday” proietta gli U2 nell’olimpo delle mainstream band. E’ l’anno frenetico che Bono e compagni vivono in tour, catapultandosi da un continente all’altro, i concerti sono delle vere e proprie maratone dove può succedere di tutto, ed infatti succede di tutto. Nel Massachuttes, arena di Worchester, scattano le manette per Bonovox. In una pausa tra un pezzo e l’altro, si accorge che due energumeni del servizio d’ordine schiaffeggiano una ragazzina intenzionata a salire sul palco, egli allora si avvicina e strappatala dalle mani dei due, la porta sul palco con lui e la invita a ballare. Appena Bono riprende a cantare, la fan, intrepida americana, si incatena alla sua caviglia con un paio di manette di cui, ovviamente, non ha le chiavi. Bono è costretto, così, a continuare buona parte del concerto con la ragazzina ai suoi piedi, fino a quando non riescono a liberarlo segando le manette. Nel Connecticut, a metà dello show, la batteria di Larry Mullen si spezza in due parti. A Bono saltano i nervi ed inizia ad inseguire il povero Larry ricoprendolo di insulti. Fortuna di Mullen, interviene The Edge che con un paio di cazzotti riporta Bono alla calma. A Los Angeles si arriva all’inverosimile, si sfiora la follia pura, il protagonista è ancora una volta lo scapestrato Bonovox. Verso la fine del concerto si scatena una rissa furibonda nelle prima file. Gli U2 cercano invano di ristabilire la calma, ma fallito ogni tentativo, Bono decide di a fare a modo suo. Sotto gli occhi increduli dei suoi compagni e nello stupore generale, si porta su una balconata e minaccia di lanciarsi nel vuoto. Visto che la folla non reagisce, Bono si tuffa. A salvare il cantante degli U2 sono le decine di persone che ne attudiscono la caduta. Nel 1984 con “The Unforgettable Fire”, gli U2 sono ufficialmente candidati a sostituire i “Police” nel ruolo di band più famosa del mondo. Per il passaggio di consegne si deve aspettare fino al 1986 in occasiona dell’ultima data del tour organizzato per beneficenza da “Amnesty International”. E’ la serata che mette fine all’avventura di Sting e soci. La folla del “Giants Stadium” lo sa bene e accoglie i tre inglesi con un boato assordante, lo show prosegue senza sorprese fino a “Invisible Sun” quando succede quello che nessuno si sarebbe aspettato: uno alla volta i membri degli U2 entrano sul palco e sostituiscno quelli dei Police. Larry si siede al posto di Copeland, Adam si infila il basso di Sting, The Edge la chitarra di Summers e Bonovox si impossessa del microfono, dopo alcuni attimi di silenzio da parte del pubblico incredulo, è il delirio. Da questo momento in poi lo scettro di band del pianeta è nelle mani dei quattro di Dublino. Gli U2, sull’onda dello strepitoso successo, continuano a stupire: addirittura finiscono sulla copertina del “Time”, prima di loro vi erani riusciti solo i Beetles. Le riprese del videoclip di “Where the streets have no name”, girato sul tetto di un negozio di liquori a Los Angeles, paralizzano la città. Migliaia di persone prendono d’assalto l’edificio costringendo la polizia a chiudere il traffico per parecchie ore. Il concerto all’ “Olimpic Stadium” entra direttamente nella storia: in onore della band viene accesa la fiaccola olimpica. Era accaduto solo per l’inaugurazione delle Olimpiadi e per l’arrivo del Papa. A questo punto non li può fermare più niente e nessuno. Non riesce a fermarli neanche il sindaco di San Francisco che trascina Bono in tribunale, dopo che quest’ultimo aveva imbrattato una statua con la frase: <>. Il risultato: Bono viene assolto, mentre il sindaco non viene riconfermato al rinnovo dell’am/ne cittadina. Non riescono a fermarli neanche la minaccie di morte, che li costringono ad esibirsi, per qualche anno, su di un palco protetto dalla polizia in borghese. Sono gli anni di “The Joshua tree”. Gli U2 sono ormai consolidati al punto di trasformare in oro tutto quello che toccano. Dopo lo sgretolamento del muro, mentre la DDR scompariva dalle carte geografiche, Bono e soci si muovevano per le strade di Berlino, cercando ispirazione dall’atmosfera di cambiamento che si respirava. La base operativa sono gli studi Hansa dove David Bowie ha inciso i suoi tre album più rappresentativi. Nascono qui i pezzi di “Actung Baby”(1991): il disco che cambia volto al sound di Bono e compagni. Musica elettronica, ritmi “industrial”, noise rock ed il solito grande gusto melodico sono gli ingredienti della nuova avventura. Più del disco, però, quello che lascia a bocca aperta è la scenografia dello “Zoo TV Tour”, fatta di schermi giganteschi, televisori dappertutto, macchine Trabant sospese nel vuoto, e cellulare a disposizione di Bono per chiamare durante i concerti gli uomini politici più rappresentativi. Non c’è mossa degli U2 che non finisca in prima pagina, figurarsi quando Bono e compagni manifestano insieme a Green Peace contro l’installazione di un impianto nucleare a Sellafield nel nord-ovest dell’Inghilterra. Intanto Bono da “The Fly”, la famelica rockstar con gli occhiali neri protagonista dello “Zoo TV Tour”, si trasforma in Maephisto, un piccolo diavolo con tanto di corna. Il cambio di look avviene in contemporanea con la pubblicazione di “Zooropa”(1993), insieme a “The Joshua Tree”, uno degli album più belli in assoluto. “Zooropa” è l’ultimo album in studio prima di “Pop”, uscito nel marzo del 1997. Dopo il grande spettacolo di Reggioemilia, che è di quelli che mozzano il fiato, con più di 150mila fans scatenati, dove Bono arriva agridare sul palco:<>, gli U2 sembrano volersi prendere un po’ di riposo. Rimangono comunque sulla cresta dell’onda, restando sulla scena per il loro impegno sociale. In occasione del Giubileo, infatti, sperano la richiesta del Papa di eliminare, per questo evento, il debito dei paesi del terzo mondo, verso quelli più industrializzati. Bono si fa portavoce in tutto il mondo di tale richiesta, (chiamata “Jubilee 2000”) arriva addirittura in Italia in occasione del Festival di San Remo, dove insieme a Jovanotti si esibisce sul palco dell’Ariston, dopo aver avuto un colloquio con il Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, il quale, oltre a cancellare il debito che tali paesi hanno con l’Italia, si impegna anche a far si che le altre nazioni seguano l’esempio italiano. Segue qualche mese di lavoro in studio, e finalmente ritornano con “All that you can’t leave behind”. Il resto è storia recente.

28 GIUGNO 1980 TORINO BOB MARLEY e the Wailers : Un flash back nei ricordi di gioventù

 

BOB MARLEY & the Wailers 28 GIUGNO 1980 : Un flash back nei ricordi di gioventù

bob marley ticket

28 GIUGNO : il concerto del re del reggae è previsto per le ore 21:00 ma l’apertura dei cancelli è alle ore 15:00 sei ore prima, noi siamo li puntuali, sul prato calpestato dai grandi del calcio arriviamo a due passi dal palco, da qui non mi muovo nemmeno con le cannonate, che, peraltro, non tardano a farsi comparire…..di tutte le dimensioni e forme, cylum con foulard indiani, pipette, spini, cannoni di tutte le dimensioni, ho visto un cannone retto con due mani, il profumo penetrante e acre della Maria è nell’aria e ci avvolge. In quel frangente ho scoperto come possa, a volte, non essere dannoso il fumo passivo…… Si susseguono sul palco numerosi artisti, Roberto Ciotti bluesman milanese, Pino Daniele, la Average White band riempiono l’attesa che diventa sempre più febbrile, siamo un bel gruppo di amici, si ride, si chiacchiera, il tempo scorre, il sole tramonta e disegna nel cielo colori vivacissimi che ricordano la bandiera giamaicana, quasi a suggellare questa magia, siamo in attesa di un grande artista, un grande uomo capace di comunicare sentimenti, pace, e buone vibrazioni, capace di parlare ai popoli africani per proporre loro un riscatto comune, sono molto emozionato, finalmente è buio, quando sul palco salgono i Wailers, sistemano gli strumenti e  salgono in fila le coriste le I-Threes: Marcia Griffiths, Judy Mowatt e Rita Marley.abbigliate con colori molto sgargianti in perfetto stile africano, parte il ritmo sincopato in levare del reggae che ha stregato milioni di giovani occidentali, storie di strada, di povertà, di fede, d’amore raccontate da un grande profeta di pace. Dopo una intro  dei Waliers di 16 minuti, finalmente calca la  scena il mitico BOB, rigorosamente con pantaloni e camicia jeans e le sue inconfondibili dreadlocks (treccine rasta ) lavorate dalle mani e dalla saliva della fedelissima moglie Rita, anche lei nel coro. Attacca  con il primo brano,  “Marley Chant” e comincia la sua danza reggae fatta di saltelli un po’ accelerati al ritmo di Natural Mystic e poi  di Positive vibrations  è una grande ovazione quella delle 70 mila persone assiepate che fanno luce con cerini e accendini, è un bellissimo colpo d’occhio e  quasi non mi ero accorto che lo stadio è stracolmo e io sono sotto il palco a ballare, a cantare, con il mio inglese ridicolo, passi del testo imparato a memoria di cui conosco al massimo il senso delle strofe; ma che importa, la carica umana ed artistica del mio mitico Bob rompe qualsiasi steccato e qualsiasi inibizione, ti spara al cuore come spara metaforicamente allo sceriffo (I shot the sceriff ), ti aiuta a superare le tue paure e le tue debolezze ( Lively up yuorself ) ti incita alla lotta ( get up stand up ), una guida spirituale che mi fa venire in mente il saggio padre di famiglia che ti conduce tra le brutture del mondo, mostrandole, ma che ti da la speranza che un giorno se ne possa venire fuori. La grande Redenzione del popolo Rasta ( redemption song ), la sublimazione della ganja, l’erba sacra, il ritorno verso l’Etiopia di tutti i popoli africani per ritrovare il Messia ( Exodus ) reincarnato nel Negus Hailiè Selassiè, credo che sia una ricerca non solo del popolo Rasta ma di tutti noi. Questi sono i miei pensieri mentre sono affascinato dal ritmo e dalla voce nasale di Bob Marley che mi conduce in territori inconsueti e a me sconosciuti. Sono veramente appagato, il saluto e il ringraziamento di Bob mi colgono di sorpresa, non è possibile che questo incanto sia terminato, non basta il bis di “No woman,no cry”, e di “Positive vibrations” a sedare la mia eccitazione, avrei continuato ad ascoltarlo per tutta la notte nonostante la stanchezza, lui esce di scena ma continua il sottofondo reggae dei Wailers che per qualche minuto abbassano la tensione, anche queste accortezze fanno grande un artista, non si lascia all’improvviso il proprio pubblico ma se ne decomprime lo stato d’animo a poco a poco. Una giornata che mi ha lasciato un segno indelebile che, però, senza prenderci troppo sul serio, abbiamo concluso con una birra gelata per toglierci l’arsura di una notte incandescente in una Torino che per una notte si è colorata d’arcobaleno. One love! Robert Nesta Marley.

Scaletta:

I-Threes Intro: 01. Jam 02. Precious World 03. Slave Queen 04. Steppin´ Outta Babylon

Bob Marley & The Wailers: 01. Marley Chant 02. Natural Mystic 03. Positive Vibration 04. Revelation 05. I Shot The Sheriff 06. War / No More Trouble 07. Zimbabwe 08. Zion Train 09. No Woman No Cry 10. Jamming 11. Exodus 12. Redemption Song 13. Natty Dread 14. Work 15. Could You Be Loved 16. Is This Love 17. Roots, Rock, Reggae

Per l’ascolto dell’audio del concerto di Bob Marley fate partire dal minuto 16:00, prima intro solo con i Wailers e Coriste.   JANKADJSTRUMMER

bob marley 1

 

AMANTEA Agosto 2012 – CONCERTO Di ROY PACI e ARETUSKA per la notte Bianca scritta da Jankadjstrummer

roy paci

Agosto 2012  NOTTE BIANCA AD AMANTEA : CONCERTO Di ROY PACI & ARETUSKA

Il lungo terrazzo di casa Carino domina l’immensa  piazza Cappuccini, da qui  il colpo d’occhio è splendido, un mastodontico  palco occupato ai lati dagli strumenti classici del rock mentre al centro una consolle di DJ spara musica disco,  giù una marea umana occupa lo spazio antistante e l’intera strada fino a perdersi all’orizzonte, sono ad Amantea, alla consueta Notte Bianca estiva in attesa del concerto di Roy Paci & Aretuska, insieme a me, in terrazza, oltre ai padroni di casa e tanti amici di sempre, una masnada di giovani rampolli  scalmanati che stappano vino e si divertono ballando senza sosta…beata gioventù, reggerà la struttura della terrazza a queste sollecitazioni …mi chiedo; dal palco gli organizzatori parlano di 20 mila persone, prevalentemente giovani, nello stesso momento in cui  sale la band,  si serrano le fila, il pubblico si compatta, dall’alto è bello coglierne  l’entusiasmo. Parte la trascinante musica del trombettista siciliano che, già dalle prime note, riesce a coinvolgere il pubblico che gradisce ed apprezza il suo sarcasmo, la sua ironia ma in special modo il suo ritmo travolgente; Paci riesce a divertire, a far ballare, con entusiasmo, la piazza come pochi sanno fare nel panorama della musica italiana, suoni dirompenti intervallati da chiacchiere a ruota libera dissacranti e a volte anche esilaranti tanto per esorcizzare i gravi problemi che ci affliggono: l’economia, il razzismo, l’ambiente che ironicamente pensa di risolvere urlando alla folla festante “  Non c’è niente di meglio che un tuffo nel bellissimo mare calabrese “ ignorando o facendo finta di non sapere che la “ Goletta verde” ha consegnato alla Calabria una bella “bandiera nera”, ma si sa, gli artisti spesso cercano il consenso della platea e  Rosario (Roy) Paci da Augusta (SR ) classe 1969, dimostra che sul palco è un vero trascinatore, un animale capace di attirare un pubblico così eterogeneo e conquistarlo con la sua musica. Il “sicilianazzu “ come più volte si definisce dal palco, oltre ad essere un ottimo trombettista è anche compositore e arrangiatore, un figlio del popolo che viene dalla gavetta e che non si è mai montato la testa , ha sempre esplorato la musica in tutte le sue sfaccettature dal jazz d’avanguardia alla musica popolare del Brasile e alla cumbia uruguayana senza tralasciare i suoni di “Mama Africa”, un suono globale costruito in tanti anni di serio lavoro di sperimentazione che solo in questi ultimi anni è riuscito a dare i suoi frutti migliori. Certo Roy Paci deve molto alle eccellenti collaborazioni con i migliori  gruppi di patchanka i Macaco, i Mau Mau e  con lo stesso Manu Chao che gli ha affidato la tromba solista nell’album “ Proxima Station…Experanza” e nel tour che ne è seguito agli inizi del 2000. Ma veniamo al concerto che ha infiammato la piazza nepetina, ha sfoderato tutti i suoi maggiori successi proponendo i brani più conosciuti, utilizzati come sigla in tre edizioni  di Zelig, il programma di  Claudio Bisio: “ Toda Joia, toda belleza”, “ Viva la Vida” e ” defendemos la Alegria” ma proponendo un progetto che, probabilmente,  più  lo entusiasma e da cui è più influenzato in questo momento: il Folk della sua terra e in generale di tutto il sud Italia, cosi con la fierezza di siciliano esporta le sue tradizioni musicali: Ciuri Ciuri, Mezzogiorno di Fuoco, Malarazza diventano danze accelerate in cui si fondano il suo dialetto siciliano con quello pugliese- salentino di un rapper di cui “aimè non conosco il nome” peraltro molto bravo.  Roy Paci chiama a raccolta più volte il suo pubblico, lo incita, lo esalta, lo invita alla danza sfrenata, la folla, come in un rito catartico, lo segue cantando e battendo a tempo le mani, stregato da questo paffuto con baffetto e mosca da “uomo d’onore”  che non lesina incitazioni alla lotta contro tutte le mafie,  ai pregiudizi, alle ipocrisie di una società in declino ma sempre con l’allegro  ritmo dello ska e del raggae. Sono le 2:00 del mattino, c’è ancora spazio per un bis prolungato che culmina con due classici pescati nella tradizione, che ben rappresentano le due anime del concerto: la forte passione civile con la voglia di divertirsi e ballare. Due brani che hanno rappresentano l’apoteosi ,il punto più alto del concerto: l’inno partigiano “ Oh bella ciao” in versione speedy, cantata in coro  dal pubblico con le braccia tese, un segno di riscatto e di speranza per un mondo senza guerre e per la rinascita di una nuova società.  Poi  “ One step Beyond “  una hit degli anni ’60 ripresa dai Madness  e riproposta pedissequamente in versione originale  per rimarcare che lo Ska dopo tanti anni rappresenta  una delle più belle espressioni di  danza moderna. Una menzione particolare spetta alla band composta, prevalentemente, da giovani musicisti siciliani agguerriti, spiritosi e coinvolgenti. Il concerto è terminato con lunghi saluti e strette di mano alle prime file a suggellare la disponibilità e il forte legame che, per una notte, è riuscito ad instaurare con il suo pubblico, bisogna dare atto agli organizzatori che sia l’ anno scorso con il concerto di Dolcenera  che quest’anno con Roy Paci & Aretuska  hanno colpito nel segno regalando agli Amanteani e ai tanti turisti una bella notte di musica. Da parte mia, che dire, un bicchiere di vino fresco ed un brindisi, con rima baciata istantanea fatta per me da un giovane poeta che di cognome fa Aloe, sembrava dovesse essere l’ultimo atto di una notte Bianca nella mia Amantea, ma mi sbagliavo, mi aspettava  ancora una lunga passeggiata per tutta Via Margherita con il mio amico Pino P a parlare di musica ed arte, sorseggiando una pinta di birra fresca e addentando un panino con la mortadella tagliata con una affettatrice degli anni ’50 nel nuovo negozio di alimentari  di Mazzuca…. alle ore 4:00 come ai tempi del liceo.

JANKADJSTRUMMER

 

AMANTEA – DISCOTECA IL FAUNO 1972 – I RICORDI DI UN GIOVANE ROCKER AL CONCERTO DELLA  PREMIATA FORNERIA MARCONI scritto da Jankadjstrummer    

AMANTEA – DISCOTECA IL FAUNO – I RICORDI DI UN GIOVANE ROCKER AL CONCERTO DELLA  PREMIATA FORNERIA MARCONI

Agosto 1972 – Discoteca estiva “ IL FAUNO “ ad Amantea nell’allora perla del Tirreno approda la Premiata Forneria Marconi, gruppo rock semisconosciuto, all’epoca passava in radio a malapena la hit “ Impressioni di settembre “, io avevo comprato il 45 giri, sul retro un altro capolavoro “ La carrozza di Hans “. Un loro concerto aveva per me un fascino indescrivibile si trattava di organizzarsi, il prezzo del biglietto d’entrata era per me proibitivo inoltre c’era la distanza 6/7 km da percorrere o in bici o con l’autostop, gli unici mezzi di locomozione consentiti. Cosi mi feci coraggio e chiesi a mio cugino che faceva il vigile urbano di procurarmi un biglietto, lui si offrì di accompagnarmi e poi venirmi a riprendere con la sua “ Diane 6 tipo familiare “. Ero felice, eccitato, varcai la soglia della discoteca, considerato un sogno per i 15 enni dell’epoca, e mi trovai catapultato in un ambiente buio, spoglio, qualche albero d’ulivo qua e la, tavoli, una pista tonda non molto grande adornata con un pergolato, ricordo che il locale non mi fece una buona impressione forse perché era sempre stato idealizzato da noi ragazzi, un posto pieno di “bagnanti” con molte ragazze, potenziale occasione di conoscenze femminili, che faceva viaggiare la fantasia di noi adolescenti in piena crisi ormonale, il locale non era per niente affollato qualche centinaio di personale sedute su delle sedie di ferro e qualche sparuto nugolo di giovani in piedi ai lati del palco, tutto lontanissimo da tutto quello che avevo immaginato. Io mi posizionai quasi sotto il palco da un lato, finalmente dopo un paio d’ore di attesa e di accordo/ strumenti, salgono sul palco prima il batterista Franz Di Cioccio con in mano le bacchette, il chitarrista Franco Mussida, il tastierista Flavio Premoli e il bassista Giorgio “Fico” Piazza e violinista e flautista Mauro Pagani ed iniziano il concerto con brani tratti dal loro primo album, Storia di un minuto del 1972, considerato la quintessenza del progressive italiano, sia per contenuti che per la sua energia. I brani che propongono sono molto d’atmosfera, molto dilatati,  che non scaldano per niente il pubblico del        “ FAUNO” nonostante il suono sia validissimo, forse perché  l’improvvisazione e le lunghe suite prendono  il posto delle brevi canzoni beat che il pubblico era abituato ad ascoltare. I primi pezzi che propongono hanno una struttura classicheggiante, “Grazie Davvero”, in cui una dolce chitarra acustica traccia la melodia principale, accompagnata dal mellotron, che simula una orchestra di archi, tesse trame quasi oniriche;  passa nell’indifferenza del pubblico anche la sinfonia di “Dove.. quando”,che parte con un canto dolce accompagnato da una chitarra acustica ed un flauto, continua con l’organo di Premoli e il violino di Pagani, per poi scatenarsi in una elegantissima e classica esecuzione di pianoforte, segue lo stesso destino. Il pubblico non è per niente in delirio, molti assistono distrattamente al concerto, i camerieri indaffarati a servire da bere ai tavoli illuminati dalle luci psichedeliche del palco, il progressive rock della PFM molto originale venato da belle melodie e da influenze musicali squisitamente mediterranee comincia a dare calore al pubblico che si infiamma con “ E’ festa “ una sorta di tarantella rock molto corposa caratterizzata da bei riff di moog. Ora l’atmosfera è completamente diversa, parte “La carrozza di Hans” che, inizia come una semplice ballata ma che si scatena poi con un meraviglioso assolo di chitarra alla King Crimson e in una brillante improvvisazione jazz-prog con il violino di Pagani che tesse dolci melodie . Questo pezzo, scritto da Mussida durante un viaggio in camioncino tra Torino e Milano, vinse il Festival di Avanguardia e Nuove Tendenze di Viareggio nel 1971 ( da cui è tratto il video inserito).  Unico punto debole della band era il canto, che soffriva dell’assenza di un vero e proprio front-man capace di tenere il palco, sarà stato questo il motivo dello scarso coinvolgimento emotivo con il pubblico. Per finire “Impressioni di settembre” preceduta da un breve pezzo strumentale, caratterizzato da coretti su una base di chitarra acustica, prima, e da un riff di chitarra elettrica all’incalzare della batteria, poi la suggestiva ballad con un testo scritto da Mogol e svariati spunti progressive, marcati dall’impiego del moog, strumento introdotto per la prima volta in Italia poco tempo prima. Gli accordi semplici, suonati dalla chitarra acustica, delineano un’atmosfera delicata e coinvolgente, soprattutto nelle strofe; il ritornello, invece, è più infuocato, con l’aiuto del geniale arrangiamento del sintetizzatore. La poesia che traspare dalle parole di Mogol non fa che accentuare l’epica melodia del brano di Mussida e Pagani, che divenne presto uno dei loro cavalli di battaglia e un classico della musica italiana. Con questo brano, ripetuto poi con la sola musica, terminò il concerto, poco meno di un ora di musica e via con i saluti di rito. Da quella contrada di Coreca, sotto quelle montagnole di tufo, era passata una meteora  che mi ha lasciato spiazzato tanto da avermi lasciato un dubbio che mi porto ancora adesso: il contratto prevedeva una breve apparizione o il poco entusiasmo del pubblico ha ridimensionato la performance? Certo io comunque fui felice di aver ascoltato la musica che sarebbe stata la mia colonna sonora di quegli anni. Il tempo di comprarmi una aranciata e fui raggiunto da mio cugino. Durante il tragitto per tornare a casa mi chiese che tipo di musica facesse questo complesso perché  non li aveva mai sentiti nominare, timidamente gli risposi: “ rock” e lui prontamente mi rispose che a breve ci sarebbe stato, in un altro locale di Amantea, lo spettacolo di Minnie Minoprio,( avvenente soubrette dell’epoca) di farmi vedere che mi avrebbe fatto passare gratis, SIC!

jankadjstrummer

 

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10 giugno 2012 Bruce Springsteen a Firenze ferma la pioggia Scritto da JANKADJSTRUMMER“

10 giugno 2012 Bruce Springsteen a Firenze ferma la pioggia

Ripenso a distanza di qualche anno al concerto di Firenze e ho davanti agli occhi la nitidissima immagine del Boss su quella passerella che dal palco lo porta in mezzo alla folla dei fans, a braccia aperte verso il cielo, che urla “come on” alla pioggia che incessante si scarica su di lui e sul suo pubblico. L’indomabile Bruce ha condiviso la pioggia insieme ai 44 mila accorsi allo Stadio Franchi per vederlo, saltando su e giù dal palco, correndo avanti e indietro per sentire il contatto con loro, quello vero, dispensando sorrisi, scherzando con tutti, ricevendo regali dalle prime file, cartelli e richieste di brani, tutto in maniera tranquilla e senza la necessità di interventi della security. Dalla mia postazione in tribuna riuscivo a vedere tutto quello che succedeva sotto il palco e vi assicuro che ho visto una sua autentica partecipazione, un entusiasmo impressionante nel riuscire a coinvolgere ma più di ogni altra cosa a concedersi completamente al suo pubblico; Springsteen in ogni suo gesto sprigiona passione e amore, trascina e si lascia trascinare dall’affetto e dalla gioia che sente intorno a lui. Certo la pioggia poteva rovinare una festa della musica ma questo non è avvenuto anzi è stato l’elemento che ha reso l’avvenimento epico, ha caricato di magia una fantastica notte di follia. Ma veniamo alla cronaca della serata che non lasciava presagire una simile evoluzione, arrivo allo Stadio intorno alle 19:00 in compagnia della mia amica Nuccia con cui non vedo un concerto dai tempi della new wave, i CURE al Palasport se non ricordo male, siamo pieni di entusiasmo, una birretta, qualche crackers e continui messaggini di amici sparsi per lo stadio. Parte finalmente la musica di “c’era una volta il West” di Ennio Morricone che è la intro di questo Wrecking Ball Tour, i musicisti, vestiti rigorosamente di nero, salgono in fila indiana sul palco accompagnati dai battiti di mano del pubblico fino ad una vera e propria ovazione all’entrata in scena di Bruce con la chitarra imbracciata che, con un italiano stentato, saluta il suo pubblico e parte con un one- two mozzafiato : “Badlands” poi “No Surrender”: due classici; Con la mia solerzia avevo provveduto a stampare la scaletta del concerto di Milano ma capisco immediatamente che non sarà la stessa, nel frattempo i tre megaschermi affidati ad una regia impeccabile passano, sullo sfondo, bellissime inquadrature dello stadio con le colline e il cielo scuro carico di nuvole; dai coni di luce sul palco si cominciano ad intravedere leggere gocce di pioggia ma sembra non importare a nessuno. Partono due brani del suo ultimo lavoro, Springsteen da vero mattatore, spalle al pubblico, dirige la sua E street Band salvo poi correre sulla passerella a sentire il calore dei fans contagiati dalla sua grinta e dalla sua energia. E’ chiaro che è impossibile stare seduti, bisogna assolutamente muoversi, ballare, cantare in coro con lui, partecipare attivamente alla festa.

La pioggia continua a cadere leggera ma incessante, i brani scorrono uno dietro l’altro senza pause, l’intesa con i musicisti è profonda, gli sguardi, i richiami evidenziano un legame fraterno che rende la musica calda e forse anche un po’ magica, la voce graffiante e potente fende la scura notte fiorentina, a questo punto viene fuori l’anima nera di Bruce con Spirit in the Night con E-Street Shuffle, con «Shackled and Drawn e poi con il bellissimo gospel di «My City of Ruins» di Curtis Mayfield, su questo brano presenta la band come la sua famiglia compresi Clarence Clemmons e Danny Federici volati in cielo, una sezione fiati e 3 vocalist reclutati per questo tour e visto che la moglie non c’è, chiede: <Dov’è Patti? Sarà a casa con i figli! >. Ma non manca di certo il rock quando in scaletta pesca dal passato “ Born in the Usa” , “Born to Run”, “Dancing in the Dark”, come pesca dal passato quando intona ben 5 o 6 cover “burning love “di Elvis Presley, Trapped di Jimmy Cliff , “Honky tonk women” dei Rolling Stones, la grandezza del Boss sta anche in questo, rendere umilmente omaggio ai grandi nomi che hanno fatto la storia del rock. Non mancano le ballate, la poesia sofferta di “the river” di “ the rising” brani coinvolgenti e suggestivi tanto da far dimenticare che la pioggia è diventata più insistente e martellante. Bruce aggredisce la vita con la sua musica che, a volte, diventa sofferta e disperata e a volte, invece, fa vibrare il cuore e l‘anima ma senza nessuna voglia di arrendersi ai drammi e alla sofferenza ma che trova nella sua passione la forza del riscatto.

I tempi sono stati molto duri – afferma- quando introduce la toccante “Jack of All Trades” in cui racconta di un disperato che non riesce a trovare lavoro nonostante avesse la capacità di fare tanti mestieri,la gente -afferma – ha perso il lavoro e la casa. So che anche qui è stato durissimo e anche il terremoto ha contribuito alla tragedia, questa è una canzone per tutti quelli che stanno lottando”.

E’ la terza volta che “partecipo” ad un concerto del Boss e ogni volta rimango affascinato dall’energia che riesce a sprigionare, la sua musica, la sua personalità ha un potere fortissimo, quello di emozionare, di commuovere ma anche di trasmettere gioia e benessere lui è tutto questo, è la vera essenza del rock, l’unione magica tra musica e pubblico, non credo ci siano altri musicisti capaci di creare una simile sinergia e mi convinco sempre di più che il rock è vivo e Bruce lo incarna non facendosi per niente intimorire dal diluvio che cade impetuoso sullo Stadio Franchi di Firenze anzi domandolo e facendosi accarezzare da quelle gocce fredde d’acqua e stringendo col suo pubblico un legame unico, in chiusura, con una interminabile e travolgente Twist and Shout dei Beatles e “ Who’ll stop the rain” dei Creedence Clearwater Revival.

Arrivederci a presto grande Boss.

JANKADJSTRUMMER“

 

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Leonard Cohen, la cronaca dello show di Lucca del 09 luglio 2013 completa di una scheda sul poeta a cura di jankadjstrummer

Leonard Cohen cronaca dello show di Lucca del 09 luglio 2013 

Magnetico, impeccabile e in una atmosfera magica il concerto di Leonard Cohen a Lucca, tanto che per le tre ore mi dimentico dei disagi causati dalla scelta dell’Organizzazione di creare il parterre dei posti numerati molto rialzato che non permette una visuale decente del palco, quando Cohen lo calca, puntualissimo alle 21, l’emozione è palpabile, perchè insieme a questo quasi ottantenne elegante con giacca, gilet e Borsalino entra anche la sua leggenda ed il pubblico lo accoglie con un boato. Cohen si toglie il cappello e se lo porta al petto “Grazie per la bellissima accoglienza, qui è bellissimo, non so quando tornerò ma posso dire che questa sera vi darò tutto quello che ho”, sorride e partono le prime note di ‘Dance me to the end of love’, la esegue in ginocchio davanti alla chitarra, poi uno sguardo alle sue coriste e ancora un sorriso. Tutto è perfetto, senza tentennamenti, eleganza estetica, soft, senza sfarzi anche nella musica della band che lo accompagna, musicisti di comprovata qualità Sharon Robinson (voce) Rosco Beck (basso,voce ), Alexandru Bublitchi (violino), Neil Larsen (tastiere, organo, e armonica), Mitch Wattkins (chitarre), Charlie e Hattie Webb, The Webb Sisters (voce, chitarre, arpa), Rafael Gayol (batterie e percussioni) e John Bilezijkjan (oud). Fortunatamente dai grandi schermi posti ai lati del palco è possibile vedere questo grande gentleman dal viso scavato e dalla corporatura esile dotato di una voce profonda e tenebrosa ma nel contempo vellutata, quasi un personaggio d’altri tempi capace, però, di arrivare ed affascinare anche il pubblico giovane accorso numeroso a conferma che il dualismo che contraddistingue le sue liriche, quel misto di sacro e profano che è sempre stato il suo segno distintivo risulta di estrema attualità. La scaletta dei brani pesca dagli anni Sessanta fino ai giorni nostri e mostra la perfezione di una musica fatta di altissime liriche e melodie senza tempo, parte “Everybody knows”, il pubblico si scalda e lo accompagna con il battito di mani e lui si inchina per ringraziare, arriva “Who by the fire” preceduta da uno stupendo assolo di oud, poi ritmi incalzanti, arpe che impreziosiscono la voce incantatrice di Cohen. C’è spazio per il nuovo album “Old ideas” con l’ accattivante “The gypsy’s wife ” a suggellare il legame tra la sua anima gitana e la Spagna. Il concerto vola via veloce, Cohen riesce a calamitare il pubblico e ad irretirlo, si inginocchia, canta, recita e saltella danzando su di un tappeto persiano le varie : “ the Future” The darkness” e la intensa “ Anthem” introdotta dalla recitazione di un verso che è l’essenza del suo sentire: “Forget your perfect offering ,there is a crack in everything”, Cohen si porta la mano sul cuore perché come dice nel brano “è da lì che viene la luce”. La prima parte del concerto sfuma con i ringraziamenti e con una frase che smorza la tensione emotiva: “Non andate via, torniamo da 15 minuti”, c’è tempo per spostarsi e sorseggiare una birra fresca tra la calca nei vari punti ristoro intorno alla grande piazza Napoleone ormai diventata palcoscenico naturale della estate Lucchese. il concerto riprende con Cohen che saluta il pubblico agitando la mano e imbracciando la chitarra e intonando le note di “Suzanne” occhi chiusi e atmosfere eteree, Il pubblico segue in religioso silenzio, con il fiato sospeso, prima di applaudire per un tempo che sembra infinito e trovando il tempo di fare una dedica a Fabrizio De André che l’ha tradotta e pubblicata sul suo album “Canzoni” Per “If it be your will ” Cohen recita alcuni versi della canzone (“If it be your will that I-speak no more and my voice be still as it was before.. From this broken hill I will sing to you From this broken hill All your praises-they shall ring If it be your will To let me sing”. “Se è un tuo desiderio che io non parli più e che la mia voce sia ancora com’era prima, non parlerò più/ aspetterò fino a che/ non si parlerà in mio favore /se questo è un tuo desiderio che una voce sia vera/ da questa accidentata collina/ tutte le tue lodi risuoneranno se questo è un tuo desiderio/ per lasciarmi cantare. Qui è forte un senso della fede che lui solo riesce a trasmettere l’assoluta devozione per chi è più grande di noi, da umile servo a cui è stata concessa il dono della voce, la canzone, a sorpresa, la lascia cantare alle due coriste, le Webb Sisters accompagnate solo da arpa e chitarra. Una esecuzione magistrale, emozionantissima di rara perfezione musicale che il pubblico ha apprezzato tributando loro un applauso infinito, li accanto un Cohen attonito con il capo chino e il cappello sul cuore. Da brivido. Ma non c’è tempo per romantiche sdolcinatezze, Cohen si toglie la giacca e ci regala una strepitosa “So long, Marianne” che il pubblico canta insieme a lui quasi a suggellare la magia e quel flusso d’amore che solo lui è capace di trasmettere e il pubblico lo sa bene tanto che gli riserverà un applauso senza fine. Si riparte con il basso e la batteria ad annunciare “First we take in Manhattan” , e ancora “Bird on wire” Chelsea N°2 e Sisters of mercy esecuzioni intense che donano emozioni e brividi in questa notte torrida. A questo punto Leonard tira un po’ il fiato, cede il microfono e lascia la scena a Sharon Robinson per una versione commovente di “Alexandra Leaving” che non fa rimpiangere la versione originale, questo secondo set si chiude con un crescendo che lascia senza fiato: prima il classico romantico-pop “I’m Your Man”, eseguito con l’energia di un ventenne e tanta ironia quando riesce ad esaltarsi nei diversi ruoli che si disegna per compiacere la sua amata che poi rappresenta quello che si può definire la donna ideale; nessun cenno di stanchezza, tutto sommato sono passate un paio d’ore dall’inizio, così parte quella che viene considerata una preghiera senza tempo,una versione asciutta, spirituale di Hallelujah cantata con una intensità da pelle d’oca e solo in questo momento si capisce perchè così tanti musicisti la considerano una delle più belle canzoni di sempre e perché un po’ tutti la vogliono cantare e poi “Take this Waltz” ( prendi questo valzer ) una famosissima poesia di Garcia Lorca tradotta da Cohen, qui eseguita con grazia estrema. Infine regala una perfetta esecuzione di “Famous blue raincoat ” capace di spezzare il cuore a tutti e non solo agli amanti delusi. Sembra che sia finito tutto ma l’estasi che Cohen e la sua band riescono a donare continua con dei bis che diventano un’apoteosi, una sublimazione dei sentimenti. Il concerto di questo elegante crooner si chiude con brani che quasi mai vengono inseriti in scaletta: la rarissima cover de The Drifters “Save the last dance for me”, poi “I tried to leave you” per concludere “Closing time”. Oltre tre ore di concerto memorabile che senza voler esagerare è stato un viaggio nella poesia di Jikan,il Silenzioso cosi come venne chiamato quando fu ordinato monaco buddista e si interrogava sui suoi stati d’animo per capire perchè in certi momenti mi sentiva particolarmente malinconico, condizione che gli ha premesso di scrivere e di cantare con la sua voce seducente le sue immortali poesie o se vogliamo al poeta che scriveva canzoni.

Dal vostro Jankadjstrummer

 

LA VOCE DALLA LAMA AFFILATA”

Ogni volta che decido di scrivere qualcosa su Leonard Cohen mi assale una forma di pudore e di inadeguatezza che mi fa pensare di non essere all’altezza di parlare di poesia, perché un conto è parlare di musica rock con piglio leggero quasi canzonatorio altro conto è addentrarsi in territori sconosciuti per riuscire a tradurre i sentimenti, le emozioni che si provano leggendo una poesia o ascoltando un brano di Cohen. Questa volta, però, ho deciso di provarci perché ritengo che sia doveroso far conoscere meglio ai lettori del sito questo straordinario cantautore e poeta ma anche abile romanziere. Leonard Cohen è nato in Canada (Monthreal 21/09/1934), da una famiglia di origine ebrea, inizia la sua carriera nel 1956 pubblicando un libro di poesie e dedicandosi alla musica solo a partire dal 1967 dopo essersi trasferito negli USA. Nel 1968 pubblica il suo primo disco “Songs of Leonard Cohen” che ebbe un buon successo.. I lavori successivi sono “Songs from a Room” (1969), “Songs of love and hate” (1971) e “Live songs” (dal vivo). Poi entra in un periodo di crisi personale dal quale esce pochi anni più tardi con la pubblicazione di “New skin for the old ceremony” (1974). Alla fine degli anni ’80 vive in California, a Los Angeles. Dopo l’apocalittico album “The Future” (1992) Cohen decide di ritirarsi in un monastero buddista in California; trascorre così un periodo di meditazione e si prende cura dell’anziano maestro Roshi, dal 1993 fino al 1999. Dopo quasi dieci anni di silenzio discografico la sua casa discografica pubblica i dischi live “Cohen Live” (1994) e “Field Commander Cohen” (2000, registrazioni di concerti del 1978), e “More Greatest Hits” (1997). Dopo il 2000 si rimette al lavoro con la sua vecchia collaboratrice Sharon Robinson e pubblica all’età di 67 anni l’album “Ten New Songs” (2001). Parallelamente all’attività musicale c’è quella letteraria che riassumo brevemente: La sua prima collezione di poesie, “Let Us Compare Mythologies”, viene pubblicata nel 1956 quando è ancora studente universitario. “The Spice Box Of Earth” (1961), la sua seconda collezione, lo lancia verso la fama internazionale, poi nei primi anni ’60 pubblica due romanzi, “The favourite game” (1963) e “Beautiful Losers” (1966). Poi un libro di poesie “The Parasites of Heaven” in cui compaiono alcuni testi (tra cui la celebre “Suzanne”) che successivamente diventeranno canzoni. “Impossibile ascoltare un suo album quando fuori splende il sole” ammonivano i critici, perchè quando Cohen parla dei suoi turbamenti religiosi o delle sue malinconiche crisi esistenziali la sua voce è un rasoio pronto a fendere gli stati d’ animo, le passioni e i sentimenti.     “Per sua natura, una canzone deve muovere da cuore a cuore”. È questa la poetica e la filosofia con cui Leonard Cohen ha costruito non solo la sua carriera artistica, ma la sua stessa vita. La sua musica si avvicina alla poesia, al sentimento delle cose non dette, alle allusioni, alle metafore, un linguaggio che è solo dei poeti. Tanti sono stati gli artisti rock che hanno riconosciuto di essere stati fortemente influenzati dalla musica di questo cantore, Nick Cave, Morrisey ma anche molti altri hanno attinto dal suo repertorio ma in generale dalla sua poetica e dal suo modo di esprimere le inquietudini. Mi piace ricordare “Hallelujah” resa ancor più famosa e struggente da Jeff Buckley, Suzanne ripresa magistralmente da Fabrizio De Andrè ma anche I’m your man nella interpretazione di Nick cave. Il tempo per Cohen ha un suo ritmo: “Di solito tendo alla tristezza. Per alcune canzoni ho impiegato diversi anni. Nessuna di essa è stata un parto facile, dopo tutto questo è il nostro lavoro. Tutto il resto va spesso in malora, in bancarotta totale, e così quel che rimane è il lavoro, ed è quello che faccio per tutto il tempo, lavorare, creare l’opus della mia vita. Il nostro lavoro è l’unico territorio che possiamo governare e rendere chiaro. Tutte le altre cose rimangono confuse e misteriose”. Cohen nei suoi lavori affronta l’amore, la passione, il viaggio, la sofferenza, la solitudine, e i sentimenti di un uomo che divora letteralmente le sensazioni che prova, con uno straordinario talento che incanta e affascina chi lo legge e lo ascolta. Il suo bagaglio musicale nasce della chanson francese di Jacques Brel e George Brassens, ma il forte influsso dato dalle sue radici ebraiche, gli fa prediligere anche molti temi biblici. Cohen è un poeta che parla contemporaneamente con delicatezza e una forza stilistica unica donando grande profondità ai suoi versi, teneri e passionali, fragili e risoluti al tempo stesso, confermando, ancora una volta la sua grande sensibilità e l’acutezza nel sentire, nel percepire, nel raccontare quella vita che ama con tutto il suo essere e senza riserve.

GLI  ALBUM DI LEONARD COHEN

  • Songs of Leonard Cohen (Columbia, 1968) > ottimo
  • Songs From A Room (Columbia, 1969)
  • Songs Of Love And Hate (Columbia, 1971) > ottimo
  • Live Songs (Columbia, 1972)
  • New Skin For The Old Ceremony (Columbia, 1973)
  • Best of Leonard Cohen (Columbia, 1975)
  • Death Of A Ladies’ Man (Columbia, 1977)
  • Recent Songs (Columbia, 1979)
  • Various Positions (Columbia, 1984)
  • I’m Your Man (Columbia, 1988) > ottimo
  • The Future (Columbia, 1992)
  • Cohen live (Columbia, 1994)
  • Field Commander Cohen (Columbia, 2000)
  • Ten New Songs (Columbia, 2001)
  • The Essential Cohen (anthology, Columbia, 2002)
  • Dear Heather (Columbia, 2004)
  • Live in London ( 2008 )

 

I WILCO A FIRENZE 11 OTTOBRE 2012 – LA RICERCA DEL SUONO PERFETTO

IL LIVE DEI WILCO A FIRENZE  11 OTTOBRE 2012  – LA RICERCA DEL SUONO   PERFETTO

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Fuori piove incessantemente ed io,come al solito, arrivo con Pietro il mio inseparabile compagno di concerti all’ Obihall ( ex glorioso Teatro Tenda) un minuto prima che si spengano le luci della grandissima sala peraltro non pienissima; cerchiamo un punto in cui la visuale e il suono possa arrivare perfetto. Ore 21:30 entra in scena Tweedy accolto con entusiasmo e da un boato d’applausi, abbigliato all’americana da vero folk-singer, camicia jeans, cappello sugli occhi, a testa bassa e imbracciando una bella chitarra acustica intona le prime di note di  Ashes of American Flags una bella canzone quasi west-coast poi la stupenda  Art of Almost, questi primi due pezzi danno l’idea di come sarà il concerto, un susseguirsi di ballate quasi folk con dei brani ritmati tipici del suono Wilco, schitarrate elettriche, tastiere e percussioni dall’andamento ondivago fatto essenzialmente di suoni pacati e sostenute risalite di toni che sono esercizi di stile per i bravissimi musicisti. Poi altri due brani dal loro ultimo lavoro “ The whole love” e il pubblico è in visibilio, cantano in coro la magnifica Black Moon, cerco di avvicinarmi lateralmente al palco per scattare qualche foto e rimango calamitato dall’attrezzatura a terra del chitarrista, una pedana di aggeggi strani che credo servono forse per gli effetti wha-wha, una sfilza di pedali che onestamente non riesco a capire a cosa servono ma che danno l’idea che la ricerca del suono, la sperimentazione siano il loro punto di forza quello che li distingue dalla moltitudine di gruppi rock che invadono i nostri clubs. In effetti il sound è perfetto, limpido, senza sbavature, un amico trovato in sala mi riferisce che già dal mattino il gruppo era impegnato nel sound-check che la dice lunga sulla puntigliosità del gruppo. La scaletta fila liscia ed   arriva il momento di   “ Impossible Germany “ che si conclude con un incredibile assolo di chitarra finale in cui Nels Cline dà prova di una tecnica e una sicurezza certamente fuori dal normale. Un virtuosismo chitarristico emozionante di quelli che si ricordano e mentre picchia sulle corde creando una barriera sonora, mi soffermo sulla scenografia alquanto semplice e senza sfarzi, le luci sono prevalentemente blu e rosse con tantissime abat-jour che ricordano le esibizioni dei Talking Heads; La band, se vogliamo, non ha inventato niente di nuovo ma la cosa che salta subito agli occhi è che si tratta di un gruppo ormai maturo nello stile capace di stupire ed emozionare al tempo stesso. Il concerto scorre veloce senza sosta, Tweedy sempre molto schivo   e   riservato   non   si  scioglie, rimane   serio   e   professionale, solo   qualche   accenno   di ringraziamento all’ovazione che gli riserva il pubblico alla fine di ogni brano. I musicisti a turno, hanno i loro momenti di gloria, le tastiere, la batteria si esprimono con maestria a dimostrazione che il gruppo è coeso e ben organizzato, non si capisce , quindi, il motivo per cui il pubblico italiano sottovaluti  questo poliedrico sestetto, nonostante sia considerato da tanti critici, a torto o a ragione, come la migliore rock n’roll band del pianeta nonché  il gruppo preferito del Presidente degli Stati Uniti d’America Obama( è una buona referenza, non trovate!).  Il concerto va avanti e noi ci stiamo divertendo,   anche   Pietro,   che   non   conosceva   molto   i  Wilco   sembra   apprezzare   la   maniacale costruzione dei brani cerchiamo di cogliere le varie influenze dall’arcipelago rock, notiamo echi e assonanze con Crosby-Stills-Nash e Young, i primi Dire Streats, Grateful Dead ma è solo perché sono nel bagaglio di ogni musicista, il sound dei Wilco rimane originale e non surrogato, lo dimostrano nel bis quando Jeff Tweedy attacca con  Born Alone, ma anche con pezzi ormai classici del repertorio come Can’t Stand It e  Passenger Side, fino allo splendido finale sulle note di  I’m a Wheel . Un concerto di classe e stile, canzoni semplici ma mai leggere e frivole perché arricchite con qualcosa che rende grandi le band: la sperimentazione e la ricerca del suono migliore. Si torna a casa soddisfatti, non senza aver prima sorseggiato una birra, sentendosi privilegiati quasi per aver partecipato ad un evento esclusivo, riservato ad un ristrettissimo numero di fans.   Dal vostro Jankadjstrummer

Scaletta dei brani in concerto

  1. Ashes Of American Flags
  2. Art Of Almost
  3. Outtasite (Outta Mind)
  4. Black Moon
  5. Spiders (Kidsmoke)
  6. Impossible Germany
  7. Born Alone
  8. How To Fight Loneliness
  9. Misunderstood
  10. California Stars
  11. Handshake Drugs
  12. Jesus, Etc.
  13. Whole Love
  14. Can’t Stand It
  15. Dawned On Me
  16. Hummingbird
  17. A Shot In The Arm

Bis

  1. Passenger Side
  2. Kamera
  3. I Might
  4. Hate It Here
  5. I’m Always In Love
  6. Heavy Metal Drummer
  7. I’m The Man Who Loves You
  8. I’m A Wheel

2 SETTEMBRE 1994 – 2° RADUNO NAZIONALE DEL FANS CLUB DI “PLANET ROCK “ di RADIO RAI AD AMANTEA


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2 SETTEMBRE 1994 –  2° RADUNO  NAZIONALE  DEL  FANS CLUB  DI “PLANET  ROCK “
AD AMANTEA

Giorni fa, Roberta, una mia amica di Firenze mi ha parlato di Planet rock e di alcuni podcast presenti sul sito della Rai che fanno riferimento al raduno nazionale del fans club che si è svolto ad Amantea quasi 25 anni fa, per me è stato gioco forza volare con la mente a quel periodo. Per i più giovani ricordoche “Planet rock” era un programma radiofonico in onda sulla rete rai nazionale che nasceva sul finire dell’anno 1991 con un l’idea ambiziosa: creare uncontenitore in cui fosse possibile trovare quello che comunemente si chiama“la buona musica” senza nessuna etichetta e superando i “generi musicali” come venivano definiti all’epoca. La sigla ma credo anche lo spirito del programma stava nel brano di Africa Bambataa “Planet rock”, una fusione, una contaminazione, come vogliamo chiamarla, che toccava il rock elettronico ma anche il rap e il funk.  Ogni sera dopo cena, dalle 21 in poi era possibile non farsi prendere dalla pigrizia e dalla comodità del divano davanti alla TV, ma era bello farsi coccolare con musica di qualità, magari leggendo un buon libro e seguendo, anche distrattamente, le chiacchiere “in libertà “sui dischi in programmazione che abilissimi conduttori – i miei preferiti erano Alberto Campo e Mixo –  ci propinavano.  Anticipazioni di album, concerti live, interviste ma anche la famosissima “ scaletta ragionata” in cui gli ascoltatori diventavano protagonisti proponendo la loro personale scaletta ( i cosiddetti Planetari) questa  era la ricetta del programma.  Questa breve introduzione mi serve per ricordare come Amantea fu teatro, un sabato sera del 2 di settembre del 1994, del 2° raduno del fans club di Planet rock e di come la città abbia reagito alla invasione dei rockettari provenienti da tutta la penisola. L’organizzazione dell’evento fu affidata a Eliseno Sposato, cosentino, grande appassionato di rock, mente attiva del Fans Club che riuscì nell’intento diregalarci una serata veramente indimenticabile, nonostante le mille difficoltà organizzative. Ma veniamo alla cronaca, che scava nei ricordi, la location tanto per cambiare lasciava a desiderare, un campo sportivo polveroso in terra battuta lungo la strada che porta verso Lago, arrivo in compagnia di moltiamici allertati da un passaparola tra i rockettari amanteani, io ero ancora in vacanza sarei tornato a Firenze il giorno dopo, è per nulla al mondo mi sarei perso la diretta in onda su Planet-rock e proprio da Amantea. La serata era particolarmente afosa, il campo sportivo, probabilmente rinfrescato nel pomeriggio era diventato una nuvola di polvere ma ciò non ci faceva demordere, il terreno di gioco cominciava a riempirsi di orde di ragazzi particolarmente “ estrosi” nell’abbigliamento, un mix di dialetti dalle varie regioni rendeva il clima gioviale, si respirava un’aria di grande festa, molti venuti con moto e in autostop che chiedevano soluzioni per la notte, ricordo che una coppia di ragazzi mi chiese se era sicuro passare la notte in spiaggia.li rassicurai che in zona non era mai successo nulla di grave. Il cartellone prevedeva una serie di gruppi italiani, per la verità non molto conosciuti tranne che per i “Senza Benza” una band punk proveniente da Latina; intorno alle 20:30 sale sul palco MIXO per salutare, ringraziare il fans Club e presentare la serata, abbigliatocon una camicia verde oliva e con un bel Kilt scozzese a quadri, molto trasgressivo per l’epoca.  Che fosse una serata tostissima si avvertiva già dai brani che venivano irradiati prima del concerto, Iggy Pop ma anche il grunge dei Nirvana e  Pearl Jam, ma finalmente si parte:  musica assordante, rock tirato ma non riesco a concentrarmi, il pogare dei giovani rockettari non mi permette di stare tranquillo ed assaporare il sound sparato da grandi casse poste ai lati del palco.  Il primo gruppo  a calcare la scena fu ”Peppa Marriti band” calabrese di Santa Sofia d’Epiro che scalda immediatamente il pubblico con il loro folk-rock da combattimento un  Rock & Roll Arbëresh, come arbareresh erano le loro origini (si tratta di una minoranza linguistica di origine albanese stanziata da centinaia di anni in Calabria), una band capace di coniugare la tradizione con il rock d’impegno molto apprezzato sotto il palco.( in fondo all’articolo un video live della band). E’ la volta dei Kartoons anche loro calabresi che presentarono un loro particolarissimo garage-rock con un bel brano That’s all folks dalle influenze decisamente beat. L’ambiente è arroventato, c’è molto entusiasmo e voglia di divertimento anche durante le pause di avvicendamento delle bands, i punti ristoro scarseggiano ma va bene lo stesso. Sul palco salgono i “ S.I.M. “ Sistema informativo Massificato dall’Abruzzo un gruppo crossover, come si intende ora, un mix esplosivo di rock e rap che vede al loro interno un personaggio che poi diverrà un punto di riferimento del hip hop  italico, C.U.B.A.,  la band infiamma anche perché  usa slogan mirati contro il mondo dei mass-media ed anche contro il potere di una certa classe politica. Durante gli intervalli la diretta su Planet rock è affidata a Mixo che per l’occasione diventa cronista di un evento memorabile per Amantea, da vecchio volpone tesse lodi a sfare per il pubblico ed anche per gli abitanti del paese che hanno dimostrato tanta ospitalità; sul finire si affacciano finalmente i Senza Benza, gruppo molto atteso dalle migliaia di facce stranite dal sudore e dalla polvere, si balla e si poga dall’inizio alla fine al suono punk del gruppo laziale. La band presenta il loro primo lavoro intitolato “ Peryzoma” è una summa di punk-pop, una sorta di Ramones in salsa italica che loro avevano definito Flower-punk perché riuscivano a coniugare le melodie anni ’60 con la velocità di esecuzione del brano tipica del punk. ( ho inserito l’audio del concerto di Amantea in appendice).                                                                                                                     La maratona rock volge altermine, sono veramente stanco e ho tanta voglia di bere, con gli amici ed altri trovati al concerto ci allontaniamo dal girone dantesco in cerca di refrigerio, la birra placa e aiuta la riflessione:  ancora mi chiedo cosa ci facevano migliaia di ragazzi venuti da ogni parte d’Italia in quell’angolo sperduto fuori dalle rotte della musica alternativa, giovani venuti a cercare amicizia e conoscenza reciproca accomunati dalla passione per il rock  e legati, a vario titolo e per le più svariate motivazioni, ad un programma radio. Per una notte  i tanti giovani di Amantea hanno vissuto una esperienza esaltante pensando, magari, che fosse la prima vera occasione per portare unpo’ di musica diversa……non mi risulta che ce ne siano state tante altre.

Jankadjstrummer

Il sound sulle strade di New York city 1a Puntata di Jankadjstrummer

Il sound sulle strade di New York city 1a Puntata di jankadjstrummer.

 

 

Il percorso musicale che voglio raccontarvi inizia sulla 42ma street di
Manhattan quando l’ascensore scende dal 24° piano dell’ Hyatt Hotel e mi
catapulta in una hall gigantesca affollata di gente di tutte le razze che
chiacchierano, mangiano e sorseggiano drinks,inservienti indaffarati nel carico e scarico di valigie di tutte le dimensioni, una frenesia che fa da contraltare ad un suono dolce e sofisticato che si diffonde per tutta la sala, il volume è abbastanza alto per non far percepire nessun fastidioso brusio, riconosco il brano ” Simpathique” dei Pink Martini una orchestrina composta da 13 elementi proveniente dall’Oregon che miscela vari stili musicali: dal ritmo latino al jazz per arrivare al genere lounge e poi in sequenza un paio di brani dei francesi Nuovelle Vague, un collettivo musicale che ripropone pezzi punk e new wave in stile bossa nova, riconoscibilissimi anche in questo  stile brani come “The guns of Brixton” dei Clash e “dance whit me” dei Lords of New Church. Appena esco in strada un via vai di gente mi ricorda che sono nella ” grande mela”, suoni di clacson, i tipici taxi gialli che affollano le strade e un suono di sax che fende l’aria ancora fresca di fine aprile, mi assale, mi avvicino in direzione di quel suono improvvisato, il musicista di colore si dimena dando il ritmo col piede, sono calamitato da quella figura e da quelle note mentre intorno i grattacieli che si perdono a vista d’occhio creano immagini riflesse ed ombre uniche; sono nei pressi della Gran Central Station considerata la più grande stazione ferroviaria del mondo, si sviluppa su due livelli sotterranei, da cui partono anche 4 linee della metropolitana, costruzione imponente con un atrio molto suggestivo che ti fa andare indietro nel tempo, la volta decorata con enormi segni zodiacali, dai lati due scalette in marmo conducono su di una terrazza che gira su tutto l’atrio, rifiniture dorate lo rendono un monumento oltre che un set cinematografico che ha visto recitare i grandi miti di Hollywood come Cary Grant in “Intrigo Internazionale” di Hitchcock, anche qui la musica domina, musicisti jazz che imprimono colori e suoni anni ’30, assoli di contrabasso e ritmi accattivanti in mezzo a gente distratta che in gran fretta deve prendere il treno. Ancora musica dagli altoparlanti, questa volta c’è molta west-coast, Crosby-Stills-Nash Young, Jackson Browne, Warren Zevon, canzoni leggere, allegre che mettono buon umore e che ci fanno volare con la mente alle grandi strade in mezzo al deserto americano, una musica che calza bene con il viaggio che gli avventori della Station dovranno intraprendere, dal cartellone luminoso vedo in partenza treni per Vancouver, Boston, Atlantic City ed ancora più a sud New Orleans e Miami, la mente non può che viaggiare al suono di quelle meravigliose chitarre. Uscire da quella stazione è difficile, ci sono molte cose da vedere, particolari su cui soffermarsi legati in qualche modo alla musica come il bar della catena Starbucks che spara rock dai video sparsi per tutto il locale, il cappuccino e il muffin che propinano non è male ma distante anni luce dal gusto del nostro caffè mentre i video trasmessi sono originali: un concerto tiratissimo dei Foo Fighters mi ricorda che mi trovo in una metropoli dalle mille facce e dalle mille culture mentre un video di Suzanne Vega mi suggerisce che, nonostante tutto, la città è pregna di romanticismo ed è un condensato di dolcezza. Sono di nuovo in strada, sono le 11:30 a.m. e mi avvio lungo la 5° avenue in cui è palpabile la grandezza del mito americano: negozi giganteschi, grandi firme anche italiane che mettono in mostra vestiti di classe, vetrine addobbate, marciapiedi lindi in cui è facile imbattersi sia in donne fatali dal look ricercatissimo che in donne sciatte e poco curate a dimostrazione che a New York gli eccessi si toccano, ma torniamo ai suoni: nei negozi in cui sono entrato molta dance e tanta musica da intrattenimento sparata a volume alto che, per quanto mi riguarda, anziché invogliarti ti spinge ad uscire. La piazza per antonomasia è il luogo di ritrovo e New York non fa eccezione: Union Square, è stracolma di persone che girano tra le bancarelle di fiori freschi e di souvenir per turisti alternativi: quadretti, foto ritoccate, profumi artigianali, amuleti, bigiotteria hippie, t-shirts colorate a mano sono gli acquisti di ogni buon europeo, gli artisti di strada sono tanti e particolarmente dotati, un cantautore con armonica e chitarra suona pezzi suoi ed alcune cover di James Blunt, è un giovane talento che riesce a catalizzare l’interesse di un nutrito stuolo di gente che lo ascolta in religioso silenzio, piace anche a me! Con un po’ di fortuna potrebbe diventar ricco e famoso. Cala sera i grattacieli si illuminano regalando panorami inconsueti, mi infilo in un ristorante suggerito per l’atmosfera e per la musica jazz suonata da un band stanziale ma molto professionale. I brani sono famosi e divenuti ormai quasi orecchiabili; brani di Max Roach, Charlie Parker e tanto swing afro-americano donano calore e familiarità alla grande sala illuminata solo dalle candele poste sui tavoli.
L’OYSTER CLUB è famoso non solo per la musica ma anche per la cucina: ostriche, scambi, aragoste che vi assicuro sono deliziose e con un prezzo accessibile mentre è proibitivo il vino che ha un costo medio di 50 dollari a bottiglia sic! anche l’acqua minerale non scherza 8 dollari, secondo i newyorchesi non bere l’acqua della fontana è da snob E’ ormai mezzanotte i fumi dell’alcool si fanno sentire ma per dirla alla Liza Minnelli di New York -New York questa è una città che non dorme mai per cui c’è ancora un po’ di tempo per infilarsi in un localino da dove proviene un suono potente che riconosco essere un brano dei mitici Ramones “rock & roll high school” la band che lo esegue è formata da giovanissimi ma molto agguerriti, il pubblico balla e poga al ritmo delle schitarrate punk a volume assordante, questi ragazzi sono divertenti, ironici suonano anche bene ma la stanchezza di una giornata a girovagare si fa sentire e poi il giorno dopo mi aspetta un giro lungo tra il Central-park e il quartiere di Harlem…….
Jankadjstrummer