“Emma” di Jane Austen

“Una mente vivace e tranquilla sa accontentarsi di non vedere nulla, e sa non vedere nulla che non la interessi.”


Emma Woodhouse è bella, ricca e intelligente. Vive con un padre anziano che si crede perennemente malato, ha tanti nipoti che ama, vive nella sua bella tenuta da padrona incontrastata e ha tutto per essere felice. Per questo si è convinta di avere fiuto per combinare matrimoni, attribuendosi il merito delle nozze della sua istitutrice, la signorina Taylor, con l’eccellente signor Weston. E vuole riprovarci, intessendo i fili di quella rete in cui spera che il signor Elton, il vicario di Highbury, cada insieme alla sua nuova protégé Harriet, una ragazza che oltre la bellezza e all’ingenuità può vantare ben poche altre qualità. A nulla valgono le proteste del vecchio amico di famiglia, il signor Knightley, l’unico che non vede solo le perfezioni di Emma, ma anche il suo lato capriccioso e spesso troppo presuntuoso. E mentre per lei si spera un matrimonio con il figliastro della signora Weston, l’arrivo stesso del giovane Frank Churchill porta una ventata di novità per tutto il paese.

"Emma" di Jane Austen

“Emma” di Jane Austen

In questo romanzo Jane Austen non ci parla solo della sua inconsueta protagonista, ma ci illustra la vita di una comunità campagnola quale può essere quella di Highbury, con i suoi pregi e suoi difetti. Non scenari nobiliari, non misteri da risolvere nel ben noto stile gotico dell’epoca in cui scriveva, ma un paese di campagna alle prese con una vita spesso senza troppi eventi di rilievo. Una società varia e ben assortita. C’é Jane Fairfax,per esempio, una ragazza coetanea di Emma, ma poco apprezzata da quest’ultima forse perché l’altra ha pregi e meriti che lei non vuole coltivare; oppure la mitica e loquace signorina Bates, fin troppo ingenua e benevola per poterla odiare e che incanta il lettore con i suoi discorsi inconcludenti e pieni di fronzoli. Non manca la superba presenza della moglie del reverendo, la signora Elton, che racchiude tutto ciò che è gretto e poco raffinato e che crea un contrasto molto netto con il carattere ingenuo e semplice della bella Harriet.

Tanti personaggi le cui vite si intersecano all’insaputa di molti, protagonista compresa. Perché Emma, alla fine, dovrà fare i conti con i suoi errori e le sue sbagliate convinzioni, il vero e unico nemico che si ritroverà davanti.

“Emma” è sicuramente il personaggio meno amato, almeno all’inizio, fra quelli di Jane Austen. Lei stessa pensava che difficilmente qualcuno avrebbe amato la sua eroina a parte lei. Le sue altre protagoniste sono spigliate, ma modeste, spesso vivono in contesti che mortificano le loro virtù e devono risolvere anche altri aspetti prima di dirsi felici; Emma no, invece. Lei è consapevole delle sue capacità e spesso le sopravvaluta, portando il lettore a trovarla troppo impicciona e frettolosa. Non un’eroina, insomma, ma che si muove fra le vite altrui spinta da buone intenzioni lasciando una scia di “prime impressioni” negativa.
L’Austen, però, ci insegna che bisogna andare oltre e alla fine il lettore scopre che Emma ha un’intelligenza viva e si scopre essere solo vittima dei suoi stessi sentimenti, resi ciechi dalla convinzione di essere un buon giudice per gli altri.

3708b776b32412aee1c77c18fb5c2f98 (1)

Gwyneth Paltrow e Jeremy Northam in “Emma” (1996)

In queste settimane nei cinema c’è la nuova versione di “Emma”, ma io mi sento di consigliare agli appassionati e non, la versione del 1996 del regista Douglas McGrath con Gwyneth Paltrow e Jeremy Notham: un film ben riuscito, con un ottimo cast.

I libri di Jane Austen, scopro sempre con più rammarico, sono spesso disprezzati dalla componente maschile dei lettori che, immagino, pensano di approcciarsi a una letteratura femminile. Che grande sbaglio! Molti, ne sono sicura, apprezzerebbero lo stile ironico di quella che è, indubbiamente, la mia scrittrice preferita: Jane è per tutti, o meglio, per tutti quelli che vanno al di là dei pregiudizi. E lei, in materia, è maestra.
Buona lettura.

“Il Maestro dei morti” di Yannick Roch

“Scopri i trucchi dell’illusionista e la magia non esiste più.”
(Richard Bach)


Nella Parigi degli anni trenta lo studio investigativo di Renard e Tortue si prepara a indagare sulla scomparsa di Géraldine Lathune, moglie del famoso editore parigino. Una signora dalle idee liberali, che sembra interessata alla vita notturna della capitale e ritenuta stravagante rispetto alla rigida esistenza conservatrice del marito. Eppure Géraldine sente attorno a sé una gabbia, forse dorata, ma le cui sbarre la soffocano.

“Sono invisibile. Fantasma in questo
castello dove nessuno ode le mie grida e dove le mie lacrime sono dello stesso colore dell’aria. Il re e i principini non mi vedono perché non capiscono chi io sia: credono di vedermi, credono.”

Durante le ricerche i due investigatori scoprono, infatti, che per le vie parigine un evento ha catturato l’attenzione di molti: è lo spettacolo di Larnac, il Maestro dei morti, un illusionista che intrattiene il suo pubblico tramite le arti occulte. Può la scomparsa di Geraldine essere collegata a questo misterioso evento a cui si partecipa solo se si risolvono degli enigmi?

E quale filo collega un annoiata signora dell’alta borghesia alle scomparse nei bassifondi della capitale?

41xNS+QdTwL

“Il Maestro dei morti” di Yannick Roch

Il Maestro dei morti” di Yannick Roch (Les Flâneurs Edizioni) ci restituisce l’immagine di una Parigi superba a cavallo tra le due Guerre Mondiali. Una città dove il bene e l’occulto si sfidano reclamando adepti e rendendo l’illusione molto simile alla realtà.
Una scrittura schietta quella di Roch che fa calare il lettore nelle rue parigine per assistere i due investigatori sulle tracce del fatiscente Maestro dei morti. Chi si cela dietro all’individuo che sembra aver destato gli annoiati abitanti della borghesia perbenista di Parigi?

Un giallo, ma anche l’istantanea di una città capace di ammaliare e celare, che mette in evidenza come l’animo umano possieda sfaccettature che nemmeno il lusso può soddisfare.

“La storia ci insegna che quando qualcuno si annoia, è spinto ad agire nel modo sbagliato, pensando di attirare l’attenzione su di sé o di voler infrangere quelle regole, sociali o religiose che siano, che sembrano limitare la propria libertà”

Una fotografia di una città del passato, una ricostruzione che ci restituisce la bella capitale francese prima del secondo conflitto mondiale; una scrittura dettagliata degli usi e costumi che attingevano ancora i propri tentacoli alla superba e vicina Belle Époque.
Le ombre, tuttavia, sono le stesse che si annidano nei cuori della gente anche oggi. Perché nessuno sembra soddisfatto di ciò che ha: una mera illusione che da sempre seduce l’uomo, facendogli scordare il fascino del bene.

“La signora di Wildfell Hall” di Anne Brontë

Fare un buon matrimonio era una necessità per le donne della buona società inglese, e non solo, dell’ottocento. Che si cercasse un titolo, denaro o solo di non rimanere zitelle, poco importava. Che la scelta risultasse azzeccata dopo il fatidico “sì” era altra storia.

Nella letteratura ottocentesca si fa spesso cenno ai matrimoni di interesse che rendono la vita degli interessati molto difficili. Come per Helen che sceglie di scappare dal marito, Arthur Huntingdon, per cercare di sottrarre dalla sua influenza la vita del giovane figlio. Ritirandosi a vita privata, spacciandosi per la vedova Graham, Helen cerca di riprendersi quella vita che ha sperperato giustificando i vizi e le nefandezze del marito. Non sarà semplice, però, non incontrare ostacoli. Quello che non ha messo in conto è che gli imprevisti hanno spesso le fattezze e l’intelligenza di giovani ragazzi. L’incontro con Gilbert Markham, infatti, e la sintonia che si viene a creare fra i due, destabilizza non solo la donna, ma anche la società della zona.

"La signora di Wildfell Hall"

“La signora di Wildfell Hall”

La signora di Wildfell Hall” è il secondo romanzo epistolare scritto da Anne Brontë e presenta due punti di vista nella narrazione: la prima parte è affidata a Gilbert nel presente, la seconda ad Helen che, attraverso un diario, ci riferisce del suo passato.
Questo romanzo pone l’accento sulla condizione delle donne in seno alla famiglia natia e poi in quella propria. Si evince in tutto il testo la forte influenza religiosa dell’autrice (il padre delle Brontë era un vicario) che rende anche la protagonista una fervente credente.
Quello che colpisce in queste pagine è lo spirito di sopportazione e sacrificio a cui Helen si sottopone in quanto donna e moglie, credendo in suo dovere accettare una sorte che si è scelta a occhi aperti pensando di salvare l’anima del marito.

“Ma se odio i peccati amo il peccatore e mi impegnerei per la sua redenzione.”

Le sorelle Brontë hanno tutte prodotto capolavori della letteratura inglese e anche Anne non smentisce questo talento che sembra sopperire alla vita piena di difficoltà che le ragazze hanno sopportato. Una scrittura incalzante, mai eccessiva o pesante; una storia che incuriosisce e indigna, soprattutto per chi è nato ai giorni nostri.

Ma soprattutto lascia in interrogativo: può l’amore renderci schiavi e ciechi davanti ai vizi del nostro partner? Sicuramente no, ma Anne Brontë credeva forse che bisogna credere nella buona fede dell’altro. Amore e sopportazione, dunque, ma anche fiducia.

Continua a leggere

“Grazie dei ricordi” di Cecilia Ahern

UNA STORIA AL DI LÀ DEL VELO DELLA GRIGIA REALTÀ’


Tutto ha una spiegazione. Sempre.
Si ha quasi l’impressione che la realtà abbia pareti così spesse da non permettere a nulla di scalfirla. Nulla che sia il risultato di coincidenze o fantasia. Ma non è sempre così.

Lo sa bene Joyce che di punto in bianco acquisisce doti che prima non aveva. Conosce benissimo l’architettura, per esempio, parla lingue mai studiate e, soprattutto, ha ricordi che non le appartengono. Eppure lei non avrebbe tempo per certe cose. In pochi giorni ha subito una grande perdita e ha messo fine al suo matrimonio. Cosa sono, allora, questi ricordi che le mostrano persone mai viste prima?
Justin, invece, non ha nulla di diverso dal solito: vorrebbe avere il controllo della sua vita andata a pezzi, ma cerca di andare avanti fra le sue lezioni di architettura e arte che tiene sporadicamente a Dublino. Una vita normale, insomma… ma allora perché appena ha visto la prima volta Joyce ha sentito dentro una piccola scossa, come se la conoscesse? E perché ogni volta che la incrocia avverte che anche lei sente un legame con lui?

87455257_409549746562864_8741477217344684032_n

“Grazie dei ricordi” di Cecilia Ahern

Quella di “Grazie dei ricordi” di Cecilia Ahern è una storia che sfida le normali nozioni della medicina e si avventura, audacemente ma senza osare troppo, in una sfera senza regole. Perché tutto ruota intorno a una trasfusione di sangue che Justin ha fatto e che Joyce ha ricevuto: è da quel momento che due perfetti sconosciuti entrano in relazione a loro insaputa.

Una storia, questa, che non ha spiegazioni infarcite di paroloni scientifiche. Non ce n’è bisogno: il dono della Ahern è sempre quello di raccontare i sentimenti al limite del sopranaturale. Nelle sue storie non c’è mai nulla di troppo esagerato o impossibile da concepire. La sua “magia” è intrinseca nel quotidiano, è fatta di quelle piccole scintille che tutti, prima o poi, avvertono intorno a se, pur non potendosi dire protagonisti di qualcosa di irreale.
Chi ha già amato “P.S I love you”, “Scrivimi ancora”, “Il dono” e i suoi altri bei romanzi non rimarrà deluso da questo racconto che mostra la fragilità dei rapporti con i genitori ed esalta l’amicizia e i legami fraterni. in queste pagine c’è la versione dei sentimenti che più amo: quelli imperfetti, impetuosi ma fragili.

Cecilia Ahern racconta il quotidiano di persone che riescono a vedere la luce in fondo al tunnel e ci sparge sopra la mitica polvere delle fate che secondo Peter Pan fa volare. Basta crederci. Basta aggrapparsi a un pensiero felice.
E Joyce e Justin ci credono.

Buona lettura.

“Volevo i pantaloni” di Lara Cardella

“E, in un certo senso, questo è il lato umano della mia gente: sicuramente non hai la libertà di agire, ma non hai neppure la libertà e il diritto di crepare da solo.”


Sicilia. Anna, appena quindicenne, sembra essere fuori dal coro rispetto alle sue coetanee, che sognano il principe azzurro. Lei vuole i pantaloni, e non solo nel senso astratto che può avere questo desiderio. Vorrebbe davvero indossare quel capo di abbigliamento di prerogativa prettamente maschile o al più delle “puttane”.

La sua non è una vita semplice.
Vive in un contesto, non solo familiare, dove la donna non ha molta libertà, dove ogni mossa è studiata dal vicinato per essere argomento di pettegolezzo, dove ogni passo falso ti disonora. Anna non gode di nessuna considerazione nella propria famiglia e perde quel poco che ha quando, decisa a voler trasgredire per arrivare ai tanto agognati pantaloni, inizia a frequentare Angelina. Una scelta che le farà perdere l’ultimo rimasuglio di libertà di cui dispone e che la porterà a dover affrontare un vecchio timore che a che fare con uno zio e la sua dubbia moralità.

"Volevo i pantaloni" di Lara Cardella

“Volevo i pantaloni” di Lara Cardella

Volevo i pantaloni“, di Lara Cardella, è un libro che ho conosciuto solo dopo aver visto, anni fa, il film interpretato da Giulia Fossà, per la regia di Maurizio Ponzi. Ero giovanissima all’epoca, ma mi colpì la storia che c’era dietro a quel desiderio che io non capivo, perché indossavo i pantaloni come tante altre coetanee senza vederci nulla di straordinario. Ci sono voluti anni per capire davvero bene il significato della storia, quel bisogno di essere uguali agli uomini a partire dalle cose semplice.
Tutto il racconto della Cardella è incentrata sul divario che c’è fra le donne e gli uomini nel suo paese, dove basta essere il primogenito, maschio per giunta, per usufruire di privilegi che gli altri fratelli non avranno mai.
Una mentalità non solo da imputare a certi luoghi e a certe epoche, perché la si ritrovava ovunque fino a vent’anni fa nei piccoli centri, dove tutti conoscono tutti, dove l’onore si misura attraverso le chiacchiere che la gente ti tira addosso.

Questo romanzo, parzialmente biografico, affronta temi delicati come l’adolescenza, l’amore, la famiglia, ma esplora anche altri argomenti di cui in passato si cercava di sorvolare, accettati come normalità. Anna, la protagonista, ci racconta la violenza fra le mura domestiche, la mancata libertà delle donne, i taciti consensi su situazioni sessuali che oggi nessuno accetterebbe. Il tutto affrontato con la semplicità di una mente intelligente che non abusa di descrizioni inutili, che fa parlare la storia attraverso la verità che sta dietro alla finzione.

Perché portare i pantaloni è un’ideale a cui non tutte le donne non sono giunte, perse fra le violenze di una mentalità maschilista che le voleva mute e obbedienti.

Da leggere assolutamente.

“La ragazza di nome Giulio” di Milena Milani

“Non ero più una ragazza viva, sbagliata magari, ma viva. Non sentivo più come negli anni precedenti i desideri, gli impulsi, un odore, un colore, una forma”

"La ragazza di nome Giulio" di Milena Milani

“La ragazza di nome Giulio” di Milena Milani

Jules è una ragazza diversa dalle altre, con un nome maschile che descrive a tratti la sua originalità.

Ciò che però davvero la distingue è il suo modo di vivere, di fare esperienze, di provare a conoscere quelle sensazioni che, pure, non pensava esistessero. Come l’iniziazione al piacere sessuale saffico con Lia, la cameriera, o i baci rubati ad Amerigo, il fidanzato di una sua coetanea. Non solo: c’è la scoperta del proprio corpo, quel piacere che sembra non riesca a trovare altrove; ci sono incontri fugaci con persone che non conosce, a cui lei si approccia seguendo un sordo richiamo che non sa come gestire. Perché non si sente soddisfatta, perché nessuno può capirla. Nemmeno Lorenzo, il fidanzato storico conosciuto quando era appena una bambina, ma che sembra voler mantenere il proposito di sposarla a ogni costo: un ragazzo serio, che vuole rispettarla fino al matrimonio.

Non sarebbe una storia dai tratti originali ai giorni nostri, ma la particolarità del romanzo “La ragazza di nome Giulio” di Milena Milani, è racchiusa nell’anno della sua pubblicazione: 1964, a opera della Longanesi. Fu uno scandalo. Le tematiche legate alla sessualità di una ragazza nel periodo a cavallo fra le due guerre mondiali procurò una condanna a sei mesi di reclusione per l’autrice, che tuttavia venne prosciolta.

Un libro molto moderno, un tema che oggi siamo abituati a vedere e a leggere con molta semplicità, ma che era ancora tabù appena trent’anni addietro. In queste pagine il peccato cerca conforto nella sacralità della preghiera a opera di un’adolescente che sente i richiami del proprio corpo e non riesce a conciliare ciò che vorrebbe con ciò che è giusto fare o pensare.

“Che cos’è il vizio, se non l’abitudine di peccare, acquistata col commettere spesso il medesimo peccato?”

Jules si scontra e si misura con la voglia di trovare la pace dei sensi, di sfidare una società che era ancora chiusa entro mentalismi abbastanza ipocriti se si considera che, sottobanco, molte trasgressioni avvenivano lo stesso.

Un libro davvero interessante, una prospettiva diversa con la quale affrontare un periodo storico che conosciamo solo attraverso gli eventi bellici.

“Per dieci minuti” di Chiara Gamberale

DIECI MINUTI PER PROVARE A CAMBIARE


“Per un mese, a partire da subito, per dieci minuti al giorno, faccia una cosa che non ha mai fatto”

Chiara ha perso, quasi nello stesso periodo, una casa, un marito e il lavoro. Chiunque si ritroverebbe sperduto nella nuova vita che deve affrontare e anche per lei è lo stesso. Il dolore per l’abbandono, il disappunto per l’allontanamento da un luogo di ricordi e la delusione di essere stata sostituita sono un grosso macigno che lei, giovane scrittrice, cerca di togliersi di dosso. Non è facile: i ricordi, l’amore, la convinzione di aver visto giusto nella sue scelte bisogna affrontarli con un nuovo metodo. Perciò, seguendo il consiglio della sua terapista, Chiara affronta il gioco dei “dieci minuti”: un esperimento, una prova, un salto nel buio. Perché, per dieci minuti, per un mese, lei dovrà fare qualcosa che non ha mai fatto.

"Per dieci minuti" di Chiara Gamberale

“Per dieci minuti” di Chiara Gamberale

Così Chiara affronta la sua nuova vita cercando, ogni giorno, qualcosa che non avrebbe mai pensato di fare e poco importa se sia dipingere le unghie di un colore per lei improbabile, o cercare di imparare a ricambiare o semplicemente decidersi a leggere Harry Potter. L’importante è mettersi in gioco, affrontare la nuova realtà fatta di quei cambiamenti che hanno distrutto il suo cuore.
E un gioco, seppur con premesse e conclusioni per lo più positive, può aiutare chi ha deciso che la vera felicità è dietro di sé, con i suoi alti e bassi? E bastano davvero dieci minuti per risolvere tutti i problemi?

Il libro di Chiara Gamberale, intitolato per l’appunto “Per dieci minuti” non può definirsi una guida, un vademecum, o un consiglio di vita. O forse sì. Credo che dipenda molto dal modo in cui di legge fra le righe. Perché non occorre aver perso il lavoro, o l’amore della propria vita, per mettersi in gioco e scoprire quanto di bello ci circonda, pur non essendo di nostro gusto. I dieci minuti della Gamberale non apportano mai alla protagonista uno stravolgimento della propria esistenza, ma è come se raddrizzassero il tiro, mostrando cosa ci perdiamo quando pensiamo che tutto è scontato, o peggio, perfetto.

“Evidentemente i posti, proprio come le persone, si accendono e rivelano di essere al mondo non solo perché c’è spazio, ma perché hanno un senso, solo quando siamo disponibili a capirlo. Quando abbiamo bisogno di loro.”

Questo libro mi è piaciuto. Mi ha mostrato un nuovo approccio verso le cose, mi ha “svegliata” in un certo senso. Ho provato a chiedermi: “cosa farei io, che non ho mai fatto, per dieci minuti?”. E ciò mi ha dato modo di pensare che sono infinite le risposte, così come sono infinite le cose che non ho mai fatto e dovrei, sì dovrei!, provare. Cose speciali, cose, però, anche quotidiane. Magari quelle stesse che qualcuno, per amore, abitudine, per egoismo o per praticità, non ci ha mai fatto fare.

“Quando fanno qualcosa per noi, gli altri ci consegnano o in realtà ci tolgono un’occasione?”

Lasciatevi catturare dalle giornate di questa Chiara che condivide il nome dell’autrice, lasciatevi ammaliare dalla possibilità di non dare per scontato nulla. Ripeto, non è una guida, ma può essere lo stesso un’ispirazione.
Leggetelo, anche solo per dieci minuti.

“Il mare in base al vento” di Valentina Perrone

Scegliere la strada da seguire, come si fa con il mare in base al vento.


“Per vivere in maniera autentica serve coraggio.”

La vita è spesso molto meno prevedibile di quello che si pensa. Ci si abbandona a essa convinti di dirigere magistralmente i fili del destino. Un po’ come Silvia, la protagonista del romanzo di Valentina Perrone, “Il mare in base al vento” edito dalla Casa Editrice Kimerik.

download (2)

“Il mare in base al vento” di Valentina Perrone

Siamo a Lecce, la capitale del Barocco dello splendido sud. Silvia lavora fra i libri, vive serenamente con i genitori e ha la fortuna di avere Marco, l’amico di sempre, pronto a vivere con lei gioie e dolori.
Poi un giorno, tutto cambia e si mette in discussione. L’arrivo di Carlo, della sua vita, del suo fascino, porta Silvia a cambiare la propria vita, ad andare incontro al mare che cambia in base al vento, come il titolo suggerisce. E ci vuole coraggio per buttarsi dentro una storia che appare complicata. Perché Carlo ha un passato che preme sul presente in maniera decisiva.

Se serve coraggio, però, per affrontare le gioie inaspettate della vita, quanto ne serve, invece, per lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare? La vita è spesso più complessa di come ce la immaginiamo e Silvia si ritroverà ben presto a ricominciare tutto daccapo, riprendendo fra le mani quei fili lasciati in balia del vento.

Valentina Perrone ci parla, in questo romanzo, della bellezza di affidarsi completamente a qualcuno che amiamo, portandoci dietro la paura di sbagliare. Non esistono scelte giuste o sbagliate, difficile stabilire delle regole che valgono per tutte. Silvia, la protagonista, lo sa. Lo sa dentro le ossa, dentro i muscoli, dentro le vene. Perché ha amato, si è fidata, perché ha saputo donarsi senza avere paura del salto che tiene tutti sull’orlo dei burroni. Ci fa sempre paura l’abisso, anche se abbiamo le ali per superarlo.

“L’amore e l’odio sono le facce della stessa medaglie, ma opposte.”

“Il mare in base al vento” è un libro che parla dell’amore, ma non solo quello che ci lega a un’altra persona. Fra queste pagine è forte la voglia di rivalsa di chi è stato lasciato solo a leccarsi le ferite, di chi pensa che nella vita ci sia posto anche per chi ha dovuto dire addio a chi ha amato.
Non tutte le principesse soffrono perché nessuno le ha salvate: Silvia non aspetterà che ci sia un cavaliere dall’armatura splendente che sconfigga per lei il drago.

Questo romanzo ha i contorni forti dei sentimenti veri, quelli che respingiamo perché ci rendono fragili e, in apparenza, deboli. Ci si immerge nella bella Lecce, nel calore che la bella città pugliese emana nel suo forte abbraccio. È un libro che parla d’amore, ma nella sua forma più estesa, quella che raggiunge la famiglia, gli amici, ma soprattutto se stessi.
Perché se è vero che l’amore per gli altri vince su tutto, bisogna non scordarsi che amarsi un po’ di più è la vera soluzione a tutti i nostri problemi. Sono gli altri a essere il motivo che ci porta a essere migliori, ma siamo noi che dobbiamo volerci bene per primi.

Buona lettura.

“Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

WhatsApp Image 2019-10-17 at 11.57.54“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.”

È il 1860, siamo nella bella Sicilia che accoglie, seppur non unanime, lo sbarco dei famosi “mille” guidati da Garibaldi. Questo è il clima con cui si apre uno dei libri divenuti capolavori nello scenario della letteratura italiana: “Il Gattopardo“, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Protagonista indiscusso di queste pagine, don Fabrizio, principe di Salina, l’ultimo fiero baluardo della casata di cui il Gattopardo è il simbolo. Un animale fiero, bellissimo, regale, destinato a essere travolto dall’ondata di modernità che l’unità porta con sé, nella scia di cambiamenti che devono avvenire, come profetizza l’amato nipote Tancredi, affinché nulla cambi.

200px-Tomasi_di_Lampedusa_COA

Stemma di famiglia dei Tomasi

“Noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.”

E don Fabrizio si piega al nuovo regime per conservare ciò che è, uomo di mondo amante della matematica e delle stelle, amante di ciò che è radicato nelle viscere di quella terra che tanto dominatori stanno portando via alla sua gente. Protagonista, ma anche spettatore della vita altrui, del nascere della relazione fra suo nipote e la bella Angelica: un’unione passionale, ma giusta, che unisce ciò che è tradizione e ciò che è modernità. Sullo sfondo, personaggi minori, ma non meno importanti. Come padre Pirrone, la coscienza religiosa, per certi versi, del principe; l’ingenua moglie Maria Stella, quasi chiusa in un mondo effimero che ruota intorno al marito; e infine Concetta, la figlia che incarna il vero carattere dei Salina, colei che pur amando Tancredi sarà messa da parte sia dalle scelte passionali del giovane sia dai calcoli del padre.

Un libro, questo, che racconta una coralità vista dagli occhi di un principe che non vorrebbe vivere proprio in quegli anni di cambiamento, che vorrebbe che nulla cambiasse ma che si deve piegare per sopravvivere. Don Fabrizio è il cuore del libro, il suo sguardo si posa su ciò che umile e ciò che è nobile con lo stesso amore, con la stessa forza. È lui l’ultimo vero Gattopardo e ne è amaramente consapevole:

“Il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era l’ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie”

Giuseppe Tomasi di Lampedusa ci regala uno scorcio di Sicilia sublime, intatta, vera. Una Terra che vorrebbe dormire, dice il principe Fabrizio, un popolo fiero che pensa di essere simile agli Dei. I personaggi che popolano o si affacciano fra queste pagine sono lontani dall’essere perfetti, dall’essere esempi di virtù. Il lettore però li può ammirare, può scorgere nelle imperfezioni delle persone vere, gli ultimi attori di un mondo che sta cambiando.

Nel 1963 Luchino Visconti ci regalerà il film tratto dal libro, con attori come Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon: un lavoro superbo, che ha fatto sognare intere generazioni.Locandina-il-gattopardo

Un libro, quindi, che parla della guerra ma vista da lontano, che glorifica anche l’amore opportunista ai danni di quello genuino; un racconto che mette l’accento su questioni legate all’appartenenza a una terra fiera e bella qual è la Sicilia. Pagine che parlano anche del rimpianto, delle scelte sbagliate che cambiano le esistenze: tutto sotto lo stemma araldico di un felino che, regale, guarda il mondo con la stessa fierezza che aveva reso grandi i Salina.

Recensione “Omicidi in si minore” di Davide Bottiglieri

Cosa attanaglia l’anima di una persona? Il dolore, l’amore o la perdita?


“La paura è un grido, il terrore è un sussurro.”(Anonimo)

Anche l’ispettore Ljudevit Alecsandri è diventato un sussurro in bocca di chi vede in lui un’entità del maligno, un essere superiore dotato dell’ingegno di scovare il male per punirlo. E’ lui il protagonista delle pagine di “Omicidi in si minore” di Davide Bottiglieri, edito per Les Flâneurs Edizioni.

51PP6B7a+hL._SX355_BO1,204,203,200_

“Omicidi in si minore” di Davide Bottiglieri

Siamo nel cuore della Transilvania, alle fine del diciottesimo secolo.
Cluj è una cittadina imperversata da strani omicidi che non hanno nulla di consueto, che sembrano voler essere una sfida per il giovane ispettore Alecsandri, abile agente del Plotone, corpo scelto di polizia. Un’ombra nera, un fantasma che semina la morte lasciando indizi, beffeggiando chi lo insegue, preparandosi a colpire ancora.
Un susseguirsi di eventi e di equivoci sembrano designare il Male in persona come l’artefice della scia di sangue che mette in subbuglio una città che pone le sue fondamenta fra occulto e religione.
Personaggi dalle personalità forti, capaci di influenzare e districare i fili della matassa che ruotano intorno agli eventi, come la bella Helena o come Edward Gordon Wordswarth.

“Non è forse la verità una bugia perfetta?”

Basterà il senso di giustizia dell’ispettore Alecsandri per tenere a bada la parte nera della sua stessa anima, la parte brutale che graffia per emergere e inseguire a sua volta il colpevole? E chi si cela dietro al terrore che danza intorno al male?

Questo romanzo è stata una piacevole sorpresa, una lettura capace di catturare fin dalle prime pagine. Lo stile dell’autore è incalzante, mai pesante, sempre coinvolgente.
La trama è ben architettata, non lascia scampo, ti prende e ti imbroglia per mostrarti alla fine lo spiraglio della verità, quando ormai è troppo tardi.
Le pagine di questo libro sono il frutto di un lavoro certosino, di un’abilità di fotografare un’epoca lontana come se il lettore potesse davvero vedere tutto quanto. A tratti si ha l’impressione di contemplare un quadro dai colori cupi, dall’atmosfera sferzata dal vento gelido dell’inverno in cui avvengono i fatti.

L’autore lascia indizi, illude chi legge di poter seguire la scia di elementi che il suo protagonista raccoglie pagina dopo pagina. Le Sacre Scritture infervorano il protagonista, la musica scandisce il ritmo della storia stessa, la sua evoluzione, il suo dispiego.

E’ davvero un bel libro, che dimostra l’abilità dell’autore nel creare una storia valida, credibile, forte. Si mostra la fragile anima umana alle prese con la paura, con la perdita, con il terrore.
Lasciatevi guidare dalle note di un romanzo fresco, ma maturo, fermandovi sull’orlo di quell’abisso su cui è in bilico il protagonista ma che riguarda tutto il genere umano: la sua lotta fra ciò che è giusto e ciò che è lecito, fra perdizione e salvezza.
Buona lettura.