RIASCOLTIAMO GLI ANNI ’70  –  FRANCESCO GUCCINI “ RADICI “

 

RISCOLTIAMO GLI ANNI ’70  –  FRANCESCO GUCCINI “ RADICI “

L’album “Radici” di Francesco Guccini vede la luce nel lontano 1972, nel momento di massimo splendore poetico del cantautore emiliano, senza dubbio è uno dei lavori meglio riusciti della sua produzione insieme a “Via Paolo Fabbri 43” del 1976 e  da “Amerigo”. del 1978. Il senso di appartenenza che lega quasi tutti i brani lo fa diventare una sorta di concept-album molto in auge in quel periodo. Il filo conduttore del disco è la consapevolezza che ognuno di noi è un soggetto che fa parte di un gruppo, che perde  la propria individualità in ragione di un bene comune, ma anche l’ appartenenza affettiva a  qualcuno in ragione dei propri sentimenti. Come si diceva un tempo un dualismo, un nodo mai sciolto di “pubblico” e  “privato”. Il disco è una carrellata di grandi ballate che non scade mai nella retorica e nella banalità delle canzoni pop. Questo spirito di appartenenza è palese già nella  title-track in cui Guccini parla della sua famiglia con molta tenerezza ed orgoglio riconoscendo il valore e la saggezza dei propri antenati nel ricordo che se ne fa nella vita di tutti i giorni: bella canzone ma che non emerge nel contesto di una sfilza di classici dell’artista; si parte con il pezzo che è il manifesto della canzone di protesta degli anni settanta: “La locomotiva”,  tuttora il brano che chiude i  concerti in cui si consuma un rito che va avanti da oltre un trentennio: il pugno sinistro levato degli spettatori ne momento topico del brano quando “ la bomba proletaria illuminava l’aria, la fiaccola dell’anarchia “. Il pezzo narra le vicende di un “ macchinista ferroviere” alla fine dell’800 che in un momento di grandi ideali pensa bene di utilizzare la sua locomotiva lanciandola a folle velocità fino al deragliamento e all’esplosione finale. Si tratta chiaramente di una metafora, l’anarchico che lancia la locomotiva  contro il potere borghese diventa un manifesto dei movimenti giovanili degli anni ’70. Mentre “Piccola Città” è una canzone molto nostalgica sul tema della giovinezza, Guccini ricorda il periodo scolastico trascorso a Modena la “piccola citta” che diventa un posto da dove fuggire via, il ricordo della scuola e delle “ vecchie suore nere “ che insegnano i ragazzi i segreti della vita”.  Poi “Incontro” un brano che è il  racconto dell’amica ritrovata dopo tanti anni, di una amicizia rimasta immutata ma le vicende della vita rendono questo incontro amaro, triste, l’amica gli rivela il suicidio del marito “ che si era ucciso per Natale” Un “Incontro “ che diventa tenero e dolce con la penna e la voce di Guccini. Dopo  abbiamo “La canzone dei dodici mesi” una delle canzone che amo di più perché c’è dentro tutta la poesia, i riferimenti e le citazioni dell’arte e del “ dolce stil novo di Cecco Angiolieri. Musicalmente è costruita in maniera tale che ogni mese dell’anno viene accompagnato da uno strumento diverso. E’ un susseguirsi di citazioni colte, la dimostrazione che siamo in presenza di un intellettuale molto ispirato. Le ultime due canzoni affrontano temi molto belli e poetici : “la canzone della bambina portoghese” che non si sa che cosa sia ma l’allusione è chiara, siamo nell’era post sessantottina sono caduti tanti steccati, ottenute tante conquista ma resta l’incertezza del futuro di quello che dovrà avvenire. una sorta di metafora della generazione che esce dal ’68 che è consapevole di ciò di cui si è liberata ma non sa a cosa va incontro. Bella l’immagine della bambina portoghese che dalla spiaggia guarda l’Oceano Atlantico e cerca di immaginare cosa c’è oltre quel mare. La conclusione è un brano cardine dell’opera gucciniana, “Il vecchio e il bambino”, in cui mette a confronto due epoche, due generazioni e lo fa con molto stile. Il messaggio è molto semplice, il passato, le esperienze della vecchia generazioni non devono andare perse dall’incalzare della modernità e devono essere un punto di riferimento, un faro per le generazioni future. Non è possibile costruire nulla senza l’apporto della cultura degli vecchi. Riascoltare questo album e queste canzoni che fanno parte del mio passato è per me un’ occasione di riflessione, rivivere l’emozione delle inquietudini giovanili è un toccasana per affrontare le paure, le lotte quotidiane  e i sentimenti e poi diciamocelo pure, fanno molta tenerezza. Radici è un grande album,  testi importanti ed ispirati, un po’ scarno dal punto di vista musicale, ma al Grande Guccini  gli si perdona tutto.

guccini

Buon ascolto o riascolto per i meno giovani da  JANKADJSTRUMMER

L’album contiene:
1. Radici
2. La locomotiva
3. Piccola città
4. Incontro
5  Canzone dei dodici mesi
6. Canzone della bambina portoghese
7. Il vecchio e il bambino

guccini

RIASCOLTATI PER VOI – CCCP – 1964-1985 AFFINITÀ E DIVERGENZE TRA IL COMPAGNO TOGLIATTI E NOI – DEL CONSEGUIMENTO DELLA MAGGIORE ETÀ. By Jankadjstrummer

CCCP  –  1964-1985 AFFINITÀ  E DIVERGENZE TRA IL COMPAGNO TOGLIATTI E NOI – DEL CONSEGUIMENTO DELLA MAGGIORE ETÀ.

I CCCP nascono nel 1982 in un locale di Berlino, dall’incontro di Giovanni Lindo Ferretti con il chitarrista Massimo Zamboni. I due suonano, per un bel po’, in giro per la Germania, tornati in Italia hanno una grossa intuizione che farà la loro fortuna, si convincono che è possibile appropriarsi della cultura emiliana, tradizionalmente comunista, e fonderla con il punk, magari prendendo il ballo liscio e portarlo a tutta velocità ed immergerlo nel suono “industriale” del rock tedesco.

Il loro primo lavoro è del 1984 “Compagni, cittadini, fratelli, partigiani”, una piccola raccolta di brani della primissima produzione ma il loro primo vero album i CCCP lo pubblicano nel 1986 “Affinità e divergenze fra il compagno Togliatti e noi. Del conseguimento della maggiore età”. E’ un disco eversivo, impetuoso e paranoico, una grossa scossa elettrica  per la musica Italiana. La  loro è pura provocazione, mi ricordo di averli ascoltati per la prima volta in una festa del 1° maggio del 1985 all’Auditorim FLOG di Firenze, uno spettacolo quasi circense in cui abbondavano le bandiere sovietiche, le performance dell’artista del Popolo, Fatur che mimava i mestieri, il mondo delle fabbriche URSS, abbigliato con corazze ed effigie che richiamavano al socialismo reale e accompagnato dalla bella e “benemerita Soubrette” Annarella Giudici. Fu uno spettacolo esaltante  da seduta di elettroshock. Ma torniamo al disco, in copertina sullo sfondo una foto di Togliatti mentre all’interno la scritta “Punk filosovietico/ musica melodica emiliana”, il disco parte a razzo al grido di  “CCCP”, con le chitarre gracchianti e un ritornello che mette subito in chiaro le intenzioni politiche del gruppo: “Fedeli alla linea e la linea non c’è”. Musica al vetriolo,il basso e la batteria che reggono un tempo martellante e creano un disordine mentale che sarà il loro biglietto da visita. Ripartono subito con “Curami”, un pezzo mitico quasi una preghiera con cui i CCCP consapevoli delle psicosi di una generazione di giovani non integrati e eternamente fragili ed insicuri chiedono una terapia, una medicina che riesca i liberarli dalle ossessioni e dagli incubi che affollano le menti di una generazione di giovani:  “Prendimi in cura da te, curami, curami”, chiede Ferretti ma non è dato sapere a chi, se al suo psichiatra, ad un demiurgo o allo sciamano, cantando su un tappeto di chitarra punk addolcito dal suono dello xilofono. Il brano si chiude con una richiesta ripetuta ossessivamente, una modalità peraltro molto usata dai CCCP che in questo caso fa “Solo una terapia, solo una terapia!”. Poi parte uno dei brani che preferisco “Valium Tavor Serenase” che rappresenta il manifesto del Ferretti pensiero, della sua musica e del messaggio che vuole che passi: Le droghe non sono importanti non aumentano le nostre percezioni né servono come eccitanti perché sono meglio i calmanti e i sonniferi  “Il Valium mi rilassa/ il Serenase mi stende/ il Tavor mi riprende” ma queste parole, quasi concilianti, sono seguite da ritmi violenti di punk hardcore e sono sintomatici di un forte malessere. Questi suoni all’improvviso si fermano per lasciare il posto ad un giro di ballo liscio alla Casadei. Invenzione azzeccatissima!  Ancora ritmi punk con “Trafitto” e “Noia”, il primo brano si apre in maniera malinconica “nell’era democratica simmetriche luci gialle/ e luoghi di concentrazione/ nell’era democratica strade lucide di pioggia/ splende il sole fa il bel tempo…”, poi il ritmo sale vertiginosamente e Ferretti esalta l’indolenza e la svogliatezza (“Trafitto sono/ trapassato dal futuro/ cerco una persona/ Fragili desideri/ a volte indispensabili/ a volte no”) nell’altro si parla di una cupa e triste noia.

Poi la trasgressione sessuale di “Mi ami”, l’attesa di una situazione estrema contro un rapporto a due senza amore, freddo ed annoiato  “ Un’erezione, un’erezione triste per un coito molesto, per un coito modesto/ Spermi spermi indifferenti, per ingoi indigesti/io attendo allucinato la situazione estrema” Poi il brano “Morire” una cruda invettiva, probabilmente autoironica, ai giovani in cui uno sprezzante Ferretti ammonisce “Produci, consuma, crepa/ Produci, consuma, crepa/ Cotonati i capelli, riempiti di borchie/ rompiti le palle/ rasati i capelli/ crepa/ crepa”.

Il cerchio della depressione e del post edonismo anni ’80 si chiude con  “Io sto bene” uno dei brani più azzeccati dell’album “Non studio, non lavoro, non guardo la tv, non vado al cinema, non faccio sport”. Qui è forte l’inadeguatezza e la fragilità e il vuoto esistenziale: “Io sto bene, io sto male, io non so come stare “.
Si ritorna a i toni cupi con “ Allarme”, un basso lieve ma ripetitivo, una chitarra distorta, il suono della fisarmonica che intona un tango e l’invocazione dell’allucinato Lindo Ferretti (“Muore tutto, l’unica cosa che vive sei tu. Solo tu, solo tu”) sono il preludio ad un The end, al delirio conclusivo di “Emilia Paranoica”, il brano in assoluto più bello  dell’album. Inizia con delle urla, un basso flebile e una  batteria elettronica anch’essa rallentata crea un clima apocalittico, Ferretti recita “Aspetto un’emozione sempre più indefinibile” , con accordi di chitarra  che seguono il canto monotono, l’atmosfera dark che si dissolve piano, le chitarre che graffiano e questo lungo recitativo che diventa più veloce, il ritmo che sale e i suoni che diventano violenti, è l’apoteosi prima del ritorno al punto di partenza  che risale questa volta ancora più intenso e sofferto. E’ l’Emilia che da terra evoluta, gioiosa e fiera  diventa una terra nebbiosa e sen’anima , una terra affollata da tossici e sbandati, una terra in cui l’unica seduzione è dormire. L’album è un capolavoro del rock italiano e consacrerà i CCCP come la più grande rock band italiana.

cccp

Da ascoltare e riascoltare Jankadjstrummer

Tracklist

  1. CCCP
  2. Curami
  3. Mi ami? (remiscelata)
  4. Trafitto
  5. Valium Tavor Serenase
  6. Morire
  7. Noia
  8. Io sto bene
  9. Allarme
  10. Emilia Paranoica

Riascoltati per voi – GENESIS NURSERY CRIME

Riascoltati per voi        GENESIS  NURSERY CRIME

Peter Gabriel

Un brivido mi attraversa la schiena  quando parte questo capolavoro dei Genesis  che compie esattamente 47 anni, quindi, recensirlo non è mi viene molto facile, mi sovvengono ricordi di giovinezza, i miei primi ascolti di musica rock che mi hanno  rapito e mi hanno tenuto segregato per sempre a questi suoni, la mia è stata comunque una prigionia dorata , stuzzicante, coinvolgente da cui non mi piace  liberarmi. Ma veniamo a questo capolavoro che per la prima volta vede la formazione del gruppo al completo, (Gabriel/Collins/Banks/Hackett/Rutheford), compreso il diciannovenne Phil Collins alla batteria ed anche alla voce nel  brano “For Absent Friend”. Questo  terzo album in studio del gruppo era molto atteso sia dalla critica che dai fans che aspettavano la conferma di essere in presenza di uno dei gruppi più importanti del progressive rock. Il titolo dell’album è riferito alle filastrocche per i bambini inglesi (nursery rhymes – la parola rhymes è stata sostituita per assonanza con  crimes).

Guardando il disegno di copertina del disco, il testo del brano d’apertura The Musical Box si comprende il bozzetto dell’artista Paul Whitehead che firmerà molte copertine dei Genesis, viene raffigurata una bambina che gioca a croquet con teste umane; c’è una notanel disco che spiega la trama di questo concept-album:
“ Quando Henry Hamilton-Smythe di otto anni andò a giocare a croquet con Cynthia Jane De Blaise-William di nove anni, questa graziosamente gli staccò la testa. Due settimane più tardi, la piccola Cynthia entrà nella camera di Henry e vide la sua musical box (carillon). Quando l’aperse ed incominciò a suonare Old King Cole (una filastrocca popolare), apparve lo spirito di Henry, che rapidamente incominciò ad invecchiare. La canzone riporta le parole che Henry disse a Cynthia, Poi entrò la nurse, e la bambina gettò la musical box contro Henry, che subito scomparve.
I testi di Nursery Crime sono straordinariamente sofisticati, atmosfere da favola che diventano misteriose e con suggestive citazioni letterarie,storiche cariche di tanta ironia, mi viene in mente un passo  di Harold The Barrel  in cui il protagonista si taglia le dita dei piedi per servirli col tè agli ospiti. Il disco si compone di sette brani, si parte con il leggendario The Musical Box, uno dei cavalli di battaglia della band, una sorta di mini suite di oltre dieci minuti articolata in 3 fasi distinte ma concatenate l’una all’altra; la tranquilla partenza dalle atmosfere un po’ medievale poi la dolce voce di Gabriel si amalgama alla perfezione con il suono perfetto e magico della chitarra di Steve Hackett e delle tastiera di Tony Banks una grande suggestione nel crescendo dei cori e dei fiati che culminano in un finale da brivido, gridato fino all’inverosimile da Peter Gabriel in quel “ Why don’t you touch me, touch me, Why don’t you touch me, touch me”. Un brano indimenticabile che lascia sbalorditi e che rappresenta in pieno il suono Genesis. Con “For Absent Friends” si stempera l’atmosfera, si tratta di un breve pezzo acustico e delicato cantato da Phil Collins prima di passare alla scoppiettante.
The Return Of The Giant Hogweed” che parte con formidabili tastiere e diventa, poi,  un duetto con la chitarra di Hackett, un autentico capolavoro di suoni rock progressive in cui le atmosfere drammatiche, tipiche del suono Genesis,  esplodono nel finale, in tutta la loro energia.
In Seven Stones, continuano la “liturgia della drammaticità”, arrichita dai vari mellotron e moog di Banks, che sono sempre omnipresenti nel brano, ma mai “barocchi”, senza cioè appesantirlo mai. Tutto il disco è un gioco di equilibri: in fondo le “keyboards” si affacciavano come strumento nuovo, e fornivano infinite possibilità creative.
Harold The Barrel è una specie di ragtime che vuole spezzare un pò i ritmi tetri proposti fino a quel momento, Banks si mette alle tastiere e Hackett lo scimmiotta un pò con la chitarra.
Harlequin è un piccolo brano di calma, che preannuncia la tempesta di The Fountain of Salmacis: una piccola opera rock-lirica, un crescendo di atmosfere trionfanti, con la voce di Gabriel e il basso di Rutheford a fondersi in un “unicum” di suoni, spazialità di rara bellezza. Ho avuto la fortuna di averne visto un rarissimo filmato in cui i Genesis la suonavano davanti alle telecamere della televisione belga. Un brano da ascoltare da soli, in macchina, al buio e con la luna piena.Seven Stones, dall’andamento ancora fiabesco ma nello stesso tempo arcano, è ben cesellato dalla voce di Peter Gabriel.
La già citata Harold the Barrel e una song divertente ed ironica che esalterà la teatralità dei Genesis nei concerti dal vivo dell’epoca.
Harlequin è un brano lento ed incantevole in cui la parte vocale è affidata ad un coro di Gabriel-Collins.
L’album si chiude con la struggente melodica The Fountain Of Salmacis, ispirata al mito di Ermafrodito e della ninfa Salmace, nella quale si parla di un amore impossibile; memorabile l’apertura affidata al Mellotron e l’ assolo di Steve Hackett!
Sotto il profilo prettamente musicale i Genesis dimostrano una grandissima maturazione rispetto alle due releases precedenti sviluppando sonorità sperimentali, più complesse e ricercate, che avviluppano l’ascoltatore; atmosfere melodiche/acustiche molto profonde sono alternate a ritmiche più sostenute di grande effetto complessivo.
The Musical box =  CARILLION

Suonami Old King Cole
perché io possa unirmi a te
il tuo cuore è così lontano da me ora
ma non importa.
E la nurse ti dirà bugie
di un reame oltre il cielo
ma io mi sono perduto in questo mondo a metà
ma non importa.
Suonami la mia canzone
ecco che viene di nuovo
suonami la mia canzone
ecco che viene di nuovo.
Solo un pochino
solo ancora un poco di tempo
tempo rimasto da vivere fuori dalla vita.
Suonami la mia canzone
ecco che viene di nuovo
suonami la mia canzone
ecco che viene di nuovo.
Lei è una signora, lei ha tempo
spazzolati indietro i capelli e fammi conoscere il tuo volto
lei è una signora, lei ha tempo
spazzolati indietro i capelli e fammi conoscere la tua carne.
Ho atteso qui per così tanto
e tutto questo tempo mi è trascorso accanto
ma non importa adesso
te ne stai là con lo sguardo fisso
senza credere a quello che ho da dire
perchè non mi tocchi, toccami
perchè non mi tocchi, toccami, toccami
toccami ora, ora, ora, ora, ora. 

Tracklist:
01. The Musical Box
02. For Absent Friends
03. The Return Of The Giant Hogweed
04. Seven Stones
05. Harold The Barrel
06. Harlequin
07. The Fountain Of Salmacis

Buon ascolto o riascolto da JANKADJSTRUMMER

Riascoltati per voi – BAUSTELLE – FANTASMA del 2013

 

BAUSTELLE – FANTASMA –  Marzo 2013

baustelleFantasma (Titoli di testa)

  1. Nessuno
  2. La morte (Non esiste più)
  3. Nessuno Muore
  4. Diorama
  5. Primo Principio Di Estinzione
  6. Monumentale
  7. Il Finale
  8. Fantasma (Intervallo)
  9. Cristina
  10. Il Futuro
  11. Secondo Principio Di Estinzione
  12. Maya Colpisce Ancora
  13. L’orizzonte Degli Eventi
  14. La Natura
  15. Contà L’inverni
  16. L’estinzione Della Razza Umana
  17. Radioattività
  18. Fantasma (Titoli di coda)

I Baustelle ne hanno fatto di strada, partiti dall’underground si sono conquistati  un bel seguito di fans, probabilmente per quella voglia di cambiare rotta  che li ha sempre contraddistinti e perchè non si sono mai lasciati condizionare  dal successo che li avrebbe voluti ripiegati su stessi  ma la  band di Montepulciano  non si è mai prestata a questo gioco e in questa sesta prova hanno di nuovo virato lasciandosi alle spalle quegli echi di folk  e di quella formula di canzone intrisa di riferimenti colti per tentare una operazione complicatissima: trattare il disco come un vero e proprio cortometraggio con tanto di titoli di testa/intervallo/titoli di coda inframmezzati da atmosfere catastrofiche pervase di angosce e di tante tensioni accompagnate  da una colonna sonora di ispirazione morriconiana.  Fantasma non è un disco facile anzi direi piuttosto complicato e di non facile decifrazione, le tematiche mescolano come afferma Francesco Bianconi “sesso orale e santità” oppure terra e cielo  “Bisogna avere fede / navigare nello spazio siderale / presupporre l’aldilà / chè siamo troppo avvezzi a stare male” (Radioattività), oppure  “potremo anche avere altre donne da amare / sconfiggere l’ansia e la fragilità / e magari tornare a sbronzarci sul serio / nella stessa taverna di vent’anni fa” (Il futuro). Gli arrangiamenti della polacca Film Harmony Orchestra di Wroclaw, diretta da Enrico Gabrielli, molto aulici e sofisticati a volte diventano una trappola perché rendono i brani troppo seriosi e se vogliamo un po’ noiosi e pesanti,come ad esempio in Cristina oppure ne l’ estinzione della razza umana. Un album, come dicevo,  è caratterizzato dalla  provocazione e dal continuo mutamento di umore quale sintomo di una maturità stilistica e musicale: “Ciò che siamo stati non saremo più” -, anche a costo di deludere. I brani  sono  molto accattivanti  ma solo raramente si fa cenno alla bellezza, si parla di felicità solo ne “La morte (non esiste più)”, visione estatica di un romantico che deve fuggire la realtà per trovare un briciolo di cuore e poter andare avanti, il resto diventa oscurità, pessimismo che alberga in Diorama e sopratutto nella già citata Il futuro, ricordi impressi nella memoria di una gita romana che diventano malinconici: “Il passato adesso è piccolo / ma so ricordarmelo / Io, Gianluca, Rocco e Nicolas / felici nel traffico / di un marciapiede del Pigneto vite fa“. Questi  affreschi di tipo cinematografico sono per i Baustelle la poesia, linfa vitale della vita al contrario del tubo catodico che incarna invece lo squallore del genere umano “Il figlio di troia che appalta la Rai” (Nessuno) e “le antenne di Segrate” che emanano “i segnali ineluttabili del vuoto che verrà” (Maya colpisce ancora). Ancora storie crepuscolari in Monumentale, un ode ai cimiteri dal sapore foscoliano e  Conta l’inverni, dove Bianconi racconta, da una fredda cella, una storia d’amore noir e sanguinosa ( uccide l’amore della sua vita), utilizzando – per la prima volta – il dialetto. Il fantasma del titolo sarà forse il fantasma della nostra esistenza, qualcosa che riappare nella realtà delle nostre vite ma queste sono tutte domande senza risposte come si conviene alla poesia di cui Francesco Bianconi è un grande cultore.

JANKADJSTRUMMER

Riascoltati per voi – BABAMAN – la nuova era…….del reggae italiano. by Jankadjstrummer

Babaman “La Nuova Era”

Babaman

E’ uscito in giugno 2012 questo ennesimo lavoro del giovane rasta/rapper,  che mi ha autografato alla presentazione, siamo a quota 11, finora avevo sempre pensato che Babaman  fosse il classico artista innamorato del raggae come ritmo ma senza convinzione e senza una fede vera, mi sono dovuto ricredere ascoltando questa “La Nuova Era”. Intanto si tratta di un disco ambizioso non fosse altro che per le collaborazioni( Sizzla, Burro Banton, Jodian Pantry) poi per i temi che tratta, il declino che sta vivendo la nostra società, questo cambiamento negativo che porta a numerose lacerazioni e che ci proietta, quindi, in una nuova era sicuramente non rosea. L’album si apre con una sorta di preghiera a Jah ( il Dio rasta ) Have Mercy, la splendida voce di  Ky-Mani Marley introduce un canto  Nyabinghi ( si tratta dei primi canti della tradizione rastafari ) suggestivo e interamente cantato in italiano, il testo è intenso e ricco di messaggi chiari: “Porta luce su questo pianeta cosi pieno di guai. Porta pace per i figli tuoi, solo tu puoi Ya Nai King Sellasie I, Rastafari“. La seconda traccia, “La Realtà” cambia nel ritmo ma continua nell’invettiva contro la nostra società “Il mondo ormai non gira più ma rotola verso il basso come i sassi“.Un brano orecchiabile e che potrebbe essere un bel tormentone sulle nostre spiagge. Poi c’è il brano “ Dritto” in cui riemerge il classico ritmo del cantante milanese, il testo passa quasi in secondo piano come si intuisce nel verso “Il mio messaggio in questo pezzo è devi saltar“. La quarta traccia, “Teach Us the Wayb”, è un mix di testo tra l’italiano e l’inglese è il primo duetto dell’album con il jamaicano Sizzla. “Rastafari I Me Say” ha un testo molto bello in cui traspare la fede sincera rastafariana di Babaman mentre in “Must Affi Survive”si parla di sofferenza e povertà nel sud del mondo e del cinismo dei paesi ricchi che pensono solo al “soldo” ed a una certa gioventù occidentale che è accecata dagli stili di vita fatti di apparenza e di ostentazione del benessere, Babaman recita “ io sono preoccupato per le sorti di un pianeta gestito da chi crede in un satanico sistema, io canto insieme a Burro Banton per la gente che sta male, in Europa, in America, in Jamaica o Africa,c’è chi ha veramente troppo e chi non ha niente.” Poi “Le Bimbe” , una canzoncina ironica sul ruolo della star e su come le ragazzine spesso rimangono abbagliate dal personaggio pubblico che qualsiasi cosa faccia, fa vibrare il cuore e le fa urlare “ Oh mamma mia”, questo brano è stato molto criticato perché pare che il ritmo e la base siano un po’ scopiazzate, niente di scandaloso, mi sembra, la musica è talmente semplice e fresca che sarebbe ingiusto bollarla come plagio anche se può somigliare ad un altro brano. Ma torniamo al disco, continua con “Non Sono Solo”  si torna ai ritmi e alle tematiche dell’album, i versi sono semi seri ma un messaggio Babaman lo espime con chiarezza, bisogna aprirsi agli altri, bisogna parlare con la gente, perché in ognuno c’è una storia, una vita da cui poter cogliere positività. Con “ Princess” cantata con Jodian Pantry il ritmo rallenta le rime diventano dolci quando Babaman si rivolge ad una ragazza che le ha rubato il cuore “ Ridammi indietro il cuore, ridammi indietro la ragione che mi hai preso il giorno che mi hai detto il tuo nome……principessa questo bad-man non so se vuole sposarti però lui vuole amarti tutta la notte e vuole che tu lo tartassi di baci e di carezza, lo sai! Poi finalmente un brano veramente hip-hop “ la gatta”  che viene riproposto anche in versione remix con molti ospiti, versi passionali in rima dedicati ad una sexy gayl come ama chiamarla lui…… Babaman è un artista che le nuove generazioni adorano, mio figlio sedicenne, colleziona tutta la sua produzione ed è molto attratto dai riferimenti culturali legati alla religione e allo stile di vita dei rasta-fari, “La Nuova Era” è pregno di misticismo religioso, devo riconoscere che è un bel disco, fresco, gradevole e se vogliamo denso di buoni messaggi e con un sound che richiama i Caraibi ( la gestazione del disco è avvenuta in Jamaica) ideale per accompagnarci in queste giornate afose estive.

Babaman

JANKADJSTRUMMER

TRACKLIST “LA NUOVA ERA”

01. Have Mercy (Ky-Mani Marley Skit)
02. La Realtà
03. Dritto
04. Teach Us the Wayb (feat. Sizzla)
05. Rastafari I Me Say
06. Must Affi Survive (feat. Burro Banton)
07. Le Bimbe
08. Non Sono Solo
09. Princess (feat. Jodian Pantry)
10. La Gatta
11. Notte (feat. Ensi)
12. No Man Curse
13. A Bocca Aperta
14. Illuminati
15. La Gatta (feat. Vacca, Primo, Nto, Amir, Bassi Maestro e Mondo Marcio) [Remix

LOU REED – L’ANIMALE DEL ROCK – recensioni di- Trasformer del 1972 e Rock & roll animal del 1974

LOU REED  – L’ANIMALE DEL ROCK  CI HA LASCIATO!    LouLou ha scelto proprio la domenica mattina ( Sunday morning) per lasciarci  “ sto cadendo, ho una sensazione che non voglio sapere, albeggia  presto, domenica mattina sono tutte quelle strade che hai attraversato”, quella domenica  del 1966 era iniziata la sua avventura con i Velvet Underground, Lou Reed uno dei  più grandi rocker degli ultimi cinquant’anni, tante volte dato per spacciato per quella vita segnata dalle droghe ma sempre rinato per l’eccessivo amore per la musica , questa volta non ce l’ha fatta , il grande chitarrista ed autore che ha influenzato  stuoli  di musicisti , ha scelto il giorno perfetto ( A perfect day ) per lasciare la sua  eredità  fatta di suoni scarni di chitarra e liriche spesso borderline. L’eroe maledetto era nato, 75 anni fa, a  New York e più precisamente in quella Coney Island  che fu fonte di tante canzoni diventate famose  e così  come la Coney Island baby  che il sabato pomeriggio si fa bella per raggiungere in metro  Manatthan, il centro del glamour, occasione per  una vita diversa anche lui cercò l’avventura con la musica ma senza percorrere strade comode ma percorrendo il lato selvaggio della strada «Walk on the Wild Side”. Un omaggio a Lou Reed e alla sua musica in bilico tra la melodia e  il rumore che ha portato  le sue liriche rock verso la poesia pura.  RIP lou Lou!  Come potete immaginare Lou Reed è sempre stato un faro nella mia formazione rock e spesso ho parlato di lui nelle pagine di www.friendsofpoplar.it  così vi ripropongo due recensioni di due pietre miliari della produzione reediana, l’album che lo ha reso universalmente conosciuto” Trasformer”  e un album dal vivo Rock& roll animal che rende bene l’idea  del personaggio.

DISCHI STORICI RIASCOLTATI PER VOI   LOU REED – TRASFORMER

  1. Vicious
  2. Andy’s Chest
  3. Perfect Day
  4. Hangin’ Round
  5. Walk on the Wild Side
  6. Make Up
  7. Satellite of Love
  8. Wagon Wheel
  9. New York Telephone Conversation
  10. I’m So Free
  11. Goodnight Ladies

Corre l’anno 1972 le nuove generazioni si sono lasciati alle spalle il movimenti hippie, i grandi ideali di “paece & love” per approdare nella frenesia del divertimento, del disimpegno, in  quello che viene indicata come l’era del rock decadente racchiuso nel motto “sesso droga e rock’n’roll”  A quel punto il rock diventa glam: sesso, ambiguità, eccessi, sfida alle convenzioni borghesi, rifiuto dei modelli dominanti, il gusto per il travestimento, l’ostentazione della bisessualità, il rock come teatralità, trucco, parrucche, abiti luccicanti di lustrini da dive anni ‘30

L’ Inghilterra è la patria del glam, Gary Glitter, Alice Cooper, Brian Ferry dei Roxy Music, Marc Bolan dei T-Rex e David Bowie reduce dal successo di Ziggy Stardust , in cui impersona un alieno androgino. E’ proprio il Duca Bianco che, affascinato ed ispirato dai Velvet Underground il gruppo più influente e importante della rock d’avanguardia,  non accetta che un talento così grande come l’ex chirarrista Lou Reed finisca nel dimenticatoio. Infatti il  primo album solista, di Lou Reed”, malgrado alcune buone canzoni, fu un flop  clamoroso. Bowie si propone di collaborare alla produzione del suo secondo album,Lou Reed non rifiuta questa opportunità e vola a Londra, subito affascinato dall’ambiguità sessuale, dalla intelligenza e dalla classe di David Bowie, tanto simile a quello di Andy Warhol. L’album che ne viene fuori “ Transformer” è da shock, rivoluzionario per il linguaggio usato, anticipa il cambiamento del costume e della morale. Già la copertina è provocatoria raffigura Lou Reed dai colori molto contrastati che sembra di assomigli ad un “Frankenstein del rock”, opera del fotografo Mick Rock mentre sul retro una doppia immagine dello stesso modello, in versione sia da travestito sexy, sia da maschio a cui infilano una banana nei pantaloni per simulare un’erezione. Pateticamente l’edizione italiana fu censurata e venne  coperto l’inguine del travestito ritratto.

Lou Reed canta le sue canzoni, accompagnandosi con la chitarra suonata con un pedale wah-wah premuto a metà ed impreziosite dai raffinati arrangiamenti di archi, fiati e delle parti di pianoforte che rendono il suono ben definito. Questo suono metropolitano coniugato benissimo con la melassa del glam ha partorito piccoli capolavori che mantengono nel tempo una freschezza incredibile  Ma riascoltiamo il disco, si parte  con “Vicious”, il cui testo fu suggerito da Warhol che gli chiese di scrivere una canzone sull’essere viziosi, lui ironicamente propose l’ambiguità, “ Vicious/ you hit me with a flower/ You do it every hour/ oh baby, you’re so vicious”. Il frustino sadomaso diventa un fiore. Assolutamente geniale anche negli arrangiamenti formati solo da un riff di chitarra distorta,  “Andy’s Chest”, una dolce canzone d’amore abbellita da splendidi cori e dedicata ad Andy Warhol che, nel 1968, rischiò di morire per mano di una folle che gli sparò nel petto. Poi parte  “Perfect Day” che esprime  la grandezza dell’opera di Reed la sublimazione di un “giorno perfetto” e lo fa con una semplicità e una poesia tali da lasciare interdetti. Sembra che l’abbia scritta per la moglie che aveva a quei tempi. Una dolce ballata arricchita da gli arrangiamenti per pianoforte e archi, una interpretazione sentita che ci dice, come può essere un giorno perfetto, senza i problemi e le angosce quotidiane. In “Hangin’Around” si mettono alla berlina coloro i quali pensano di essere trasgressivi ma sfiorano il patetico il ttuuto con un sound canzonatorio di pianoforte e chitarra. Poi parte lo swing e il famoso giro di basso di “Walk on the Wild Side”, un nostalgico ricordo dei personaggi che affollavano la Factory, il laboratorio artistico creato da Warhol, tutti alla ricerca dei 15 minuti di celebrità che non si negano a nessuno.

Ogni strofa della canzone rappresenta la vita e le caratteristiche di uno dei personaggi che affollano la New York trasgressiva, viziosa, mostrando con semplicità l’altra faccia della realtà perbenista. In “Walk On The Wild Side” si sprecano i riferimenti ad un mondo sommerso di chi vive sul lato selvaggio della strada, travestiti, prostituti, pratiche sessuali eccessive. “Make Up”, rappresenta il primo manifesto dell’orgoglio omosessuale celebrato con suoni molto melodici. Stiamo uscendo. Fuori dalle nostre tane, per le strade!  “Satellite of Love” è una ballata glam  accompagnata dalla splendida voce di Bowie, Lou Reed qui  si diverte a scherzare sulla gelosia. La base armonica è più aperta, costruita in gran parte da accordi in tonalità maggiore, e lo strumento principe è il pianoforte. C’è molto rock, invece in “Wagon Wheel”, che pare sia stata scritta da Bowie, in cui emergono i malesseri legati al suo rapporto di coppia.  “New York Telephone Conversation”, è accompagnato da un pianoforte stile belle èpoque, il testo è dedicato a Warhol a cui piace fare chiacchere e pettegolezzi. “I’m So Free” è pezzone rock tirato, in cui primeggia un bellissimo assolo di chitarra, forse il pezzo più gioioso dell’album, il testo è un inno a “Mother Nature” che in gergo è la marijuana e i suoi figli sono i consumatori.  L’album si chiude con  “Goodnight Ladies” in cui si parla di solitudine e amori finiti.  “Transformer”, ebbe una straordinaria forza: restituire fiducia e trasformare  Lou Reed da figura underground di culto in rockstar, è un album senza tempo una collana di perle scelte che lo rende un capolavoro del rock degli anni ’70.

Consiglio per chi volesse approfondire il libro di                                                Victor Bockris, Transformer – La vita di Lou Reed, Arcana Editrice, Roma, 1999, pag. 203

RIASCOLTATI PER VOI  – Lou Reed  – Rock N’ Roll  Animal ( 1974 )

  1. Tracce
  2. Intro/Sweet Jane – (Steve Hunter, Lou Reed) – 7:48
  3. Heroin – (Lou Reed) – 13:12
  4. How Do You Think It Feels – (Lou Reed) – 3:41 (*)
  5. Caroline Says I – (Lou Reed) – 4:06 (*)
  6. White Light/White Heat – (Lou Reed) – 4:55
  7. Lady Day – (Lou Reed) – 4:05
  8. Rock ‘n’ Roll – (Lou Reed) – 10:21
  9. (*) Tracce non presenti nella versione originale sul LP del 1974, inserite nella versione rimasterizzata del 2000.

 

Per recensire questo live, registrato  nel dicembre del 1973 alla “Academy of Music” di New York,  mi sono munito di una buona cuffia di quella che entrano completamente nell’orecchio che hanno una resa eccezionale, era il minimo per  l’ascolto di uno dei live più intensi della storia del rock   “Rock’n’roll  Animal”, quarto album solista di Lou Reed  uscito  dopo l’accoglienza tiepida ricevuta sia dalla critica che dal pubblico, per il concept-album  Berlin . Sul palco con Dick Wagner e Steve Hunter alle chitarre, Ray Colcord alle tastiere, Pentii Glan alla batteria e Parakash John al basso, Lou Reed dà vita ad un live memorabile, emozionante, eccitante e a tratti violento ma splendido.  Un concerto incredibile che a distanza di quasi 46 anni non ha perso la sua bellezza,  fatta di rock sanguigno,  viscerale, cinque brani ( che sono diventati 7 in questa  versione rimasterizzata che sto ascoltando) che la voce di Lou Reed e gli intrecci chitarristici hanno reso immortali.  In Rock N Roll Animal, Lou Reed  celebra e rivitalizza essenzialmente 4 brani degli ex Velvet Underground e li rende più fluidi ma nello stesso tempo più robusti musicalmente in versione live. Era il periodo della grande metamorfosi di stile, Lou Reed dapprima glam ora recitava la parte del personaggio  un po’ decadente e nichilista ma capace sul palco di offrire musica di gran classe. A questo punto non mi resta che far partire il disco che inizia con  una intro di oltre tre minuti dove le due chitarre si rincorrono e si intrecciano in un “duello ” tra Steve Hunter e Dick Wagner nell’attesa che entri il leader con il  riff inconfondibile di  “Sweet Jane”, con gli applausi che accompagnano l’entrata in scena di un Lou Reed magrissimo, con i capelli biondi cotonati e occhiali scuri, il quale si dimostra in gran forma, nonostante il suo periodo tormentato, e attacca con la voce distorta: “Standin’ on the corner, suitcase in my hand , Jack is in his corset, Jane is her vest / And me, I’m in a rock’n’roll band”. Gli assoli di chitarra si susseguono poi per tutto il pezzo con Dick & Steve che si scambiano i ruoli e fanno sentire la loro potenza, il suono mi riporta indietro di secoli e non possono non  chiudere gli occhi e dondolare la testa al ritmo della musica, una catarsi che dura oltre 7 minuti . Si continua con il tenue e delicato suono di “Heroin”, storica canzone già dei Velvet Underground che proviene direttamente dal personale inferno di Lou Reed, qui riproposta in una versione più dilatata (oltre 12 minuti ), con lunghi assoli di chitarra intervallati da tante pause, da acrobazie sonore e con la splendida voce di Reed che rende tutto ancora più magico anche quando descrive con tristezza la dipendenza da eroina  (“Don’t know just where I’m going / But I’m gonna try for the kingdom, if I can cause it makes me feel like / I’m a man / When I put a spike into my vein / And I tell you things aren’t quite the same”)“Non so proprio dove sto andando / Ma proverò per essere re, se posso farlo cosi mi fa sentire / Sono un uomo / Quando metto un ago nella mia vena / E lo dico le cose non sono più le stesse ”;  parte un organo che sembra placare lo stato d’animo, si sentono urla dal pubblico, poi sul palco, inizia nuovamente il canto di Reed, un viaggio interminabile tra i mille suoni in cui si  continuano ad alternare  suoni soffusi e violenti che terminano con una  esplosione musicale dirompente,una sorta di trance che si chiude con gli applausi del pubblico.                                                                                     “White light/White heat” è il terzo brano  dell’esperienza Velvet Underground  che parte subito con una batteria quasi ossessiva e la voce di Reed stravolta, intermezzata dalle chitarre in un rock’n’roll quasi violento che rende bene l’idea  del clima newyorkese  dei primi anni’70. (“White light / White light going messin’ up my mind / Don’t you know, it’s gonna make me go blind / White heat / White heat, it tickle me down to my toes / White light / Oh, have mercy, white light have it, goodness knows”) “Luce bianca / Luce bianca che mi rovina la mente / Non lo sai, mi renderà cieco / Calore bianco / Calore bianco, mi solleticherà fino alle dita dei piedi / Luce bianca / Oh, abbi pietà, bianco la luce ce l’ha, la bontà lo sa ”) . Poi “Lady Day”, l’unico pezzo del disco tratto da “Berlin”,  un brano che parte lento e riflessivo ma che diventa devastante  nella parte finale, direi che il brano che mi piace meno del concerto. Resta “Rock ‘n’ Roll”, ultimo brano del disco, già presente in “Loaded” dei Velvet Underground del 1970, qui acquista spessore per le continue rincorse di assoli di chitarra in cui si  alternano momenti di calma , con tastiere e leggere percussioni, ad energiche incursioni sonore.  E’ una interminabile versione  questa Rock ‘n’ Roll, con le chitarre in grande evidenza e con lo splendido assolo di basso Prakash John che conducono verso l’apoteosi finale in cui tutti gli strumenti  si scatenano in un ritmo e una potenza che non conosce uguali. Dopo aver ascoltato intensamente questi 5 piccoli gioielli  non si può non provare soddisfazione nel pensare che il disco calato nella realtà musicale degli anni ’70 sia ancora oggi capace di emozionare e di creare atmosfere appaganti. Un consiglio se vi approcciate per la 1° volta a questo disco fatelo con calma senza fretta, concedetevi 30 minuti di pausa chiudete gli occhi e gustatevi il vostro sogno rock!

Buon ascolto da JANKADJSTRUMMER

DISCOGRAFIA  ESSENZIALE

Transformer (1972)

Berlin (1973)

Rock’n’Roll Animal (1974)

Sally Can’t Dance (1974)

Street Hassle (1978)

New Sensations (1984)

New York (1989)

Songs For Drella (1990)

Magic And Loss (1992)

The Raven (2002)

RIASCOLTATI PER VOI : FRANKIE HI NGR – Verba manent – 1993 da Jankadjstrummer

 

RIASCOLTATI PER VOI : FRANKIE NI NGR – Verba manent – 1993
1.Intro
2.Faccio la mia cosa
3.Storia di molti
4.Combatto la tua idea
5.Etna
6.Disconnetti il potere
7.Omaggio, tributo, riconoscimento
8.Calma… calma…
9.Il bianco e il nero
10.Libri di sangue (versione album)
11.Pace e guerra
12.Potere alla parola
13.Fight da faida
14.Libri di sangue (radio mix)
15.Potere alla parola (release 2.1)
16.Esco
Son passati esattamente 26 anni dall’uscita di Verba manent, primo disco di Frankie NI NRG che, all’epoca, ricordo di aver ascoltato tanto e quando un amico mi ha parlato di un brano che lo aveva colpito per le tematiche trattate “ libri di sangue “, contenuto nel disco, sono stato spinto da un
desiderio irrefrenabile di riascoltare il disco che avevo registrato in “cassetta”. Partiamo dal titolo Verba Manent, una parafrasi di quel detto latino “Verba volant, scripta manent” che sta per
“le parole volano, ciò che è scritto rimane”. Qui in un gioco di parole si parla di “Verba manent”ovvero “le parole che rimangono”, nell’Intro del disco, Frankie ne spiega il motivo, dice che l’album si presenta come documento e non come disco musicale. Quando parte il primo pezzo ho una sensazione di compiere un viaggio carico di insidie in cui Frankie, senza peli sulla lingua, mi scuote, mi fa riflettere e lo fa estrema naturalezza. Francesco Di Gesù, questo è il suo vero nome, usa per esprimersi il rap che affonda le sue radici
nella cultura orale dei neri americani che diventa sia gioco musicale, blues, gospel ma anchestrumento di protesta sociale e politica. Lui riesce ad esprimere con le parole tutto ciò che ha in mente, usa metafore, figure retoriche molto incisive e non esita a dire quello che pensa. In Verba
Manent i suoi messaggi arrivano dopo aver assimilato bene ciò che descrive perchè avere la capacità di usare metafore cariche di autoironia di ogni genere e costruire rime assolute e perfette
per descrivere sempre in maniera totale il suo singolo messaggio non sempre risulta immediato, bisogna tornarci su, assaporare con calma il suo stile, per Frankie non esiste nessuna altra via che il rap per portare coraggio e voglia di cambiare alla moltitudine di giovani che lo seguono. Dicevo del
coraggio che per me è uno dei temi portanti del disco, coraggio che non riesce a venire fuori perchè bloccato da un grosso macigno che è la paura, quella che assale un po’ tutti, che limita i nostri movimenti, che non ci fa sfruttare le nostre potenzialità e che viene pure controllata da chi possiede
il potere in un pugno (Potere Alla Parola). Le tracce trattano temi che all’epoca erano pressappoco conosciuti (siamo nel 1993)e che denotano una capacità di leggere il mondo che cambia, temi come l’immigrazione clandestina obbligata da parte di chi è costretto a lasciare la propria terra per continuare a rincorrere i propri sogni; omaggi, tributi e riconoscimenti a persone a lui vicine che cancellano il sentimento d’invidia, dato che esso appartiene ad un universo troppo assurdo per essere reale, e troppo reale per essere vissuto. (STOP ALL’INVIDIA). Si parla di mafia in
“Fight da faida”, col tempo diventato uno dei cavalli di battaglia di Frankie, è una cruda quanto reale denuncia verso il sistema corrotto mosso come una qualsiasi marionetta dalla piovra mafiosa e camorristica: “è la vigilia di una rivoluzione/ alla voce del Padrino, ma don Vito Corleone oggi è
molto più vicino/ sta seduto in Parlamento! ”, il tutto accompagnato dal particolarissimo suono dello scacciapensieri. La cosa che si apprezza molto in questo lavoro è l’uso dello skit molto utilizzato dagli artisti hip-hop che consiste nel riportare all’inizio o alla fine del brano discorsi celebri fatti da
noti uomini del passato, come in “Calma… Calma…” supportata da una base musicale molto bella e da una testo che sembra scritto oggi:
“A tutti quelli che vedono nella divisione una possibile soluzione a tutti i problemi e in particolare a quelli che mascherano i propri interessi personali dietro quelli “comuni”. Indipendentemente dal fatto che siedano in Parlamento per volontà di un elettorato o semplicemente perché qualcuno più in alto di loro gli ha dato un gran calcio in culo…”.
Ma il brano del disco che fa salire l’adrenalina è Libri di sangue:
Il sound del brano è molto sobrio ed è coadiuvato dal preciso per quanto a tratti semplicistico lavoro di Dj Stile ma il testo è un pugno
nello stomaco, violento nelle sue invettive ma ha un grande pregio quello di far provare delle sensazioni “che danno da pensare” che servono come stimolo per una riflessione sulla idiozia umana che genera ogni tipo di guerra, ancora non siamo certi se si tratta del peggior istinto umano o peggio il frutto di una logica razionale ma fatto sta che in ogni angolo del modo si combatte, si muore , la canzone è preceduta da “Il bianco e nero”, che contiene un discorso contro il razzismo del presidente Sandro Pertini, e su questo concetto che si muove Frankie sviscerando l’ennesimo tema scottante in bilico tra lo sfruttamento delle donne e il razzismo, in Libri di sangue c’è anche una citazione su Rodney King,il tassista afroamericano passato alle cronache del 1991 per essere stato pestato da alcuni agenti di polizia dopo essere stato fermato per eccesso di velocità, “colpevole del crimine di esser nato nero nella buia capitale dell’impero del denaro.”
Nel brano si spazia in maniera versatile su numerosi argomenti denotando l’alto grado culturale di Frankie,tirando in ballo, la Zulu Nation (l’organizzazione dei rappers che professa l’uguaglianza tra gli
uomini, il rispetto per la madre terra, la giustizia universale, la condanna del razzismo e dell’ odio), ma anche il disprezzo per i potenti, la giustizia e tanti altri argomenti sintetizzati in modo preciso in una singolo brano.
L’album è da considerare assolutamente una pietra miliare del genere, sia perché in Italia ancora oggi è difficile trovare album di una certa caratura, con testi tanto sofisticati ma allo stesso tempo concisi. Nel lavoro di Frankie non c’è spazio per le storielle che parlano di sparatorie tra gangster,
donne facili e collane d’oro ma solo per il ritratto di una società vista sull’orlo di un inevitabile collasso, ma che può salvarsi solo con la forza dell’informazione e della parola Il disco si conclude con una frase
“mi sembra d’aver capito che tra dieci secondi avremo il silenzio”
quasi a volerci dire che il viaggio è terminato ma questo per me non è stato un viaggio dievasione ma una riflessione sulle nostre pene e sulle nostre paure.
Jankadjstrummer
Libri di sangue
C’è chi la chiama intolleranza quest’ombra che avanza, che incalza, che aumenta di potenza: figlia di arroganza e di ignoranza, ragione di vita di chi ha perso la coscienza e crede ciecamente nella supremazia di una razza sulle altre: no, non è la mia questa visione della vita,
e la partita non è vinta finché non è finita ed io l’ho appena cominciata.
Una manciata di dadi è stata tirata e la valanga di facce numerate non si è ancora fermata, non si ha il risultato: ci han provato a stabilirlo a priori chi è dentro e chi è fuori, chi è uno e chi è zero, chi è bianco e chi è nero.
Ma questa è l’opinione di una parte, non è la più importante,
è solo quella del più forte e non abbiamo scampo di fronte alla morte.
Far come il gatto e il topo non è lo scopo di questo gioco di ruolo
guidato da un master senza scrupoli, l’odio fra i popoli, i forti sui deboli;
che sono abili a crearsi alibi indimostrabili, che accampano ragioni futili ma incontestabili, che negano tutti i diritti ai propri simili
in nome di una giustizia propria degli uomini soltanto nella forma, non negli intenti: sei grosso? Ti rispetto se no calci sui denti.
Diversi nell’aspetto siamo scritti in mille lingue… ma siam libri di sangue… tutti libri di sangue…
Siamo libri di sangue, volumi di storia futura, diversa cultura ma identica natura: è inutile negarlo, questi sono i fatti, il prologo e l’epilogo uguali per tutti: farabutti, politici corrotti, uomini dotti, mafiosi, poliziotti;
non c’è spazio per nessuna distinzione, siam tutti membri di una stessa nazione ZULU.
E quando un uomo è nudo è nudo e nessuno può dire se quest’uomo sia buono o cattivo, figurati se importa poi come si vesta: una bestia in divisa resta una bestia, chiamata a tutelare i diritti di chi?
È successo a brother Rodney King, colpevole del crimine di esser nato nero nella buia capitale dell’impero del denaro.
Colpo su colpo, battuto come un polpo, legato, incaprettato e trascinato per lo scalpo documentato,
l’hanno filmato, pagine d’odio scritte sul selciato,
vergate col sangue di un uomo innocente, impotente,
che con quei bastardi no c’entrava niente,
ma cara gente quotidianamente, succede anche in Italia,
ma non si sente.
Lentamente, inesorabilmente la sabbia del tempo ricopre la mente.
Ogni giorno d’ogni mese d’ogni anno
in tutto il mondo la violenza comanda le azioni di uomini e nazioni:
sesso, razza, religioni,
non mancano occasioni per odiare,
ma dobbiamo ricordare che siamo libri di sangue.. tutti libri di sangue…
Pagine e pagine e pagine di sentimenti, emozioni, decisioni, ripensamenti:
fitte pagine scritte, anime trafitte dal dolore di vedersi diversi, 
costretti a inscenare una farsa perversa in questo universo
di sole comparse percorso dall’odio
o fingi o sei perso!
No, mi rifiuto di accettare questa logica contorta di chi non vuole amare
ma vuole giudicare dalla copertina una persona:
seduti in poltrona
individui come questi governano il mondo
e lo sfondo si riempie di morte e sconforto,
il rapporto s’incrina: inevitabilmente discendiamola china.
Già lunga è la lista di ottusi soprusi ma più passa il tempo più crescon gli abusi su
donne umiliate dai capi d’azienda sei “brava” c’hai il posto,
se no alzi le tende!
Su uomini nati lontano, troppo a sud per tendergli la mano:
carcasse fumanti sui campi di sole,
migliaia di gole gonfie di parole di dolore,
spine nel cuore di quelli che vedon marcire i propri fratelli,
popoli usati come merce di scambio:
mi oppongo. A patti non scendo con questa realtà
e non mi va… e non mi va… e non mi va che “patibolo” sia il titolo del nuovo capitolo che stiamo
per scrivere:
forza, capitelo!
Usiamo più il cuore e un po’ meno le spranghe,
perché siam libri di sangue…

 

FIGHT DA FAIDA
Padre contro figlio / fratello su fratello / partoriti in un avello /come carne da macello / uomini con anime /sottili come lamine /taglienti come il crimine /rabbiosi oltre ogni limite /eroi senza una terra
che combattono una guerra /tra la mafia e la camorra /Sodoma e Gomorra /Napoli e Palermo succursali dell’inferno /divorate dall’interno / in eterno /da un tessuto tumorale /di natura criminale e mentre il mondo sta a guardare /muto senza intervenire . Basta alla guerra fra famiglie fomentata
dalle voglie /di una moglie colle doglie /che oggi dà la vita ai figli /e domani gliela toglie rami spogli dalle foglie /che lei taglia come paglia /e nessuno se la piglia: è la vigilia , di una rivoluzione /alla voce del Padrino /ma don Vito Corleone /oggi è molto più vicino: sta seduto in Parlamento. E’il momento /di sferrare un’offensiva /terminale decisiva /radicale distruttiva oggi uniti
più di prima alle cosche /fosche attitudini losche /mantenute dalle tasse /alimentate dalle tasche: basta una busta /nella tasca giusta /in quest’Italia così laida /you gotta fight da faida! you gotta fight
da faida! you gotta fight da faida! you gotta fight da faida! Sud non ti fare castrare /dal potere criminale /che ti vuole fermare: guastagli la festa /abbassagli la cresta /guarda la sua testa /rotolare nella cesta . Libera la mente da ogni assurdo pregiudizio: è l’inizio della fine del supplizio che da
secoli ti domina /ti ingoia e ti rivomita /potere di quei demoni che noi chiamiamo uomini /che uccidono altri uomini /che sfruttano noi giovani /che tagliano le ali agli angeli più deboli /Potere che soggioga /potere della droga /potere di uno Stato /che di tutto se ne frega: strage di Bologna Ustica
Gladio /cumuli di scheletri ammassati in un armadio Odio il tuo seme germoglia nella terra /fecondato dal sangue della guerra e la camorra indomita ricca e strafottente /continua ad uccidere la
gente /Tombe ecatombe /esplosioni di bombe /raffiche di mitra falcidia di bande /Cosenza Potenza /carne morta in partenza /consacrata alla violenza /senza opporre resistenza Alpi Salento /un solo movimento: pugni sul sistema /pretendiamo un cambiamento; ridateci la terra /basta con la
guerra. Dalla strada l’intifada you gotta fight da faida! you gotta fight da faida! you gotta fight da
faida! you gotta fight da faida!
Tri tri tri setti fimmini e un tarì u’ tarì ch’è pocu pocu setti fimmini e
u’baccocu /u’ baccocu è duci duci /setti fimmini e la nuci e la nuci è dura dura setti fimmini e la
mula e la mula avi li denti /setti fimmini e u’ serpenti e u’ serpenti è avvilinatu setti fimmini e u’
granato e u’ granato è a coccia /a coccia setti fimmini e la boccia e la boccia è sciddicusa setti
fimmini e la busa e la busa è fina fina /setti fimmini e l’antrina e l’antrina ecca acqua setti fimmini e
la vacca e la vacca avi li corna setti fimmini e la donna /e la donna scinni i’ scali /setti fimmini e u’
rrinali e u’ rrinali è tunnu tunnu /setti fimmini e lu munnu e lu munnu è tri tri tri setti fimmini e un
tarì / you gotta fight da faida!
you gotta fight da faida! you gotta fight da faida! you gotta
fight…fight…fight…

RIASCOLTATI PER VOI – King Crimson – In The Court Of Crimson King

 

RIASCOLTATI PER VOI  –  King Crimson – In The Court Of Crimson King

in the court

In The Court Of The Crimson King” è il capolavoro assoluto del progressive rock inglese, l’album d’esordio diventato subito una pietra miliare del genere. Capolavoro già dalla copertina affidata all’artista Barry Goodberg morto giovanissimo dopo un anno dalla pubblicazione. Raffigura  idealmente l’uomo schizoide  del XXI° secolo che urla la sua follia. Siamo nel  1969, un periodo in cui sulla scena britannica sono già fioriti gruppi progressive quali i Genesis, gli YES e i Pink Floyd. Siamo in piena era progressive, genere musicale influenzato molto dal jazz e dalla  musica classica Il genio di Robert Fripp unito alla sua prima formazione, guidata dal paroliere  Peter Sinfield, sfornano con cura queste cinque tracce, incatenate tra di loro, nel tentativo di creare un classico “concept album “.

Il filo conduttore dell’album sta nella ricerca del suono che viene fatta con puntigliosità, quindi ogni nota è studiata, ponderata per dare il risultato migliore, originalità a tutti i costi che porta a risultati veramente grandiosi. Una delle novità di questo suono è dato dall’utilizzo del mellotron, una sorta di sintetizzatore, che sarà usato anche dai Pink Floyd, con cui si riproducono elettronicamente suoni simili a quelli degli archi e dei cori. E’ grazie anche a questo strumento che Fripp e soci riescono ad aprire la musica rock alle melodie e al ventaglio di possibilità che la musica classica, il jazz, e l’elettronica riescono a dare. L’inizio dell’album è qualcosa di travolgente : La voce distorta di Greg Lake, futuro leader degli Emerson, Lake & Palmer, mette un tassello del puzzle con  “21th Century Schizoid Man” un brano  aggressivo, una esplosione di suoni che mette alle corde l’ascoltatore con la sua progressione musicale. Un inizio disarmante, una composizione frenetica, ma allo stesso tempo melodica, che si incastra alla perfezione con la seconda traccia dell’album: “I Talk To The Wind” in cui i toni sono più dolci, l’atmosfera è eterea, sognante, il flauto di Ian McDonald che si fonde con la tranquillità della voce di Lake, poi l’umore cambia immediatamente resta la melodia ma si è colpiti dalla triste “Epitaph” con un testo ancora una volta pregno di pessimismo e di malinconia.Vi propongo qui, il testo tradotto per  rendere l’idea dello stato d’animo e dell’intensità lirica.

Il muro su cui scrivono i profeti
Si sta rompendo le cuciture
Sotto gli strumenti della morte
La luce del sole splende raggiante
Quando ogni uomo è fatto a pezzi
Con gli incubi e con i sogni
Nessuno toglierà la corona di foglie di lauro?
Mentre il silenzio sommerge le urla

Tra i cancelli di ferro del destino
Venivano seminati i semi del tempo
e annaffiati dalle scritture di coloro

Che conoscono e che sono conosciuti
La conoscenza è un amico mortale
Quando nessuno imposta le regole
Il destino di ogni tipo di uomo che vedo
E’ nelle mani degli stupidi

La confusione sarà il mio epitaffio
Mentre striscio per un sentiero crepato e sfasciato
Se ce la facciamo possiamo sederci tutti
E ridere
Ma ho paura che domani starò piangendo
Si, ho paura che domani starò piangendo

Il lato B del disco comincia con Moonchild, la traccia più lunga dell’album pregna di psichedalia e di minimalismo. La prima parte, cantata, è una breve ballata accompagnata dall’arpeggio della chitarra di Fripp unito alle percussioni di Mike Giles; mentre la seconda parte è una sperimentazione, una improvvisazione pura e semplice  che potrebbe essere il preludio alla musica elettronica ambient . Siamo in attesa dell’epilogo, si sta per entrare alla corte del Re Cremisi, ad annunciare c’è il suono del Mellotron che incalza sulla voce di Lake coadiuvata dal un coro ossessivo, pungente, bellissimo l’assolo di flauto di Ian McDonald. C’è molta teatralità in questo pezzo e tutto è impreziosito, arricchito da toni  di barocco, componenti principali e strutturali del progressive rock.. Il finale è epico, è il giusto epilogo di un viaggio che suggella non soltanto la title-track, ma lascia stupiti per tutto ciò che il viaggio che abbiamo intrapreso con questo album ha saputo comunicarci. Questo è un album rivoluzionario, riascoltarlo oggi, a 50 anni dalla sua uscita, sembra che abbia già detto tutto ciò che la musica poteva dire, si spazia dal classicismo all’avanguardia con dei modelli nuovi, originali  capaci di durare nel tempo.  “In The Court Of The Crimson King”, è il manifesto del rock progressivo, è un’opera ricca di creatività, geniale, straripante di idee, che apre gli orizzonti nascosti e che conduce in terre inesplorate: un faro imprescindibile per tutti quelli che intraprendono un viaggio nel grande oceano del rock.

Buon ascolto o riascolto da Jankadjstrummer

Riascoltati per voi – Talking Heads Remain in light 1980 di Jankadjstrummer

Riascoltati per voi – Talking Heads  Remain in light 1980  di Jankadjstrummer

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Qualche settimana fa, in pizzeria, un giovane collega di lavoro mi ha chiesto lumi sui Talking Heads: voleva consigliato l’album più rappresentativo, gli ho risposto che, senza dubbio, era Remain in light del 1980 ma che rappresentava, però, il culmine della ispirazione di David Byrne e compagni perché preceduto dai primi 3 album parimenti straordinari ed intensi.

L’esordio dal titolo “77”, poi “More Songs About Building And Foods”  quindi “Fear Of Music” in cui sono presenti tracce evidenti di world-music, percorso che in seguito David Byrne percorrerà come solista. Ho ripescato il disco, lo faccio partire, e mi immergo in un paesaggio irreale, immaginario, che ricorda le opere di quegli artisti di strada, i cd Writers che usano bombolette spray colorate, spruzzi buttati apparentemente a caso, colori vivacissimi fanno da base per un  disegno che viene fuori solo alla fine,  un sermone che proviene dalla voce calda di Byrne, un ritmo incalzante e irregolare, il suono del basso di Tina Weymouth  che fa da tappeto ad un funky contaminato, questa la mia prima impressione, a distanza di anni, nell’ascolto di “Born Under Punches”: molti hanno usato l’immagine della giungla per descrivere questo brano e forse è vero , ma credo che  per i Talking Heads contava l’effetto sull’ascoltatore e i ritmi inquietanti del pezzo in questione sembrano proprio volerlo ipnotizzare e guidare in un viaggio insidioso ed ossessivo.

In “Crossoved and painless” il ritmo sale molto, riff smorzati di chitarra, il basso in primo piano, i cori rendono il brano coinvolgente, un vero e proprio invito alla danza. Il ritmo sale ancora con “The great curve” grazie a percussioni e a cori di matrice tribale. La famosa “Once in a lifetime”, a questo punto, risulta la sola canzone orecchiabile dell’intero album, dialoghi di basso e batteria in cui si insinua la voce di Byrne con un ritornello che la rende una hit indimenticabile.

Lo stato di trance ritorna in “House in motion”, canzone apparentemente tranquilla, con i ritmi in sottofondo che catturano suoni e cinguettii di uccelli meccanici, i barriti della tromba di Jon Hassell e la voce prima dolce e poi rabbiosa di Byrne che incantano. Anche in “Seen and not seen”,continua la magia, la voce è recitata e sembra quasi provenire da un santone predicatore.”Listening Wind” è una ballata, Byrne canta come all’interno di un rituale,  dando sfoggio di intensità interpretativa grazie anche ad atmosfere di paesi lontani e di autentica poesia. La conclusiva “The Overload” è forse la traccia che più sorprende, vibrazioni tenebrose che ricordano i Joy Division, ne fanno una rarefatta ballata dark, una nenia di un culto primitivo sconosciuto, un lugubre sigillo  di questo incredibile viaggio.

I Talking Heads, attivi dagli anni ’70 hanno vissuto nella New york delle avanguardie musicali ed artistiche ne hanno assimilato i fermenti. Credo che il rapporto con Brian Eno abbia condizionato positivamente la loro musica, “Remain in Light” è un tentativo di utilizzare gli strumenti del rock, alla ricerca della fonte della musica quali sono il ritmo e le vibrazione, alla ricerca della mitica Africa. i Talking Heads si tengono ben lontani dallo scadere nell’antropologia da dilettanti, al contrario, “Remain in Light” è un album che anticipa l’interesse per i suoni etnici, quelli veri, che saranno poi scoperti in tutti gli anni ’80. Vorrei segnalare la sfilza di artisti che hanno collaborato al disco che lo rendono un lavoro corale : Adrian Belew alla chitarra; Brian Eno al basso, tastiera, percussioni, coro;  Jon Hassell – tromba in Houses in Motion ; Nona Hendryx – coro e  Robert Palmer – percussioni.

Un invito all’ascolto o al riascolto attento dell’album, mi ringrazierete!

 

Discografia

  • 1977 – Talking Heads: 77
  • 1978 – More Songs About Buildings and Food
  • 1979 – Fear of Music
  • 1980 – Remain in Light
  • 1982 – The Name of This Band Is Talking Heads live
  • 1983 – Speaking in Tongues
  • 1984 – Stop Making Sense live
  • 1985 – Little Creatures
  • 1986 – True Stories
  • 1988 – Naked

RIASCOLTATI PER VOI – BAUHAUS – IN THE FLAT FIELD

 

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RIASCOLTATI PER VOI  – BAUHAUS  –  IN THE FLAT FIELD  

 

  1. Dark Entries 
  2. Double Dare 
  3. In The Flat Field 
  4. God In An Alcove 
  5. Dive 
  6. Spy In The Cab
  7. Small Talk Stinks 
  8. St. Vitus Dance 
  9. Stigmata Martyr 
  10. Nerves

Ieri mentre riordinavo il mio archivio musicale MP3 mi sono imbattuto in un album storico che mi ha riportato indietro di quasi 40 anni, il magnifico “In the flat field” dei Bauhaus pubblicato nel 1980. Si tratta del loro primo album ufficiale, anche se bisogna dire che il gruppo aveva già raggiunto una certa notorietà con un EP che includeva la funerea “Bela Lugosi’s Dead” che diventò un inno del gothic rock, un omaggio all’attore Bela Lugosi famoso per aver interpretato tante volte il vampiro Dracula, personaggio che influenzò tanto l’attore da divenirne schiavo.                                                              Il nome Bauhaus è ispirato al movimento architettonico/ artistico della Germania degli anni ’20, il nucleo storico della band è composta dal chitarrista Daniel ASH, dai fratelli Haskins batteria e basso, e da Peter Murphy cantante e portavoce del gruppo.                                                                    Ma veniamo rapidamente al disco che si presenta di “rottura” già dalla copertina, una bella foto in bianco e nero di un corpo nudo maschile che pare suoni una trombetta celestiale su un fondo nero. Ma quando parte l’introduzione e il primo brano “Double Dare” si capisce subito che stiamo varcando la porta degli inferi, la batteria che va a circolo su un riff di chitarra un po’ distorto mentre la lugubre voce di Murphy diventa al tempo stesso glamour e rabbiosa, da qui forse la doppia sfida del titolo.  Parte il pezzo omonimo In the flat field è si è investiti da una frenetica batteria e da un basso ipnotico mentre le chitarre diventano velenose e producono un atmosfera quasi da trip psichedelico. La voce triste di Murphy urla un testo che da l’idea della sua paranoia esistenziale (“I do get bored, I get bored In the flat field” ), della paura di non farcela (“Find me out this labyrinth place”) e della voglia di rigare dritto (Assist me to walk away in sin, Transfer me to that solid plain). God in an alcove è un altro pezzo tirato in cui è ben in evidenza il basso che accompagna la chitarra agitata e frenetica di Ash, anche qui la voce di Murphy è libera e senza freno spazia da toni epici cantati di gran classe ad urla lancinanti e a toni funerei, “We’re going down to the kamikazi dive Like insects in a Chinese lantern now “ sto precipitando in basso a testa in giù come un insetto che cade in una lanterna cinese è una dichiarazione di sconfitta in chiaro spirito punk. Questi primi 4 pezzi sono veramente tosti, una sequenza allucinante che fu riproposta nel loro concerto al Tenax di Firenze dei primi anni 80 che mi impressionò, sembrava si essere ad un sabba sacrificale in cui gli adepti perfettamente abbigliati in nero con tuniche e visi marcatamente truccati con matita nera e fondotinta bianco seguivano le scorribande schizzoidi di Murphy. Nel prosieguo del disco i toni si attenuano, si scivola verso un sound malinconico e dalle atmosfere rarefatte in cui l’accostamento con i Joy Divicion diventa più marcato; Spy in the cab rappresenta il vero stile dark, una canzone che riferisce di una strada che conduce alla pazzia attraverso l’ossessione di essere sempre spiati da un Grande Fratello. Small talk stinks, è il pezzo piu banale dell’album, forse quello più commerciale, una chitarra semplice ed accattivante che però non riesce a trasmettere nulla mentre si ritorna ai ritmi iniziali con il brano St.Vitus Dance chitarre distorte e batteria persistente riescono a  creare atmosfere insolite ed originali, anche qui la voce ha un ruolo determinante nella economia del brano gli da un glam che ricorda il migliore Iggy Pop. La location di Stigmata Martyr potrebbe essere una chiesa sconsacrata in stile gotico dove vengono compiuti sacrifici e consegnati doni al diavolo, qui il basso ti avvolge e la voce diventa di nuovo terrificante mentre la chitarra tesse una danza evocativa, qui Murphy diventa sacrilego ed evoca immagini della Passione di Cristo e recita una preghiera in latino che diventa in questa circostanza parecchio macabra. (“In nomine patri et filii et spiriti sanctum”) Il disco si chiude con Nerves che rappresenta la ciliegina sulla torta, si tratta di un pezzo quasi improvvisato con note a casaccio, rumori metallici e rintocchi da funerale che suggellano il marchio Bauhaus. Anche qui, in primo piano, l’eclettismo e la presenza scenica di Murphy riescono a creare uno stile ripreso da uno stuolo di gruppi della scena dark. Un finale ai limiti della schizofrenia in cui è ben chiaro lo spirito trasgressivo del gruppo dove la drammaticità delle composizioni diventa motivo di teatralità. Devo dire senza ombra di dubbio che riscoltare questo album è stato un salto all’indietro verso un periodo in cui il post-punk e il dark erano radicati in tantissimi giovani che avevano oltrepassato la stagione degli impeti giovanili dettati dal punk più viscerale. Si tratta di un disco essenziale per capire il fenomeno perché è una esplosione, un vulcano in eruzione che ha condotto la musica rock verso un flat field.

Buon ascolto o riascolto da jankadjstrummer