249. Fame guerra e computer: una mappa dell’assurdo

I link  proposti in fondo a questo post sono il risultato di una semplice e veloce ricerca che nasce da due domande anch’esse semplici, e che mi pongo da moltissimo tempo.
“Perché ci sono ancora nel mondo esseri umani che muoiono di fame, nonostante esistano da anni e anni istituzioni e associazioni e governi e chiese e persone che si occupano della risoluzione di questo problema?”
“Perché c’è ancora la guerra, nonostante ci siano istituzioni associazioni governi chiese persone che la condannino e lavorino per la pace da anni e anni?”
Queste domande mi si sono fatte più urgenti notando la velocità della distribuzione capillare dei computer dagli anni ’70 del  Novecento in poi. Sono state impiegate immani risorse economiche, umane e di tempo affinché nel mondo avvenisse la rivoluzione digitale.
Evidentemente la diffusione dei computer è stata considerata fondamentale, improcrastinabile, importante, vitale, mentre far finire le guerre e la fame no.

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_computer#:~:text=Nel%201833%20Charles%20Babbage%20(1791,mai%20realizzato%20un%20prototipo%20completo.

“Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole” dice Dante , aggiungendo “e più non dimandare”. Non vorrei mancargli di rispetto proprio nel VII centenario della sua morte, ma il “dimandare” a chi può realizzare ciò che vuole, diventa invece maggiormente impellente nel maggior trascorrere del tempo e nell’evidenza che là dove si puote ciò che si vuole – cioè dalle parti dei ‘potenti’ della terra, ché non sempre si parla di Dio dalle nostre parti terrene – non sembra proprio interessare la risoluzione della fame e delle guerre nel mondo.
E anche se accettiamo – e come non potremmo 🙂 – la sostanziale differenza rilevata da Tommaso D’Aquino tra l’immediatezza e la libertà dell’azione divina -dovuta all’identificazione della Volontà e della Potenza in Dio -, e il Tempo necessario invece  all’essere umano per realizzare i suoi progetti, direi che, comunque, come esseri umani ne abbiamo avuto di tempo per far finire queste vergognose piaghe nel mondo.
E, allora, perché no? Perché esistono ancora?
Perché non si vuole farle finire?

So che le domande poste in questo modo semplice semplice potrebbero suscitare ironici sorrisi, rimandi ad Alice nel Paese delle Meraviglie e via di questo passo canzonatorio sarcastico e irridente, come avessi scoperto adesso l’acqua calda.
Ma non ho scoperto adesso l’acqua calda.
E.
Trovo fondamentale porre le domande in modo semplice semplice, a mo’ di bambin*, a mo’ di marzian* appena sces* sulla terra e che delle strategie terrestri non sa nulla, a mo’ di quel suggerimento  con cui il Matteo evangelico dice “il vostro parlare sia sì sì o no no”.
Ci si capisce meglio, è una cosa di cui sono convinta fin da quando, piccolissima, ascoltavo i discorsi delle donne che si riunivano in piazzetta, intente ai ‘lavori femminili’ e alle chiacchiere spropositate sul mondo intero, complicando anche una semplice espressione come ‘buongiorno’. Non che gli uomini fossero da meno, come poi ho avuto modo di scoprire, ma io all’epoca avevo l’opportunità di ascoltare solo le donne 🙂
Insomma, andando avanti per ‘sì sì o no no’, la storia si fa semplice. Intendo anche la Storia. Immagino i libri di storia scritti secondo questo criterio, immagino frantumarsi tutte le spiegazioni di “cause ed effetti”, ché poi sono sempre spiegazioni verticali, gerarchiche e autoriferite a chi ha la possibilità di scrivere la storia, cioè di porgere-scegliere i ‘fatti’.  Difficilmente si trovano spiegazioni ‘orizzontali, inclusive, sistemiche’ dei ‘fatti’.
I ‘fatti’ narrati così come mi piacerebbe, perderebbero la loro assolutezza e si presenterebbero come punti di intersezione, incontri, punti di passaggio e la loro lettura così fatta permetterebbe un’apertura di significati che interpellerebbero in modo significativo le responsabilità degli attori e dei partecipanti agli eventi, molto di più di quanto non si faccia presentando l’evento in modo isolato. E riulterebbe molto più chiaramente che ‘attori e partecipanti’ degli eventi siamo tutti.
Ci pensarono già gli storici dell’École des Annales -nata  alla fine degli anni Venti del Novecento -ad ampliare il campo di vedute, e questo tipo di storiografia ha aiutato ad allargare la visione e la lettura dei ‘fatti’, ma non è penetrato moltissimo tra i comuni mortali e si nota addirittura un ritorno a raccontare  quell’ ‘événement’ da cui gli storici dell’École avevano voluto prendere le distanze per parlare invece di trame e intersezioni.
Ricordo in questo senso il mirabile intervento che Alex Zanotelli fece ad Assisi al Cortile di Francesco del 2019, che quell’anno aveva il titolo “In_contro. Comunità, popoli, nazioni”. Padre Zanotelli fu capace di tessere una trama interpretativa di intersezioni e incontri/scontri, rilevare punti di una rete molto diffusa di ‘fatti’ da mettere in connessione. Il suo intervento si trova facilmente in rete.

https://www.treccani.it/enciclopedia/annales_res-0492eef2-1d24-11de-bb24-0016357eee51/

https://it.wikipedia.org/wiki/Nouvelle_Histoire

Paragono da tempo la rapida diffusione del personal computer con l’ottuso torpido svogliato svolgersi del cammino che istituzioni associazioni chiese singoli esseri umani ecc. fanno per far finire le piaghe nel mondo.
Se immaginiamo un video con una mappa che comprenda i dati di fame e guerre e diffusione dei computer nel mondo e che diacronicamente si evolva e aggiorni, vedremmo bene la velocità con cui si è diffuso il computer nel mondo. Immaginiamolo questo video, su!
Non ce l’ho con l’informatizzazione, la digitalizzazione, i pc, i grossi computer, non è questo il senso del post.
Il senso è “cosa si vuole dove si può realizzare quello che si vuole?”.
E la risposta o le risposte sono inquietanti. Nemmeno tanto originali o nuove. Ed è proprio il loro essere obsolete e ripetute e identiche nel tempo che lascia stupefatti.
Ed è anche inutile cambiare narrazione storica, perché un bimbo che muore di fame o di guerra è un bimbo che muore di fame o di guerra, e solo e proprio questo dovrebbe essere detto. Prima ancora che ‘vittima di un sistema economico aberrante’, prima ancora di ‘effetto collaterale’, prima ancora di diventare ‘un caso, una classificazione, un effetto di’, è un essere umano che muore di fame o per una guerra.
Qui ci dovremmo fermare. E tremare. E correre ai ripari.
Ma poi, lo sappiamo bene dentro di noi, si tratterebbe di mettere in discussione qualcosina di questo nostro mondo senza apparente e fisica fame e senza apparente e fisica guerra, e allora … quei mondi dove si muore di fame e di guerra sono così lontani dal nostro ‘voglio e posso ciò che voglio’, apparente beninteso per noi comuni mortali, ma in sintonia con chi più di noi ‘vuole e può ciò che vuole’.

Eccoci, dunque, disegnati dentro mappe costruite da altri, felici di starci, pronti a commuoverci e partecipare a beneficenze collettive, a fare marce, incontri, a fare di tutto.
Pur di non fare nulla realmente e in pratica.
Fa sempre piacere stupirci per le ingiustizie nel mondo, per la follia dei potenti, per un disegno divino dalla cui comprensione siamo esclusi, per gli atti di un destino che ci sovrasta … sì, è un piacere assolverci.

Ma. E. Considerando che.
Nel nostro mondo abbiamo una certa capacità a concettualizzare dicotomizzando.
Abbiamo analogico e digitale.
Abbiamo guerra e pace.
Ma non abbiamo una parola che si opponga a fame se ne parlo come problema a livello planetario. Sul piano personale abbiamo fame e sazietà; ma … e … dobbiamo usare locuzioni, non abbiamo costruito una parola, una sola, ( e quindi un pensiero e un’azione correlati ad essa) per dire l’assenza di fame nel mondo.
E fame è prima di guerra e di computer.
E, ancor prima, è una vergogna che se ne possa ancora morire.

Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole.
Dov’è il nostro personale singolo dis-crepante “colà”?

 

https://www.esteri.it/mae/doc/calendariogiornata_alimentazione.pdf

http://augustoperexpo.blogspot.com/2015/01/organizzazioni-per-la-lotta-contro-la.html

https://www.papafrancesco.net/elenco-delle-principali-associazioni-volonariato-sociale-umanitario/

http://www.fao.org/3/i1065i/i1065i02.pdf

https://it.wfp.org/organizzazioni-non-governative

https://www.azionecontrolafame.it/chi-siamo/acf-international

https://it.wikipedia.org/wiki/Movimento_per_la_lotta_contro_la_fame_nel_mondo

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/corunum/documents/rc_pc_corunum_doc_04101996_world-hunger_it.html

https://www.greenbiz.it/green-management/marketing-e-comunicazione/csr/11871-10-aziende-impegnate-contro-fame-nel-mondo

https://www.actionaid.it/ambiti-intervento/disuguaglianze-globali

http://www.giovaniemissione.it/teologia-della-missione/633/fame-nel-mondo-pontificio-consiglio-cor-unum/

https://www.orizzontipolitici.it/la-fao-food-and-agriculture-organization/

https://www.cocopa.it/images/documenti/alimentare/Progetto_UE.pdf

 

 

https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_mondiale_per_la_pace_e_i_diritti_fondamentali_dell%27uomo_e_dei_popoli

https://www.assemblea.emr.it/europedirect/pace-e-diritti/archivio/servizi/documentazione/la-pace-in-rete-link-utili/link-dal-mondo-europeo-e-dalla-cooperazione/link-dal-mondo-europeo-e-dalla-cooperazione/repertorio-sulla-pace-e-risoluzione-dei-conflitti

https://www.onuitalia.it/sdg/pace-giustizia-e-istituzioni-forti/

https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/comunicazione/sostenibile/doc/PROGETTI/UniVolontariato/quarta_edizione_aa2017-2018/campo_lucia_def.pdf

https://www.skuola.net/diritto/onu-organizzazioni-internazionali-pace.html

http://www.arpalazio.net/sviluppo_sostenibile/pagina.php?id_sezione=1&idSottoSezione=2&idRecord=26

 

Non allego nessuna mappa.
Facciamola da noi.
Facciamola del nostro cuore.
Facciamola della nostra visione del mondo.
Facciamola del nostro “colà”.

 

248. Dolcissimo e Potente Inverno

Dolcissimo e Potente Inverno.
Essenziale come il respiro e il battito del cuore.
Il tempo del non-oltre, pur guardando l’orizzonte.
Fermati, dice l’Inverno.
E’ un Padre che si siede e dice ‘ti ascolto’, è una Madre che ti abbraccia e ti sussurra melodie nel cuore.
La natura riduce i suoni. Un apparente silenzio che invita a sentire nuovi suoni, inconsueti rumori, sussurri, frullii che altre stagioni più vocianti coprono.
La natura riduce i colori e le forme per permettere di vedere ascoltare sentire. Un’uniformità apparente di toni pacati che invita a distinguere sfumature, pennellate, varietà inaspettate.
I verdi scuri delle piante sempreverdi.
I bordeaux dei rovi.
L’arancio del vinco.
I marroni scuri e chiari e pastosi e intensi dei tronchi, dei rami, dei canneti.
I verdi delle erbe che crescono in inverno e coprono alcuni prati.
Il giallo senape o il verde acido o il grigio-verde di alcuni licheni che coprono i tronchi.
Il verde scuro e morbido del  muschio che cresce sui tronchi nella parte rivolta a Nord.
Il grigio latteo della nebbia che a volte è leggera, un tulle di velo di sposa e il mondo appare e scompare con grazia ed eleganza – come forse intravede il futuro la sposa nel giorno del suo matrimonio-; altre volte è una coltre che tutto copre ed avvolge, facendolo apparire solo avvicinandosi: la nebbia,  Maestra dell’attenzione, Guida dello sguardo accorto e premuroso.
La neve bianca adagiata a coprire di fertilità la terra: “sotto la neve pane, sotto la pioggia fame”, dicevano i nonni, che sapevano prevedere il tempo meteorologico del posto in cui vivevano guardando il loro cielo, il volo degli uccelli e tanti altri piccoli e grandi segnali che venivano dalla natura; in ogni stagione.
Come non amarti Padre Inverno, Madre in Gestazione, Protettore dell’Essenza e del Silenzio? Come non sentirti arrivare fino alle cellule, con le tue autorevoli mani di instancabile Creatore e Patriarca e Sacerdote dell’Inestinguibile Fuoco della Vita? Come non abbracciarti, mentre ci inviti a vedere e ricordare ciò che ci fa esistere, scrostando il nostro cuore dal superfluo?
Ti chiamano ‘La brutta stagione’, ‘la cattiva stagione’, guardandoti sempre dal nostro personale punto di vista, dal nostro interesse, dal nostro guadagno, dal nostro godimento.
Ti hanno chiamato Generale Inverno perché ti hanno visto severo e forse crudele nei tuoi metodi di insegnamento, ti hanno paragonato alla vecchiaia e alla morte, tu, che invece sei Maestro Signore Origine e Ragione di tutto ciò che verrà, Responsabile dei Semi che cresceranno e delle Gemme che sbocceranno. Ti dichiarano pericoloso, ma lo diventi quando organizziamo i nostri stili di vita senza rispettare i tempi e i modi della Natura, di cui noi come ogni filo d’erba ogni ape ogni nuvola facciamo parte.
Dolcissimo e potente Inverno, nudo Artefice di Felicità, Architetto e Fattore  della nuova Luce che allunga i giorni, instancabile Saggio e Artista dell’Essenza, Tu, più di ogni altra stagione insegni il Fondamento e la Sostanza.
Grazie.
Dolcissimo e Potente Inverno, cammino tra le tue sferzate di vento e di pioggia battente, lascio orme sulla neve che vengono subito cancellate da altra neve, mi muovo nel silenzio di boschi e sentieri che gli animali hanno lasciato per proteggersi ripararsi e riposare, perché non è la sfida con te ciò che dovevamo fare, ma lasciarci prendere per mano e seguire le tue possenti e vigorose orme per apprendere la ‘sopra-vivenza’, parola e concetto che alla sua origine non significava arrancare e arrangiarsi e scampare, ma “vivere sopra” cioè più intensamente e più a lungo. Nel tuo Regno silente e rigoroso è probabilmente nata questa parola, col suo originario significato vitale e meraviglioso di imparare – proprio nel tuo Regno dell’Essenziale – l’intensità e la durata e la qualità.
Grazie Padre premuroso, grazie Madre dolcissima.

Pieter-Brueghel-il-Giovane-La-trappola-per-uccelli-particolare

Unknown

🙂

giacconemappa

247. i have a dream, anch’io

Incanto.
Inverno nudo come un’anima che sta per nascere.
Piccoli sentieri d’acqua scivolano sui vetri e lasciano scie trasparenti, sono lenti sfocate che difformano il cielo, i rami nudi, l’orizzonte. Così come fanno le lacrime.

Prodigio.
Lampi di luce secca di tramontana illuminano le piccole cime delle curve dei rami, tracciando il percorso di un mutevole campionato per gli occhi, una gara che è vinta da chiunque si posi a guardare senza tempo.

Meraviglia.
La trama dei rami scuri risalta sul cielo latteo, un disegno di stradine e di bivi, di ricciuti cammini che sono foreste nel cielo. Trovarsi e perdersi in un quadro in bianco e nero, una mappa momentanea che varia al soffiare impetuoso del vento.

Mi abbraccio.
Il miracolo dell’inverno è ridursi all’osso, allo stremo, alla fine delle risorse di cibo. Così è nella natura. Anche nel cuore, a volte. Tutto è essenza e fondamento.

Riflessioni.
Torna un sogno. I have a dream, anch’io.
Eccolo.
Ci sono i potenti della terra, usciti dai loro palazzi, scesi dai loro balconi, senza bagagli, con il solo abito che indossano. Con sé portano una sedia di legno, semplice, essenziale come il silenzio che sembra diventato adesso il motore dei loro passi solerti. Vanno, i potenti della terra. Vanno in mezzo alle macerie delle città della Siria, insieme ai bambini dai vestiti laceri, sporchi di terra e impolverati come il tempo impolvera la vita di quegli  anziani che si riempiono di amarezza, i piccoli corpi malnutriti, i loro occhi stupiti e tristi. Vanno in mezzo a loro i potenti della terra, e si siedono sulle briciole dei mattoni, di ciò che resta di case, di vite, di sogni. E aspettano. Sfidano chi, tra i potenti, è ancora deciso a fare guerre, sfidano a buttare bombe proprio lì, dove si sono seduti . Sfidano di persona, in silenzio: le parole cadono inutili, rotolano come ciottoli e arrivano ai fiumi e al mare per rigenerarsi.
Il vocabolario del silenzio … lo immagino, lo sfoglio, apprendo migliaia di silenzi …

Lasciateci in silenzio.
Li immagino i potenti, spostarsi ognuno con la propria sedia ogni giorno più usurata e consunta ma arricchita di giustizia, spostarsi dove vengono distrutte le foreste, sedersi davanti alle macchine che tagliano alberi e erbe e diversità, e farsi alberi e erbe e diversità, e vedere se la loro presenza – non le loro parole- fermerà la devastazione.
Li immagino seduti nei villaggi poveri del mondo, li immagino seduti dove si muore di fame.
E li immagino seduti nelle vetrine dei negozi, seduti nei rutilanti centri commerciali, seduti nel vuoto dell’abbondanza superflua e aspettare di venire acquistati anch’essi, i potenti, ridotti a merce come tanti esseri umani lo sono nei più svariati modi.
Li immagino seduti nelle chiese di ogni religione, li immagino seduti nelle scuole, negli ospizi, negli ospedali.
Li immagino a prendere dal mondo ciò che con la loro responsabilità hanno messo nel mondo, e non nei paradisi dorati di cui si servono.
Una semplice sedia, e passi che li portino dovunque ci sia qualcosa qualcuno da rendere umano.
I potenti che si sono fatti inverno, ramo nudo, anima ed esperienza.

E’ inverno, lo specchio più limpido dell’anima nuda che sta per nascere, il ventre della gestazione più pura, il seno più generoso che non nega a nessuno la rara goccia di latte rimasta. A nessuno.
E’ l’inverno che si fa presenza silenziosa, condivisione di esperienze, trama di relazioni tra profondità ed estensioni.
Inverno, scuro e protettivo involucro del più lucente diamante, del più raro e prezioso seme, come ognuno di noi è in ogni attimo della vita.

Incanto.
Prodigio.
Meraviglia.

https://www.youtube.com/watch?v=_DJzcEYWXSg

https://www.youtube.com/watch?v=gD4mpyEHiFo

 

246. percorsi

traduco il sole
in gocce
di sangue
conosco
una lingua luminosa

consegno la luna
alla mia linfa
si svela
una lingua oscura

sottovoce ricordo le ombre
che fugarono i dubbi

assolvo ogni malvagità
giocando con la sabbia
a creare forme umane
che si sciolgono all’onde

a voce alta
conto le foglie di un ciliegio
rosso e verde
come una bandiera
che non ha confini

disegno orme trasparenti
sul sentiero muto del presente

le parole assorte e silenti
scrivono col fuoco
sillabe azzurre
che scavano solchi muti
tracce impresse nel cuore

sussurro la lingua dell’Eden
giardino di delizie
parole come fiori

a piccoli voli
torno alla mia casa
sono seme e pianta
della mia primavera

29 aprile 2018

PARADISO TERRESTRELEONARDO BELLINI, Paradiso Terestre (nel Mappamondo di Fra’ Mauro, 1450 c., angolo in basso a destra del quadrato in cui è inscritto  il cerchio del planisfero)

 

 

 

 

245. Marguerite Yourcenar “I 33 nomi di Dio. Tentativo di un diario senza data e senza pronome personale”

1. Mare al mattino
2. Rumore dalla sorgente nelle rocce sulle pareti di pietra
3. Vento di mare a notte su un’isola
4. Ape
5. Volo triangolare dei cigni
6. Agnello appena nato bell’ariete pecora
7. Il tenero muso della vacca il muso selvaggio del toro
8. Il muso paziente del bue
9. La fiamma rossa nel focolare
10. Il cammello zoppo che attraversò la grande città affollata andando verso la morte

11. L’erba (l’odore dell’erba)
12. (Disegno suo, come tanti asterischi, stelline)
13. La buona terra La sabbia e la cenere
14. L’airone che ha atteso tutta la notte, intirizzito, e che trova di che placare la sua fame all’aurora
15. Il piccolo pesce che agonizza nella gola dell’airone
16. La mano che entra in contatto con le cose
17. La pelle – tutta la superficie del corpo
18. Lo sguardo e quello che guarda
19. Le nove porte della percezione
20. Il torso umano

21. Il suono di una viola o di un lauto indigeno
22. Un sorso di una bevanda fredda o calda
23. Il pane
24. I fiori che spuntano dalla terra a primavera
25. Sonno in un letto
26. Un cieco che canta e un bambino invalido
27. Cavallo che corre libero
28. La donna – dei – cani
29. I cammelli che si abbeverano con i loro piccoli nel difficile wadi
30. Sole nascente sopra un lago ancora mezzo ghiacciato
31. Il lampo silenzioso Il tuono fragoroso
32. Il silenzio fra due amici
33. La voce che viene da est, entra dall’orecchio destro e insegna un canto

(Scritto il 22 marzo 1982 e pubblicato nel 1986. In Italia nel 2003, edizioni Bompiani, traduzione di Ginevra Bompiani)

Ecco, e questa è una delle volte che so di essere in buona compagnia. Perché non bastano tutti i nomi del mondo per nominare chi si ama. Nominare la tenerezza, il coraggio, gli animali, le piante, la sensualità, la spiritualità … e forse non basta …

“Noi abbiamo una sola vita: se anche avessi fortuna, se anche raggiungessi la gloria, di certo sentirei di aver perduto la mia, se per un solo giorno smettessi di contemplare l’universo.”
(M. YOURCENAR, Pellegrina e straniera, 1989)

244. al mio babbo

E’ un anno che non sei più tra noi.
14 giorni l’ultimo ricovero.
E poi non hai più risposto quando dico “babbo”.

In questo periodo di Natale in cui ho pensato incessantemente ai tuoi ultimi giorni tra noi, ho voluto ogni volta mettere accanto al dolore qualcosa di te che onorasse il tuo esempio.
E forse perché era proprio il periodo di Natale, ho pensato sempre ai tuoi presepi, quelli che costruivi in casa per noi e che diventavano di tutto il paese tanto erano belli, al punto che negli anni le persone venivano a trovarci anche per vederne la preparazione.
In questi giorni mi sono vista ad altezza presepe, bambina alta poco più dei tavoli su cui costruivi le tue opere d’arte, e mi sono vista guardare stupita il formarsi di quel mondo fatto di muschio, pezzi di legno, carta roccia, specchietti, fondali di stelle o paesaggi e lucine.
Mi sono vista porgerti le statuine, le casette, i ponti, le pecorelle, i pastori.
E mi sono resa conto che mi hai insegnato molte cose mentre facevi i presepi. In modo indiretto, in modo amoroso.
“Vedi questo pastore?” dicevi.  E io annuivo. “E’ piccolo, dove lo mettiamo?”
Io tendevo – i primi tempi- a mettere tutti vicino alla capanna.
E tu mi spiegavi che ‘piccolo’ era sinonimo di lontananza, quindi di prospettiva; mi spiegavi i rapporti tra le grandezze in un sistema di rappresentazioni.
E mi spiegavi che quel  piccolo pastore -pantaloni rossi alla pescatora, camicia bianca, cappello azzurro – aveva una mano alzata e quindi era quello che vedeva per primo la stella cometa, da lontano, era quello che svegliava gli altri pastori.
Allora lo mettevi su un ‘monte’ che avevi costruito dalla parte opposta della capanna, e lì vicino costruivi il primo campo di pastori. Gli altri poi erano meno distanti dalla capanna. Il fuoco era una lucina  coperta di carta rossa e sopra minuscoli legnetti; intorno pastori e pecore.
E così ho capito in questi giorni il perché profondo della mia preferenza di quel pastore tra tutti i personaggi del presepe, oltre la Natività. In tutti i successivi presepi che ho fatto, anche i più scarni, quel pastore non è mai mancato. Ne ho di diverse grandezze, perché non sempre i presepi successivi hanno raggiunto le dimensioni di quelli che facevi tu, e quindi bisognava bilanciare bene le grandezze nella distanza.
Ti ho pensato così in questi giorni dolorosi. Anche oggi che sono venuta a trovarti sotto una pioggia battente. Eppure cantavano uccellini, come ogni volta che vengo a trovarti in questa tua ultima dimora terrena, la casa dove non posso più condividerti.
Qualche giorno prima di Natale ho messo sulla tua tomba una piccola Natività, e poco più in là la statuina del pastore che vede per primo la stella. Alla giusta distanza, e con le giuste grandezze.
Inutile scriverti quanto poderoso sia questo tuo insegnamento, quante cose contiene, e che basterebbe anche solo questo per avere una giusta guida nella vita.
Ti dico invece che vedo il tuo corpo piegarsi sul presepe in costruzione, vedo il tuo braccio allungarsi e la tua mano porre quel pastore sui  monti. E poi seguiva il tuo sorriso soddisfatto, il tuo sguardo su di me, quasi a cercare conferma e approvazione, tu a una bambina di cinque-sei-sette anni.
E io annuivo, seria e sorridente, felice e curiosa.
Non ricordo più quale poeta ha detto che è bello avere un padre che regala un sogno alla nostra vita. Tu lo hai fatto. Grazie.
E ho anche capito che nei tuoi ultimi più dolorosi giorni tu sei diventato ciò che già eri, sei diventato pienamente il pastore che per primo vede la stella. Fuori e libero da ogni ruolo sociale che il tuo tempo imponeva- strada su cui da molto molto tempo ti eri già incamminato – hai finalmente aperto la tua vera dolcissima essenza, hai spiegato le tue ali di angelo veggente, e ci hai indicato chiaramente la stella che avevi sempre visto.
La tua morte mi ha insegnato l’urgenza di amare. Lo scrissi già in un altro post allora, lo ripeto di nuovo adesso. La stella che hai visto, quella per cui ci hai svegliato per vederla anche noi, quella che fissamente hai guardato attraverso il modo con cui hai vissuto anche i tuoi ultimi giorni, è la stella che si è posata sulla capanna, è la stella che ha guidato i Magi.
Non è una stella fissa, se mai ne esiste una. E’ una stella che guida i viaggi importanti verso le mète fondamentali.
Anche i Magi li mettevi dalla parte opposta della Capanna, e un passetto al giorno li avvicinavamo alla Natività, noi lì a misurare bene i passi giusti in modo che i Magi arrivassero proprio per l’Epifania davanti alla Capanna, senza che si fermassero o accelerassero mai.
Ce lo dicevi sempre, quando facevi i presepi, non a parole, ma quando cominciavi a mettere le statuine più piccole nei posti più lontani dalla Capanna: la vita è un cammino, fatto con gli occhi e il cuore aperto a vedere la stella, per arrivare alla giusta mèta.
Ecco, babbo, ti ho pensato così in questi giorni.
Il tuo esempio lenisce un pochino il dolore per la tua perdita.
Ti voglio bene.
Penso al tuo sorriso, a come ti illuminava il volto; penso alle tue espressioni ironiche, o a quelle severe.
Ti penso.
Pensami anche tu, ovunque tu sia.

https://www.youtube.com/watch?v=8RHrCDM2TLw&ab_channel=navigaria

243. “I fiumi” di G. Ungaretti, e i miei alberi, e il mappamondo di fra’ Mauro e la poesia e … insomma … Buon Anno :-)

“Mi tengo a quest’albero mutilato”,
così Giuseppe Ungaretti inizia la poesia “I fiumi” che, per  me, è uno dei capolavori della poesia mondiale.

https://www.youtube.com/watch?v=8SAegn2KtDc&ab_channel=Duccio%27shall

Porta la data 16 agosto 1916. In piena guerra, “abbandonato in questa dolina”, “Ho ripassato le epoche della mia vita”, dice il poeta. “Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia”: questo confida Ungaretti a noi lettori, increduli di fronte a tanta bellezza e affascinati da tante magnificenti biografie presentate con l’incedere maestoso del termine “questo”, per me il più bell’ uso della deissi che io conosca: “Questo è l’Isonzo”, “Questo è il Serchio”, “Questo è il Nilo”, “Questa è la Senna”, “Questi sono i miei fiumi cantati nell’Isonzo”.
Così, mentre “la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre”, Ungaretti si unisce nel ricordo al mondo che lo ha formato – i suoi fiumi- e all’esperienza del suo presente – “abbandonato in questa dolina”, la guerra- e “Ho tirato su / le mie quattr’ossa / e me ne sono andato / come un acrobata / sull’acqua”.
E insieme al poeta, insieme a poche righe, insieme a parole ognuna contenenti interi universi, risonanze, effetti, affetti, paesaggi, noi facciamo il giro di un mondo che è suo e solo suo, ma che sentiamo anche nostro per la vastità e il rispetto che è riuscito a depositare in ogni parola, facendole diventare terra sacra: “Stamani mi sono disteso / in un’urna d’acqua / e come una reliquia / ho riposato” ; “Mi sono accoccolato / vicino ai miei panni / sudici di guerra / e come un beduino / mi sono chinato a ricevere / il sole”.

 

La poesia mi è tornata in mente mentre ascoltavo mia madre raccontarmi di alcuni alberi di cui le avevo chiesto informazioni.
Alberi che sono nella mia storia personale, o perché ne feci esperienza da bambina così piccola da non averne cosciente memoria o perché mi sono stati narrati come parte della storia della famiglia del mio ramo materno.
Mi sono commossa anche solo nel sentire i loro nomi, che già conoscevo, come già conoscevo parte delle loro storie, ma oggi li ho ‘sentiti’ in modo diverso: la fragilità delle nostre vite resa ancora più evidente dai tempi che viviamo è più facilmente paragonabile al ‘tenersi ‘all”albero mutilato‘ del poderoso incipit della poesia. E così in me è stato ancora più forte sentire ‘il supplizio‘ di ‘quando / non mi credo / in armonia‘ e il desiderio di esserlo, nonostante tutto. Anzi, proprio perché tutto sembra smarrirsi, ho cercato ancora di più ‘quelle occulte / mani / che m’intridono / mi regalano / la rara / felicità’. Nel testo sul quale studiai per l’esame  di Letteratura Moderna e Contemporanea e che ho appena ripreso per rileggere il mio amatissimo Ungaretti, ebbi cura, all’epoca dell’esame, di glossare le ‘occulte mani’ con ‘che plasmano il destino degli uomini’. Oggi aggiungerei che sono anche le nostre stesse mani a plasmare il nostro destino, sebbene siano esse per moltissimi di noi ignote e occulte proprio a noi stessi.
Il racconto di mia madre prosegue.
Questo è il Castagno Grande, il cui tronco si era aperto e formava un rifugio, ma già sotto i suoi rami coperti di foglie non passava nessuna goccia di pioggia e quindi era spesso ‘abitato’ da persone che si fermavano a godere del suo ristoro. Cresceva infatti nel campo di proprietà dei miei, ma a ridosso della strada, e si offriva a tutti con la sua grazia possente
Questo è il Noce, grande nello spazio davanti alla casa. Sotto i suoi rami si riuniva la famiglia a riposare nei pomeriggi e nelle sere d’estate, e i vicini arrivavano numerosi per le soste pomeridiane o per le veglie serali.
Questo è l’Olmo, cresciuto in mezzo al campo, quello su cui gli zii e i nonni  appesero i prosciutti quando seppero che stavano arrivando i tedeschi; i quali si fermarono proprio lì sotto e tra i suoi rami stesero i fili del telefono senza accorgersi che era diventato un nascondiglio e i prosciutti furono salvi.
Ecco il  Gelso, che mia madre chiama più facilmente ‘il Moro’, e forse perché era il luogo dei suoi giochi, e forse perché ricorda il sapore dei suoi frutti.
Ecco alcuni dei miei alberi.
Ecco i Tigli della Piazza della Chiesa, ecco gli Ulivi del Pincetto, ecco il Nespolo Giapponese l’Oleandro  l’Ibisco alle cui ombre sono cresciuta nel giardino di casa dei miei.
Eccole ancora una volta le nostre biografie. Uniche. Da rispettare.
Possiamo certamente, anzi, dovremmo, lasciarci ispirare dalle vite altrui, ma lasciando a ognuno le proprie biografie, senza predarle.
Nessuno potrà mai entrare fino al fondo dei Fiumi di Ungaretti, nessuno di noi è con lui a esperire la prima guerra mondiale, il fronte; nessuno può dire come lui “Questa è la mia nostalgia / che in ognuno / mi traspare / ora ch’è notte / che la mia vita mi pare / una corolla / di tenebre” ; nessuno, nonostante il coinvolgimento che la capacità del poeta sa suscitare in noi.
Ma, grazie a lui, possiamo sentirci ispirati a guardare i nostri fiumi, i nostri alberi, le scarpe della nostra vita, le strade, le sorgenti, e tutto saper presentare al mondo come fa il poeta, con la sua stessa armonia e dignità e umiltà e generosità dell’atto deittico racchiuso in una delle parole che più usiamo: “questo, questa”. Una delle parole che ci collegano al mondo e forse non ce ne accorgiamo quando le usiamo.

Siamo invisibili se guardiamo una mappa. Una mappa è un racconto così generalizzato, così politicamente indirizzato, così legata al momento in cui viene disegnata. E’ uno sguardo da lontano su un mondo che mai potrà essere rappresentato nella sua totalità. Forse era questa l’ansia di Fra’ Mauro, il monaco camaldolese che disegnò uno dei mappamondi che più amo. Forse desiderava rendere visibile e rappresentabile ciò che dentro una mappa non è visibile e rappresentabile: le singolarità, le molteplicità, le differenze che il mondo ospita di attimo in attimo. Forse per tutto questo e per altro il suo mappamondo è pieno di disegni, appunti, informazioni. Un monaco chiuso nella sua cella raccoglie le notizie che dal mondo gli arrivano – viaggiatori, confratelli che si spostano, voci sentite – e che al mondo vuole ridonare, riempiendo di dettagli lo spazio di una mappa, quasi a rompere gli argini dello spazio bidimensionale della pergamena, a oltrepassare il recinto di un Eden concluso, come un necessario esodo nel mondo, un’uscita da una mappa mentre si disegna una mappa. Fra’ Mauro sembra dire continuamente “ecco”, “questo”: mostra continuamente, in ogni punto della sua mappa, la ricchezza del mondo, sapendo che quella ricchezza non potrà mai essere mostrata nella sua interezza.
Eccola l’importanza dei dettagli, delle differenze; eccola l’importanza delle biografie e delle loro differenze. Eccola l’importanza di salvaguardare l’unicità, di non imitare, di non uniformare lo splendore dell’irriducibilità,
di ascoltare le originali voci che vengono dal luogo più lontano posto dentro di noi e di disegnarle nel mondo.

La poesia ci aiuta in questo.
Ma solo se sappiamo rispettarla.
In un post precedente ho chiesto scusa alla poesia per come la stiamo trattando, riducendola a immagine di noi e del nostro fugace momento emotivo; riducendola a prodotto da vendere per vendere il soggetto che la sta usando in questo modo egoriferito, riducendola a sbandieramento da megafono gracchiante.
Riducendola a frammenti, senza più rispettare l’intento compositivo dell’autore o dell’autrice, spesso all’insegna di ‘la poesia è di chi la legge’, frase con cui particolarmente si palesa la riduzione a oggetto e merce e possesso di testi che solo possono aleggiare nel non-possesso.
Nella raccolta “L’Allegria”, la poesia “I Fiumi” è preceduta da “In dormiveglia”, scritta dieci giorni prima:

Assisto la notte violentata

L’aria è crivellata
come una trina
dalle schioppettate
degli uomini
ritratte nelle trincee
come le lumache nel loro guscio

Mi pare
che un affannato
nugolo di scalpellini
batta il lastricato
di pietra di lava
delle mie strade
ed io  l’ascolti
non vedendo
in dormiveglia

La poesia che segue a “I fiumi” è “Pellegrinaggio”, scritta lo stesso 16 agosto:

In agguato
di queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
uscita dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba

Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia

Non possiamo, non dobbiamo slegare frantumare distruggere disperdere i legami dei passi di un cammino composto dal Poeta. Ogni testo, ogni riga va letta e, casomai, ridata nella sua interezza.
Io sogno un ritorno a una certa segretezza della Poesia, cosa che forse ci insegnerebbe il rispetto verso l’inenarrabilità e unicità di ogni vita.
Sono in buona compagnia. Lo stesso Ungaretti così afferma nel testo “Ragioni di una poesia”: “Certo, la vera poesia si presenta innanzi tutto a noi nella sua segretezza.”
E fra’ Mauro, cos’altro voleva raccontare con quel suo riempire di note il suo mappamondo, se non l’impossibilità a narrare tutto e la necessità del non dire, l’impegno a salvaguardare dietro il detto la preziosità del non dicibile?

Se dalla poesia (dal greco poiesis= creare, fare) non ci lasciamo diventare poeti (capaci di fare, creatori), lasciamola rispettosamente al suo splendore.
Come per ogni vita che incontriamo. E coscienti che non c’è biografia che non includa mille altre biografie da mostrare ‘questo, e questo, e questo’; e che mai potremo dire tutto, e mai dovremmo.
Diventare poeta è anche diventare specialisti di una deissi che, nell’evidenziare e nel mostrare, sa dire e tacere contemporaneamente, in una danza di relazione sacra tra ciò che si vede e si percepisce e ciò che si decide di raccontare.

 

Ah je voudrais m’eteindre
comme un réverbère
a la première lueur
du matin
(G. Ungaretti, Derniers Jours)

242. la bella e la bestia … ma soprattutto le rose … e non ‘biografia’ ma sempre ‘biografie’


Stefano sorride. E’ contento perché vuole farmi una sorpresa. Ha visto il film ‘La bella e la bestia’, il cartone animato prodotto dalla Disney. E’ il 1992, il film è uscito anche in Italia. Sa che è una delle mie fiabe preferite, forse la preferita.
E sa che mi piacerà particolarmente una scena, me lo dice sorridendo, e non cede alla mia richiesta di anticiparmelo. Mi dice: “capirai da sola di quale scena parlo”.
Lo capii. Era quella della maestosa biblioteca del castello.

Ma mentre Stefano sorrideva, io ricordai all’improvviso un momento della mia infanzia. Il tempo era quello dei primi anni delle scuole elementari, avevo letto da poco la fiaba, ero fuori a giocare con le amichette ed ero colma di un turbamento che nessuna lettura mi aveva dato fino ad allora. Ero ancora assorta nella storia fino al punto da fermarmi all’improvviso, lo ricordo ancora adesso: smisi di correre, non sentivo più le voci delle amichette, guardavo al di là di un muretto sormontato da una rete  che divideva il giardino della mia casa da un orto in quel periodo incolto. Pensavo a due cose. Una era la risposta di Bella quando il  padre, prima di partire , le aveva chiesto cosa voleva che le portasse in regalo: una rosa; mentre le due altre figlie avevano chiesto abiti e gioielli. L’altra era che il padre, a causa delle sue avversità economiche, non aveva potuto comprare i regali alle figlie e che si era ricordato della rosa di Bella nel giardino del castello della ‘bestia’. Pensavo a quel padre, pensavo a quella rosa e niente in quel momento ebbe più importanza, nemmeno il resto della favola. Era l’inizio, il motivo, la causa scatenante che mi bloccò; il cuore mi batteva forte e mi uscirono dagli occhi lacrimoni che tentai invano di nascondere alle amichette.
Probabilmente la versione che lessi era quella di Beaumont, perché è in quella che si parla di tre figlie.

Penso che c’è un Tempo diverso da quello che percepiamo, e lì le cose stanno insieme, ma arrivano a noi mano a mano, diluite nei giorni e nelle nostre esperienze.
Nelle mie esperienze è comparsa spesso una rosa. E’ facile, si può pensare, è un fiore comune nei giardini. Sì, può darsi.
E molte volte ho regalato a mio padre anche una rosa per i suoi compleanni, le rose si vanno anche a comprare.

Tanti anni dopo quel giorno della mia infanzia, nel giardino della casa dove vivevo da adulta, c’era una pianta di rosa tea. L’avevo trovata lì quando ero arrivata e l’avevo lasciata; era molto bella e  aveva molti anni, tanti a tal  punto che la  pianta, formata di due ‘rami’, li stava trasformando in due piccoli ‘tronchi’. Era lo stesso tipo di rosa, le stesse sfumature giallo-arancio della rosa tea che avevo visto crescere e ancora cresceva nel giardino della casa dei miei.
Avevo molta cura di quella rosa trovata, i giardini raccontano storie di vite, non solo le nostre, e anche per questo mi dedicavo ad essa con affetto, nel rispetto di chi l’aveva piantata.
Un giorno di fine aprile di un anno in cui mi ero  innamorata, trovai sulla rosa un bocciolo perfetto, meraviglioso. Il primo bocciolo della stagione. Pensai all’istante all’uomo che amavo, che era lontano in quel momento. Il sentimento fu intenso, l’emozione profonda. Fotografai la rosa con l’intento di inviargliela. Non fu solo una foto, fu un moto del cuore, un’energia mista di amore gioia e volontà di vicinanza e unione.
Non la inviai subito, e nei due giorni successivi accaddero cose per cui decisi di non inviare più quella foto. In qualche modo le cose che accaddero includevano una rosa, per questo decisi di non inviare l’immagine.
La pianta regalò per tutto il mese di maggio splendidi fiori, belli come mai prima. E continuò a fiorire per tutta l’estate. E  poi per tutto l’autunno. Conservavo nel cuore lo stupore dell’evento e la certezza della sua causa.
La rosa fiorì per tutto l’inverno. Fiorì sotto abbondanti nevicate. Fiorì la primavera successiva e ancora durante l’estate successiva. Ininterrottamente regalò fiori meravigliosi, sontuosi, magnifici. Io non dissi nulla a nessuno. L’uomo che avevo amato se ne era andato, e finché c’era stato non gli avevo raccontato nulla della rosa. Era quello un palese caso in cui la ragione non avrebbe conosciuto le ragioni del cuore. Conservai il segreto in me, godendo di quel miracolo. Solo molto più tardi pensai che la rosa forse continuava ad offrire fiori da fotografare, da inviare ancora. E ancora molto molto più tardi osai pensare a quante cose la rosa  stesse raccontando.
Continuò a fiorire anche l’autunno successivo. Alla fine del secondo inverno smise di fiorire. E uno dei due ‘tronchi’ cominciò a seccare. L’altro soffriva, ma ancora manteneva un ramo verde e capace di fiorire. La accudii ancora di più, e adesso l’accudimento significava salvarla.
A primavera chiamai una persona per aiutarmi a tagliare l’erba del prato e fare qualche potatura. L’uomo portò suo figlio dicendo che avrebbero finito prima i  lavori. Raccomandai vivamente di fare attenzione alla rosa.
Per sbaglio -così dissero ‘per sbaglio’- il figlio tagliò il ramo vitale.
Io lasciai ancora per due anni ciò che rimaneva della pianta, ma non gettò più  gemme, né regalò più rose.
Così la tagliai a livello del terreno, e per altro tempo sperai di veder ricrescere nuovi getti. Lo avevo visto fare ad altre piante. Ma non accadde nulla.
La vita della rosa era finita. Somigliava tantissimo alla fine di quell’amore a cui avrei voluto dedicarla. Infatti lui era tornato, ma poi se ne era andato di nuovo.
E’ la prima volta che racconto di quella rosa. Conservo nel cuore quest’esperienza meravigliosa di una fioritura ininterrotta di una pianta di rose per quasi due anni. So che posso non essere creduta. Ma soprattutto so che la rosa stava dicendo cosa fare in quella storia d’amore. Ma se questo era il suo messaggio, e se lo compresi – e lo compresi- non riuscii a dirlo all’uomo che amavo.
Così il canto di quella pianta, ascoltato ma non agito  da me,  si è forse diffuso ed è arrivato chissà quanto lontano.
Non so chi e cosa e quanti abbiano ascoltato il suo canto, ma spero che qualcuno lo abbia fatto. Forse altre piante, forse le tortore che dopo la sua morte cominciarono ad arrivare numerose nel mio giardino, forse -spero- qualche essere umano.
I suoi due piccoli tronchi e i rami tagliati li misi vicini ad altra legna e una persona che non sapeva, prendendo la legna per il camino, prese anche ciò che restava della rosa. Che lei stesse bruciando mi accorsi dall’odore che si diffuse per la stanza e mi precipitai a vedere se potevo salvare qualche ramo, ma non trovai più nulla di lei.
Di lei mi sono chiesta tante volte quale fosse la sua storia fino al momento in cui passò alle mie cure. Chi l’aveva piantata? Con quali intenti? Perché proprio in quel punto? C’era anche qualcosa della sua vita prima che la conoscessi e che si riversò in quell’ininterrotto fiorire a cui ebbi la grazia di assistere?
Anche la rosa del giardino dei miei fu tolta, per lasciare spazio a un palo di sostegno di una veranda. Poteva essere salvata, ma gli operai la buttarono via mentre i miei genitori non c’erano. Si concordò con una certa tranquillità che si sarebbe piantata un’altra rosa ‘un po’ più in là’.

Quando mi fu chiesto quale fiore scegliere per comporre il cuscino di fiori da mettere sulla bara di mio padre, io dissi ‘rose, solo rose, quelle gialle con sfumature arancio’. Non pensai alla favola, non pensai alla mia rosa d’amore, non pensai alla rosa nel giardino dei miei. Pensai solo a mio padre e pensai a quel tipo di rosa. Ma prima del pensiero c’è il cuore, che accoglie anche se la mente non ricorda, e nel mio cuore c’erano tante importanti rose tea. Fu un cuscino bellissimo.

Ho ripensato a tutto questo qualche giorno fa, quando ho visto che in tv faranno il film ‘la bella e la bestia’, non il cartone animato, l’altro, quello con gli attori.
Ho anche cercato di ricordare in che modo il fiore della rosa è entrato nella mia vita, poiché sono convinta che la parola ‘biografia’ al singolare non può esistere, e che si tratta sempre di ‘biografie’, intersezioni e incontri e relazioni. E se la mia vita è la mia vita è anche perché ci sono le vite delle rose che ho incontrato.
Le prime che ricordo erano le rose rosse rampicanti che abbellivano le ringhierine del giardino di casa dei miei genitori. Erano rose comuni, presenti in ogni giardino del paese, anche in vaso. A maggio un tripudio di colore in ogni viuzza.
E le rose che a maggio si portavano in chiesa per onorare la Madonna rendendo l’altare a lei dedicato un incantevole giardino profumato. Nello stesso mese di maggio c’erano le rose di Santa Rita: venivano benedetti i ramoscelli fioriti e poi li portavamo a casa  e li conservavamo.
Altre rose? Quelle di Gozzano, in quella sua ‘Cocotte’ che lo ‘baciò con le pupille di tristezza piene’: ‘Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state’. Era il titolo di un tema alle scuole superiori, ma di più fu un avvertimento per la vita, un’esplosione di  consapevolezza, un cartello stradale che indicava quale strada non prendere. E, comunque, non è detto che si debbano cogliere per forza le rose o altri fiori, anzi, è meraviglioso lasciarle alla loro vita e goderne senza farne strage. L’importante è non amarle solo perché non ci sono più o perché non ne abbiamo fatto oggetti della nostra predazione.
E quante altre rose ci sono state e ci sono ancora con cui ho costruito alcune delle relazioni che hanno fatto la mia vita!

Ma certo quella inestinguibile rosa tea del mio giardino vibra in me in modo particolare. Non ho voglia di interpretare nulla o, per lo meno, di scrivere interpretazioni.
So solo che ho visto fiorire una rosa ininterrottamente per quasi due anni, dopo che l’avevo guardata e fotografata con amore immenso per lei e per l’uomo che amavo.

 

Quello che mi sento di dire è che la rosa che continua a vivere alla fine della fiaba è il frutto di due cuori, di due capacità di dare e di accogliere, di incontri che vengono da quel Tempo che non è questo che viviamo, ma che siamo indirizzati a essere capaci di far vivere in questo che viviamo.
E’ il frutto della propensione e della volontà a crescere, a diventare adulti, ad attraversare e superare le difficoltà, ad imparare e continuare ad imparare ad amare.
A volte ci sono rose così anche nella realtà: crescono, soffrono, tornano a vivere. A volte no: o non sappiamo averne cura o intervengono altri fattori e le rose muoiono.
Un dato certo è che ci sono rose ovunque.

241. “Eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto.” (E. Montale)

Ho appeso alla mia stanza il dagherròtipo
di tuo padre bambino: ha più di un secolo.
In mancanza del mio, così confuso,
cerco di ricostruire, ma invano, il tuo pedigree.
Non siamo stati cavalli, i dati dei nostri ascendenti
non sono negli almanacchi. Coloro che hanno presunto
di saperne non erano essi stessi esistenti,
né noi per loro. E allora? Eppure resta
che qualcosa è accaduto, forse un niente
che è tutto.
(Eugenio Montale, Xenia II, 13)

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Semin casa 9-9

Semin casa-10

seminario casa

… ma dalla mia pelle ancora non si stacca la tua, dal mio grembo ancora non esce il tuo seme, nella mia mente è ancora logico dire “tu e io”, nel mio cuore ancora fluisce il sangue rosso del tempo passato con te, nel mio ventre dilaga come pioggia il desiderio di conoscerci ancora, intimi esperti di noi,  ancora, ancora, ancora …
… ti guardo, ti vedo: mi sei caro là dove mai nessuno è arrivato …

… qualcosa è accaduto …

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240. … e se dicessi ‘Buon Natale con tutto il cuore, con tutta me stessa’ …

CON TUTTO IL CUORE, CON TUTTA ME STESSA, BUON NATALE
Come fosse possibile fare altrimenti. Fare le cose con un pezzo di sé, intendo. Come fosse possibile muoversi a pezzi, smembrarsi da soli, andare nel mondo a brandelli.
Non è possibile, ma lo diventa. Lo diventa con quello che ci mettiamo in testa, con quello che accettiamo che ci venga messo nel cuore. Con le convinzioni, che ci fanno percepire come fossimo brandelli di noi stessi, e non poemi sontuosi, romanzi avventurosissimi, epopee infinite. Camminiamo nella vita “pensando” di non avere talenti e doni, di non avere coraggio, cortesia, sorrisi, fantasia, responsabilità, capacità di durata e di preveggenza, creatività … “Pensando di” e non “Essendo”.

Il mio augurio di Natale è che riusciamo a fare le cose con tutt* noi stess*, a vivere in pienezza di sé.

Ci sono i ricordi che ci aiutano a riprendere le fila. I ricordi che servono non a inondarci di nostalgie, ma a ricordarci chi siamo.
Quelle volte che …
… mia madre mi portava a vedere ogni anno il Presepe fatto dalle suore di Maria Bambina. Occupava un’intera grande stanza, dove entravamo tenendoci per mano: i pupazzetti si muovevano, e c’era il giorno e la notte, e un musica celestiale come si conviene alla Notte Santa; e io “ero” la bambina più felice della terra in quei momenti;
… mio padre faceva il presepe a casa. Dopo un po’ di brontolii temporaleschi, armava strutture degne del suo mestiere, e la nostra casa diventava la casa di presepi grandi e fiabeschi, e noi vincevamo sempre il primo premio. Ma era un po’ anche dei vicini, che non volevano restare esclusi da quelle costruzioni magiche e partecipavano entusiasti con noi: e io “ero” la bambina più felice della terra in quei momenti;
… correvamo nei boschi con gli amichetti e le amichette per prendere il muschio che avrebbe ammorbidito i nostri presepi fatti di strade di farina, di fiumi di carta celeste ricoperta con carta lucida e trasparente, di laghetti costruiti co pezzetti di specchi, e con tutti i personaggi immobilizzati dall’incantesimo dell’attimo della Nascita del Bambino; e io “ero” la bambina più felice della terra in quei momenti;
… facevamo i presepi in chiesa, per tanti tanti tanti anni. Quello di luce e di blu; quelli dove le persone potevano camminarci dentro e dove la titubanza iniziale fu rotta da una donna, che lo attraversò felice; quello maestoso con numerosi livelli di prospettiva; quello svelato da un gruppo di bimbi piccoli piccoli entrati in chiesa cantando a mezzanotte, vestiti da angioletti con le ali di carta e una candelina in mano; e io ero la ragazza e poi la donna più felice della terra in quei momenti;
… faccio il presepe e reinvento quel mondo immobile, ma reso cangiante dalla mia fantasia e dalla mia commozione; e sospendo ogni informazione nota e già data nell’attimo in cui metto il pastore che per primo vede la stella, il mio personaggio preferito, dopo il gruppo della Natività; e io “sono” la donna più felice della terra in quei momenti.
Perché è con tutt* se stess* che si riesce a vedere la stella cometa che solca il cielo buio, perché bisogna avere l’intero cuore quando il buio piomba nella vita. Non “pensare” che è buio, ma “essere” pronti all’attimo che arriva. Adoro quel pastore che per primo vede la stella cometa e sveglia gli altri pastori e partecipa la sua meraviglia. E’ lì, perennemente con il braccio alzato e la mano sulla fronte, come quando si guarda lontano; perennemente a vedere per primo la sua stella cometa, con tutto se stesso, con tutto il cuore, ché altrimenti non l’avrebbe vista, ed è il pastore più felice della terra in quei momenti.
E’ QUESTO IL MIO AUGURIO DI BUON NATALE.
CON TUTTA ME STESSA, CON TUTTO IL MIO CUORE, AUGURI CHE POSSIAMO “ESSERE TUTT* NOI STESS*, CON TUTTO IL NOSTRO CUORE”. E AGGIUNGO ANCHE “FELICI”. E “SEMPRE”.

239. ssssst … silenzio … è Natale

ssssst … no, non ti dico ‘Buon Natale’ …
no 🙂
Il Natale è buono sereno felice di suo. E’ bontà, serenità, gioia.
Ti dico falla tua questa gioia e questa bontà. Diventa serenità e bontà.
Niente più parole.
E’ Natale.
Il Verbo si fece carne … silenzio … è il tempo dei gesti, basta parole; stanotte, almeno stanotte solo silenzio.

No, non ti regalo un’immagine di un presepe,  lascio che sia tu a immaginare  il tuo presepe;  le mie parole stanotte servono solo a questo, a lasciarti il tuo presepe, il tuo silenzio, caso mai la mia carezza, quella sì.

 

Stanotte divento presepe.
Il mio corpo accogliente
e vuoto
si fa colline e pastori
cielo stellato e morbido latte
angeli e caldi respiri
di miti animali
capanna e stella cometa
diventa Giuseppe e Maria.

Stanotte l’intero mondo divento
che si fa padre e madre
del Bimbo di Luce.

Nell’universo distesa
come nuovo pianeta
nell’universo distesa
come donna di parto
e piacere
il parto con tutto il mio corpo
trasformato in mondo presepe.

Stanotte altro divento
per diventare me stessa
e se c’è stata paura
fuga e fatica
adesso in un attimo accade
il desiderio e il sapere
adesso in un attimo
sono e divento.

Stanotte divento presepe
corpo di terra e di cielo
corpo di luce
corpo madre di vita
dell’erba dell’acqua del vento
corpo padre di vita
di strade di fiumi di stelle
corpo mondo
che accoglie la luce
e che può prendere il Bimbo
e donarlo
e partorire sentire cantare
vibrare.

Stanotte divento presepe.
Battito d’ali e passi sottili
musica e paglia e guancette rosate
luce e silenzio
stupore e certezza.

Meraviglia del Sì.

(24,30,31-XII-2003)                           .

 

 

238. incarnare, incarnar-sé: io sono levatrice di me stesso-a; la maieutica che ‘tira fuori’, che ‘fa emergere’, che ‘fa nascere’

MAIEUTICA-MENTE

Cosa incarno, cosa rendo carne, cosa faccio nascere, cosa metto al mondo, cosa rendo visibile fuori di me con i miei comportamenti, con il lavoro che faccio, con le parole che uso, con i silenzi che diffondo?
Cosa divento attimo dopo attimo con il mio atteggiamento?? Quale mondo faccio diventare con le mie azioni? Cosa sostengo con i  miei comportamenti? Di quale ‘filiera’ sono una parte?
A quale modello o visione del mondo appartiene il mio personale modo di vedere le cose?
Quali sono le convinzioni e i presupposti da cui nasce la mia condotta?Presupposti e convinzioni, è importante conoscerli.
Con chi mi confronto per avere chiarezza di me stesso-a?
Quali sono le mie risposte agli eventi che accadono, alle persone che incontro, a me stesso-a?
Le parole che dico e i gesti che faccio corrispondono al modello di mondo di cui ragiono in maniera teorica?

COSA RENDO EFFETTIVAMNTE ‘CARNE’, VITA?
COSA INCARNO REALMENTE CON IL MIO INCARNAR-SE’?

Mi rendo conto delle mie incongruenze, delle mie incoerenze, della mia mancanza di consapevolezza, del mio non pormi domande e della mia facilità a dare risposte di cui quasi sempre non ne conosco l’origine in me stesso-a?

Sono la persona che si lamenta della sporcizia nelle strade e poi butta in terra la carta?
Sono tra quelli che …  ‘poveri noi’ e quel ‘noi’ è fatto di mura esclusive, invalicabili da ogni differenza; un ‘noi’ di autocompiacimento e falsa sicurezza?
Sono tra quelli che …  col mio lavoro sto sostenendo una filiera distruttiva del pianeta Terra e della dignità delle persone?
Sono tra quelli che … invio un sms di aiuto e poi non mi sposto di un centimetro per aiutare chi mi sta accanto?
Sono tra coloro che … ogni cosa che fanno la fanno per mettersi in mostra, seminando ego a ogni passo?
Sono tra coloro che fantasticano o tra coloro che immaginano?

Io chi sono? Tra chi sono? Dove mi colloco realmente? So descrivere quel ‘sé’ quando è riferito a me?

Far nascere non necessariamente comporta dolore. Il dolore del parto appartiene a un mondo di convinzioni, a quella specie di maledizione biblica diretta alla donna -partorirai con dolore- con cui il Dio della Genesi escludeva gli esseri umani dal Giardino Terrestre. Appartiene a un mondo patriarcale che del dolore ne ha fatto vessillo, al punto da provocarlo continuamente, per esempio guerreggiando senza tregua.
Mi chiedevo, da sempre: come partorivano prima di quel castigo divino? Cosa succedeva nell’Eden quando una donna partoriva?
Fuori metafora, e fuori dal contesto religioso, di cosa altro potrebbe parlare  questo passo della Genesi? Ci racconta anche qualcos’altro?
Molte donne partoriscono provando un orgasmo. Io ne conosco tante. Ed è una realtà di cui finalmente si parla.
Molte donne conoscono l’Eros, il Piacere di mettere e metter-sé al mondo.
Significa che un cambiamento (per favore, togliamo a questo termine tutte le implicazioni semantiche relative al mondo del consumo, che per forza di cose spinge a un ‘cambiamento’, pena la sua estinzione) è possibile, che si può nascere e rinascere, che si può incarnar-sé rinnovandosi, con la semplice e strabiliante capacità maieutica di una domanda buona e di una  risposta giusta. In mezzo, tra la domanda buona e la risposta giusta, c’è una levatrice, c’è uno tra i mestieri più antichi del mondo. Guardare quel ‘sé’, sapere come e di cosa siamo fatti.
I giorni delle nascite non finiscono mai. Con immenso piacere.
Cosa incarno con il mio stile di vita?

Altrimenti, che senso hanno le feste, cosa arrivano a fare?
Solo consumi?
O possono essere l’occasione per farci ‘diventare’- anche- levatrici?

Unknown

 

 

 

 

237. qual è la mappa del tuo Natale? 3) Adventus – Incarnare, Incarnar-sé o della Coerenza e della Congruenza

QUAL E’ LA MIA INCARNAZIONE? IN CHE MODO IO INCARNO ME STESSO-A? IN CHE MODO SONO COERENTE E CONGRUENTE? QUAL E’ LA MIA STRADA? IN CHE MODO DIVENTO ME STESSO-A?

 

“Questa, dunque è la mia strada; qual è la vostra? Così rispondevo a coloro che da me vogliono sapere la strada. Questa strada infatti non esiste!”
“Voi non avevate ancora trovato voi stessi: quand’ecco che trovaste me. Così fanno tutti i credenti; perciò ogni credenza è così poco importante. Ora io vi ordino di dimenticare me e di trovare voi stessi, e solo quando voi mi avrete rinnegato tornerò da voi.”
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra.

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        

“Solo dopo la notte più buia si farà giorno.
Coprite dunque i lumi e restate in silenzio,
affinché la notte divenga buia e silente.
Il sole sorge senza il nostro aiuto.
Solo chi conosce l’errore più nero sa che cos’è la luce.”
C. G. Jung, Il Libro Rosso

                                                                         

“Cristo è l’esemplare che vive in ogni cristiano come sua personalità totale. Ma il corso della storia portò alla imitatio Christi, con la quale l’individuo non segue il proprio fatale cammino verso l’interezza, ma cerca di imitare la via seguita da Cristo. Anche in oriente lo sviluppo storico portò a una devota imitatio del Buddha, e questi divenne un modello da imitare: con ciò la sua idea perdette di forza, così come l’imitatio Christi fu foriera di una fatale stasi nell’evoluzione dell’idea cristiana.”
C. G. JUNG, Ricordi, Sogni , Riflessioni 
                                                                                                                                                                                    

 

“Se voglio comprendere veramente Cristo, devo capire che Cristo ha vissuto realmente solo la sua propria vita e non ha imitato nessuno. Non ha copiato alcun modello. Se perciò intendo davvero imitare Cristo, allora non imiterò né copierò proprio nessuno, ma andrò per la mia strada, senza più neppure definirmi cristiano. Dapprima ho voluto copiare Cristo, imitarlo, cercando di vivere la mia vita nel rispetto dei suoi comandamenti. Una voce in me si è però ribellata e ha voluto ricordarmi che anche questo mio tempo ha i suoi profeti, che si sono ribellati al giogo impostoci dal passato. Non sono riuscito a conciliare Cristo e il profeta di questo tempo. L’uno ci chiede di portare il giogo, l’altro di scuoterlo; l’uno impone rassegnazione, l’altro volontà. […] Decisi perciò di passare alla vita umile e ordinaria, alla mia propria vita, e di cominciare da quel punto, in basso, in cui effettivamente mi trovavo. Se il pensiero porta a ciò che è inconcepibile, allora è tempo di tornare alla vita semplice. Quello che non risolve il pensiero, lo risolve invece la vita, e quello che il fare non decide mai, è riservato al pensiero. Se da un lato sono asceso a mete molto elevate e impervie e voglio ottenere una redenzione che mi sollevi ancor più, la vera via non mi porterà verso l’alto, ma verso il basso, perché solo l’altro lato presente in me mi può portare oltre me stesso. Accettare l’Altro significa però discendere nel lato opposto, passare dal serio al ridicolo, dal triste al sereno, dal bello al brutto, dal puro all’impuro”
C.G. JUNG, Il libro rosso 

“Vivere se stessi significa essere un compito per se stessi. Non puoi mai dire che vivere per se stessi sia un piacere. Non sarà una gioia, ma una lunga sofferenza, perché devi farti creatore di te stesso.”
C. G. JUNG – Il libro rosso
“Se non l’avete ancora imparato dagli antichi libri sacri, andate, bevete il sangue e mangiate il corpo di colui che è stato deriso e martoriato a causa dei nostri peccati, così ne assumerete in pieno la natura”
C. G. Jung, Il Libro rosso

“Dovete essere lui stesso, non cristiani ma cristi, altrimenti non siete pronti per il Dio che verrà”.
C. G. Jung, Il Libro rosso
La Via del Cristo, per Jung, rappresenta la Trasformazione del Sé, significa Diventare Se Stessi.
Cristo ha indicato la strada da seguire, “la via di quel che ha da venire”.
Ma non da imitare, bensì ‘diventare’.
QUAL E’ LA MIA INCARNAZIONE? IN CHE MODO IO INCARNO ME STESSO-A? IN CHE MODO SONO COERENTE E CONGRUENTE? QUAL E’ LA MIA STRADA? IN CHE MODO DIVENTO ME STESSO-A?

 

Incarnarsi, incarnato: con l’uso riflessivo e del participio passato è usato quasi esclusivamente come riferito alla seconda Persona divina che si è unita alla natura umana facendosi uomo.

Incarnare: mutare in carne, prendere carne, assumere corpo umano, dare corpo e vita umana.
Con Dante: Rappresentare, esprimere vivamente, con evidenza e concretezza.
Con Petrarca:  trasformare in realtà, realizzare un progetto.
Con Ariosto: impersonare, un  personaggio un’ispirazione un’idea che si fanno concreti, che assumono realtà, vita.
Con Chiabrera: far penetrare nella carne.
( cfr. https://www.treccani.it/vocabolario/incarnare/  )

Mi sembrava una parola immensa: Incarnarsi. Ero piccola, il mio mondo comprendeva quella parola grande grande perché mi spiegavano che Dio si era fatto Uomo, si era Incarnato. Ascoltavo meravigliata. E apprendevo sulla fiducia. Ero anche molto aiutata dai presepi, a dire il vero. Ogni volta che lo facevamo a casa, pensavo di aver capito un po’ meglio. Piccola: quattro, cinque anni, e poi gli anni delle elementari. Tutto molto Serio, tutto molto Buono, tutto molto Vero: Dio si è fatto Uomo, Buon Natale, ora tocca a te.
Non ho mai né rifiutato né accantonato quella parola grande grande, che poi nel tempo si è fatta anche Grande Parola. La domanda rimaneva: cosa significa? E rimanevano le risposte: è un Mistero, il Mistero non si spiega.

A volte bisogna spostarsi di lato per vedere meglio, mettersi di sbieco, strizzare gli occhi. Oppure allontanarsi, prendere altre strade, avventurarsi in un esodo, emigrare. Porre le stesse domande ad altre fonti, bere ad altre sorgenti, leggere e ascoltare altre parole.
A volte, non sempre, non è necessario per tutti. A volte sì, a volte no.
Capita che sia un comico a dire le cose in un modo che ti è più chiaro, capita che sia uno psicanalista, un antropologo, un fisico; capita che sia un religioso; capita che sia un filo d’albero, un pezzetto di cielo, un silenzio.

Capita anche che sia qualcosa che cresce dentro di noi, un sorriso un’inquietudine, un ricordo, una speranza.

E’ la nostra storia, e solo la nostra storia personale che ci conduce. Storia personale non significa solo le nostre egocentrate cose, ma anche il mondo in cui viviamo e abbiamo vissuto, gli altri che abbiamo incontrato o sognato o perso.
La storia personale è un pezzo della storia del mondo, è un pezzo d’universo, è inclusiva altrimenti non potrebbe essere ciò che, ma è importante non affacciarci a guardare la storia personale del vicino pensando che sia la nostra o per rubarne qualche pezzo.

Nella nostra storia personale ci sono le nostre convinzioni, i nostri valori, le nostre esperienze, i nostri sapori, i nostri baci, il nostro eros, i nostri fioretti del mese di maggio, la foto della rosa che volevamo regalare a lui e non gli abbiamo mai più spedito per il motivo che solo noi sappiamo, il Natale che nostro padre trascorse con noi per non lasciarci soli, il trekking sull’Appennino, le lezioni di disegno, gli aquiloni fatti volare sulle cime delle colline …
Nella nostra storia personale c’è la nostra visione del mondo costruita da e in ogni attimo della nostra vita. E’ con quella che dobbiamo far conto. Che significa far conto con noi stessi e con il mondo.
E’ in questi ambiti che si depongono le parole Coerenza e Congruenza. E quella grande: Incarnare, Incarnarsi.
La Coerenza è l’azione fatta che agisce seguendo una linea di condotta dichiarata e/o pensata in precedenza.
La Congruenza è quella condizione, quello ‘stato’ in cui una persona agisce dal profondo in piena sintonia con ciò che pensa e dichiara; tutti i  livelli comunicativi sono ‘allineati’: fai una cosa con tutto-a stesso-a, credendoci fino in fondo, tutto in te stesso-a va nella direzione scelta.
Quindi: essere coerenti può anche voler significare di seguire una via, senza sbagliare, senza ripensamenti, ma potrebbe essere e rivelarsi la strada che non vogliamo, e se non siamo capaci di metterci in discussione questo potrebbe comportare rigidezza di comportamenti, di vedute, di idee; della vita stessa. Non è un’Incarnare, un Incarnar-sé, ma un’illusione, un’Ideologia.
Essere congruenti porta a una chiarezza così visibile dall’esterno da risultare a volte imbarazzante in chi ci guarda. Siamo più vicini a un’Incarnazione, è un Incarnar-sé in modo molto evidente. C’è da far attenzione che non  diventi una Prassi-Dottrina.
Essendo  capaci di essere-comportarci sia con Coerenza che con  Congruenza, siamo capaci di superare sia il rischio della rigidità dell’Ideologia sia il rischio della supremazia di una Prassi che può farsi a sua volta Dottrina.

Nelle parole di JIDDU KRISHNAMURTI è possibile intravedere con maggior chiarezza ciò che in altri termini viene detta ‘congruenza’.

“Non pensiamo di essere liberi perché facciamo delle scelte; la scelta esiste soltanto quando la mente è confusa. Quando  la mente è chiara la scelta non esiste. Quando voi vedete le cose con grande chiarezza, senza distorsioni, senza illusioni, allora la scelta non esiste. Una mente che non sceglie è una mente libera, ma una mente che sceglie, e quindi mette in atto una serie di conflitti e di contraddizioni, non è mai libera, perché è confusa in se stessa, divisa, frammentata.”
JIDDU KRISHNAMURTI

“La scelta c’è dove c’è confusione. Per la mente che vede con chiarezza non c’è necessità di scelta, c’è azione. Penso che molti problemi scaturiscano dal dire che siamo liberi di scegliere, che la scelta significa libertà. Al contrario io direi che la scelta significa una mente confusa, e perciò non libera.”
JIDDU KRISHNAMURTI

 

Ecco allora tornare nel mio Adventus le parole Incarnare, Incarnar-sé; e sarebbe impossibile che non lo fosse trattandosi di un periodo che precede (precede, non ‘è’) il Natale.
Impossibile per me, poiché è nella mia storia, e voglio che torni.  E non è nemmeno un ritorno, poiché sono parole-strade che mi accompagnano quotidianamente.
” Se io non sono per me, chi è per me? E se io sono solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?” recita una de “Le massime dei Padri” ( Pirké Avot ) del II sec a. C. e da cui primo Levi trasse il titolo del suo splendido romanzo, pubblicato da Einaudi nel 1982.

Ecco, allora.
Il tempo dell’Adventus non è il tempo dell”attesa della venuta’, ‘E’ ‘la venuta, è un continuo presente su una strada che  -certo- ha una direzione, la quale è raggiungibile grazie ai ‘passo dopo passo’ del presente dell’Avvento. E’ un continuo ininterrotto accadere, una gestazione che poiché è tale e solo poiché è tale permetterà una nascita. Un accadere regolato da Congruenza e Coerenza, da una ‘centratura’ che non ha bisogno di ‘scegliere’, bensì immediatamente ‘è’. Ed è Incarnazione, Incarnar-sé.

Ho condiviso in alcuni post precedenti qualcuno degli ‘ attimi presenti’ della mia vita, dei miei ‘Adventus’.

Dal buio in cui calarci nudi e totalmente affidati ad esso con la ‘vocazione a essere’ (Jung); con la forza dirompente delle “domande buone e delle risposte giuste -che sono l’Amore-” (Valerio Grutt);  con la consapevolezza raggiunta dall’esserci guardati interiormente e riconosciuti nei nostri processi interiori e relazionali con noi stessi e col mondo – e quindi capaci di vedere ‘anche’ il povero che è in noi (Jung); con l’anima dissodata e pronta ad accogliere il seme (Ungaretti); con la chiamata a Incarnar-sé e con la chiarezza dell’importanza della Congruenza e della Coerenza  del diventare ciò che siamo e per cui siamo, ci troviamo sulla Via che ci rende capaci di Incarnarci, di diventare noi stessi, di nascere e ri-nascere, di fare-essere-diventare Natale: noi insieme al Bambino che si pone ad ispirazione di un processo, di una struttura il cui contenuto è dato-costruito da noi stessi,  ognuno singolarmente, ognuno con la Nostra Irripetibile, Necessaria, Meravigliosa Vita-Incarnazione.

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236. qual è la mappa del tuo Natale? 2) Adventus – Il povero che è in noi (Jung) o della Consapevolezza – “Cristo, facendosi uomo, si è reso Lui stesso Uno dei Destinatari delle Beatitudini” (dom Salvatore)

2. ADVENTUS – IL POVERO CHE E’ IN NOI ( JUNG) O DELLA CONSAPEVOLEZZA – “CRISTO, FACENDOSI UOMO, SI E’ RESO LUI STESSO DESTINATARIO DELLE BEATITUDINI” (DOM SALVATORE )                                  

“Vi ammiro, voi cristiani, perché identificate Cristo con il povero e il povero con Cristo, e quando date del pane ad un povero sapete di darlo a Gesù. Ciò che mi è più difficile comprendere è la difficoltà che avete di riconoscere Gesù nel povero che è in voi. Quando avete fame di guarigione o di affetto, perché non lo volete riconoscere? Quando vi scoprite nudi, quando vi scoprite stranieri a voi stessi, quando vi ritrovate in prigione e malati, perché non sapete vedere questa fragilità come la persona di Gesù in voi? Accettare se stessi sembra molto semplice, ma le cose semplici sono sempre più difficili … L’arte di essere semplici è la più elevata, così come accettare se stessi è l’essenza del problema morale e il nocciolo di un’intera visione del mondo … Ospitando un mendicante, perdonando chi mi ha offeso, arrivando perfino ad amare un mio nemico nel nome di Cristo, do prova senza alcun dubbio di grande virtù … quel che faccio al più piccolo dei miei fratello l’ho fatto a Cristo!
Ma se io dovessi scoprire che il più piccolo di tutti, il più povero di tutti i mendicanti, il più sfacciato degli offensori, il nemico stesso è in me; che sono io stesso ad aver bisogno dell’elemosina della mia bontà, che io stesso sono il nemico d’amare, allora che cosa accadrebbe?
Di solito assistiamo in questo caso al rovesciamento della verità cristiana. Allora scompaiono amore e pazienza, allora insultiamo il fratello che è in noi, allora ci condanniamo e ci adiriamo contro noi stessi, ci nascondiamo agli occhi del mondo e neghiamo di aver mai conosciuto quel miserabile che è in noi.
E se fosse stato Dio stesso a presentarsi a noi sotto quella forma spregevole lo avremmo rinnegato mille volte prima del canto del gallo.”

C. G. JUNG, Lettera a una donna cristiana, in Psicologia e religione, Opere, XI

Ci fu quell’incontro travolgente.
Avevo 15 anni. Era venuto in città un monaco camaldolese, amico del parroco del Duomo. Frequentavo la prima classe delle scuole superiori presso un istituto di suore dove il monaco, dom Salvatore, fu invitato a parlare. Era monaco da pochi anni; una vocazione matura, dopo essere stato per dieci anni Presidente dell’Associazione Cattolica di Milano, mentre era Vescovo Mons. Montini, che poi divenne Papa Paolo VI.
Per me è uno degli Incontri fondamentali della mia vita. Non solo per me, a dire il vero. La sua presenza illuminò -anche qui nella mia zona- varie generazioni di giovani e non solo, e illumina ancora chi ha l’onore e la fortuna di incontrarlo.
Il ‘colpo di fulmine’ arrivò per me, quindicenne, quando lui, durane quell’incontro, portò un esempio semplice semplice, una metafora molto sensoriale: ci invitò a far cadere le fette di salame che avevamo davanti agli occhi, a toglierci i nostri occhiali coi quali guardavamo il mondo. Per vedere cosa? Per capire se quello che facevamo era per sostenere i nostri interessi e il nostro ego o lo facevamo veramente con lo spirito capace di sostenere quella ‘cosa’ per ciò che era in sé. L’esempio fu altrettanto semplice: siamo generosi per sentirci buoni-più buoni- più santi, quindi per noi,  o quel gesto era puro, scevro da interessi personali-secondi fini e rispecchiava lo spirito cristiano, un’oblatività che ci connetteva con l’altro su un piano comune, ognuno con la propria storia da condividere?
Era la prima volta che sentivo un invito così chiaro alla Consapevolezza in ambito religioso. Non che tutti gli anni di catechismo fatti fino ad allora, prima da allieva e da poco da insegnante, non mi avessero messo su quel cammino, ma lo avevano fatto in modo indiretto, non così chiaro e netto, e dando il rilievo al gesto (esempio: sii generosa) piuttosto che a quello che lo sosteneva profondamente: c’era effettivamente sempre un velo di ‘buonismo’ e di illusione che offuscava lo sguardo su noi stessi e sugli altri.
Quel giorno entrò nel mio cuore un seme luminoso, che chiedeva di essere accudito e guardato e fatto crescere. Un seme di una pianta esigente, molto esigente.
Non ho mai smesso di ringraziare dom Salvatore e quel momento illuminante, nemmeno ogni volta che  è stato difficilissimo aver cura di quel seme.
Seguirono anni in cui col mio gruppo di amici eravamo spessissimo a Camaldoli, proprio da lui, da dom Salvatore. Sì, c’erano le passeggiate nelle foreste casentinesi, gli incontri con i cerbiatti, il rotolarsi nei prati delle radure, le visite all’Eremo e al suo affascinante silenzio, gli incontri organizzati nel monastero e dove per la prima volta facevamo esperienza del dialogo interreligioso, il Capodanno passato in una baita gestita e a noi offerta dai monaci … ma soprattutto c’era lui, dom Salvatore.
Una volta lo aiutammo negli ultimi giorni di allestimento di una sua mostra su Ambrogio Traversari, un’altra volta per una mostra di quadri e sculture suoi: in quelle occasioni avemmo la ventura di vedere di notte il chiostro sul quale affacciavano le ‘celle’ dei monaci, per andare a prendere o un libro o un suo quadro o altro . Un chiostro interno, al secondo piano, rigoglioso di piante, insospettabile vedendo da fuori la struttura del monastero: c’era una bellissima luna, un bellissimo silenzio, e c’eravamo noi felici.
Un’altra volta, dopo una vacanza che avevamo passato presso una casa d’accoglienza vicina al monastero e gestita da suore, e volendo rimanere ancora un po’, dom Salvatore ci ospitò nel suo studio dove svolgeva le sue attività di architetto, ingegnere, pittore, scultore e biblista e altro. Una fila di sacchi a pelo, una notte passata quasi in bianco a parlare con lui attraverso i canali della nostra affamata e traboccante giovinezza e del suo carisma davvero fuori dal comune. Una leadership per cui ancora non si è inventato un nuovo  termine, poiché è capace di farsi nell’immediato condivisione e partecipazione.
Le sue traduzioni dall’ebraico e dal greco della Bibbia ci donavano linguaggio e contenuti nuovi rispetto alle traduzioni note e che non sempre erano riuscite a ridare i significati del testo originario; le sue traduzioni  facevano rinascere  parole nuove e vive e colme di senso sostenibile. Fu entusiasmante quando condivise con noi  il suo lavoro  – appena concluso e non ancora reso pubblico- sulla Genesi e sull’Adam.
Se poi nel tempo ho potuto capire alcune cose (devono essere chiari sia la scelta che si fa, sia ciò che la sostiene nel profondo poiché, per sostenere quella scelta dobbiamo continuare a nutrire quel livello più profondo; oppure: comprendere la struttura, il processo,  offuscati dal contenuto che spesso è una facciata falsa) lo devo a lui, a quelle fette di salame sugli occhi da far cadere: una frase che è diventata un amato modo di dire tra chi le ha ascoltate, tra chi, in ogni modo possibile, ha voluto realizzare quell’invito.
Per me, fu da quel momento una portante linea guida dei miei comportamenti. Ché mica è facile, eh. Hai appena compreso una cosa, che questa diventa come lo strato di una cipolla, da usare, sì, e da togliere perché ce ne sono altri … e così via, un passo dopo l’altro, fino anche a comprendere che può esistere l’Infinito, inteso come Appartenenza Inestinguibile a un Presente che è al contempo Possibilità e Realizzazione, Immaginazione e Realtà, Io e Tutto Ciò Che E’ Altro Da Io. Accettare che, nella nostra Unicità di Persona, siamo Esseri Collettivi, cioè Co-Esistiamo in Noi e con tutto l’Esistente.
Non l’illusione, bensì la Consapevolezza.
Guardar-Sé, Saper-Sé.
Dom Salvatore, il suo abbraccio forte forte che quasi ci sollevava da terra, il suo sorriso, la sua coerenza, la sua serietà, quel suo modo di essere uomo e monaco che un po’ ci spiazzava perché per la prima volta vedevamo qualcuno così.
Andai a trovarlo anche al monastero di Fonte Avellana, dove lui fu poi trasferito, e una delle volte era perché volevo parlare con lui della mia ricerca sulla Croce e riflettere su alcune intuizioni che avevo avuto in merito alla Resurrezione (evvabbè, ognuno di noi ha i vizi che ha 🙂 ).
Nel mio Adventus, la venuta di oggi è di quelle sue braccia aperte, protese verso me ad accogliermi in un abbraccio inestinguibile, le sue mani-cuore a togliermi giorno dopo giorno ‘le fette di salame dagli occhi’, sempre che io lo voglia. E io lo voglio.
L’essere ‘Consapevoli’, cioè riuscire anche a essere parte della nostra realtà interiore, dei processi e degli stimoli interni, ha la sua espressione esterna nell’ essere Responsabili e ‘Coscienti’, cioè nell’avere comportamenti etici, socialmente accettabili non nel senso delle mode sociali, ma nel senso virtuoso del sostegno all’Esistente, di un Esistente che in questo modo si palesa come Essere e Divenire.
Il seme della Consapevolezza è nutrito anche dall’Immaginazione e dalla Creatività.
Dom Salvatore ci fece doni immensi: per me fu al momento un insight, e la porta che si aprì mi pose in mondi dove ho camminato e cammino con quell’innamorata ‘vocazione a essere’ di cui parla Jung e di cui ho già detto in un post precedente.
Qualche giorno fa sono tornata a trovare Dom Salvatore, e gliel’ho detto: tu non te ne accorgesti, ma quando ci parlasti di quelle fette di salame da togliere, tra il pubblico che ti ascoltava, c’era una quindicenne che cominciò a volare, come fosse in un quadro di Chagall. La sua risata è sempre fragorosa, il suo sorriso è sempre accompagnato da un leggero reclinare la testa verso l’interlocutore, il suo guardare è sempre come fosse un guardare da vicino e da lontano, e sicuramente in questo modo sa vedere  molto di  più e meglio.
E’ promotore e coordinatore  (una delle mille cose che ha fatto) di una ricerca che ha portato ad esaminare 45.000 documenti, ritrovati  in tutti gli archivi d’Italia – dove erano confluiti dopo le soppressioni napoleoniche e sabaude-,  per  testimoniare l’impatto virtuoso dell’operato dei monaci camaldolesi sui boschi dell’Appennino. Ne è nato un lavoro di cui si è interessata l’UNESCO: e questo è molto bello, dal mio punto di vista; non c’è stato uno ‘sgambettare’, un pubblicizzare e pubblicizzarsi,  un ‘farsi vedere ad ogni costo’; ma è stato il valore del lavoro in sé che ha attratto l’UNESCO… e questa è la ‘vera ‘ Bellezza, il ‘vero’ Valore …
E quindi L’UNESCO propone per la prima volta come patrimonio immateriale dell’umanità un Codice Etico, il Codice Forestale Camaldolese.
La Consapevolezza che si declina e si realizza nel rapporto Uomo-Ambiente, e da secoli in questo caso. Altro che mode con-temporanee!
Si può trovare tutto a questo link
https://www.forestaetica.com/

Alle pendici del severo Monte Catria, con la cima appena innevata, con un filo elegante di nebbia, con il colore autunnale dei boschi che sembravano un manto di velluto deposto con delicatezza lungo i fianchi della montagna, con la pioggia sottile e sincera, con il silenzio dell’essere presente solo io, ho trovato quell’aria pura e fresca di cui avevo urgente bisogno.
Ma soprattutto un’aria fresca e pura anche di altro genere, quella che serve al cuore, allo spirito. E  l’ho ritrovata con dom Salvatore: carezze d’anima all’anima. E non solo fatte di ricordi, è impossibile non stare nella Sacralità del  Presente se si è insieme a dom Salvatore, vicini a lui a fare nuovi passi sul sentiero affascinante e impegnativo della Consapevolezza.
Penso che dovremmo tutti fare questi passi, specialmente in questi tempi che portano lontano da questo Cammino e quindi allontanano sempre più anche il piano della  Coscienza e della Responsabilità.
Passi da fare, per non ritrovarci, poi, nella condizione, inaspettatamente ma perfettamente, descritta da un ‘consapevole’ Tenente Colombo 🙂 che, già nel 1971, così diceva alla colpevole appena smascherata : 
“Signora, lei non ha coscienza.
E chi non  ha coscienza, non ha immaginazione;
non riesce a comprendere che si possa essere diversi da se stessi.”
(Tenente Colombo, serie 1, episodio n. 42, “Riscatto per un uomo morto”,
prima TV USA 1971- prima TV Italia 1984 ) 🙂

Sì, penso davvero che dovremmo impegnarci nel Cammino della Consapevolezza, e renderci conto che spesso camminiamo sulla via dell’Illusione scambiandola per Consapevolezza.
Sì, è un Cammino impegnativo, ma, come dice Ungaretti:
“comme une graine mon âme aussi a besoin
du labour caché de cette saison”
(“come la semente anche la mia anima ha bisogno
del dissodamento nascosto di questa stagione”)
GIUSEPPE UNGARETTI, Hiver,
in Derniers jours 1913, Garzanti 1941

E Camminare con quella Consapevolezza che fa vedere ‘realtà’ come quelle di cui parla lo stesso dom Salvatore, in un suo commento al testo evangelico delle Beatitudini di Matteo: perché Gesù – dice dom Salvatore – facendosi uomo, ha ricreato una nuova Umanità e, facendosi uno di noi,  si è reso “Lui stesso Uno dei Destinatari delle Beatitudini.”

goccia fiore

e un sorriso per tutti noi
linus e babbo natale

235. ” Ma le distanze sono ponti / non possono dividere noi / che abbiamo raccolto la luce / dal pozzo degli occhi, abbiamo / visitato il tronco rotto della notte […] ogni sorriso che viene […] dalla riserva del bene […] e capirai che l’amore / era l’unica domanda buona, / l’unica risposta giusta.”

Voglio che tu sappia
che non sei qui per caso
e che capiterà sempre più spesso
di salutare le persone che ami
alla stazione, di non rivederle
per settimane o mesi …
Le vedrai cadere
nella voragine dei giorni
e ti verrà da piangere e maledire,
da spaccare le vetrine.
Ma le distanze sono ponti
non possono dividere noi
che abbiamo raccolto la luce
dal pozzo degli occhi, abbiamo
visitato il tronco rotto della notte.
Voglio che tu sappia
che non sei sola mai
e che  in ogni momento di vuoto
si muove una moltitudine
ed ogni sorriso che viene
– ricordatelo, mi raccomando –
dalla riserva segreta del bene.
Sappi che ci sarà da domandarsi
il senso del tutto, che alla fine
non ci sarà una vera fine
e capirai che l’amore
era l’unica domanda buona,
l’unica risposta giusta.

VALERIO GRUTT

 

Ogni tanto regalavo alla mia collega di stanza una poesia. “Senti, senti che bella” e gliela leggevo come dono mattutino. Alcune le piacevano particolarmente e le stampava, per poi attaccarle a una parete o a un armadio della stanza. La poesia di Mariangela Gualtieri “Sii dolce con me. Sii gentile.” la fece profondamente sua, come fossero parole che lei stessa si diceva a se stessa, e una volta mi ringraziò pubblicamente di avergliela fatta conoscere. Sì, la poesia, l’arte fa questo effetto, rende migliori, e lo spiega bene  Alessandro Bergonzoni quando dice che se veramente abbiamo compreso la Bellezza allora ‘diventiamo’ Bellezza: se abbiamo compreso – per esempio -il dipinto “Impression, soleil levant”, diventiamo quel quadro, o una statua del Canova e così via.  Insomma, diventando Bellezza, la incarniamo, e diventa impossibile continuare ad essere “cattivi”. (Questo “Incarnare” il Nuovo, il Bello, l’Etica, fra l’altro, spiega molto bene, secondo me, la possibilità della compresenza di Essere E Divenire).
Quando la mia collega è andata in pensione, ha  lasciato appesa solo la poesia di Valerio Grutt, quella che ho riportato in questo post.
Stamani l’ho chiamata per salutarla, e in finale di telefonata le ho dedicato la poesia di Mariangela Gualtieri e questa di Valerio Grutt. Questa gliel’ho proprio letta, dal foglio che lei ha stampato e lasciato come saluto.

Ma.
Ma la dedico anche a mio padre, che l’anno scorso di questi tempi ci lasciava velocemente ogni giorno di più, e che ogni  saluto -ciao, buongiorno, buonanotte, un bacino, un abbraccio, una carezza, come stai – sembrava davvero una caduta nella voragine dei giorni. Poi mio padre se ne è andato, lasciando un vuoto con cui mi confronto senza sconti e da cui poi ricevo quella  ‘riserva segreta del bene’ di cui parla Grutt. 
La morte di mio padre, nell’immediato, mi fece comprendere che è urgente amare: una cosa che già sapevo, ma che compresi in modo nuovo e potente, in modo più consapevole. L’unica domanda buona, l’unica risposta giusta è l’Amore. Certo, bisogna intendersi su questo stracitato amore: il comprendere e il comprendersi è il frutto di un Cammino, è l’esito di Passi Di Una Intera Vita, è l’effetto  dei Passaggi Di Consapevolezza che aprono Orizzonti Inaspettati con cui confrontarsi senza sconti. E perché ciò accada bisogna aver Raccolto La Luce Dal  Pozzo Degli Occhi, bisogna aver Visitato Il Tronco Rotto Della Notte, bisogna aver Conosciuto Quella Moltitudine Che Si Muove Nel Vuoto, bisogna essere Arrivati Fino Alla Riserva Segreta Del Bene.
I modi di questi Cammini sono Molto Silenziosi, quasi Segreti, sicuramente Tutelati rispetto al richiamo all’apparire e all’esposizione a cui spingono i tempi che viviamo.
I modi di questi cammini possono ridursi a una Domanda: “Cosa Farebbe L’Amore In Questo Momento? Cosa Farebbe L’Amore In Questa Occasione?”
E’ naturale che allora sorga dal cuore, dalla mente dalla pancia l’ulteriore Fondamentale Domanda ” Ma Che Cavolo E’ Questo Amore? Di Cosa Sto Parlando? ”
Ed è naturale -sarebbe naturale- Incamminarsi Per Rispondere A Queste Domande, Trovandosi ad ogni passo più Nudi, più Smarriti, più Apprendisti, più Artigiani, più Artisti, più Innamorati, più Amanti, più Esploratori: trovare, cioè, ad ogni passo la Nostra Unicità, la Nostra Voce, la Nostra Singolarità Che 
Aspetta Di Nascere, il Disegno Nuovo Che Noi Siamo, mai esistito prima, e che mai esisterà più dopo.

“non sei qui per caso”
“non sei sola mai”

sei un’isola, un continente, un giardino terrestre,
un mondo, un multiverso
che solo tu puoi scoprire
con la domanda buona
con la risposta giusta

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221IbnSaid

http://www.lundici.it/2017/08/imago-mundi-viaggio-fantastico-in-una-mappa-medievale/

https://terraincognita.earth/page/6/?cat=-1

 

234. Emily Dickinson, Facciamo l’abitudine al buio (We grow accustomed to the Dark) “ma imparando a vedere – o cambia l’oscurità – o qualcosa nella vista si adatta alla mezzanotte- e la vita cammina quasi dritta”

Facciamo l’abitudine al buio –
quando la luce si mette via –
come quando la vicina tiene la lampada –
per illuminare l’addio –

un momento – incerti mettiamo il piede
per la novità della notte –
poi – abituiamo gli occhi al buio –
e incontriamo la strada – dritti-

Così di maggiori – oscurità –
quelle notti della mente –
quando nessuna luna svela un segno –
o stella- esce – dentro –

I più arditi – vanno a tentoni –
e a volte picchiano un albero –
proprio con la fronte –
ma imparando a vedere –

o cambia l’oscurità –
o qualcosa nella vista
si adatta alla mezzanotte-
e la vita cammina quasi dritta.

We grow accustomed to the Dark –
When Light is put away –
As when the Neighbor holds the Lamp
To witness her Goodbye –

A moment – We uncertain step
For newness of the night –
Then – fit our Vision to the Dark –
And meet the Road – erect –

And so of larger – Darknesses –
Those Evenings of the Brain –
When not a Moon disclose a sign –
Or Star – come out – within –

The Bravest – grope a little –
And sometimes hit a Tree
Directly in the Forehead –
But as they learn to see –

Either the Darkness alters –
Or something in the sight
Adjusts itself to Midnight –
And Life steps almost Straight.

EMILY DICKINSON, Poesie, Mondadori 1995 (a cura di Massimo Bacigalupo), 1862 [419], pp. 150-153

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https://www.ibs.it/perdersi-m-dolce-piccolo-manuale-libro-kathrin-passig-aleks-scholz/e/9788807172120

https://www.uniroma1.it/sites/default/files/field_file_allegati/segnalazione_dei_media_new_0.pdf

 

233. qual è la mappa del tuo Natale? 1) Adventus – il Buio per Trovar-sé

  1. ADVENTUS – IL BUIO (e non mi scuso se mi ripeto 🙂 ) COME TEMPO E LUOGO DI ‘VOCAZIONE’ PER TROVARSI E RITROVARSI

Qual è la mappa del tuo Natale?
Come te lo configuri mentalmente?
Come lo realizzi?
Come lo vivi? Come lo rendi visibile agli altri e alle altre? Come e da cosa fai, gli altri e le altre possono capire che per te è Natale?
Vivi il Natale cristiano? Vivi il Natale cristiano unito alle tradizioni nordiche? Vivi il Natale cristiano indotto dal consumismo? Vivi un Natale laico? Vivi un Natale legato a tradizioni religioni o simboliche precedenti il cristianesimo? Vivi un po’ di tutto questo?

Come ogni festa, il Natale è preceduto da un’attesa: la religione cristiana lo chiama “Avvento”. Il termine latino ‘adventus’ significa “venuta”, ma il senso attuale è di ‘attesa della venuta’ del Cristo, ed è un tempo liturgico individuato tra il IV e il VI secolo e instaurato dal VI in poi, anche se la nascita di Gesù fu ufficializzata nel 330 da Costantino nel giorno del 25 dicembre, sovrapponendola a quella del Sole Invictus, e poi definitivamente ratificata nel 337 da Papa Giulio II.

Ma prima di quel giorno?
Il periodo che lo precede? Quello, cioè, che è l’Avvento per i cristiani?
Prima?
Il Natale è anche una festa della luce, e lo dimostriamo laicamente con addobbi ogni anno più doviziosi, purtroppo molto finalizzati a muovere sentimenti ed emozioni per poi indirizzarli al consumo spericolato e perverso che caratterizza il periodo natalizio.
Perché, appunto, è diventato ‘periodo natalizio’, un periodo che ogni anno è sempre più anticipato: non solo nei centri commerciali, ormai inizia a ottobre.
Prima di Natale, però, non è necessariamente ‘periodo natalizio’, come non è ‘periodo compleannizio” il periodo prima del compleanno 🙂 , altrimenti, su questo criterio, chi impedisce di rendere ‘periodo natalizio’ tutto l’anno? E lo dimostra il  fatto che il periodo natalizio laico è molto mutevole, e  nel tempo si è ‘espanso’ fino a rasentare il ridicolo.
Di fatto, viene ampliato, laicamente, il tempo dell’attesa.
L”attesa’ è un Tempo sempre più potenziato, anche perché molto proficuo economicamente: pensiamo agli annunci delle uscite di un nuovo prodotto commerciale, cellulare, auto, profumo, gioiello o altro che sia; pensiamo a quanto tutto ciò implementi le vendite.
Si è anche instaurata una visione errata, un po’ da ‘Sabato del villaggio’ di leopardiana memoria, dove l’attesa è considerata il periodo migliore: eh, è tutto un fremito di preparativi, di fantasie … e spesso quando arriva la festa essa porta con sé l’amaro di qualcosa che sta finendo …  E infatti ecco che appena Natale ci viene propinata l’attesa di San Valentino, del Carnevale o di cos’altro si possa commercializzare, usare a fini altri che non siano quelli propri dell’evento, ma ai fini propri-personali di altri o d’altro …
Ma l’ ‘attesa’ assorbe energie in termini di fuoriuscita dal presente e di proiezione verso un futuro, col rischio -che ormai è certezza- di perdere la percezione del presente e di non viverlo per ciò che è. Somiglia a ciò che per secoli prima di Rousseau si pensava dei fanciulli: non venivano considerati per se stessi, per ciò che erano, ma come piccoli uomini (e non parliamo delle fanciulle!!!).
Le conseguenze di questo processo vizioso sono chiare per chi le vuole vedere. Semplificando, si tratta di spostamenti temporali, spaziali, soprattutto psicologici, mentali, sociali con effetti molto negativi.

Invece.
Adventus, dicevano i latini. ‘Venuta’, e non ‘attesa della venuta’. E’ un presente. E se rimango nel presente, è la venuta di cosa?
L’ho già scritto in altri blog, e probabilmente anche su questo negli anni precedenti. Non mi scuso se mi ripeto 🙂
Viene il buio.
Proprio fisicamente viene il buio.
Nella nostra esperienza noi avvertiamo, nelle ventiquattro ore giornaliere, la diminuzione della luce solare e l’aumento del buio notturno.
Ma noi sappiamo anche che può venire un buio del cuore.
Ecco allora che il buio fisico divenne ed è simbolo di paesaggi interiori, di possibili cammini d’anima. Giusto, mi sembra.
Si parla del buio dell’anima, e in molti ne sappiamo qualcosa. Ce ne hanno dato descrizione Dante, Boccaccio, Leopardi, Proust, Ciaikovskij, Virginia Woolf e molti altri artisti e personalità creative: in questo senso viene chiamata depressione. Ne parlano credenti, e in questo senso è perdita della fede, la notte oscura dell’anima di cui parla S. Giovani della Croce.
In ogni caso, il buio è un momento fecondo, evolutivo: dobbiamo guardare la profondità dell’anima e cercare un senso, o un senso perduto. Significa che abbiamo un conto in sospeso con la vita e tutto il nostro sistema-persona non vuole più illudersi, ma chiede “la venuta” alla coscienza di ciò che abbiamo rimosso, ferite profonde all’immagine di noi stessi; e per sopravvivere si è creato un vuoto profondo in noi.
Un buio.
Ma sappiamo che il vuoto non è ‘assenza di’ nel senso comune del termine; è ‘vuoto’, e solo vivendolo nella sua integrità di vuoto, è  situazione di traboccanti e sorgive potenzialità.
Allo stesso modo il buio non è assenza, cecità; non è mancanza di luce, perché il paragone svilisce sempre l’essenza e l’unicità.
E’ buio e basta. E come tale va vissuto.
E cos’è “il buio e basta”?
Sorridiamo di fronte a chi suggerisce di guardare la luce in fondo al buio, il chiarore in fondo al tunnel, di chi non ha compreso il buio.
Il buio, magnifico regale splendido straordinario stupendo regalo che possiamo fare a noi stessi a agli altri; uno dei più bei regali che possiamo fare a chi amiamo, o ricevere da chi amiamo. Ma questo buio, non quello dell’illusione con la luce in fondo da guardare.
No. Il buio va guardato per ciò che è, nella sua completezza, nel suo grido, nel suo silenzio, nel suo potente parlare, nel suo abbraccio scuro, così scuro da diventare lucente.
E’ questo l’aspetto più interessante della ‘venuta’, dell’adevntus: il buio che viene, in cui immergersi.
Interrarsi come fa il seme.
Smarrirsi anche senza la certezza del ritrovarsi; ma percorrendo innamorati e imperterriti i boschi più scuri, scendendo in  ogni  Ade, in ogni inferno , con la ‘vocazione’ a ritrovarsi, come diceva Jung:
“Nelle pieghe del carattere di una persona è presente una vocazione all’unicità, la sua voce è flebile ma persistente”.
Il buio ha un suo linguaggio, ha fascino, ha immagini, ha simboli, ascoltiamo la sua voce senza coprirla con le lucine e le lucione del ‘periodo natalizio’.
Possiamo e dobbiamo dialogare con l’immaginazione, che è evolutiva.
Non a caso poi nasce un Bimbo, un Nuovo: Jung diceva che un aspetto essenziale dell’ archetipo del fanciullo è il suo carattere di avvenire. Nasce un Nuovo, che vedremo come tale ad ogni suo passo di crescita, e senza coprirlo con immagini falsate di ciò che sarà, ma sapendo che sarà grazie alla nostra vocazione a che sia.

Per adesso, immergiamoci nel buio. Senza mappe, anzi perdendo tutte o molte di quelle disegnate fino a quel momento.
Una cosa fondamentale da imparare, e che il mondo intorno non aiuta a fare.
E questo è da mettere nella nostra mappa-visione del mondo, questo sì: l’esperienza del buio come elemento di ciò che è vocazione  a noi stessi.

Buon buio, se avete letto fin qui.
E anche se non avete letto nemmeno una riga 🙂

mente universo

232. far fiorire dalle rovine: i confini non sono sulle mappe ma in tutto quello che tu chiami “verità”

Non è quello che fai,
è ciò che manifesti
ancora nella quiete del non fare.
La tua sola presenza
lascia un’impronta invisibile
nei mondi sottili
dove il tempo non c’è
nella sfera di nessun orologio.
Non è quello che guardi,
è quello che provano i tuoi occhi guardando.
I confini non sono sulle mappe,
ma in tutto quello
che chiami ′′ verità “.
L ‘ eroicità non è nella lotta,
ma in tutto quello

che tu faccia fiorire dalle rovine.

Ada Luz Márquez – Hermana Águila
p.s.
Ci salutiamo per un po’.
Grazie per le vostre visite
e grazie a chi ha lasciato commenti.
Buon proseguimento a tutti e a tutte.

231. parolacce … a iosa, sorelle

“A testa alta posso guardarti negli occhi
e bucare la tua coscienza
con la mia onestà e con la mia correttezza”

 

gaglioffo, cialtrone, presuntuoso, sciocco, furfante, briccone, ribaldo, buono a nulla, ignorante, goffo, canaglia, farabutto, filibustiere, delinquente, pezzente, balordo, ribaldo, inetto, manigoldo, miserabile, malfattore, imbroglione, disonesto, vile, traditore

Non me ne vogliano  i maschi, ma scrivo questo post per le femmine (Stefano non criticare 🙂 )
Non che non ci siano donne con comportamenti, diciamo, maschili-patriarcali, ma scelgo di far così perché non possiamo non riconoscere che storicamente e socialmente le donne sono state e sono “un filino” vessate.
Certo, sentimenti ed emozioni come cattiveria, invidia, superbia, ira, manipolazione, predazione, senso di potere  albergano nei cuori di entrambi i sessi e ne generano i comportamenti. Per dire, ho ricevuto più cattiverie da donne, anche considerate amiche, che da uomini. E  il mio migliore amico è un uomo.
Ma qui penso ai rapporti di coppia uomo-donna, e (per la millenaria consuetudine vessatoria che, per fortuna e a loro merito, è riconosciuta anche da certi uomini evoluti e onesti) a quanto molto di più i maschi sanno essere  … beh, per completare la frase basta scegliere una parola dall’Elenco all’Inizio del Post, che chiamerò da adesso in poi EIP 🙂 🙂

L’ispirazione mi è venuta ascoltando una parola pronunciata da una persona che ricopre un importante ruolo istituzionale e dal fatto che da un bel po’ di tempo amo fare ricerche sulle parole che non si usano più e che sono scomparse dai vocabolari attuali e a tutto ciò che si è perso con esse (a quelle nuove vi si dedicano già in molti 🙂 io stessa me ne occupai con il mio professore di linguistica).
La parola in questione, usata durante una trasmissione televisiva, è una parola obsoleta. Attualmente, termini più o meno offensivi, parolacce e varia, per la maggior parte sono ispirate dalle zone genitali e anali  del corpo umano… una tristezza, per il corpo e per la mancanza di fantasia. Mentre, tra le parole che ho riportato all’inizio, molte  erano ‘mestieri’ , non proprio sostenibili, ma almeno il corpo è lasciato da parte e ci permettono di allargare l’espressione della rabbia-delusione-dolore anche ai comportamenti.
Quella parola usata in tv mi rese quasi allegra, sia per il suono che per quel suo riemergere colto da un passato.
E quindi, regalo questo elenco alle donne che dovessero essere un po’ arrabbiate con qualche maschietto.
E sono sempre pronta ad accettare ulteriori suggerimenti.
C’è soddisfazione nell’usare un  ‘ribaldo’, o un ‘gaglioffo’,’inetto’, ‘manigoldo’ ‘vile’… insomma, poter variare non è male, attingendo a EIP 🙂

allora … per esempio … (ragazze, da qui in poi vi chiamo sorelle 🙂 )
Lui vi ha sedotto in modo tale che non avrebbe nemmeno resistito la più sgamata e vissuta delle sorelle? e poi è diventato tutt’un’altra persona?
Ecco EIP, almeno per un vostro sano sfogo verbale!
Lui vi dimostra affetto e forse anche un po’ di più, vi frequenta, ma non fa un passo avanti, è un po’ confuso, ed è convinto di darvi tutto l’amore del mondo, mentre invece sta solo assaggiando il vostro di mondo e le sue emozioni e le sue sensazioni e i suoi vantaggi, come voi foste un semplice esperimento nel suo?

EIP! Sfogatevi!
Lui vi dice seraficamente ‘forse mi sono innamorato di lei? forse ne sono geloso?”, forte del fatto che non è mai stato chiaro e sincero con voi (vedi sopra) e lo ha fatto anche in modo strategico ( sono quelli che poi dicono  “io non ti ho mai detto che ti amavo”)?

EIP! Liberatevi!
Vive il vostro rapporto solo di nascosto, nulla può essere messo alla luce del sole?
EIP! Sprigionatevi!
Comincia a offendervi con comportamenti e parole e voi “dovete” capirlo perché lui soffre per la sua confusione sentimentale?
EIP! Scaricatevi!
Siete entrambi caduti nel trabocchetto di una  terza persona che ha fatto di tutto per separarvi, e voi cercate di tirare un po’ il fiato (mentre lui continua ad avere quell’assetto un po’ da martire) tacendo per qualche giorno, per capire, e lui approfitta del vostro silenzio per darsela a gambe?
EIP! Prorompete!
Vi somma e vi annulla con un’altra, facendovi scomparire come persona, come innamorata, come amica?
EIP! Scatenatevi!
“Osate” arrabbiarvi -come è giusto- e allora diventa tutta colpa vostra?
EIP! Spassionatevi!
Addirittura andate voi a chiedere scusa (evitate per il futuro, vi prego!), e vi dice ok, ci sentiamo e  invece scompare?
EIP! Manifestatevi!
Dichiara  al mondo intero l’amore per l’altra -non per un’altra qualsiasi, proprio per l’altra-, senza curarsi del vostro eventuale dolore e della vostra umiliazione?
EIP! Esprimetevi!
E’ convinto che siete voi la causa di tutto il fallimento del vostro rapporto, che siete voi la cattiva, l’innominabile?
EIP! Vulcaneggiate!
Non vi ha maimaimai chiesto scusa (anzi accusato, come già detto)?
EIP! Eiettate!

OK, mi fermo qui, anche se potrebbero essere descritti chissà quanti altri comportamenti maleducati, predatori, offensivi.
Ma voi, EIP!, sfogatevi sorelle.

Perché quando ci vuole ci vuole.
Perché non potete permettere che si dicano scempiaggini su di voi, o che vi facciano passare da sceme, o che la meschina interpretazione altrui vi disegni come voi non siete.
Perché voi sapete quanto lo avete amato, e sapete voi le cose che avete fatto per lui e che lui non sa e che non direte mai. Alla faccia del fatto che magari è lui a sentirsi uno dei paladini della dignità, dell’amore, dell’onestà, ecc. ecc.
Perché avete difeso la vostra e la sua dignità ad amore tratto (spada tratta è un’espressione patriarcale, lasciatela a lui e a quelli come lui).
Perché non si deve permettere di mettere nel cielo chi vi ha fatto del male e a voi schiaffarvi nell’inferno tra coloro che abusano degli altri, quindi anche di lui.
Perché a testa alta potete guardarlo negli occhi e bucare la sua coscienza con la vostra onestà e con la vostra correttezza.

Perché.

Per tutti i perché del mondo.

Soprattutto quello che assumersi le proprie responsabilità lo sapete fare voi che avete le ovaie e non tutti i “lui” che, anche se colmi di bellissimi paroloni, sono a zero come consapevolezza e responsabilità, e i loro testicoli diventano solo sinonimi di “balle, menzogne” (quello in cui riescono meglio).

Ad maiora, sorelle.
Ogni sofferenza, ogni tradimento, ogni mancanza di rispetto, ogni violazione è una crescita per noi; noi sappiamo distillare anima dal dolore.

Se avete amato, continuate ad amare. Nonostante.
Se non avete ancora amato, amate. Nonostante.

Un abbraccio, sorelle.
EIP EIP urrà 🙂

donna e mappamondo

 

230. ché duri la tua vita come dura l’amore

 

vorrei portarti sulle spalle, in braccio, o per mano
come tu hai fatto con me fino ai miei primi passi
indipendenti piccoli e felici

vorrei trastullarti con vezzi carezze e favole
e farti capire “fidati” senza dirlo a parole
come accadde da te a me
naturale come il fiorire dei fiori
come le piogge e le stelle

ma pesa a te e a me non il corpo,
la mèta, invece, dove ogni passo ci porta
e allora ci fermiamo con mille scuse
proprio a ogni passo per rallentare il cammino,
così vorremmo
così ci illudiamo

o forse in quelle soste avviene un miracolo
e se mi fermo e se ti fermi
davvero si ferma un po’ la vita
un po’ il tempo
un po’ il destino

forse sì
perché il tempo
forse
forse
esiste solo quando siamo stanchi
quando non c’è più amore

vorrei portarti sulle mie spalle
rallentando al tuo ritmo i miei passi
al tuo ritmo il tempo
la vita
il destino
lasciando che si compia il miracolo
e come nel cielo si allineano i pianeti e i soli e le lune
così noi e il tempo e la vita
allineati al tuo lento stare
adesso in questo mondo

ché duri la tua vita
come dura l’amore

(23 ottobre 2014)

 

229. decidere per la vita di un’altra persona: cosa significa “amare” in quel momento?

E’ domenica 22 dicembre.
Siamo di nuovo di fronte alla porta del Pronto Soccorso, in attesa che esca qualche medico a dirci qualcosa. Dentro c’è mio padre, il terzo ricovero in due mesi, a due/tre giorni di distanza l’uno dall’altro.
Le luci del corridoio hanno sfumature grigie, sembrano le ombre del buio esterno che si riflette sui muri bianchi. C’è silenzio.
Una dottoressa apre la porta e mi fa cenno di entrare. Mia sorella e mio cognato sono due passi più in là e probabilmente non li ha visti.
Entro.
Mi viene spiegata la situazione di mio padre, che già conosco. Stavolta, in più, mi viene chiesto di decidere se intubarlo o no.
Il mondo può crollare e restare intatto. Ed è una situazione di dolore che ho già vissuto interiormente così, ‘come’ il crollo del mondo. Ma stavolta “è” il crollo del mondo.
Come posso io decidere per un’altra vita? Per la vita di mio padre?
Chiedo di far entrare anche mia sorella e mio cognato.
La luce è sempre più piena di ombre. I suoni dei macchinari del Pronto Soccorso diventano lontani.
Di nuovo la dottoressa descrive la situazione.
Mio padre non ha molti giorni di vita. Intubarlo potrebbe prolungare un po’ la sua esistenza, come potrebbe abbreviarla, e ci spiega perché. Oppure scegliamo di non fare nulla e di lasciar spegnere mio padre senza intervenire.
Siamo smarriti. Non abbiamo parole. Pochi balbettii: come facciamo a decidere? chiediamo; non abbiamo competenze mediche che ci aiutino, ripetiamo guardando la dottoressa e guardandoci tra noi.
Silenzi. Pause. Dolore. Smarrimento. Inadeguatezza.
La dottoressa ci dice di aspettare ed entra nella sala ricoveri del Pronto Soccorso.
Rimaniamo in attesa. Vorremmo essere salvati. Vorremmo che questo momento non esistesse, per mio padre, per noi.
Non mi riconosco dentro questa esperienza, il dolore ha dovuto includere anche questo momento, che non avrei mai voluto vivere.
Dopo un po’ arriva un medico. Giovane, autorevole nell’aspetto e nei modi. E’ uno dei medici della rianimazione. Ci chiede di raccontargli. Glielo diciamo. Gli diciamo che non sappiamo cosa fare, perché non ci appartiene l’idea di decidere per la vita di un’altra persona, di nostro padre, e perché non abbiamo conoscenze mediche tali da aiutarci in qualche modo.
Intanto continuo a pensare a mio padre, che è a pochi passi da noi, solo, e vorrei essere con lui, solamente questo, vicino a lui, che sappia che siamo qui.
Il medico ci ascolta. E poi ci dice che non siamo noi a dover prendere questa decisione. La prende lui, è una decisione che deve prendere il medico, ci dice. Non intuberà il babbo, perché l’operazione non è finalizzata a salvargli la vita, mio padre non può essere salvato. Inoltre ci sono i rischi operatori e post-operatori. Insomma, sofferenze inutili, da non aggiungere a quelle che già lo affliggono.
Poi tace. Aspetta le nostre reazioni, oltre le lacrime che ha già visto. Lo ringraziamo. Se ne va.
Rimaniamo lì, finché ci chiamano per accompagnare mio padre in reparto. Per stanotte verrà ricoverato in ortopedia, perché in medicina non c’è posto.
Arriviamo in una camera con due letti. Uno è già occupato e accanto c’è una donna che fa l’assistenza al malato. Il babbo viene messo nel letto più vicino alla porta. C’è un’infermiera che sembra un angelo: lo accudisce con delicatezza e attenzione, gli parla con un tono di voce amorevole; nei suoi gesti noto dettagli che sembrano andare oltre i comportamenti richiesti dal suo lavoro; è presente, c’è, non so dirlo in altro modo.
Dopo che al babbo sono state date tutte le cure necessarie, con mia sorella e mio cognato prepariamo la sdraio per me, che passerò la notte ad assistere mio padre. L’infermiera porta un cuscino per me e per l’altra donna che fa l’assistenza notturna. Ho tutto, ho anche una coperta.
Mia sorella e mio cognato mi salutano, se ne vanno.
Il babbo vuole che rimanga accesa la luce della notte. E’ una luce che non ha ombre, ci tiene compagnia.
Per il poco resto della notte , il babbo sonnecchia, a volte anch’io, entrambi di un non-sonno, di una veglia che ogni tanto cede a una parvenza di tregua.
E così, fino all’alba. Io pronta a dare da bere a mio padre quando lo chiede, lui nel silenzio delle sue sofferenze.
Per i giorni successivi la strada sarà questa.
Riserverà molti momenti diversi, inaspettati, noti, ripetuti, nuovi, teneri, dolorosi, amorevoli.
Mio padre morirà uno dei primi giorni di gennaio.
Ero vicino a lui, con tutti gli altri famigliari.
Non ho più incontrato quel medico che quella sera pre-natalizia fece il medico, assumendo una decisione che davvero non poteva essere delegata a noi figlie in nessun modo.

So che invece si decide tante volte per la vita non solo di un’altra persona, ma di molte altre persone, anche se non è palese o non ci viene chiesto in modo palese come successe a noi quella sera..
Nei casi simili a quello di mio padre, bisogna dirla giusta questa cosa, e giusta è “per la ‘morte’ di un’altra persona”.

Per la vita di un’altra persona e di altre persone, se ci pensiamo bene, si decide sempre. A volte è con amore: i genitori che nutrono i figli piccoli, per esempio. A volte è con cattiveria. A volte con arroganza, a volte con tenerezza.
Si decide in tanti modi, diretti e indiretti.
E’ meglio saperlo.
Il mondo non fa a meno di nessuno noi.
Mai.

227. Tajabone

dolce struggente musica bellissima

Il testo parla di Tajabone, che è una festa musulmana, alla fine del Ramadan. Quel giorno i bambini vanno di casa in casa a scambiare doni.
E a Tajabone, l’angelo Abdou Jabar scende dal cielo nell’animo delle persone e chiede loro se hanno digiunato durante il Ramadan e se hanno pregato cinque volte al giorno, se hanno fatto del  bene.
(fonte web)

Trovo meraviglioso che siano gli angeli a chiedere alle persone di fare un bilancio, che siano gli angeli a suscitare un esame di coscienza.

Che esistano o no, io adoro gli angeli.

E queste musiche.

al mio babbo,
a quei momenti in cui cantava
e inventava le parole che non ricordava:
angelo dell’improvvisazione

E a Paul Klee,
che ci ha regalato gli angeli più intimi improbabili epifanici meravigliosi straordinari
della storia dell’arte

P. Klee, Angelo pieno di speranza, 1939P. Klee, Angelo pieno di speranza, 1939

P. Klee, Angelo nell'asilo infantile, 1939P. Klee, Angelo nell’asilo infantile, 1939

P. Klee, Angelo smemorato, 1939P. Klee, Angelo smemorato, 1939

P. Klee, Crisi di un angelo, 1939P. Klee, Crisi di un angelo, 1939

P. Klee, Un angelo porge ciò che è desiderato, 1913, penna su carta montato su cartoncinoP. Klee, Un angelo porge ciò che è desiderato, 1913

P. Klee, Angelo che porta una piccola colazione, 1920P. Klee, Angelo che porta una piccola colazione, 1920

illuminare
custodire
reggere
governare
chi fu affidato
… e se lo facessimo anche noi con gli altri, considerando che tutto e tutti  è stato a noi affidato, come noi siamo a nostra volta affidati a tutto e a tutti?

226. il cuore muore?

“Senti, ti voglio fare una domanda” mi dice mia madre. “Volevo farla a don Danilo, ma mi sono vergognata … anche perché io so la risposta, però mi è venuto comunque un dubbio. Te la faccio?”
“Sì, va bene.” le rispondo.
“Quando una persona muore, muore anche il suo cuore?”
Scende un silenzio intenso dentro di me. Come sempre, quando mi si palesa come un’epifania il mondo interiore di un essere umano.
“Da cosa ti nasce questa domanda?” le chiedo a mia volta, per capire meglio la sua richiesta, che sembra assurda, ma so che non lo è, so che ha un senso preciso nel mondo di mia madre.
“Io leggo le poesie che mi avete portato tu e Stefania, e in tutte c’è sempre scritto ‘ti porto nel mio cuore’. E lo stesso c’è scritto nel libriccino dove sono raccolte le firme delle persone presenti al funerale del babbo. ‘Ti porto nel cuore, ti porto nel mio cuore’: ma se una persona è morta in quale cuore ci porta? Il cuore vive ancora? Non muore?”
La seguo attentamente: le espressioni del suo viso, le pause per cercare le parole sono come tratti di un disegno che si compone a poco a poco e che traccia un mondo d’innocenza e di semplicità, territori inimmaginabili e sconosciuti, colmi di una tenerezza per me senza fine.
“E poi il babbo portava il pacemaker, e quando è morto il suo cuore ha continuato a battere ancora per due ore a causa di quella ‘macchinetta’ … allora il cuore non muore quando muore una persona?”
Se potessi, la abbraccerei stretta stretta e metterei il cuore del babbo nel suo cuore. Ricordo la debole linea chiara sullo schermo scuro dell’apparecchio che tracciava il battito di un cuore che di suo non batteva più, e pensavo che quel battito supplementare fosse normale per la persona che è stata  mio padre, per il suo cuore buono, per la sua vita onesta.
“Il cuore del babbo era morto con lui, mamma. Quello che batteva era un muscolo attivato dagli ultimi  stimoli elettrici del pacemaker. Nient’altro.”
“E allora che significa dire “ti porto nel mio cuore” se il cuore muore?”
“Chi lo sa.” le rispondo. “Magari esiste un cuore da paradiso, un cuore tutto speciale per l’aldilà.”
Silenzio mio e suo.
“Ora vediamo quelle frasi, mamma.  Forse, nel testo, chi parla è la persona che da qui sulla terra si rivolge a chi non c’è più e gli dice ‘ti porto nel mio cuore’. ”
Sono mesi, giorno dopo giorno, che mia madre legge le frasi raccolte nel libriccino delle firme delle persone che hanno partecipato al funerale di mio padre. A quelle, si sono aggiunti testi che mia sorella e io le portiamo ogni tanto: poesie, riflessioni, preghiere con cui lei riempie il vuoto immenso della sua vita attuale.
E leggo per lei.
“Ecco, mamma. In questa poesia, il cuore di cui si parla è quello della persona che vive ricordando chi non c’è più. E anche questo. E anche questo.”
Praticamente tutti i testi. Tranne uno. Uno solo contiene immaginate parole che vengono dall’aldilà a consolare il dolore della perdita; e anche in quello chi parla dice ‘ti porto nel mio cuore’. Non abbiamo saputo immaginare altro e altri modi.
Ti porto nel mio cuore. Su questa terra e in Altre Terre.

Ma forse i cuori muoiono anche prima della morte della persona. Alcuni cuori certamente. Ma non ne voglio parlare qui, adesso, in questo post. Come non parlo qui di un’altra cosa che mi ha detto, e cioè che siamo imperfetti e che non ci accorgiamo delle nostre imperfezioni.
Non lo dico a mia madre che i cuori possono morire prima della morte della persona, sì, che ci sono persone senza cuore. Per lei sarebbe ancora più incomprensibile di un cuore che non muore con la morte della persona.
Lei al cuore ha sempre dato importanza, lo ha rispettato e coltivato. Per lei non può esistere una persona senza cuore.
Nel suo mondo è così.

221. appartenenze … cominciò a chiamare il proprio nome per capire dove andare

“Vi sogno, parole care che vi stagliate
nel silenzio della visione onirica notturna.
Vi ripetete a me fino ad accompagnare il risveglio,
e poi il giorno e i successivi giorni.
Come Carezze.
Lenire. Evocare.
Il tuo nome, conosci il tuo nome.”

Qual è il proprio nome da chiamare per capire dove andare, come vivere, verso quali mete indirizzare il proprio cammino esistenziale ed esperienziale?

Qual è il vero nome di  una persona?
Qual è il nome  con cui già veniamo al mondo?
Il nome sussurrato nell’universo dagli dei, quello conosciuto dagli astri, dalla terra, dal mare, dall’aria?
Quello che penetra fin nel profondo del cuore.
Quello conosciuto dall’anima.
Quello conosciuto dall’amore.

Il nome de-finisce, limita, de-scrive? Individua? Precisa? Designa? Identifica? Qualifica? Davvero serve a distinguere e riconoscere?
Oppure il nome ha una potenza creativa? Una costante potenza creativa?
Oppure identifica creando e crea identificando?

In molti è presente il racconto di Adamo che dà il nome alle cose.
E poi ci sono i genitori che danno nomi ai figli e alle figlie. I padrini e le madrine ugualmente donano nomi.
Sentirsi per l’intera vita chiamati con quel nome. Chiamare gli altri e le altre per l’intera vita con quell’unico nome.

Le persone che fanno una scelta religiosa e vengono dette ‘consacrate’ possono cambiare nome per la loro nuova vita da ‘consacrati-e’.

E non è ogni attimo una consacrazione, una nuova vita? Da ri-nominare?

Chi ama facilmente crea nomi o nomignoli amorosi, non sa trattenere in un nome dato quell’amore e la persona amata.
Anche un bacio è un nome e un nome può essere un bacio. E una carezza, e un amplesso: sono anch’essi nomi.

Chi ama conosce quel nome con cui la persona amata è venuta al mondo. Impara a conoscere quel nome d’anima.
E’ un nome fatto di tanti nomi, di tutti i nomi dell’universo.
E’ quando diciamo alla persona amata “amore”.

Quante persone siamo capaci di amare?
E gli alberi?
E i semi?
E le radici?
E la pioggia?
Siamo capaci di nominare “amore” l’intero universo?

Considerando che un nome evoca una realtà, siamo capaci di creare nomi di infinita potenza inclusiva?

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APPARTENENZE (da un vecchio blog)
Enzo della Nella, la Nella di Enzo, la Nella della Mara, Enzo della Mara, Enzo di Richetto, la Nella dell’Ada….
Mi piace questo uso ancora vivo nei paesi … per far capire chi è la persona di cui si sta parlando, viene detto il nome proprio della persona seguito dalla preposizione di”, seguita a sua volta dal nome di un famigliare della persona … e vengono distinte le generazioni …
Enzo può essere “di” suo padre, “di” sua madre, “di” sua moglie o “delle” figlie a seconda che l’interlocutore a cui si sta spiegando sia giovane o vecchio …
Io sono la Mara “di” Enzo (mio padre), “della” Nella (mia madre), “della” Stefania (mia sorella), “della” Nena (la nonna paterna), “dell’ ” Ada (la nonna materna), di “Richetto” (il nonno paterno), e così via fino a relazioni più complesse “la nipote della sorella di Amerigo”, ecc. ecc.
E io mi sento felice in questa rete di relazioni parentali.
E anche non parentali.
“la figlia della vicina di casa della Rita”, ecc ecc …

Mi sento arricchita e sorretta; il mio nome è pronunciato per sé e per tutto il mio mondo e per il mondo degli altri.
E non è perdersi, ma un modo diverso di differenziare la propria individualità.

Adoro i nomi degli indiani d’America, complessi, relazionali, attenti al mondo in cui la persona vive e alla sua anima.. Ne ho uno, la cui traduzione imperfetta è “Donna che canta e che va sulle montagne”. Meraviglioso.
No, non basta un solo nome per una persona. La vita ne richiede altri man mano che trascorre e che viviamo esperienze diverse, belle e brutte.
Ce lo insegna l’amore. Quando ci innamoriamo tendiamo ad associare alla persona amata i nomi più vari, i nomignoli, i vezzeggiativi, i diminutivi, i superlativi. Ci sembra che tutto ciò che esiste abbia il nome della persona amata e che il nome della persona amata includa tutti gli altri nomi.
No, non un basta un solo nome per una persona.
Ogni persona che ci incontra potrebbe darci un nome, e sarebbe quello che esprime quella relazione; e così noi potremmo fare altrettanto con ogni persona che incontriamo.
Il nome dato alla nascita non è dato una volta per tutte. Certo, è vantaggioso per la burocrazia, ma non per le relazioni, non per la conoscenza, non per l’apprendimento, non per il cammino. Non per la vita.
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IN VERITA’, SOPRAVVIVE CHI AMA
” A quale segreto mi accenni, o ΦΙΛΗΜΩΝ, con il tuo stesso nome? Tu sei davvero l’amante che una volta accolse gli dèi quando essi vagavano per la terra, quando tutti gli altri si erano rifiutati di dar loro ospitalità. Tu sei colui che, senza sospettarlo, diede accoglienza agli dèi, i quali poi, in segno di ringraziamento, trasformarono la tua capanna in un aureo tempio, mentre il diluvio inghiottiva ovunque tutte le genti. Quando irruppe il caos, tu hai continuato a vivere; eri tu a prestare servizio al santuario quando gli dèi venivano invano invocati dalle loro genti. In verità, sopravvive chi ama. Perché mai non ce ne siamo accorti? E in quale istante gli dèi si sono manifestati? Precisamente quando BAΥKΙΣ volle servire ai pregiati ospiti la sua unica oca, quella benedetta stupidità; allora l’animale andò a rifugiarsi proprio dagli dèi, ed essi si rivelarono ai loro ospiti proprio in quell’istante. Ho visto dunque che sopravvive chi ama e che è proprio lui a offrire, senza sospettarlo, ospitalità agli dèi. In verità, o ΦΙΛΗΜΩΝ, non ho visto che la tua capanna è un tempio e che tu stesso, o ΦΙΛΗΜΩΝ, tu e BΑΥKΙΣ, prestate servizio al santuario.Questo potere magico non si può davvero né insegnare né imparare. O lo possiedi, o non lo possiedi. Ora io conosco il tuo segreto ultimo: TU SEI COLUI CHE AMA. Tu sei riuscito a unire ciò che era separato, a collegare insieme il Sopra e il Sotto. “
C.G.Jung, Libro rosso, p.197
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220. curriculum vitarum, oltre il curriculum vitae

“io” è una parola che significa “noi”, anzi va oltre il ‘noi’, altrimenti rischieremmo di lasciar fuori ‘voi’ e ‘loro’.
Impossibile pensarla diversamente, con buona pace per la grammatica e la semantica. La grammatica separa e definisce, per aiutarci a capire la lingua e a capirci, ed ha il pregio che può essere aggiornata e cambiata. E così la semantica.

E’ come la parola ‘mondo’, come la parola Terra. Noi diciamo con una sola parola un numero immenso di persone animali piante cose sentimenti pensieri visioni-del-mondo, e delle relazioni che intercorrono tra tutto ciò. E non  abbiamo sempre una coscienza chiara di questa immensità racchiusa in una parola.
E Universo? Lo liquidiamo così, con un singolare totalitario, a volte con una maiuscola che sta tra e il perentorio e l’autoritario, insomma lo confiniamo in ogni modo.

E così è per ‘io’: bisognerebbe inventare un pronome soggetto che chiarisca la multirealtà, la complessità, la capacità inclusiva e di connessione di ciò che de-finiamo, limitandolo, con ‘io’.

Non tutti hanno questa autopercezione allargata dell'”io”. Pazienza? Ma fino a un certo punto. Perché a furia di percepire “io” come “io” solitario e scollegato dal resto del mondo si è arrivati dove si è arrivati.

Eppure basta dirlo, basta pensarci un po’. Tra gli esercizi che suggerisco ai ragazzi e alle ragazze delle scuole di ogni ordine e grado che frequentano l’Archivio, ce n’è uno semplice semplice. Faccio loro prendere coscienza di tutto ciò che permette l’esistenza della loro singola vita.
E mica glielo dico io, ci arrivano da soli.
I genitori: il loro amore, il loro atto sessuale; la madre che li ha portati nella pancia. E prima del padre e della madre, quante persone vivendo e procreando hanno permesso la loro vita? La genealogia non tratta solo radici, ma anche spazi aperti, infiniti.
L’ossigeno, l’acqua, il cibo. Il cibo? E come arriva il cibo alla loro bocca? Chi coltiva le verdure? Chi fa il pane? Ecc. … L’acqua? E come arriva al rubinetto di casa? E come è mantenuta potabile? L’ossigeno? Ah, l’ossigeno, l’aria … Osservo i loro occhi illuminarsi, spalancarsi a guardare l’intero mondo che sostiene la loro meravigliosa vita; e spalancarsi a veder se stessi come parte integrante e costruttiva di questo vasto mondo che collabora alle vite.
Ecco radicarsi in essi l’idea di bene comune: e radicarsi pure l’idea che “anch’io” sono un bene comune, come tutti e tutto su questa terra.
Sì, si parlava di documenti … che sono beni comuni … beh, abbiamo capito un po’ di più che serve rispettarli … ma a che servono i documenti?
E allora … noi siamo in vita solo perché sono soddisfatte le esigenze primarie e vitali? E quali sono le esigenze primarie e vitali? O siamo in vita anche perché nessuno ci uccide, ci strazia, ci violenta? E cosa serve a un essere umano per comprendere le assurdità della violenza, della guerra, della prevaricazione? La cultura serve? Sì, serve. Come il cibo. Così non litighiamo per averlo solo noi e magari ce lo dividiamo.
Quale cultura?
Riflettiamo su cosa si intende per cultura, ché mica è quella cosa spocchiosa che si chiude in se stessa, che si crogiola e si isola nella torre d’avorio per perseguire solo i propri interessi e i propri ideali!
E allora cos’è “cultura”?
Beh, siamo in un Archivio, in un luogo che conserva e produce cultura, vediamo di approfondire un po’.
Voi che ne dite?
Cosa significa “cultura” secondo voi? … Coltivare … Cura … Aver cura … Sì, e poi? Cos’altro?
E se fosse proprio questa domanda ‘cos’altro?’ uno dei cardini della cultura? ‘Cos’altro?’, che è come dire ‘E …?’, cioè qualcosa che unisce, che include, che fa andare avanti a conoscere, a esplorare, a sentire …
Potremmo istituire una Commissione per la Cultura con tutti i ragazzi e le ragazze che hanno riflettuto su questa domanda, con le loro risposte, con le loro visioni.
Con la loro creatività.

Perché le cose basta dirle, basta suggerirle.
Basta rifletterle: che poi significa metterle in prospettiva.
A cosa serve un documento? A cosa serve la storia? A nutrirci, a vivere, certo.  E in che modo? Alla storia, e alle sue fonti, spetta il compito di  metterci in luoghi del tempo e dello spazio dove ci sono i ‘prima’ e i ‘dopo’. Ché viviamo nel presente, sì, e anche inseriti in un complesso filogenetico di multirealtà da cui deriviamo  e a cui daremo vita. Anche la storia serve a sentirsi “parte di” e a sentire “gli altri parte di me”.
I documenti, fonti della storia, pongono il nostro presente sincronico nella diacronia evolutiva e diversificante degli eventi e nella diatopia dilagante fino agli spazi più lontani da noi.

Io siamo. Noi è.
Si è già detto in questo blog, e negli altri precedenti.
E’ possibile allora continuare a compilare un curriculum vitae che non sia anche un ‘curriculum vitarum’? che non comprenda anche le vite degli altri? tutte quelle che hanno sostenuto e sostengono una vita? e quelle che noi sosteniamo, a nostra volta?
Per la burocrazia forse sì, e noi speriamo che arrivi a chiedere il curriculum vitarum 🙂
Intanto, possiamo farlo noi, per noi.
Lo hanno fatto i ragazzi e le ragazze delle scuole.
Fantastico.
Documenti che rimarranno a futura memoria di un momento storico, testimonianze di una presa di coscienza epocale: “tutti insieme, ognuno col proprio passo.”
Speriamo.
Sì.
Creatività. Tutto qui.

Cristina T. è un’ assidua frequentatrice dell’Archivio e mia amica.
L’ho vista crescere culturalmente, all’inizio incerta poi ferrea nel suo cammino di studiosa. Attualmente ha raggiunto un livello incredibile di conoscenze e competenze.
Si laureò nell’A. A. 2010-2011. Nella pagina dei ringraziamenti della sua tesi così scrisse: Ringrazio Mara per avermi fatto credere in me stessa, per l’assistenza in sala studio e per il supporto bibliografico.
Le dissi che il merito era suo, che io avrei potuto dirle qualsiasi cosa, ma che se lei non avesse ascoltato non ci sarebbero stati i suoi risultati.
D’altronde avevo belle prove di quello che dicevo. Sia per cose dette da me e non ascoltate da altri, sia per parole ricevute e da me non ascoltate.
Semi e terra. Insieme. Inscindibili.
Pochi giorni fa parlavo con lei. Di questo periodo difficile. Di come si sentano molti lamenti. Di come basterebbe un po’ di creatività per vedere aprirsi orizzonti e soluzioni.
E lei mi dice: “E’ questo che mi ha salvato. La creatività. Le tue parole. Ricordi?: ‘cosa ci fai con la pioggia?’. Me le sono ripetute continuamente, sempre.”
Cristina ha attraversato tempeste, ha conosciuto sofferenze grandi. Ed è qui, ancora oggi, a studiare.
Le ripeto che è merito suo, lei mi dice che no. E da questa schermaglia amorevole emerge la terza via, la via della relazione, dell’accoglienza, della partecipazione costruttiva alla realtà del mondo: ognuna ha il proprio merito, io di aver detto, lei di aver ascoltato. E’ semplice la collaborazione.
Aggiungo questo momento al mio curriculum vitarum. E’ prezioso. Talmente prezioso che lo leggo all’uomo che amo, e lui mi legge il suo.
Non è necessario che lui esista, che mi sia vicino.
La creatività apre e raggiunge orizzonti al di là del tempo e dello spazio. E non è illusione. E’ un salto quantico.
Ché il mondo non è bidimensionale come le mappe che ci siamo fatte di esso. Tutt’altro. E’ multidimensionale. E non vogliamo esplorarlo e viverlo nelle sue completezze?
🙂 

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