Omicidio Nicolina Pacini: , l’Avvocato Gelsomina Cimino non si arresta

Omicidio Nicolina Pacini:  l’Avvocato Gelsomina Cimino non si arresta

Nonostante il silenzio delle Istituzioni, l’Avvocato Gelsomina Cimino non si arresta: mentre continua ad indagare sul perché l’ultimo fascicolo che riguardava Nicolina sia sparito dal Tribunale per i Minorenni di Firenze, ha scoperto l’esistenza di un provvedimento che consacra la responsabilità dei servizi sociali e dei Tribunali. Nicolina doveva essere protetta e quella mattina non doveva trovarsi là dove ha incontrato l’assassino già denunciato e già conosciuto per i suoi gesti estremi.

I dettagli sono stati rivelati in diretta a Pomeriggio 5 : in collegamento con lo Studio dell’ Avvocato Gelsomina Cimino anche i genitori di Nicolina che nonostante le mille difficoltà, pretendono giustizia per la loro bambina!

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Link relativo all’intervista di Pomeriggio 5

https://www.youtube.com/watch?v=BPJbqsJ28zA

 

RISPONDE DI PECULATO IL NOTAIO CHE TRATTIENE LE SOMME DEL CLIENTE DESTINATE ALL’ERARIO

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza del 15.03.2017 n. 2094 ha stabilito che commette il reato di peculato il notaio che si appropria di somme ricevute dai clienti per il pagamento dell’imposta di registro per atti di compravendita immobiliare da lui rogati.

Secondo il dettato dell’art. 314 Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di un’altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Mentre, si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.

Già in primo grado, il Tribunale di Roma aveva dichiarato il notaio colpevole del delitto di peculato continuato, condannandolo a due anni e tre mesi di reclusione; oltre al risarcimento dei danni cagionati al cliente (con la concessione di una provvisionale di 46.000 euro). Secondo il Gip infatti il professionista, nella sua qualità di pubblico ufficiale, s’era appropriato dapprima della somma di 14.000 euro, versata a titolo di pagamento dell’imposta di registro di un primo atto di compravendita, e poi della somma di 32.000 euro, versata sempre ai fini dell’imposta di registro di un secondo atto.

A propria difesa il Notaio aveva eccepito l’errata qualificazione del reato da parte del giudice di prime cure in quanto al più poteva essergli contestato il «peculato d’uso» e che comunque la sua condotta non era caratterizzata dal «dolo di appropriazione», tipico del peculato, avendo lui agito «sempre e soltanto con l’intenzione di fare uso temporaneo delle somme e di versarle o restituirle appena gli fosse stato possibile».

La Corte territoriale nel ritenere infondato l’appello, osserva che la duplice condotta tenuta dall’imputato fu giustamente sussunta nella fattispecie del peculato in quanto costituisce ormai «solidissimo principio di diritto»quello secondo il quale «il pubblico ufficiale che ha ricevuto denaro per conto della pubblica amministrazione realizza l’appropriazione sanzionata dal delitto di peculato nel momento stesso in cui ne ometta o ritardi il versamento, cominciando in tal modo a comportarsi uti dominus nei confronti del bene del quale ha il possesso per ragioni d’ufficio».(Cfr. Cass. n. 43279/2009)

Alla luce di siffatto principio, prosegue la Corte d’Appello, risultano, dunque, destituiti di fondamento gli argomenti difensivi in quanto appropriarsi di «somme di spettanza assoluta dell’erario» integra il delitto di peculato e non certo di quello di peculato d’uso «che per definizione è configurabile soltanto se ricade su cose di specie e non su cose di quantità, come il danaro». Allo stesso modo privo di riscontri è l’assunto secondo cui la difesa ha argomentato l’insussistenza del dolo tipico del reato contestato in quanto l’imputato aveva agito al solo scopo di far uso temporaneo delle somme con l’intenzione di restituirle non appena gli fosse stato possibile. Alla luce dei dati di fatto risulta invero che il professionista «non solo non ha mai versato codeste somme all’Erario, ma non le ha neppure fornite al cliente» che, in quanto obbligato, «è stato chiamato dal competente organo tributario a far fronte, lui, all’obbligazione per la seconda volta», ne deriva pertanto che l’intenzione dell’imputato di restituire o versare quanto indebitamente trattenuto non è stata seguitata dai fatti. La Corte d’Appello ha quindi confermato l’iter argomentativo di primo grado ed ha piuttosto integrato, applicando quale pena accessoria, l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.

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#Suicidio del #paziente: lo psichiatra risponde di omicidio colposo

Suicidio del paziente: lo psichiatra risponde di omicidio colposo

La Cassazione torna ad occuparsi dei reati omissivi impropri con riferimento alla responsabilità professionale medica.

È stata pubblicata solo ieri la sentenza n. 43476 con cui la quarta sezione penale, confermando la condanna resa dalla Corte d’Appello di Caltanissetta, ha ritenuto colpevole di omicidio colposo, un medico del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura di San Cataldo dove veniva accompagnata dal marito, una donna già dichiarata affetta da schizofrenia paranoide cronica, per aver ingerito un’intera confezione di Serenase.

Il medico, in base alla ricostruzione dei fatti operata dai Giudici del merito, dopo aver constatato che la paziente, che egli già seguiva da mesi, si presentava tranquilla e con gli occhi aperti, congedava i coniugi e tranquillizzava il marito che invece, si era recato in ospedale già munito del necessario per un eventuale immediato ricovero.

Rientrati a casa, l’uomo lasciava per poche ore la donna che, nel frattempo si era assopita sul letto e rientrando, scopre che la moglie si era lanciata dalla finestra, perdendo la vita.

Contro la sentenza della Corte di Appello ricorreva il medico assumendo violazione di legge e vizio di illogicità e contraddittorietà della motivazione, oltre che travisamento della prova: la Corte territoriale avrebbe cioè, omesso l’indagine causale tra la condotta omessa e il suicidio.

Al riguardo, val la pena rimarcare che nella specie ricorrono i principi sanciti nella nota sentenza a SS.UU. (c.f. Franzese) del 11.09.2002 n. 30328 con particolare riferimento alla categoria dei reati omissivi impropri e allo specifico settore della attività medico-chirurgica.

Sembra opportuno ricordare che i principi di diritto affermati erano i seguenti:

1) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

2) Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.

3) L’insufficienza, la contraddittorietà, l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

Facendo applicazione di tali, pressochè incontrastati principi, gli Ermellini, con la sentenza in commento hanno confermato la posizione di “garanzia” del medico che si estrinseca nell’obbligo di controllo del paziente che assurge, in tal modo a fonte di pericolo, rispetto al quale il garante, ha il dovere di neutralizzare gli effetti lesivi verso terzi e verso sè stessi.

L’imputato d’altronde, proprio perché medico psichiatra che aveva in cura la vittima già da mesi, di cui aveva contribuito a stilare ben 13 cartelle cliniche, non poteva ignorare né lo stato anamnestico della paziente, né la circostanza che il farmaco ingerito, essendo del tipo “aloperidolo” avrebbe sviluppato i suoi effetti dalle due alle sei ore dopo l’assunzione.

L’aver congedato i coniugi, minimizzando sull’accaduto e comunque senza neanche suggerire un controllo presso il vicino pronto soccorso, ovvero tenere la paziente sotto controllo, anche ricorrendo a un ASO (accertamento sanitario obbligatorio), costituisce violazione del dovere di diligenza professionale e, data la prevedibilità del suicidio – per il particolare stato d’animo della paziente che già in passato aveva posto in essere condotte suicidiarie – egli deve essere ritenuto responsabile di non aver impedito il tragico evento.

Tale decisione evidenzia tre profili di particolare interesse.

Il primo riguarda il fondamento dell’obbligo di garanzia in forza del quale il sanitario assume l’obbligo di curare nel modo migliore il paziente e la cui violazione rappresenta la conditio sine qua non della responsabilità a titolo di colpa. Il secondo attiene alla prevedibilità di un evento potenzialmente dannoso per il paziente, tale da imporre al sanitario di mettere in atto qualsiasi attività al fine di evitare il suo verificarsi. Il terzo, concerne, invece, la regola di condotta che deve guidare la valutazione del giudicante sull’accertamento del nesso causale tra la condotta omissiva del sanitario e l’evento dannoso.

Sotto il profilo della prevedibilità dell’evento è ovvio, invece, che il sanitario non sarà ritenuto responsabile nel caso in cui si verifichi un evento eccezionale ai sensi e per gli effetti dell’art. 41comma 2, c.p.

Con riferimento al caso de quo ovvero alla prevedibilità degli effetti nocivi di un farmaco e, quindi, dell’evento dannoso, la Cassazione ha sostenuto che il sanitario che prescrive un medicinale deve tenere adeguatamente in considerazione gli effetti collaterali, se e quando questi sono richiamati come probabili e anche possibili dalla scienza medica e ciò a maggior ragione quando la relativa indicazione è contenuta nel foglio illustrativo allegato alla confezione del farmaco.

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#Suicidio del paziente: lo #psichiatra risponde di #omicidio colposo

 

NESSUN INDENNIZZO A RAFFAELE SOLLECITO

La Superficialità delle Indagini come unico Reo dell’omicidio di Meredith

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È delle ultime ore la pubblicazione delle motivazioni della sentenza n. 42014/2017 resa lo scorso 28.06.2017, con la quale la Corte di Cassazione ha respinto la richiesta di riparazione avanzata da Raffaele Sollecito per l’ingiusta detenzione patita durante il procedimento penale che lo aveva visto imputato dei reati di cui agli artt. 573-575, 609 bis e ter, 624 bis , 367 e 61 c.p, (il noto omicidio di Perugia) dai quali , con sentenza resa dalla Corte di Cassazione il 27.03.2015 , era stato definitivamente assolto.

A giudizio della Suprema Corte, l’ordinanza della Corte Territoriale ha fornito congrua e corretta motivazione del provvedimento di rigetto, conformandosi pienamente agli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità.

L’introduzione nel nostro ordinamento, dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è avvenuta con il codice di procedura penale del 1988 (direttiva n. 100 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81), con il quale all’art. 314 c.p.p. è stato previsto che chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale con provvedimento cautelare iniquo possa ottenere un indennizzo, da liquidarsi in via equitativa entro il tetto massimo di € 516.456,90, secondo le forme del procedimento descritto dall’art. 315 c.p.p.

La riparazione da ingiusta detenzione cautelare trova la propria fonte anche a livello sovranazionale, in particolare con riguardo sia all’art. 5, comma 5, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui «ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto a una riparazione», sia all’art. 9, comma 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, secondo cui «Chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto a un indennizzo».

Con riguardo alla natura giuridica dell’istituto, è ormai acquisito anche nella giurisprudenza di legittimità che la riparazione per ingiusta detenzione non ha carattere risarcitorio, in quanto l’obbligo dello Stato non nasce da un fatto illecito, ma dalla doverosa solidarietà nei confronti della vittima di un’ingiusta detenzione cautelare.

Pertanto, il contenuto dell’equa riparazione non costituisce un risarcimento per i danni patrimoniali e morali eventualmente subiti nel corso della detenzione, ma rappresenta la corresponsione di una somma di denaro che, tenuto conto della durata della carcerazione preventiva, valga a compensare le conseguenze personali ed economiche prodotte dalla misura ingiustamente applicata.

La disposizione in commento indica i presupposti necessari per ottenere l’equa riparazione dell’ingiusta detenzione subita. Le ipotesi previste dal legislatore sono due: la prima di ingiustizia sostanziale, prevista al primo comma, e la seconda di ingiustizia formale, disciplinata al secondo.

La prima ipotesi, di cui al primo comma, prevede che «chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave».

Innanzitutto, è richiesto che, all’esito del giudizio penale, l’imputato sia prosciolto con una delle formule definitive che ne sanciscono l’innocenza, ossia «perché il fatto non sussiste», «per non aver commesso il fatto», «perché il fatto non costituisce reato» o «non è previsto dalla legge come reato». È opinione comune che anche l’assoluzione pronunciata, ai sensi dell’art. 530, co. 2, c.p.p., in presenza di prove insufficienti o contradditorie, costituisca presupposto per la riparazione ex art. 314 c.p.p.

La verifica di questi presupposti, stante il tenore della disposizione, andrebbe operata ex ante, avendo riguardo agli elementi considerati al momento dell’adozione della misura (Cass. pen., Sez. IV, 28 gennaio 2014, n. 8021).

In realtà, la giurisprudenza con interpretazione estensiva della disposizione ha ritenuto che l’ingiustizia formale della misura cautelare possa risultare anche da una valutazione ex post, compiuta alla luce delle risultanze probatorie acquisite nel corso del procedimento principale. Si pensi a esempio, al caso in cui, nel corso del giudizio di merito, il fatto dell’imputato venga diversamente qualificato e sia contestato un reato punito con pene edittali che non rientrano più entro i limiti previsti dall’art. 280 c.p.p. o all’ipotesi in cui la riqualificazione porti alla contestazione di un reato per il quale è prevista la procedibilità a querela di parte e la stessa non risulti presentata.

In entrambe le fattispecie descritte, costituisce condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla misura cautelare per dolo o colpa grave.

Pertanto il giudice, nell’esaminare la richiesta presentata, dovrà necessariamente verificare che il soggetto indagato non abbia posto in essere una condotta dolosa o gravemente colposa che possa avere influenzato in maniera significativa il provvedimento cautelare emesso (Cass. pen., Sez. IV, 20 dicembre 2013, n. 1921).

La giurisprudenza ha interpretato il contenuto del dolo e della colpa grave facendo riferimento a parametri civilistici e non penalistici, sostenendo che la valutazione della condotta dolosa o gravemente colposa debba seguire non i canoni tipici del processo penale, ma i criteri civilistici che regolano e rapporti tra creditore e debitore.

Nel caso di specie presupposto per il diniego del riconoscimento dell’indennizzo è stato rinvenuto nella contraddittorietà delle dichiarazioni rese dal Sollecito nelle poche ore successive al ritrovamento del cadavere di Meredith Kercher, le quali avevano palesemente costituito degli indizi di responsabilità capaci di corroborare gli altri elementi che secondo gli inquirenti dimostravano il suo coinvolgimento nell’omicidio e nei delitti ad esso collegati.

In effetti, sul punto la Corte territoriale si è soffermata a lungo giungendo a ritenere che “se il Sollecito avesse detto subito, senza successive contraddizioni, che la ragazza [ndr la Knox] era rimasta lontana da lui nelle ore del fatto, ed avesse riferito in modo preciso l’ora in cui era giunta a casa sua nonché le condizioni, presumibilmente alterate o addirittura sconvolte, in cui ella si trovava in quel momento, la sua posizione processuale sarebbe stata sicuramente diversa, apparendo probabile che egli non sarebbe stato neppure indagato o comunque che, non ravvisandosi reticenza o mendacio nelle sue dichiarazioni, qualora indagato, le esigenze cautelari sarebbero state ritenute assenti o meno gravi, inducendo i giudici ad applicare una misura meno severa”. Parimenti le esigenze cautelari sarebbero apparse meno gravi se egli avesse evitato di fornire alibi subito smentiti, o se avesse spiegato le inconciliabilità delle proprie affermazioni con gli elementi emersi con certezza dalle indagini.

Invero, la richiesta di un indennizzo per ingiusta detenzione ex art. 314 c.p.p consegue ad una sentenza di assoluzione che accerti la infondatezza della ipotesi accusatoria all’esito del giudizio di merito. Tuttavia, prosegue la Suprema Corte, se la sentenza di assoluzione costituisce presupposto necessario per poter avanzare l’istanza di riparazione, essa non è sufficiente ai fini dell’accoglimento, che si realizza laddove l’interessato non abbia dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare con dolo o colpa grave.

In particolare si avrà condotta dolosa non solo nel caso in cui la stessa sia volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali (indipendentemente dal fatto di confliggere o meno con una prescrizione di legge), ma anche qualora l’agente abbia posto in essere un comportamento consapevole e volontario che, valutato alla luce del parametro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, sia tale da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della collettività.

Pertanto, il dolo viene ravvisato in tutte quelle ipotesi in cui l’imputato, nel corso del procedimento, abbia tenuto una condotta fraudolenta o pericolosa, tale da far ritenere sussistenti esigenze cautelari nei suoi confronti.

Si ritiene, invece, gravemente colposo il comportamento cosciente e volontario di chi per negligenza, imprudenza o trascuratezza o per inosservanza di leggi, regolamenti o discipline abbia reso prevedibile o evitabile, anche se non voluta, l’adozione della misura cautelare o la sua mancata revoca. Per esempio, la Suprema Corte ha ritenuto gravemente colposa la condotta di un soggetto che aveva reso dichiarazioni ambigue in sede di interrogatorio di garanzia o che aveva omesso di fornire specifiche circostanze non note agli inquirenti al fine di prospettare una logica ricostruzione dei fatti e demolire gli indizi di colpevolezza a suo carico.

Infatti, se è pur vero che il silenzio serbato durante l’interrogatorio non può costituire di per sé condotta dolosa o colposa, poiché riconducibile all’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, è altresì vero che l’ingiustificato rifiuto di fornire elementi a proprio “discarico” può rilevare come comportamento doloso o colposo che ha concorso al mantenimento dello stato detentivo.

Allo stesso modo, la giurisprudenza ha considerato gravemente colposo, e in quanto tale ostativo al riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, il comportamento extraprocessuale dell’imputato che intratteneva frequentazioni ambigue con soggetti gravati da specifici precedenti penali o coinvolti in traffici illeciti; in tali casi, il giudice deve fornire congrua motivazione della oggettiva idoneità di questi comportamenti a essere interpretati come indizi di complicità e a rappresentare la causa dell’emissione del provvedimento cautelare restrittivo (Cass. pen., Sez. IV, 1° luglio 2014, n. 39199).

La valutazione demandata al giudice deve poggiare su fatti concreti e precisi e deve scaturire dall’esame della condotta tenuta dal richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, seppur in presenza dell’errore dell’autorità giudiziaria, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto “causa effetto” (Cass. pen., Sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 3495; Cass. pen., Sez. IV, 14 marzo 2014, n. 21579).

Naturalmente, ove si ritenga sussistente la causa ostativa alla concessione dell’indennizzo, sarà necessario rinvenire il nesso eziologico esistente tra le condotte dolose o gravemente colpose poste in essere dall’indagato e il reato allo stesso ascritto, a fondamento del quale era stata applicata la misura restrittiva della libertà personale.

Sul punto, la decisione in commento ha riportato un passo, ritenuto determinante, proprio della sentenza assolutoria: “La sua presenza sul luogo dell’omicidio, e segnatamente nella stanza dove fu commesso il delitto, è legato alla sola traccia biologica rinvenuta sul gancetto del reggiseno, in ordine alla cui riferibilità non può, però, esservi certezza alcuna, giacchè quella traccia è insuscettibile di seconda amplificazione, stante la sua esiguità, di talchè si tratta di elemento privo di valore indiziario. Resta, nondimeno, forte il sospetto che egli fosse, realmente presente nella casa di via della Pergola, la notte dell’omicidio, in un momento, però, che non è stato possibile determinare. D’altro canto, certa la presenza della Knox in quella casa, appare scarsamente credibile che egli non si trovasse con lei.

La presenza della Knox in casa al momento dell’omicidio – continua la Corte – e la smentita del suo alibi, insieme alle contraddittorie dichiarazioni del Sollecito, mai più sentito nel corso del dibattimento, hanno perciò rafforzato il convincimento della presenza anche di Sollecito nell’appartamento, contribuendo a formare nel GIP la prospettiva di un suo coinvolgimento nei delitti a lui attribuiti che lo ha portato all’applicazione della misura.

Se, dunque, il Sollecito avesse immediatamente comunicato di essere presente nell’appartamento ma di non aver preso parte ai fatti omicidiari – come la sentenza assolutoria sembra confermare, parlando di “mera connivenza non punibile”; se la telefonata ai Carabinieri non fosse stata eseguita, ad opera dello stesso Sollecito, solo dopo un’ora dall’arrivo della Polizia Postale (intervenuta sul posto per rintracciare la titolare della scheda telefonica rinvenuta in un giardino privato limitrofo e dove trovando i due ragazzi Amanda e Raffaele), tanto da apparire come un depistamento degli inquirenti, l’intero iter processuale sarebbe stato, con ogni probabilità, molto più favorevole al Sollecito.

Pur nella cristallina ricostruzione dogmatica operata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, non ci si può esimere dal rimarcare come, ad un raffronto fra questa sentenza della quarta sezione penale della Cassazione, con quella assolutoria di Sollecito e Amanda knox del 2015, la n. 36080 della quinta sezione penale e ancora con la n. 7195/2011 resa dalla prima sezione penale che ha definitivamente condannato Rudy Guede per il delitto di omicidio, emerga la totale sconfitta del nostro intero sistema giuspenalistico: Sollecito e Knox sono stati assolti senza rinvio per “la mancanza di un quadro probatorio coerente e sufficiente a sostenere l’ipotesi accusatoria” (pag. 50 cfr 9.4.3.) e comunque per l’(im)possibilità oggettiva di ulteriori accertamenti che possano dipanare i profili di perplessità, offrendo risposte di certezza, magari attraverso nuove indagini tecniche, rese impossibili dalla esiguità delle tracce biologiche lasciate sopravvivere agli accertamenti frettolosi e inadeguati, oltre che approssimativi (forse perché più preoccupati di fornire un colpevole all’opinione pubblica internazionale che di identificare il vero responsabile), fino alla banalissima distruzione dei computers appartenuti ad Amanda Knox e al Sollecito, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti!.

Rudy Guede, d’altronde, ritenuto “compartecipe di omicidio” si è sempre rifiutato di collaborare nel processo dei due coimputati e, scegliendo la strada del rito abbreviato ha fatto si che non potesse “beneficiare” del progressivo smantellamento delle prove scientifiche, vedendosi finanche rigettare, dalla Corte d’Appello di Firenze, la richiesta di revisione del processo.

Resta l’amarezza per la morte di una ragazza ventiduenne, innamorata di un ragazzo, in nome del quale aveva respinto le avances di Rudy; Resta l’assenza di un movente che possa in qualche modo dare un senso ad una morte così straziante; Resta l’ineludibile sconfitta dell’apparato investigativo incapace di sottrarsi all’influenza mediatica che inevitabilmente per mesi ha tenuto i propri fari accesi su quel piccolo appartamento di via della Pergola.

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