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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

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Messaggi del 11/08/2008

Storia. Anni 1890-1891. Parte terza.

Post n°52 pubblicato il 11 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1890-1891. Parte terza.
DIMISSIONI DEL MINISTERO CRISPI

Nel gennaio del 1891, CRISPI presentò un disegno di legge sul riordinamento delle prefetture e delle sottoprefetture, proponendone la soppressione di alcune. Il disegno passò in prima lettura. Il 28 GRIMALDI (che aveva sostituito Giolitti alle finanze e al tesoro) fece l'esposizione finanziaria, da cui risultò che il disavanzo pubblico del 1890-91 era di 45 milioni, e per far fronte al pareggio presentò una serie di proposte d'inasprimenti fiscali; un aumento di diritto di confine e della tassa di fabbricazione degli spiriti (da 120 a 160 lire l'ettolitro) e altri.
Discutendosi il 30 il disegno di legge sulle nuove tasse, RUGGERO BONGHI (1826-1895) (il fondatore de "La Stampa" di Torino, già ministro dell'istruzione; nel 1871 relatore della legge sulle Guarentigie) criticò aspramente la politica della Sinistra, e specie CRISPI, che in pochi anni aveva dissipato il pareggio, che con tanti sforzi era stato raggiunto dalla Destra.

CRISPI rispose il giorno dopo calmo, poi, irritato dalle frequenti interruzioni, si fece violento:
"Io non voglio - disse - dare alla discussione un carattere che possa menomamente dispiacere a certi oratori che hanno parlato. L'on. Bonghi ieri discusse lungamente e, accennando alla mia politica, disse parole abbastanza amare. L'on. Bonghi fu al potere dall'ottobre '74 al marzo '76. Il rispetto delle tombe m'impone di non esaminare l'amministrazione di quell'epoca. Potrei rispondere in modo da provare alla Camera come l'amministrazione di oggi, come la finanza di oggi, sono in condizioni abbastanza migliori di quelle di allora. Potrei dire qualche cosa di più: che allora non avevate né esercito e flotta, e che si devono a voi i danni di "una politica servile verso lo straniero"..

Successe un putiferio. Dai banchi della Destra, che si riteneva offesa dalle parole del presidente, si alzarono grida; il ministro FINALI indignato si allontanò dal bancone dei ministri fra gli applausi della Destra e dei Centri; il DI RUDINÌ, molto agitato, urlò al Crispi: "Vergognatevi ! Noi non abbiamo che servito la politica del nostro paese e del re".
Forse era giunto il momento che molti aspettavano per buttar fuori il "dittatore".
Da più parti si gridò: "Ai voti ! ai voti !" Crispi, dominando con la sua voce squillante i rumori dell'assemblea, disse:
"Ma date chiaro il vostro voto: io non voglio né voti sottintesi, né riserve future; voglio un voto sicuro, quale si deve ad un uomo onesto che sta qui come uno che adempia ad una missione .... Questo voto all'estero dirà se l'Italia vuole un governo forte o se vuole ritornare a quei governi, che con le esitazioni e colle incertezze produssero il discredito del nostro paese".

La votazione fu fatta su un ordine del giorno di fiducia al governo presentato dall'on. VILLA, che fu respinto con 186 voti contro 123.
Il giorno stesso il ministero presentò le dimissioni.

La formazione di un nuovo ministero non fu facile. I tentativi di dare vita ad un gabinetto di coalizione (con Giolitti o Zanardelli) furono fallimentari.

Dato il motivo scatenante, il nuovo ministero (di sinistra) non poteva non avere colore di destra.
E a comporlo fu chiamato il (considerato) capo della destra; siciliano anche lui, ma nemico giurato di Crispi: il marchese ANTONIO STARABBA DI RUDINÌ

… andiamo appunto a questo periodo dal 1891 al 1892 > > >

 
 
 

Storia. Anni 1890-1891. Parte seconda.

Post n°51 pubblicato il 11 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1890-1891. Parte seconda.

LA "COLONIA ERITREA" - LA MARCIA SU ADUA - RICHIAMO DELL'OBERO - LA MISSIONE ANTONELLI

Con decreto reale del 1° gennaio 1890, tutti i possedimenti italiani del Mar Rosso furono riuniti sotto una sola amministrazione con il nome di Colonia Eritrea. Il generale Orero, che aveva il supremo potere civile e militare, da Massaua trasferì all'Asmara il suo quartiere generale, donde, seguendo le direttive del Governo, poteva essere più utile a Menelick, che intanto avanzava verso la città santa di Axum per cingervi la corona imperiale; e il 2 gennaio scrisse a Crispi di volere occupare Adua, capitale del Tigrè, per consegnarla, poi direttamente a Menelick. L'Antonelli e il Menelick, che, di ritorno dall'Italia, erano giunti in Massaua, sapute le intenzioni del governatore, scrissero a Crispi sconsigliando l'avanzata su Adua, che avrebbe potuto allarmare l'imperatore; il Presidente del Consiglio telegrafò all' Orero di rinunziare all'occupazione della capitale del Tigrè; ma i telegrammi da Roma non giunsero in tempo a fermare il generale, che il 26 gennaio entrò in Adua, commemorandovi il 3° anniversario di Dogali.

CRISPI cercò di trarre profitto dell'occupazione di Adua fatta suo malgrado, ordinò all'Orero di rimanervi ed aspettarvi l'Antonelli e Makoxmen; ma il generale, avendo saputo che Menelick non veniva e aveva dato a ras Mangascià il comando ciel Tigrè, decise di ripassare il Mareb e ritornare all'Asmara. II Crispi, conosciuta l'intenzione del governatore, gli telegrafò:
"Lei è troppo suscettibile, e negli affari di Stato non bisogna prendere risoluzioni immediatamente dopo impressioni ricevute per notizie più o meno attendibili. Lei è precipitoso e non mi lascia neanche un momento a riflettere. In questo modo non si governa; e temo che, continuando così, il nostro accordo non potrà durare. Intempestivamente lei andò in Adua ed intempestivamente la vuole abbandonare .... Stia al suo posto ed attenda altro mio telegramma".

Ma era troppo tardi: l' ORERO era già tornato all'Asmara.
Ma intanto qualcosa di più grave che non fosse la condotta del generale Orero succedeva in Etiopia. Uno svizzero, l'ingegnere ILG, che poi divenne il consigliere ascoltatissimo del Negus, ed agenti francesi, russi, armeni e greci erano riusciti, intrigando e calunniando l'Italia, a cambiare completamente gli atteggiamenti di MENELIK. Gli si era, fra le altre cose, fatto notare che l'articolo 17 del Trattato d'Uccialli metteva l'Abissinia sotto il protettorato dell'Italia, essendo in esso detto che il Negus "consentiva" di servirsi del governo italiano per tutte le trattazioni di affari internazionali.
Fortuna per lui che nelle traduzione amarica (che come la redazione italiana, aveva valore ufficiale) del trattato si trovava una parola che alterava il significato dell'articolo 17: infatti, il traduttore aveva scritto che il Negus "poteva" servirsi, nelle relazioni con le altre potenze europee del governo italiano. In quello italiano il termine fu invece tradotto con un "consente".
Allora Menelick, protestandosi indipendente, aveva comunicato alle potenze europee la sua incoronazione ad imperatore d'Abissinia. E allegando la copia del suo trattato, con quel "poteva", faceva intendere chiaramente che lui disponeva della facoltà di rivolgersi non solo all'Italia ma anche servirsi delle relazioni delle altre potenze europee.

Il 23 febbraio 1890, Antonelli s'incontrò con MENELICK a Makallè; poco dopo il Negus ratificò la convenzione addizionale firmata a Napoli, ma fece le sue riserve circa la linea dei confini; verso la fine di marzo, nominato ras MANGASCIÀ governatore di Adua, l'imperatore se ne tornò verso lo Scioa.
Quel mese stesso, in Italia nelle sedute del 5 e del 6 marzo, ci furono alla Camera lo svolgimento delle interpellanze sull'Africa.
Parlarono l'on. PLEBANO, che consigliò il governo a diffidare di Menelick, violatore del trattato di Uccialli; l'on. GIULIANI che, fra l'altro, criticò la marcia su Adua; l'on. LUIGI FERRARI che svolse la seguente mozione: "La Camera, ritenendo che l'organizzazione coloniale debba essere autorizzata dal potere legislativo; che i trattati internazionali i quali implicano una modificazione del territorio dello Stato ad un onere finanziario non possono avere effetto senza l'approvazione del Parlamento, invita il Governo a sottoporre all'approvazione del Parlamento il regio decreto del 1° gennaio sulla Colonia Eritrea, ed a conformare la sua condotta in Africa alla corretta interpretazione dell'art. 5 dello Statuto"; l'on. GATTI-CASAZZA, che, fece notare che "nel disagio economico in cui versa il paese, ritengo inopportuna la politica coloniale del ministero"; poi parlarono BACCARINI, FRANCHETTI, DE ZERBI, TOSCANELLI, PANDOLCI e FERDINANDO MARTINI, a proposito del Trattato di Uccialli, e l'ultimo pose delle domande legittime, inquietanti, ma anche realisticamente profetiche: "Supponete che al vantato art. 17, il quale consacra il nostro protettorato sull'Etiopia, Menelick manchi, che lui lo violi: noi che cosa faremo? Andremo a punirlo nello Scioa? E faremo la guerra a chi si metterà in diretta comunicazione con lui? O ci rassegneremo a tollerare l'umiliazione?". Al Martini si associarono pure Bonfadini e Tittoni; parlarono inoltre gli onorevoli Filopanti, Odescalchi, Sonnino e Cavalletto.
Risposero il ministro della Guerra e il Presidente Crispi, difendendosi dall'accusa di aver violato lo Statuto e dichiararono che scopo del governo nella politica africana era di creare uno sbocco all'emigrazione e ai commerci italiani.
Dopo un ampio discorso di IMBRIANI, e repliche di FERRARI e di BACCARINI, fu respinta la mozione Ferrari ed approvato con 193 voti contro 55 e 5 astenuti un ordine del giorno di MENOTTI GARIBALDI favorevole al "prudente indirizzo della politica africana del Governo".

Nell'aprile del 1890 il generale ORERO chiese di essere richiamato in Italia e nel giugno successivo, fu sostituito dal generale ANTONIO GANDOLFI, che ebbe il titolo di Governatore civile e, a fianco, come vicegovernatore comandante delle truppe, il colonnello Oreste Baratieri, trentino, ex-garibaldino dei Mille, che era stato già in Africa con la spedizione San Marzano nel 1887-88.

Intanto alla Corte del Negus gli Italiani perdevano di giorno in giorno terreno e la prova fu la fredda accoglienza che il 9 luglio del 1890 ebbe ad Entotto, presso MENELICK il nuovo residente generale CONTE SALIMBENI. Questi cercò di risolvere le questioni pendenti con l'imperatore, ma Menelick non volle saperne di riconoscere il contenuto dell'articolo 17 del Trattato d' Uccialli nel testo italiano, né di concedere il confine del Mareb. In tal senso inoltre scrisse due lettere ad UMBERTO I nel settembre del 1890.

Il 14 ottobre CRISPI telegrafava a SALIMBENI:
"Assicuri Menelick che circa i confini, noi insistemmo per mantenere la linea del Mareb allo scopo di garantire all'imperatore la sua sovranità nel Tigrè, minacciata da molte pretese di altri pretendenti al suo trono di Re dei Re. In quanto all'articolo 17, fu tradotto da Josef, interprete dell'imperatore, e non da noi. Prima di notificarlo alle potenze avemmo il consenso di ras Makonnen; fu stampato su tutti i giornali che Makonnen si faceva sempre tradurre dai suoi interpreti, e non sollevò mai alcuna opposizione .... Per la questione dei confini può assicurare l'imperatore che il Governo italiano è disposto ad accontentarlo se egli ci garantisce la sicurezza delle nostre frontiere .... Ella deve fare in modo che la nostra condiscendenza nei confini sia compensata dall'accettazione da parte di Menelick dell'art. 17 come è nel testo italiano".

Ma a Salimbeni non gli riusciva a migliorare la posizione italiana presso l'imperatore. Il 20 novembre scrisse un rapporto dettagliato su tale situazione al ministero degli Esteri, quindi inviò in Italia, per dare maggiore informazioni al Governo, il dottor LEOPOLDO TRAVERSI, direttore della stazione geografica di Let-Marefià, il quale il 17 dicembre giunse ad Assab e il 10 gennaio 1891, per ordine superiore, dovette ritornare allo Scioa, dove nel frattempo era stato mandato in missione il conte ANTONELLI.
Questi aveva però perso l'ascendente che aveva su Menelick, il quale, del resto, oramai non aveva più bisogno dell'Italia, neppure per il rifornimento di armi, dato che (tempestivamente si era fatta avanti) la Francia e gli aveva offerto quarantamila fucili e dieci cannoni a tiro rapido.

Dopo lunghe discussioni, il 2 febbraio del 1891 MENELICK dichiarò all' ANTONELLI che si sarebbe servito sempre dell'Italia per la trattazione degli affari internazionali e che si accontentava che l'articolo 17 rimanesse com'era nei due testi fino alla scadenza del trattato. Inoltre l'imperatore assicurò che avrebbe confermato questa sua decisione con una lettera a Re Umberto.

II 6 febbraio Menelick consegnò all'Antonelli la lettera e lo invitò a firmare una dichiarazione in cui era detto, fra l'altro: "L'art. 17 resta quale è nei due testi". L'Antonelli firmò, ma più tardi si accorse di aver firmato un documento in cui invece era scritto che si stabiliva di "cancellare l'art. 17". Allora, sdegnato, reclamò la restituzione del documento, che lacerò in presenza del Negus, e decise di lasciare l'Abissinia con il conte SALIMBENI e il dott. TRAVERSI. Nella visita di congedo (11 febbraio) l'Antonelli protestò per aver l'imperatore mancato alla parola data, ma il Negus si scusò dicendo che quando aveva proposto di lasciare immutato l'Art.. 17 "gli girava la testa".

AZIONE DI CRISPI PER IMPEDIRE L'ANNESSIONE DELLA TUNISIA ALLA FRANCIA E LA FORTIFICAZIONE DI BISERTA

Mentre in Abissinia vi erano queste difficoltà, la Francia ne approfittava e non tralasciava con il suo contegno di creare per l'Italia altre altre gravi preoccupazioni nel Mediterraneo.
Nel luglio del 1890 (la sgradita visita di SALIMBENI A Menelick era avvenuta il 9 luglio !) il console italiano a Tunisi informava il suo governo che il 9 di quel mese tra il Bey e la Francia era stato stipulato un accordo per la cessazione della sovranità beylicale alla morte del Bey.

Appena ricevuta questa notizia, CRISPI scrisse all'ambasciatore Italiano a Berlino:
"Se la Germania lascerà eseguire il suddetto trattato del 9 luglio, a noi non solamente sarà sottratta nel Mediterraneo la libertà alla quale abbiamo diritto, ma il nostro territorio sarà sotto una continua minaccia...
L'occupazione francese di Tunisi nel 1881 produsse la caduta del Ministero. Il paese se ne addolorò, ma allora l'Italia era isolata. Oggi esiste la Triplice Alleanza, ed il mutamento della sovranità in Tunisi produrrebbe in Italia due conseguenze: il ritiro del Ministero attuale, e la persuasione nel popolo che a nulla giovi la Triplice Alleanza. Questa seconda conseguenza sarebbe fatale, e bisogna che il Gabinetto di Berlino ci pensi. Io sono convinto che se la Germania farà comprendere a Parigi che l'esecuzione del trattato del 9 corrente potrebbe produrre la guerra, il Governo della Repubblica cederà ad un accomodamento con l'Italia .... Bisogna quindi: o trovar modo d'impedire la dominazione assoluta francese in Tunisia, o premunirsi perché la Tripolitania sia data a noi come sola possibile garanzia di fronte all'aumento della potenza militare e marittima della Francia .... Noi vogliamo procedere d'accordo con i Gabinetti amici, ma siamo risoluti ad usare tutti i mezzi perché l'Italia non sia colpita da un fatto che sarebbe un disastro".

Il Governo francese smentì la voce della convenzione del 9 luglio; tuttavia CRISPI volle scrivere personalmente al conte inglese SALISBURY:
"Se questo mutamento di dominazione in Tunisia avvenisse senza contrasto e a nostra insaputa, la Tripolitania non tarderebbe ad avere la stessa sorte. Il governo della repubblica tende ad occupare questa regione, come stanno ad attestarlo le usurpazioni continue sulla frontiera. Si avrebbe allora che dal Marocco all'Egitto una sola potenza dominerebbe l'Africa del Nord, e che da questa potenza dipenderebbe la libertà del Mediterraneo. L'Italia dal canto suo, sarebbe sotto la minaccia incessante della Francia; Malta e l'Egitto non sarebbero per l'Inghilterra una garanzia sufficiente .... Se noi avessimo la Tripolitana, Biserta non sarebbe più una minaccia per l'Italia né per la Gran Bretagna. Noi siamo vostri alleati necessari, e la nostra unione vi garantirebbe la dominazione di Malta e dell'Egitto".

Il 31 luglio, CATALANI, incaricato d'affari a Londra, scriveva a CRISPI che SALISBURY l'aveva incaricato di telegrafare al presidente del Consiglio che egli "…è convinto che il giorno in cui lo "status quo" nel Mediterraneo, fosse alterato sarebbe necessario che l'Italia debba occupare la Tripolitania: Tale occupazione è richiesta dall'interesse europeo per impedire che il Mediterraneo diventi un lago francese. La sola questione da esaminare è l'opportunità del momento presente all'impresa. L'ostacolo principale ad un'occupazione immediata di Tripoli si troverebbe nella resistenza del Sultano, che dichiarerà guerra all'Italia.
Le condizioni della Turchia sono diverse da quelle dell'epoca della cessione di Cipro. La Turchia da sé sola non è da temersi, ma sarà appoggiata dalla Russia, che coglierà l'occasione di rendersi vassallo il Sultano, difendendone il territorio".
Catalani concludeva: "La chiave di Tripoli è in questo momento a Berlino. Una parola risoluta di Berlino conferirebbe a SALIMBURY l'ardire che gli manca".

Naturalmente CRISPI, mentre interessava della questione i Gabinetti di Londra e di Berlino, non trascurava di far sentire la sua voce a Parigi:
"Bisognerà persuadere codesti signori - scriveva all'ambasciatore in Francia MENABREA - che noi non potremo permettere alcun mutamento politico nella Tunisia, e che qualora il Governo della Repubblica assumesse la piena autorità della Reggenza, avremo con noi i nostri alleati. Il protettorato fu tollerato perché l'Italia era isolata, ma oggi non siamo più al 1881. La Tripolitania appartiene all'impero ottomano, e noi per averla non vorremo provocare una guerra europea. La Francia qualora si mostrasse disposta a facilitarcene il pacifico acquisto come compenso della Tunisia, dovrebbe adoperarsi con tutti i suoi mezzi a Costantinopoli ed a Pietroburgo, da dove ovviamente verranno le opposizioni. E' bene che questo sia messo in chiaro, perché a noi non basta il solo consenso della Francia per occupare il suddetto territorio".

Contemporaneamente CRISPI faceva passi in Tripolitania, presso i capi di quel villayet, per una probabile azione militare, come risulta da una comunicazione segreta del console GRANDE di Tripoli, in data del 7 agosto 1890, in cui si diceva che "HASSUNA CARAMANLI era disposto a coadiuvare la nostra occupazione, assicurava il concorso di gran parte della popolazione e dichiarava che l'elemento arabo non avrebbe aiutato la Turchia".
Mentre CRISPI si sforzava d'impedire alla Francia di farsi padrona assoluta di Tunisi, lo statista siciliano sorvegliava gli armamenti francesi a Biserta, contrari agli impegni assunti da Parigi nel 1881, e li denunciava alla Germania e all'Inghilterra. Quest'ultima fece rimostranze al Governo francese; ma il ministro degli esteri GOBLET dichiarò che i lavori del porto di Biserta erano stati intrapresi per scopi puramente commerciali.

Anche Ribot, più tardi fece le stesse dichiarazioni; ma il Crispi non fu per nulla persuaso e inviò al Salisbury un memorandum in cui mostrava quanto fosse pericolosa per l'Italia e per l'Inghilterra la fortificazione di Biserta.

L'INCONTRO DI CRISPI CON IL CANCELLIERE TEDESCO CAPRIVI

L'8 novembre nel colloquio avvenuto a Milano con il generale GEORG LEO von CAPRIVI, successo a Bismarck, CRISPI prospettò anche al nuovo cancelliere tedesco i pericoli che minacciavano l'Italia e di conseguenza la Triplice per gli armamenti di Biserta. Il Caprivi mostrò di capire l'importanza della cosa, ma disse che "...prima di reclamare era necessario che si completasse la trasformazione dei fucili in Germania potendo il reclamo suscitare una guerra".

ELEZIONI POLITICHE

Quindici giorni dopo il colloquio Crispi-Caprivi , il 23 novembre 1890, ci furono le elezioni politiche, precedute da un discorso, tenuto a Torino da Crispi, in cui, fra l'altro, il presidente del Consiglio fece rilevare quanto era stato fatto in pro dei meno abbienti e specialmente della classe operaia e promise una legge per gl'infortuni nel lavoro, la cassa nazionale delle pensioni per la vecchiaia e l'istituto dei probiviri. Poi Crispi aggiunse:
"…dei nuovi diritti non dovevano abusare gli operai", che ammoniva di "…guardarsi dagli errori dell'internazionalismo. La ragione della Patria dove vivere nel loro spirito e far sentire che, fratelli agli uomini di tutto il mondo, essi sono, come tutti noi, italiani anzitutto".

Le elezioni videro una scarsa affluenza alle urne. Su 2.752.173 aventi diritto, votarono soltanto 1.477.173, ossia poco più della metà.
Dalle votazioni Crispi uscì rafforzato con circa 402 deputati ministeriali, una sessantina di parlamentari dell'estrema sinistra, e una cinquantina della destra indipendente.
Il clima elettorale non fu per nulla sereno, per le misure e le pressioni prefettizie, per la violenta campagna di Crispi contro i radicali, oltre l'intransigenza dei soliti cattolici (nonostante l'Opera dei Congressi), e degli anarchici.

DIMISSIONI DI GIOLITTI

Nonostante l'enorme maggioranza che dovevano rendere formidabile il Gabinetto Crispi, questo, due giorni prima dell'apertura del parlamento, s'indebolì per le improvvise dimissioni di GIOLITTI (Finanze e Tesoro), causate da un dissenso con FINALI, (lavori Pubblici), che insisteva per ottenere un aumento di 12 milioni nel suo bilancio.
A sostituire Giolitti fu chiamato GRIMALDI, e prese lui il portafoglio delle Finanze e l'interim del Tesoro.

INAUGURAZIONE DELLA XVII LEGISLATURA

Il 10 dicembre del 1890 fu inaugurata la XVII Legislatura con un discorso della Corona. Il Re enumerò i disegni di legge che sarebbero stati discussi nella prima sessione.
Pochi giorni dopo l'on. IMBRIANI svolse un'interpellanza sull'esonero del SEISMIT-DODA e sulle dimissioni di GIOLITTI, accusando il governo d'incostituzionalità: "Noi non abbiamo altro che un governo personale: un ministro il quale cerca di seguire non le tradizioni rette della costituzionalità, ma invece di imitare le tradizioni delle cancellerie degli imperi feudali, e stabilire quindi, invece di un governo parlamentare e di Gabinetto, un Governo di Cancelleria, un governo tutto suo, dove le responsabilità dei ministri spariscono e non rimane che la responsabilità del Presidente del Consiglio".
Ma la mozione dell'IMBRIANI non ebbe fortuna e le dichiarazioni con cui rispose CRISPI furono approvate dalla Camera con 271 voti contro 10. Cioè un consenso al suo operato di "accentratore", decisamente schiacciante; ma era solo virtuale.
Abbiamo visto che alle elezioni l'asse della maggioranza (402 eletti) era risultato tutto spostato verso destra e molti dei parlamentari governativi erano dei conservatori o di centrodestra.
Ma se già prima era palese un'opposizione non trascurabile, da qualche tempo si andava organizzando contro il "dittatore" un forte dissenso, dalla sinistra (virtuale, che era più a destra che a sinistra) e dalla destra.

 
 
 

Storia. Anni 1890-1891. Parte Prima

Post n°50 pubblicato il 11 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1890-1891. Parte Prima
L'ASMARA-NEGUS - TRATTATO DI UCCIALLI - CRISPI IN CRISI

BALDISSERA GOVERNATORE A MASSAUA - COMBATTIMENTO DI SAGANEITÌ - IL CONTE ANTONELLI E LA POLITICA SCIOANA - MORTE DEL NEGUS GIOVANNI - IL TRATTATO DI UCCIALLI - RAS MAKONNEN IN ITALIA - LA CONVENZIONE ADDIZIONALE AL TRATTATO DI UTCCIALLI - L'AZIONE DI BALDISSERA - OCCUPAZIONE DI CHEREN E DI ASMARA - IL GENERALE ORERO SOSTITUISCE BALDISSERA - LA "COLONIA ERITREA" - LA MARCIA SU ADUA - L'ART. 17 DEL TRATTATO DI UCCIALLI - RICHIAMO DEL GENERALE ORERO - LA MISSIONE ANTONELLI PRESSO MENELICK - AZIONE DI CRISPI PER IMPEDIRE L'ANNESSIONE DELLA TUNISIA ALLA FRANCIA E LA FORTIFICAZIONE DI BISERTA - L'INCONTRO TRA I CRISPI E IL CANCELLIERE TEDESCO CAPRIVI - DIMISSIONI DEL GIOLITTI - L'INAUGURAZIONE DELLA XVII LEGISLATIURA - DIMISSIONI DEL MINISTERO CRISPI

BALDISSERA GOVERNATORE A MASSAUA

Dopo il ritiro da Sabarguma del negus Giovanni - come si è detto nel precedente capitolo - la maggior parte del corpo di spedizione italiano guidato da SAN MARZANO rimpatriò, e a Massaua, in qualità di governatore e di comandante superiore delle truppe rimase il maggior generale ANTONIO BALDISSERA.
Questi si diede subito a riordinare le truppe, i servizi militari e civili e cominciò ad allacciare relazioni d'amicizia con le tribù vicine per estendere l'influenza italiana e prepararsi per l'occupazione dell'altipiano.

Primo obbiettivo fu Cheren, che il 26 luglio 1889, fu occupata dalle bande alleate all'Italia del "barambaras" KAFIL. Intanto un altro gruppo indigeno a servizio dell'Italia, guidato da un certo DEBEB; avventuriero tigrino, che aveva disertato quando il Negus e il San Marzano stavano uno di fronte all'altro, rifugiatosi nell'Accheli Guzai, organizzava incursioni contro le tribù già sottomesse agli italiani. Il generale BALDISSERA pensò di farlo sorprendere a Saganeiti, dove il Tigrino risiedeva, e incaricò dell'impresa il capitano CORNACCHIA il quale, con 400 "bascibuzuch", quattro ufficiali (i tenenti BRERO, POLI, VIGANÒ E VIRGINI) e la banda di ADAM agà (300 uomini), mosse il 4 agosto del 1889 da Uaà per la via di Italia-Hevo.

COMBATTIMENTO DI SAGANEITI

Il piccolo corpo all'alba dell'8 agosto 1889, occupò d'assalto il villaggio di Saganeiti, ma non vi trovò DEBEB, il quale, avvertito, si era posto con i suoi sulle alture vicine. La colonna CORNACCHIA, circondata ed assalita da forze di molto più numerose subì gravissime perdite.
Morti il comandante e i quattro ufficiali con 200 uomini di truppa, rimasti feriti 76, i superstiti si ritirarono e raggiunsero alla spicciolata Massaua. Questo doloroso episodio diede luogo ad aspre critiche contro il Baldissera, il quale chiese il richiamo, ma il Governo, costatato che il generale non era responsabile dell'insuccesso, gli confermò la fiducia.
Non solo con le armi BALDASSERA cercava di estendere l'influenza italiana in Africa, ma anche con la politica. Nel campo politico però egli non era solo: aveva un concorrente autorevole e fortunato nel conte PIETRO ANTONELLI, l'ardito viaggiatore, che si era accattivata l'amicizia di MENELICK, che nel 1883 aveva, come abbiamo già visto, stipulato un trattato segreto con lui, ed ora, accarezzandone le ambizioni, si proponeva di servirsene a vantaggio dell'Italia contro il Negus e di farlo salire sul trono con il suo aiuto.

IL CONTE ANTONELLI E LA POLITICA SCIOANA

Gli eventi pareva che favorissero la politica antonelliana. Il re del Goggiam, TECLA ANNANOT, si era ribellato al Negus GIOVANNI e questi, nonostante avanzò con tanta sicurezza verso Saati, si era dovuto ritirare. Un'azione combinata tra le truppe italiane e le truppe scioane avrebbe avuto facilmente ragione del Negus il quale per giunta aveva contro di sé un altro nemico potente, i Dervisci che, penetrati in Etiopia, avevano incendiato Gondar.

MENELICK sapeva che Giovanni sospettava di lui, avendolo ras ALULA e DEBEB accusato presso il Negus di avere istigato l'Italia alla spedizione di Massaua e di essere d'accordo con il re del Goggiam. Minacciato da GIOVANNI e temendo di essere spodestato, il re dello Scioa si diede da fare per prepararsi ad una guerra quasi certa e chiese armi all'Italia, promettendo di vendicare gli Italiani caduti in Africa.

Nell'estate del 1888, latore di lettere di MENELICK, il conte ANTONELLI giunse in Italia per indurre il Governo ad accettare le proposte del re dello Scioa. CRISPI inviò alcune migliaia di fucili e si mostrò disposto ad accettare quello che MENELICK proponeva, ma disse di volere garanzie di territori e di ostaggi e rimandò l'Antonelli in Africa incaricandolo di dire a MENELICK di attaccare il Negus, contro il quale poi sarebbero andate le truppe italiane.

Ma MENELICK faceva la politica del temporeggiatore e intendeva trarre profitto dall'azione di altri. Aveva promesso aiuti a TECLA AIMANOT, ma quando il Goggiam fu invaso e messo a ferro e a fuoco dal Negus non impegnò neppure un solo uomo; aveva promesso al governo italiano di operare insieme contro GIOVANNI, ma quando questi andò a Sabarguma, lui non si era mosso. Ora, invece di attaccare il Negus, impaurito dalle sue minacce, faceva da un canto atto di sottomissione e dall'altro sollecitava gli italiani a salire sull'altipiano.

MORTE DEL NEGUS GIOVANNI

Erano a questo punto le cose quando il Negus GIOVANNI re d'Abissinia, con un esercito di settantamila uomini marciò contro i Dervisci, ma presso Metemma, nelle sanguinose giornate del 10 ed 11 marzo del 1889 le sue orde furono sconfitte e lui stesso fu colpito mortalmente.
Il 25 marzo 1889, ANTONELLI telegrafava a Roma informando CRISPI della morte di Giovanni: "L'esercito del Tigrè è completamente distrutto. Sono morti, oltre il Negus, ras Area, zio del Negus, ras Ailh Mariam e diversi altri capi: Ras Alula e ras Michel si sono salvati con poche forze. Re Menelick si trova presso Uollo Galla diretto a Gondar, ove si incoronerà re dei re. In questa qualità firmerà il trattato .... Sarebbe necessario che Vostra Eccellenza ordini di occupare e fortificare Asmara".

Il giorno dopo MENELICK in una lettera a Re UMBERTO confermava quanto aveva scritto l'Antonelli e pregava che gli Italiani occupassero con decisione Asmara, aggiungendo:
"Pregherei V. M. di dare ordine ai generali di Massaua di non ascoltare le parole dei ribelli che si trovassero dalla parte del Tigrè e d'impedire il passaggio delle armi".
I ribelli erano ras ALULA e ras MANGASCIÀ, figlio di Giovanni. Quest'ultimo aspirava lui alla corona imperiale e rappresentava quindi l'unico ostacolo alle ambizioni di MENELICK, come abbiamo visto già salito sul trono.
Alcuni giorni dopo, e precisamente il 5 aprile, il senatore PARENZO svolgeva un'interpellanza sulle intenzioni del Governo dopo la morte del Negus. Rispondeva CRISPI che "per l'Italia poteva essere grande la tentazione e non minore la seduzione, ma che il Governo non si sarebbe lasciato né sedurre né tentare. Ma poiché il Parlamento si era sempre rifiutato di ritirare le truppe da Massaua, qualche profitto conveniva trarre dalla posizione acquistata con tanti sacrifici".

Il 7 e l'8 maggio furono svolte alla Camera alcune interpellanze sulla situazione in Africa. L'on. SONNINO interrogò il Governo intorno alle ragioni che lo avevano indotto, mentre si trovavano in stato di guerra con l'Abissinia, a non approfittare degli ultimi rivolgimenti là avvenuti, per assicurare il confine che strategicamente era necessario alla sicurezza dei nostri possedimenti ed al benessere dei nostri presidi. Necessaria ora, secondo l'oratore, era l'occupazione di Asmara, Zazega e Cheren, che ci avrebbe dato il comando della via per Sabarguma e Massaua, della valle del Mareb e della valle dell'Anseba.
Altre interpellanze svolsero gli onorevoli DI BREGANZE, che riteneva dannoso mantenere a Roma la direzione del servizio d'Africa; ROUX e COSTA si dichiararono contrari ad ogni ulteriore avanzata in Africa; SPROVIERI, spronava il Governo ad andare avanti; RICCIO che voleva che ci si fermasse a Massaua; DELLA VALLE consigliava di lasciare al Governo libertà d'azione; BONGHI sostenne che non avevamo il diritto di occupare e colonizzare parte dell'Abissinia.

CRISPI rispose che non poteva dire che cosa il Governo avrebbe fatto, che bisognava lasciargli la facoltà di giudicare ciò che conveniva fare e in quale occasione, e che si sarebbe ispirato sempre al concetto di tutelare il nome, la dignità e gli interessi d'Italia. Quanto a Menelick affermava che si era proclamato imperatore e che era intenzionato ad impadronirsi del supremo potere.

IL TRATTATO DI UCCIALLI

ANTONELLI intanto era riuscito a indurre MENELICK a stipulare, il 2 maggio del 1889, un trattato di amicizia e di commercio con l'Italia, che fu detto di Uccialli dalla località in cui fu concluso. E gli riconobbe la legittimità del potere in Abissinia. Mentre lui accetta le conquiste dell'Italia in Etiopia. Così recitava il trattato:

"Sua Maestà Umberto I, Re d'Italia, e Sua Maestà Menelick II, Re dei re d'Etiopia, allo scopo di render proficua e durevole la pace fra i due Regni d'Italia e d'Etiopia, hanno stabilito di concludere un trattato d'amicizia e di commercio. E S. M. il Re d'Italia, avendo delegato come suo rappresentante il Conte Pietro Antonelli, Commendatore della Corona d'Italia, Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, i cui pieni poteri furono riconosciuti in buona e debita forma, e S. M. il Re Menelick, stipulando in proprio nome quale Re dei Re d'Etiopia, hanno concordato e concludono i seguenti articoli:

I. - Vi sarà pace perpetua ed amicizia costante fra S. M. il Re d'Italia e S. M. Il Re d'Etiopia e fra i loro rispettivi eredi, successori, sudditi e popolazioni protette.
II. - Ciascuna delle parti contraenti potrà essere rappresentata da un agente diplomatico presso l'altra e potrà nominare consoli, agenti ed agenti consolari negli Stati dell'altra.
III. - A rimuovere ogni equivoco circa i limiti dei territori sopra i quali le due parti contraenti esercitano i diritti di sovranità, una Commissione speciale, composta di due delegati italiani e due etiopici, traccerà sul terreno, con appositi segnali permanenti, una linea di confine, i cui capisaldi siano stabiliti come appresso:
a) la linea dell'altipiano segnerà il confine etiopico-italiano;
b) partendo da Arafali, Halai, Saganeiti ed Asmara saranno villaggi nel confine italiano;
c) Adi Nefas e Adi Johannes saranno dalla parte dei Bogos nel confine italiano; d) da Adi Johannes una linea retta prolungata da est ad ovest segnerà il confine italo-etiopico.
IV. - Il convento di Debra Bizen con tutti i suoi possedimenti resterà proprietà del Governo etiopico, che però non potrà mai servirsene per scopi militari.
V. - Le carovane da o per Massaua pagheranno sul territorio etiopico un solo diritto dì dogana di entrata dell'8 per cento sul valore della merce.
VI. - Il commercio delle armi e munizioni da o per l'Etiopia attraverso Massaua sarà libero per il solo Re dei Re d'Etiopia. Ogni qualvolta questi vorrà ottenere il passaggio di tali generi dovrà farne regolare domanda alle autorità italiane, munita del sigillo reale. Le carovane con carico di armi e munizioni viaggeranno sotto la protezione e con la scorta di soldati italiani fino al confine etiopico.
VII. - I sudditi di ciascuna delle due parti contraenti potranno liberamente entrare, viaggiare, uscire coi loro effetti e mercanzie nei paesi dell'altra e godranno della maggiore protezione del Governo e dei suoi dipendenti. E' però severamente proibito a gente armata di ambo le parti contraenti di riunirsi in molti o in pochi e passare i rispettivi confini con lo scopo di imporsi alle popolazioni e tentare con la forza di procurarsi viveri e bestiame.
VIII. - Gli Italiani in Etiopia e gli Etiopi in Italia o nei possedimenti italiani potranno comprare o vendere, prendere e dare in affitto e disporre in qualunque altra maniera delle loro proprietà non altrimenti che gli indigeni.
IX. - È pienamente garantita in entrambi gli Stati la facoltà per i sudditi di praticare la propria religione.
X. - Le contestazioni o liti fra Italiani in Etiopia saranno definite dall'Autorità italiana a Massaua o da un suo delegato e da un delegato dell'autorità etiope. Morendo un Italiano in Etiopia o un Etiope in territorio italiano, le autorità del luogo custodiranno diligentemente tutte le sue proprietà e le terranno a disposizione dell'autorità governativa a cui apparteneva il defunto.
XII. - In ogni caso per qualsiasi circostanza gli Italiani imputati di un reato saranno giudicati dall'Autorità Italiana. Per questo l'Autorità etiopica dovrà immediatamente consegnare all'Autorità italiana in Massaua gli Italiani imputati di aver commesso un reato. Egualmente gli Etiopi imputati di reato commesso in territorio italiano saranno giudicati dall'Autorità etiopica.
XIII. - S. M. il Re d'Italia e S. M. il Re dei Re d' Etiopia si obbligano a consegnarsi reciprocamente i delinquenti che possano essersi rifugiati, per sottrarsi alla pena, dai domini dell'uno nei domini dell'altro.
XIV. - La tratta degli schiavi essendo contraria ai principi della religione cristiana, S. M. il Re dei Re d' Etiopia s'impegna d'impedirla con tutto il suo potere in modo che nessuna carovana di schiavi possa attraversare i suoi Stati.
XV. - Il presente trattato è valido in tutto l'impero etiopico.
XVI. - Se nel presente trattato, dopo cinque anni dalla data della firma, una delle due alte parti contraenti volesse fare o introdurre qualche modifica, potrà farlo; ma dovrà prevenirne l'altra un anno prima rimanendo ferma ogni e singola concessione in materia di territorio.
XVII. - S. Maestà i1 Re dei Re di Etiopia "consente" di servirsi del governo di S. Maestà il Re D'Italia per tutte le trattazioni di affari che ha con altre potenze o Governi. (attenzione a questo "consente" che fu maltradotto in amarico in "poteva" - vedi più avanti. Ndr.)
XVIII. - Qualora S. M. il Re dei Re d'Etiopia intendesse accordare privilegi speciali a cittadini di un terzo Stato per stabilire commerci ed industrie in Etiopia, sarà sempre data, a parità di condizioni, la preferenza agl'italiani.
XIX. - Il presente trattato, essendo redatto in lingua italiana ed amarica e le due versioni concordando perfettamente fra loro, entrambi i testi si riterranno ufficiali e faranno sotto ogni rapporto pari fede.
XX .- Il presente trattato sarà ratificato, e le ratifiche saranno scambiate a Roma il più presto possibile. In fede di che il conte Pietro Antonelli, in nome di S. M. il Re d'Italia, e S. M. Menelick, Re dei Re d'Etiopia in nome proprio hanno firmato ed apposto il loro sigillo al presente trattato".

RAS MAKONNEN IN ITALIA - LA CONVENZIONE ADDIZIONALE

Dopo la firma di questo trattato, MENELICK inviò in Italia un' ambasceria diretta dal cugino ras MAKONNEN e guidata dall' ANTONELLI. Sbarcò a Napoli il 21 agosto; il 28 fu ricevuta con grande solennità al Quirinale. Il 29 settembre 1889 fu ratificato i1 trattato di Uccialli e il 1° ottobre, a Napoli, da FRANCESCO CRISPI e da ras MAKONNEN in nome dei loro sovrani, fu firmata la seguente convenzione addizionale:

"I. - Il Re d' Italia riconosce Re Menelick imperatore di Etiopia.
II. - Re Menelick riconosce la sovranità del Re d'Italia nelle colonie che vanno sotto il nome di possedimenti italiani nel Mar Rosso.
III. - In virtù dei precedenti articoli sarà fatta una rettifica dei due territori, prendendo a base il possesso di fatto attuale, per mezzo dei delegati che, a tenore dell'articolo 3° del Trattato dal 2 maggio 1889, saranno nominati dal Re d'Italia e dall'Imperatore di Etiopia.
IV. - L'Imperatore di Etiopia potrà far coniare poi suoi Stati una moneta speciale di un peso e di un valore da stabilirsi di comune accordo. Essa sarà coniata nelle zecche del Re d'Italia ed avrà corso legale anche nei territori africani posseduti dall'Italia. Se il Re d' Italia conierà una moneta per i suoi possedimenti africani, essa avrà corso legale in tutti i Regni dell'Imperatore d'Etiopia.
V. - Un prestito di quattro milioni di lire italiane dovendo essere contratto dall'imperatore d'Etiopia con una banca italiana, grazie alla garanzia del Governo d' Italia, resta stabilito che l'imperatore di Etiopia dà da sua parte al Governo italiano, come garanzia per il pagamento degli interessi e per l'estinzione della somma capitale, gli introiti delle dogane di Harras.
VI. - L'imperatore di Etiopia, mancando alla regolarità del pagamento delle annualità da convenirsi con la banca che farà il prestito, dà e concede al Governo italiano il diritto di assumere l'amministrazione delle dogane suddette.
II. - Metà della somma, ossia due milioni di lire italiane, sarà consegnata in monete di argento; l'altra metà, rimarrà depositata nelle Casse dello Stato italiano per servire agli acquisti che l'imperatore di Etiopia intende di fare in Italia.
VIII. - Resta inteso che i diritti fissi di dogana dell'articolo 5 del sopraccitato trattato tra l'Italia e l'Etiopia si applicheranno non solo alle carovane da o per Massana, ma a tutte quelle che scenderanno o saliranno per qualunque strada dove regna l'imperatore d'Etiopia.
IX. - Così pure resta stabilito che il terzo comma dell'articolo 12° del sopraccitato Trattato è abrogato e sostituito dal seguente: "Gli Etiopi che commetteranno un reato in territorio italiano saranno giudicati sempre dalle Autorità italiane".
X. - La presente convenzione è obbligatoria non solo per l'attuale imperatore di Etiopia, ma anche per i suoi eredi e successori nella sovranità di tutto o di parte del territorio sul quale Re Menelick ha dominio.
XI. - La presente convenzione sarà ratificata e le ratifiche saranno scambiate il più presto possibile".

L'11ottobre 1889, CRISPI, applicando l'articolo 34 dell'atto generale della Conferenza di Berlino del 26 febbraio 1885 notificò alle potenze l'articolo 17 del Trattato d' Uccialli secondo il quale l'imperatore d'Etiopia "consentiva" di servirsi del Governo italiano per tutte le trattazioni d'affari internazionali. Il 4 dicembre la missione abissina s'imbarcava a Napoli per Gerusalemme e Ras Makonnen telegrafava ad Umberto I ringraziandolo calorosamente dell'ospitalità ricevuta. La politica dell'Antonelli trionfava.

Diversa da quella, dell 'ANTONELLI era stata la politica del generale BALDISSERA. "Questo impareggiabile tipo di soldato - scrive Gualtiero Castellini - diffidava istintivamente della politica dell'Antonelli come di quella che favorendo capi di troppa importanza, quali Menelick, giocava un grosso rischio. Anche Baldissera tentava talora la politica di seduzione, ma, valendosi di capi minori e non giocando quindi mai le carte più arrischiate. Né aveva quella petulante baldanza proprio del soldato avventuriero che vede la salvezza soltanto nell'opera delle armi .... ma confidenza nell'opera graduale di penetrazione che andava compiendo e sopra tutto nella trasformazione della colonia che era in grado di compiere con le truppe nere, dalle quali era adorato.
Poche volte l'Italia ebbe di fronte al nemico un uomo di così lucido intuito e di
piena capacità e di così perfetto equilibrio. Troppo poco se ne valse".

Quando era giunta a Roma la notizia della morte del Negus, CRISPI avrebbe voluto l'occupazione di Cheren e di Asmara, ma BALDISSERA consigliava di aspettare il momento opportuno e lasciare frattanto che i capi abissini rivali si dilaniassero fra di loro. Le premure del governo, che aveva cieca fiducia nella politica dell'Antonelli, e il contegno insidioso di Ras Alula e Barambaras Kafil, che tramava contro l'Italia con il primo, indussero il generale all'occupazione di Cheren, effettuata il 2 giugno 1889 dalle colonne Escard e Di Majo, partite da Canfer e da Asus il 27 e il 28 maggio.

OCCUPAZIONE DI CHEREN E DI ASMARA

Si facevano i preparativi per marciare sull'Asmara, quando giungeva notizia che DEBEB, recatosi a Makallè presso ras MANGAGCIÀ, era stato imprigionato a tradimento e che ras Alula si preparare a ritornare nell'Hamasien. Allora il Baldissera affrettò l'operazione.

La notte del 3 agosto del 1899 una colonna italiana, protetta sulla destra da truppe comandate dal maggiore di Majo risalenti la valle del Dorfa, mosse da Ghinda e il mattino occupò Asmara. Il 16 agosto, essendosi saputo che ras ALULA marciava da Godofelassi su Gara, fu mandata, contro di lui una colonna, che l'obbligò a ritirarsi precipitosamente verso Adua.

Aveva luogo intanto la missione etiopica del Makonnen in Italia; ma BALDISSERA continuava a diffidare dì Menelick e a seguire la propria politica, tentando di accordarsi con ras Mangascià e con ras Alula. Però CRISPI disapprovava, telegrafandogli: "Ella vuole la pace con Alula, mentre io vorrei che fosse punito per le stragi di Dogali".

IL GENERALE OBERO

Allora il generale Baldissera, adducendo motivi di salute, chiese di essere richiamato in Italia ottobre) e nei primi del novembre del 1889 fu sostituito dal generale OBERO.

 
 
 

Storia. Anni 1888-1889.

Post n°49 pubblicato il 11 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1888-1889.

LA SPEDIZIONE SAN MARZANO IN AFRICA
CONVENZIONE SEGRETE DEL RE CON LO SCIOA
LA MISSIONE PORTAL - RITIRATA DEL NEGUS GIOVANNI
INTERPELLANZE ALLA CAMERA SULLA CAMPAGNA D'AFRICA

Il 26 ottobre del 1887, l'indomani cioè del discorso pronunziato dal Crispi al banchetto di Torino, partirono per l'Africa i primi scaglioni della spedizione militare che doveva vendicare l'eccidio di Dogali; comandata dal tenente generale ASINARI di San Marzano, aveva con sé i generali di brigata GENÈ, LANZA, CAGNI e BALDISSERA. Le truppe del corpo di spedizione, sbarcate nell'autunno a Massaua e unite al Corpo speciale d'Africa formarono una massa operante di circa 20.000 uomini, di cui 3.000 indigeni, con 38 pezzi d'artiglieria, i duemila uomini delle bande del capo Debèb e gli equipaggi della squadra del Mar Rosso.
Le operazioni dovevano cominciare non appena il corpo di spedizione fosse stato in condizione di muoversi; invece rimase a Massaua, esposto a quel clima torrido, colpito dalle febbri e dalla dissenteria, fino a tutto il gennaio in attesa che si sapesse l'esito della "missione PORTAL", inviata dall'Inghilterra presso il Negus per tentare di rappacificare l'Italia e l'Abissinia.
Il Governo italiano sperava un esito migliore da MENELIK, allora re dello Scioa e aspirante alla corona imperiale d'Abissinia, con il quale il conte ANTONELLI, accreditato presso di lui, aveva il 20 ottobre del 1887 in Addis Abeba stipulato la seguente convenzione segreta:

"S. M. MENELIK, re dello Scioa e di Kaffa ecc., ed il conte PIETRO ANTONELLI, come inviato di S. M. il Re d'Italia, hanno convenuto:
1° - S. M. il Re d' Italia e S. M. il Re di Scioa ed i loro rispettivi governi si dichiarano amici ed alleati e si sottintende che debbono godere, quanto più estesamente è possibile, di tutti i diritti e privilegi di due nazioni civili alleate; 2° - S. M. Il Re d'Italia promette a S. M. il Re di Scioa che, qualora S. M. Scioana avesse bisogno di aiuti in armi od altro, per far valere i suoi diritti, glieli darà con la maggior sollecitudine possibile. Dal canto suo S. M. il Re Menelik promette di aiutare S. M. il Re d' Italia in tutte le circostanze;
3° - S. M. il Re d'Italia dichiara a S. M. il Re Menelik che non farà annessioni di territori.
4° - Il Governo di S. M. il Re d'Italia si impegna a far consegnare all'agente di S. M. il Re Menelik 5000 fucili Remington in Assab, nello spazio di sei mesi dalla data della presente convenzione.
5° - S. M. il Re Menelik promette al Governo di S. M. il Re d'Italia che dette armi serviranno per la propria difesa e non saranno mai impegnate a recare danno alcuno agli Italiani, e di ciò dà formale promessa".

Ma né Menelik né la "missione Portal" furono utili all'Italia. Il primo aveva in animo di giocare l'Italia per assicurarsi l'invio delle armi e un aiuto per le sue mire ambiziose, non impegnandosi però a fondo e fingendo di volere mettere i suoi buoni uffici tra l'Italia e il Negus GIOVANNI, contro il quale, se l'Italia lo avesse conosciuto meglio, si sarebbe accorta che lui al Negus non ci sarebbe mai andato.
Mentre al Portal il Negus rispose che "non si poteva parlare di pace quando i cavalli erano già sellati e le sciabole sguainate e quando gli Italiani calpestavano ancora il suolo etiopico".
La risposta di Giovanni si conobbe nel Natale del 1887, al ritorno della "missione Portal". Allora il Crispi telegrafò a Londra, ringraziando il Governo inglese per l'opera svolta presso il Negus e chiudendo il telegramma con queste parole:
"La parola spetta oramai alle armi. Fidiamo nel valore dei nostri soldati".

Il 1° febbraio 1888, SAN MARZANO con quasi tutte le sue truppe marciò su Saati, lo rioccupò e lo fortificò potentemente per sostenervi gli attacchi del Negus. Questi, nel marzo scese dall'altipiano con più di ottantamila uomini ed andò ad accamparsi nella conca di Sabarguma, a poca distanza dalle posizioni occupate dagli italiani.
Nonostante la superiorità numerica del suo esercito, GIOVANNI non osò attaccare le linee italiane. Invano tentò di attirare le nostre truppe fuori delle loro posizioni, poi dopo due mesi di inattività, verso gli ultimi di marzo, per mancanza di viveri e per le epidemie scoppiate nel suo esercito, fu costretto a iniziare una ritirata. Questa iniziò il 3 aprile del 1888 e si sarebbe facilmente trasformata in una rotta disastrosa se gli italiani fossero piombati su quelle torme stanche, sfiancate dal digiuno; ma per ordine giunto da Roma, rimasero dentro le linee della difesa e lasciarono che il Negus si allontanasse tranquillamente dalla conca di Sabarguma.
Di lì a poco (e pochi capirono perché) la spedizione SAN MARZANO rimpatriava e al comando delle truppe rimaste restava il generale ANTONIO BALDISSERA con poteri civili e militari sulla colonia.

In Italia nella tornata del 2 maggio 1888, incominciò alla Camera lo svolgimento delle interpellanze sulla campagna d'Africa. L'on. DE RENZIS disse che era giunta l'ora delle spiegazioni su quanto si era fatto e su quello che si voleva fare; sostenne che la responsabilità della campagna africana dopo Dogali spettava al presente ministero; affermò che dopo 14 mesi e molti milioni, non si era avuto né la pace né la guerra; ed il ritorno delle nostre truppe era pieno di malinconia perché quelle avevano dovuto assistere inerti alla ritirata nemica quando avrebbero potuto sbaragliare le orde abissine.
BONGHI intervenendo, affermò che "…dopo Dogali non si poteva certo abbandonare l'Africa senza vergogna, ma che non dovevamo neppure impegnarci in una guerra vera e propria"; lodò le istruzioni date dal Governo a San Marzano e lodò questo per averle eseguite; quindi, venendo a parlare di ciò che l'Italia doveva fare in Africa, sostenne che "è nostro interesse rimanere a Massaua ed allacciare amichevoli relazioni con l'Abissinia. Da uno stato di pace con l'Abissinia si possono avere grandi e veri vantaggi; e nella storia politica coloniale si sarebbe potuto, forse per la prima volta, registrare il fatto di uno Stato europeo che ha dominato popolazioni barbare con le civili conquiste della pace e non con gli orrori del ferro e del sangue".

POZZOLINI rettificò alcune asserzioni di Bonghi e chiese che si annullasse il trattato inglese Howett. Rispose a tutti il ministro della guerra, il quale spiegò le ragioni per cui si era dovuta limitare l'azione delle truppe, accennò alla difficoltà dei trasporti, e lodò San Marzano per la sua prudenza e le nostre truppe per il valore e la disciplina; disse che "…se poi era mancato il successo militare non era però mancato quello morale".
Anche CRISPI prese la parola; disse di avere sempre sostenuto che non si dovesse fare una politica di conquista, ma riprendere le posizioni abbandonate. Quelle posizioni erano state riprese e saldamente tenute davanti ad un nemico sì numeroso ma anche impotente a ricacciarci. Circa le intenzioni del Governo per l'avvenire, Crispi disse che non si poteva tenere Massaua senza Saati e che a Saati quindi si sarebbe rimasti.

La discussione proseguì nella seduta successiva. Vi parteciparono DE BENZIE e POZZOLINI che presentò una mozione approvante la politica del Governo in Africa; BONGHI che propose l'abbandono di Saati ed Uaà, infine Crispi, il quale dichiarò che il Governo desiderava e sperava di ottener la pace, e che non avrebbe potuto, senza recare offesa, ricusare la mediazione inglese; quindi BACCARINI e MUSSI presentarono, anche in nome di molti deputati, due mozioni: la prima diceva:
"La Camera encomia altamente le virtù dell'esercito e dell'armata, ritiene non conforme all'interesse nazionale una politica militare sulle coste del Mar Rosso e invita il Governo i richiamare le truppe"; la seconda era così concepita: "La Camera, deplorando che al suo voto sia stato sottratto l'inizio dell'impresa africana, contraria all'interesse ed al prestigio del Paese, invita il governo a richiamare in Italia il corpo di spedizione".

Lo svolgimento di queste mozioni si cominciò nella seduta del 10 maggio 1888. Dopo BACCARINI e MUSSI, che illustrarono nuovamente le loro mozioni, parlò il ministro della Guerra sul trattamento ai reduci di Dogali; l'on. DI CAMPOREALE sostenne che "…non si dovesse abbandonare la costa del Mar Rosso" e presentò un ordine del giorno in cui si approvava la politica del Governo; l'on. L. FERRARI dichiarò che la politica di espansione coloniale si era inaugurata senza il consenso del Parlamento ed affermò che "…il Governo avrebbe dovuto concentrare le sue forze a risolvere il problema della politica interna con intenti di civiltà e di rinnovamento nazionale anziché fare una politica coloniale consentita soltanto a paesi di esuberante vitalità"; l'on. DE ZERBI in un forte discorso considerò "…inaccettabile la teoria secondo cui il re e il potere esecutivo non potessero spedire truppe fuori i confini del regno senza l'autorizzazione del Parlamento", lodò la condotta delle truppe in Africa e del San Marzano, e si disse contrario al richiamo delle truppe da Massaua "…perché l'indomani dell'imbarco del nostro ultimo soldato vi sarebbero sbarcati i soldati di un'altra nazione europea", sostenne che Massaua era una colonia importantissima e che "…occorreva avanzare anziché indietreggiare" e concluse col dire che "…l'avvenire di tutti i popoli stava nella colonizzazione e che i popoli i quali non pensavano al domani si votavano al suicidio".
Dopo Zerbi, di altro avviso fu ODESCALCHI che si dichiarò "…favorevole all'abbandono completo di Massaua, che era e sarebbe stata sempre una passività per il nostro bilancio".

Nella seduta dell'11 maggio 1888, parlarono il ministro della Guerra, l'on. MARSELLI, il quale affermò che l'obiettivo dell'Italia doveva esser quello di un protettorato commerciale sull'Abissinia che ci consentisse di esercitare una legittima influenza sul Sudan e sull'Egitto; FERDINANDO MARTINI, disse doversi "…lasciare a Massaua un esiguo presidio e abbandonare Saati perché la sua occupazione significava uno stato di guerra in permanenza con l'Abissinia"; l'on. TOSCANELLI che presentò e svolse un ordine del giorno, augurandosi la pace e l'alleanza con l'Abissinia per combattere i Sudanesi, e approvando la politica africana del Governo e il modo com'era stata ispirata e condotta la campagna militare; l'on. FORTIS, da parte sua affermò che "…abbandonare Massaua dopo tutto quello che era accaduto ripugnava al sentimento ed alla ragione perché avrebbe diminuito infallibilmente il nostro prestigio in Europa", ma, sostenne, che si doveva rimanere a Massaua con intenti pacifici; l'on. GIUSSO appoggiò la necessità del mantenimento di Saati, e l'on. ARNABOLDI, dichiarandosi contrario alle mozioni presentate, approvò la condotta del Governo che credeva "…ispirata ad un alto sentimento del diritto e della dignità nazionale".

Nella seduta del giorno 12 maggio 1888, l'on. SOLIMBERGO svolse il seguente ordine del giorno:
"La Camera, encomiando altamente le virtù dell'esercito e dell'armata, volendo mantenere l'occupazione italiana nel Mar Rosso, confida che la politica si esplichi come è richiesto dalla dignità e dall'interesse nazionale".
L'on. POZZOLINI svolse quest'altro: "La Camera, udite le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, approva la condotta del Governo in Africa";
infine l'on. CAMILLO FINOCCHIARO-APRILE svolse questo terzo ordine del giorno
"La Camera, affermando che l'esercito e l'armata hanno bene meritato della Patria, udite le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, confida che il Governo saprà risolvere la questione africana secondo la dignità e gl'interessi della nazione".

FRANCESCO CRISPI, prendendo la parola, si disse lieto che nella discussione si fosse levata una nota alta e patriottica da tutti i settori della Camera, dichiarò di esser contrario all'abbandono di Massaua che agli indigeni sarebbe parsa una fuga, affermo affermò che a Massaua l'Italia esercitava piena sovranità e che si era opposto decisamente alla Francia, la quale sosteneva che vigeva ancora il sistema delle capitolazioni, e concluse facendo appello al patriottismo di tutti e alla lealtà di quanti volevano il bene e la grandezza d'Italia e dicendo: "Le colonie sono una necessità della vita moderna. Noi non possiamo rimanere inerti e far sì che le altre potenze occupino da sole tutte le parti del mondo inesplorate, altrimenti saremmo colpevoli di un gran delitto verso la patria nostra; comportandosi da inerti chiuderemmo per sempre le vie alle nostre navi ed i mercati ai nostri prodotti .... Noi cominciamo oggi, e mal si comincerebbe quando, al primo ostacolo, si fuggisse dai punti che abbiamo occupato"; "Siamo a Massaua e ci resteremo!".

Dopo il discorso del Crispi presero la parola: MANCINI che presentò e svolse un ordine del giorno, MUSSI che ritirò la sua mozione, BACCARINI che disse esser fuori di questione la fiducia nel Governo; gli onorevoli POZZOLINI, PELLOUG, ELIA, TOSCANELLI, DI CAMPOREALE, FORTIS, PATERNOSTRO, BRANCA, CHIALA ed altri ritirarono i loro ordini del giorno; fu messa ai voti la mozione BACCARINI; fu approvata la prima parte e respinta la seconda, quindi la Camera approvò l'ordine del giorno presentato da CAMILLO FINOCCHIARO-APRILE.

CONVENZIONE MILITARE ITALO-GERMANICA
MUTAMENTI MINISTERIALI
INAUGURAZIONE 3a SESSIONE DELLA XVI LEGISLATURA
TUMULTI ROMANI E DIMISSIONI DEL MINISTERO

Tre mesi prima delle tornate in Parlamento, cioè il 1° febbraio del 1888, fu firmata a Berlino la convenzione militare tra l'Italia e la Germania proposta da CRISPI a BISMARK nell'ottobre dell'anno precedente.
Con questa convenzione si stabiliva che, se fosse scoppiata una guerra tra gli Stati centrali da una parte e la Francia e la Russia dall'altra, l'Italia avrebbe attaccato la Francia e avrebbe inviato in Germania sei corpi d'armata e tre divisioni di cavalleria perché operassero con l'esercito tedesco.

Dopo questa convenzione si rendeva necessario un aumento nel bilancio della Guerra e il 1° dicembre i ministri BERTOLÈ-VIALE e BRIN presentarono un disegno di legge per l'autorizzazione di spese militari straordinarie.
Il 21, durante la discussione parlamentare, contro questo disegno si scagliò CAVALLOTTI con un suo ordine del giorno: "deplorava la politica estera del Crispi turbatrice della pace e della vita economica italiana" e affermava che "…nel paese e specie fra gli avanzi delle vecchie legioni garibaldine era sorto un grido di protesta e d'allarme per la "politica crispina" che avviava la nazione alla guerra e alla catastrofe"…."Questi uomini che insorgono contro la politica troppo ardita dell'onorevole Crispi sono pur quelli che la patria ha visto sempre al loro posto, in prima fila, nel giorno delle supreme audacie; e alla loro testa vi è Giuseppe Missori, poesia vivente, idealizzata dell'eroismo italiano. E sono questi impavidi sfidanti della fortuna che per creare la patria non esitarono a gettarsi incontro all'ignoto, che oggi dell'ignoto, hanno paura, sul suo pauroso limitare si fermano, e invitano l'onorevole Crispi a fermarsi. Perchè è lecito a quelli, anche se non conoscono la paura, temere per la cosa che hanno idolatrato di più. Sono queste le paure dei forti".

FRANCESCO CRISPI rispose che le spese proposte erano esclusivamente quelle necessarie alla difesa, e aggiunse:. "Fatalmente tutti armano, compresi i piccoli Stati, e noi non possiamo restare inerti. Aggiungete, signori, che noi siamo nel Mediterraneo dove è disputata e si è anche insediata quella legittima influenza alla quale abbiamo diritto.
Noi abbiamo quindi bisogno, di una forte armata, la quale non solo difende il paese da possibili assalti, ma vada per i mari a proteggervi i nostri commerci. Io non so se vi sarà o no la guerra .... Molte però sono le cause di un grande, eventuale incendio europeo; molti sono i dissidi in questo vecchio continente che, o all'oriente o all'occidente, potrebbero produrre uno scoppio, e noi bisogna che ci troviamo preparati a fare il debito nostro .... Non dobbiamo permettere che, in tutte le questioni che potrebbero sorgere, e nelle quali l'interesse del nostro paese fosse impegnato, il nome d' Italia, la bandiera del nostro paese potessero abbassarsi dinanzi alle esigenze dello straniero.
Finché io sono a questo posto, di questi esempi non ne darò mai".
Il 22 dicembre 1888 la Camera con 231 voti contro 45 approvò la politica estera del Governo.

Nello stesso mese in cui si firmava la convenzione militare si dimetteva il Coppino da ministro della Pubblica Istruzione, avendogli il Senato respinto un Disegno di legge per la conservazione dei monumenti. CRISPI lo sostituì con BOSELLI. La Destra, di cui il nuovo ministro faceva parte, interpretò la nomina come un passo del presidente del Consiglio verso di essa e mise ogni impegno per abbattere MAGLIANI, ministro delle Finanze, che, come il COPPINO, era di Sinistra.
I motivi per combatterlo non mancavano. Grave era il disavanzo del bilancio; nell'estate del 1888 erano aumentati il dazio sui cereali; la tassa graduale del bollo per cambiali; nel novembre il ministro proponeva di ristabilire i due decimi dell'imposta fondiaria e di aumentare il prezzo del sale.
Fu questo nuovo disegno di legge che rovesciò MAGLIANI. La commissione del bilancio respinse all'unanimità il disegno e l'onorevole GIOLITTI, relatore, attaccò a fondo il ministro e la politica finanziaria del Governo. Negli ultimi di dicembre AGOSTINO MAGLIANI si dimetteva dal ministero delle Finanze e del Tesoro. Crispi lo affidava a BERNARDINO GRIMALDI, che lasciava l'Agricoltura a LUIGI MICELI e al Tesoro il senatore PERAZZI.

Gli avversari di CRISPI speravano forse nelle dimissioni dell'intero Gabinetto ma dopo averlo visto più saldo che mai, trasportarono la lotta dal Parlamento alla piazza.
Il 13 gennaio del 1889 a Milano, che era centro del partito francofilo, si tenne un comizio pacifista, al quale parteciparono due deputati francesi, il RIVET e il GAINARD, scesi in Italia a fraternizzare in nome degli immortali principi del 1789 e a dare la mano a PANTANO e a CIPRIANI. Presente anche il celebre leader marxista tedesco WILJEM LIEBNECHT.
Pochi giorni prima (l'8 gennaio 1889) a Faenza, migliaia di operai senza lavoro, assalivano i forni del pane; accenni di rivolta anche a Ferrara; poi per quasi tutto il mese manifestazioni di protesta si ripeteranno nel corso del mese in altre città

Il 28 gennaio 1889 fu inaugurata la terza sessione della XVI Legislatura con un discorso del re, il quale ricordò la visita di Guglielmo II, accennò alla necessità di attuare alcune riforme, fra cui quella penitenziaria e carceraria, quella della giustizia amministrativa, quella della Pubblica Istruzione e quella delle Opere Pie, e dichiarò che per raggiungere il pareggio del bilancio occorreva imporre nuovi tributi e ridurre le spese fatta eccezione per i provvedimenti militari, poiché "una pace non salvaguardata dalle armi è una pace infida". Poi il re concludeva: "Se il mio governo non continuasse a dedicare le sue più sollecite cure all'esercito e all'armata, tradirebbe la Patria".

Oltre i fatti di Faenza di gennaio accennati sopra, si erano già verificati disordini a Roma l'anno precedente; tremila operai disoccupati per la crisi edilizia si misero a tumultuare per le vie della capitale gridando "Viva da Rivoluzione" e commettendo eccessi sulle cose e sulle persone. Il Governo si lasciò sorprendere dagli avvenimenti e come non aveva pensato di prevenirli così fu pure impotente a reprimerli. Si ebbe alla Camera il dibattito sui disordini, Crispi chiese poi un voto di fiducia che gli fu largamente accordato.
Ma non era finita lì. Del resto il Re già aveva accennato a qualcosa, parlando di "imporre nuovi tributi".
Infatti, tre giorni dopo iniziò la discussione sui provvedimenti finanziari esposti dal GRIMALDI e da PERAZZI (che nel dicembre precedente aveva sostituito Magliani al ministero del Tesoro). Affermano che il disavanzo del bilancio non era di 62 milioni, ma di 192 milioni; propongono alcuni aggravi fiscali, come il ripristino di un decimo dell'imposta fondiaria, l'aumento di 5 centesimi sul prezzo del sale, aumento dei tributi di circa 50 milioni. La discussione fu lunga e vivace e fin dall'inizio la maggioranza della Camera si dichiarò contraria ai provvedimenti. Temendo di subire uno scacco con un voto di sfiducia sulla gestione delle finanze, il 28 febbraio CRISPI presentò le dimissioni del suo ministero, affermando di "non voler compromettere con un voto parlamentare i grandi interessi del Paese".

Molti nemici di Crispi, speravano proprio di non rivedere più al governo l'"accentratore", il "dittatore"; ma la sorpresa fu che i molti interpellati dal Re, rifiutarono l'incarico di costituire il Gabinetto.
Il Paese, il Re, il Parlamento, avevano bisogno (soprattutto in politica estera) di un uomo con il polso fermo, mente audace, larghe vedute; e, nonostante l'età (71), Crispi, queste qualità le aveva tutte; né intendeva, energico e fiero com'era, di farsi da parte; né volle nel riprendere il bastone di comando, diventare all'improvviso un debole. Anzi.

Nasce così nella polemica il secondo ministero Crispi…

… ed è il periodo delle prossime pagine dal 1889 al 1891 > > >

 
 
 

Storia. Anni 1886-1887. Parte seconda.

Post n°48 pubblicato il 11 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1886-1887. Parte seconda.
ACCORDO ITALO-SPAGNOLO - DISCUSSIONE DELLO STATO DI PREVISIONE DELLA SPESA DEL MINISTERO DELLA GUERRA PER L'ESERCIZIO 1887-88 - DISCORSO DI FERDINANDO MARTINI - MONUMENTO AI CADUTI DI DOGALI - TENTATIVO DI RICONCILIAZIONE FRA LA CHIESA E LO STATO - MORTE DI DEPRETIS

Il trattato ITALO-SPAGNOLO

A tutti questi trattati che garantivano lo "status quo" nei Balcani e impedivano alla Francia di espandersi nel Mediterraneo veniva, il 4 maggio del 1887, ad aggiungersi un accordo italo-spagnolo, che fu poi rinnovato nel 1892 e nel 1895 e al quale aderirono gli imperi centrali. I suoi tre articoli dicevano:
1° - La Spagna non si presterà verso la Francia, per ciò che concerne, tra gli altri, i territori nord-africani ad alcun trattato od accomodamento politico che fosse direttamente o indirettamente rivolto contro l'Italia, la Germania e l'Austria, o contro l'una o l'altra di queste potenze.
2° - Astensione di ogni attacco non provocato, come pure da ogni provocazione;
3° - In vista degli interessi impegnati nel Mediterraneo e allo scopo principale di mantenervi lo "status quo" attuale, la Spagna, e l'Italia si terranno in comunicazione a questo soggetto, comunicandosi ogni informazione atta a chiarire le loro reciproche disposizioni, come pure quelle delle altre potenze.

DISCUSSIONE SULLO STATO DI PREVISIONE DELLE SPESE DEL MINISTERO DELLA GUERRA PER L'ESERCIZIO 1887-88

DISCORSO DI FERDINANDO MARTIN
MONUMENTO AI CADUTI DI DOGALI

Il 18 aprile del 1887 DEPRETIS annunziava alla Camera la costituzione del nuovo ministero (che abbiamo gia accennato sopra) e nel discorso d'apertura, affermava di confidare che il Parlamento avrebbe consentito ai sacrifici che gli sarebbero stati chiesti e assicurava che il Governo non si sarebbe lasciato trascinare da impeti improvvisi ad un impresa che non fosse preparata, meditata e fatta a tempo opportuno; sosteneva inoltre che i sacrifici imposti dalle condizioni generali d'Europa e dalla necessità di proteggere i possedimenti africani e di ristabilire il prestigio delle armi non dovevano interrompere l'opera del progresso civile e i lavori del Parlamento.
Accennando agli ultimi combattimenti, riferiva: "Del valore dei nostri soldati abbiamo avuto una splendida prova nella gloriosa ecatombe di Dogali, che l'Italia non può lasciare invendicata senza offesa della dignità nazionale".

Nella stessa seduta il ministro dei Lavori Pubblici presentò il disegnò di legge sulla convenzione con la Navigazione Generale Italiana per un servizio postale commerciale fra Suez e Aden, la cui relazione fu presentata dall'on. SOLIMBERGO il 1° luglio.
Il 30 maggio 1887 cominciò alla Camera la discussione dello stato di previsione della spesa del ministero della guerra per l'esercizio 1887-1888, che proseguì il 31 maggio, il 2 e il 3 giugno. Presero la parola nella prima tornata BONGHI e BERTOLI-VIALE; nella seduta successiva BONFADINI, DE RENZIS, DEPRETIS, BACCARINI, TOSCANELLI, MARTINI e RICOTTI, che si difese dalle accuse direttegli quand'era ministro, dimostrò che non poteva essere ascritto a lui il disastro di Dogali e informò i colleghi che il generale Genè era stato richiamato per avere consegnato a Ras Alula un grosso carico di fucili a lui diretti e sequestrati dalle autorità italiane e alcuni Assaortini rifugiatisi in Massaua.

Il discorso più importante della seduta del 2 giugno fu quello di FERDINANDO MARTINI e fece notare che "...ancora il Parlamento non sapeva perché si era andati ad occupare Massaua, poiché il Ministro degli Esteri era "una specie di negromante muto, posto a custodia delle ampolle magiche contenenti il segreto della vita e della morte"; considerò un errore quell'occupazione e un errore più grave il persistervi; disse che "...per fare una spedizione in Abissinia sarebbero occorse centinaia di milioni e non meno di 50 mila uomini e per occupare soltanto Cheren dovevano impiegarsi almeno 20 mila uomini e fare immensi sacrifici" E affermò infine la necessità dell'Italia di ritirarsi da Massaua, e polemizzò:

"Che cosa, infatti, ci siamo andati a fare? Ad assecondare i desideri che gli Abissini potessero mostrare verso la civiltà?
Ma il desiderio costante dell'Abissinia non era che uno solo, quello di avere uno sbocco sul mare; e non si sarebbe mai conquistata l'Abissinia alla civiltà se non lasciandole quello sbocco che la congiungesse finalmente al continente europeo; cioè lo sbocco che noi siamo andati a contenderle. La verità era che si voleva partecipare alla politica coloniale; ma bisognava avere chiari propositi e sapere che benefici se ne potevano ricavare. Se si speravano relazioni commerciali occorreva il consenso del Negus e qualora si fosse avuto il campo del Commercio, questo sarebbe stato limitatissimo. Ad ogni modo - proseguì il Martini - il rimanere a Massaua, senza andare né avanti né indietro è per me il partito peggiore. Intendo il sogno di un impero etiopico sotto il protettorato dell'Italia, non intendo il partito di rimanere a Massaua, sia che io lo consideri sotto un aspetto morale, sia che lo consideri sotto l'aspetto commerciale e politico. Il rimanere a Massaua non è la politica né di un popolo audace, né di un popolo saggio; e non dite che è di un popolo abile, perché alla lunga, in politica, dove non c'è saggezza, non vi è neppure abilità".

BONGHI dichiarò invece fantastica un'impresa contro l'Abissinia e fece notare che il Negus non era né un uomo volgare né di pugno poco forte; ma disse anche che, "dopo Dogali, non era più consigliabile abbandonare Massaua ed era necessario rioccupare Uaà e Saati".
Parlarono pure Toscanelli, che accusò responsabile dei disastri africani il generale GENÈ e il ministro della guerra, sconsigliò la rioccupazione di Uaà e di Saati e sostenne che il partito migliore era quello di piazzare a Massaua una colonia commerciale; DE RENZIS, deplorò le esagerazioni di chi accennava alle difficoltà di un'azione in Abissinia; affermò che l'Italia doveva perseverare come la Francia in Algeria e sostenne che non bisognava indietreggiare qualunque dovesse essere il sacrificio di danaro o di sangue; BRANCA, riconobbe l'importanza politica del possesso di Massaua,
ma disse che "non si doveva andare oltre e parlare di grandi spedizioni e di vendette".

Nella tornata del 3 giugno parlarono: SOLIMBERGO, il quale fu d'avviso che si dovesse trarre profitto dall'occupazione di Massaua con prudenza, sagacia e perseveranza, e dare prova di serietà non sgomentandosi del primo sangue sparso e non sfuggendo i pericoli; DI RUDINÌ che pregò il Governo di esporre i suoi intendimenti e il ministro della guerra che aveva escluse le responsabilità ministeriale nel fatto di Dogali; parlarono ancora gli on. CAVALLOTTI, ELIA E SPROVIERI ed infine il ministro dell'Interno, CRISPI, il quale dichiarò che "...scopo del Governo non era di conquistar l'Abissinia, ma che non intendeva rimanere in un'inazione che sarebbe stata pericolosa al nostro nome ed al nostro onore. Quale fosse stata questa azione da compiersi la Camera non poteva chiedere né al Governo dire. E aggiunse:
"Lo scopo del Governo era uno solo di mostrare anche ai barbari la forza e la potenza d'Italia. I barbari non sentivano se non la forza del cannone: ebbene, questo cannone avrebbe tuonato a momento opportuno, e si sperava che avrebbe tuonato con la vittoria delle armi nostre. L'Italia era una grande nazione, e non le sole imprese coloniali potevano formare i suoi scopi; poiché le grandi nazioni dovevano avere degli ideali. La strage di Beilul, i massacri delle spedizioni Bianchi e Porro non potevano rimanere invendicati, né l'Italia poteva permettere che la barbarie abissina chiudesse alle esplorazioni scientifiche dei nostri viaggiatori ed ai nostri commerci quelle terre lontane. Era questione di fiducia nel ministero: chi l'aveva la votasse. E se il Governo non avesse avuto la maggioranza avrebbe saputo fare ugualmente il suo dovere".

La Camera approvò l'ordine del giorno LACAVA, con la quale si prendeva atto delle dichiarazioni del Governo ed approvò il capitolo 37 bis del bilancio sulle spese per i distaccamenti in Africa.
Il 5 giugno fu inaugurato a Roma, davanti la stazione di Termini, il monumento ai Caduti di Dogali. Ne dettò l'epigrafe BONGHI, inneggiando all'eroismo di quei cinquecento che "con il nome d'Italia nel cuore e non pensando ad altro che di onorarlo, lottarono, combatterono, morirono, suggellando col sangue versato in comune l'unità recente dell'antica patria".

Qui dobbiamo fare una breve parentesi. Nella commozione generale per i morti di Dogali, nei primi giorni di febbraio, in molte città italiane, nelle chiese furono celebrate messe solenni; e questo molti pensarono, forse erano i primi segni di un'apertura della Chiesa verso lo Stato Italiano.
Poi in maggio ci fu un'allocuzione ai cardinali di LEONE XIII, e girarono alcuni voci ...
(ne parleremo più avanti).

Il 14 giugno il ministro della guerra presentò un disegno di legge per un credito straordinario di 20 milioni e per l'autorizzazione di formare un corpo speciale di truppe destinato a costituire i presidi in Africa. Questo corpo doveva essere formato e mantenuto mediante arruolamenti volontari e il contingente di truppa era fissato a 5000 uomini. La relazione, favorevole, a firma dell'on. DE ZERBI, fu presentata il 21 e la discussione cominciò il 29. Vi presero parte RICCIOTTI GARIBALDI, che lamentò l'insufficienza del credito proposto e appoggiò l'occupazione dell'Abissinia; parlarono FERRARI, BONFANDINI, BRANCA, VALLE, MARTINI, LUCHINI, che proposero l'istituzione di una Commissione consultiva coloniale; e intervennero pure Bonghi, Mellusi, Toscanelli, De Zerbi, Mancini, il ministro della Guerra, Di Camporeale, Pais, Pantano, Costa, Crispi, Marcora.
Furono presentati parecchi ordini del giorno. La camera votò su quello dell'on. DI SANT'ONOFRIO, che prendeva atto delle dichiarazioni del Governo e che fu approvato con 239 contro 37; quindi si ebbe la votazione sul progetto che fu approvato con 188 voti favorevoli e 39 contrari.
Presentato al Senato il 1° luglio 1887, il disegno fu discusso il 7 e l'8. Parlarono i senatori DI ROBILANT, CORTE, CARACCIOLO DI BELLA, MASSARANI, ERRANTE, PIERANTONI, CADORNA, il ministro della Guerra e il disegno fu approvato con 79 voti contro 12.

TENTATIVO DI RICONCILIAZIONE FRA LA CHIESA E LO STATO
LA MORTE DI DEPRETIS.

Nel 1887 fu fatto un tentativo -almeno così pensarono alcuni- di conciliazione tra l'Italia e il Papato. Il 23 maggio di quell'anno, nell'allocuzione tenuta in Concistoro, Leone XIII disse:
"Piaccia al cielo che lo zelo di pacificazione, onde verso tutte le Nazioni siamo animati, possa, nel modo che dobbiamo volere, tornar utile all'Italia, a questa Nazione cui Iddio con sì stretto legame congiunge al romano Pontificato e che la natura stessa raccomanda all'affetto del nostro cuore. Noi di certo, come più volte ci avvenne di significare, da lungo tempo e vivamente bramiamo che gli animi di tutti gli italiani giungano ad ottenere sicurezza e tranquillità, e sia tolto finalmente di mezzo il funesto dissidio con il romano pontificato; ma, salve sempre le ragioni della giustizia e la dignità della Sede Apostolica, le quali furono offese più per violenta opera di popolo che per cospirazione di sette. Vogliamo dire che unica strada alla concordia è quella condizione in cui il romano Pontefice, non sia soggetto
al potere di chicchessia, e goda libertà piena e verace, come vuole ogni ragione di giustizia".

Pochi giorni dopo si pubblicava il celebre opuscolo intitolato "La Conciliazione" dell'abate cassinese LUIGI TOSTI, che era stato liberale guelfo nel 1848 e non aveva mai cessato di sperare in un accordo tra la Chiesa e lo Stato. Nell'opuscolo si esprimeva il dolore dei cattolici italiani al pensiero che nel prossimo Giubileo papale tutte le nazioni sarebbero state presenti eccetto l'Italia; si sosteneva esser necessario che il Pontefice e l'Italia si conciliassero ma si affermava che non era possibile chieder che fosse restituito potere temporale. "La breccia di Porta Pia fu un brutto affare; Roma che era del Papa, passò con la forza in altre mani. Chi aprì la breccia fu un determinato numero di uomini che si chiamano "Governo". Chi proprio s'impossessò di Roma fu un individuo morale, un universale, una nazione, l'Italia .... Quando i popoli si reggevano a monarchia assoluta, i principi regnavano e governavano ad un tempo e se usurpavano roba della Chiesa, i Papi sapevano a chi rivolgersi per farla restituire; ma oggi i principi regnano e non governano. Il deposito delle leggi è nelle mani dell'universale, il governo è della Nazione; e se in quello è cosa malamente acquistata, il Pontefice può dolersi di chi la usurpò, ma non può rivolgersi al principe perché gli sia restituita. Perciò, richiesto il Re d'Italia di restituire Roma al Papa, non poté farlo, perché non era più sua. Avrebbe dovuto riconquistarla con la forza al Papa, strapparla dalle mani della nazione e scompaginare questa col ferro del parricidio o con quello dello straniero. Quante stragi! quante rapine! quale naufragio di autorità in tempi di universale ribellione ! Il non "possumus" del Papa e del principe stettero equilibrati nella bilancia della giustizia di Dio".

L'opuscolo così concludeva: "Noi vedremo la Provvidenza sopperire per ora ai mezzi della potestà terrena con quelli della filiale carità di tutta una nazione che gli offriva il cuore, come rocca inespugnabile dentro la quale il Pontefice sommo, tranquillo, mediterà la giustizia di tutti i popoli, e dai suoi spalti la sosterrà con l'indipendenza e la libertà con cui Cristo ci ha liberati. Noi vedremo la sedia gestatoria portata sulle spalle robuste da trenta milioni d'Italiani, noi vedremo sollevato tanto alto Leone XIII a quelle spalle robuste, che abbassando gli occhi, non vedrà più su questa terra questioni e
dissidi. I suoi occhi fisseranno le porte di un nuovo impero, la signoria di tutte le coscienze stanche di guerreggiare desiderose di pace, libero ognuno di soggiacervi. Quelle porte si chiuderanno innanzi ai suoi passi al grido trionfale, che, come torrente di gloria proromperà dall'Alpi al mare: "Ave, Princeps pacis !".

L'opuscolo sollevò un gran rumore e non mancò naturalmente chi rimproverò duramente l'autore, che, pur essendo bibliotecario del Vaticano, teneva un linguaggio simile. Ma padre Tosti non si curò delle critiche tanto più che rappresentava in quel momento uno strumento nelle mani della Curia, per conto della quale agiva. Il 27 maggio ebbe un colloquio con Crispi e gli dichiarò che il Pontefice con la sua allocuzione concistoriale aveva teso la mano all'Italia e che quindi non doveva esser difficile comporre il
dissidio. Padre Tosti avrebbe consigliato Leone XIII a scendere in San Pietro e in occasione del Giubileo a riprendere le sue funzioni in pubblico. In quella circostanza, il Papa e il re avrebbero potuto incontrarsi. "Ciascuno serberebbe impregiudicati i suoi diritti. Né città Leonina, né alcuna parte del territorio italiano. Il re non potrebbe rinunciarvi. Il territorio italiano appartiene alla nazione, e non vi si potrebbe rinunziare dal re. La pace tra la Chiesa e lo Stato sarebbe un gran bene per l'una e per l'altro. In caso di guerra il Governo sarebbe sicuro di non aver nemici in casa".
Infine, padre Tosti pregò Crispi di lasciare al Papa il compimento della Basilica di San Paolo e la restituzione delle rendite di detta basilica, il che sarebbe stato una prova "della benevola condiscendenza dell'Italia verso la Chiesa".

Le trattative dovevano continuare nel massimo segreto tra padre Tosti e ALBERTO PISANI-DOSSI, segretario del Crispi; ma il segreto non fu tale da non lasciarlo trapelare.
Gl'imperi centrali si mostrarono lieti di quei negoziati, la Francia invece fece sapere al Vaticano che non avrebbe visto di buon occhio un accordo tra la Santa Sede e il Governo italiano. Quelle voci delle trattative ebbero un'eco perfino alla Camera, dove il 10 giugno BOVIO svolgendo una sua interpellanza sulla politica del Governo verso il Vaticano, cercò di dimostrare che Chiesa e Stato sarebbero usciti danneggiati da un accordo:
"La conciliazione sarebbe acqua stagnante, un patto di mutua mediocrità tra lo Stato e la Chiesa, un Papa mezzo principe, uno Stato mezzo Cattolico, in un terreno comune, biancheggiante di mezze istituzioni, mezzi uomini e mezza religione".
Il ministro ZANARDELLI dichiarò che lo Stato non avrebbe mai rinunziato ai propri diritti e CRISPI, a sua volta ridimensionò lui stesso le voci che lo volevano fautore di quelle trattative; e disse:
"Noi non domandiamo conciliazioni, né ce ne occorrono, poiché lo Stato non è in guerra con nessuno. Leone XIII non è un uomo comune. I tempi maturano; e mitigano ed estinguono le più fiere avversioni, e potrebbero anche avvicinare Chiesa e Stato. Ma da parte nostra, però nulla sarà toccato al diritto nazionale sancito dai plebisciti. L'Italia appartiene a se stessa, a sé sola, e non ha che un unico capo: il Re !".

Tuttavia le trattative continuarono, e non solo con il Crispi, da parte di padre Tosti per mezzo del Pisani-Dossi, ma con altri ministri e perfino con quello della Real Casa, da parte di negoziatori -si disse poi- non autorizzati dal Pontefice.
Di questo si lagnò il Crispi, e il Santo Padre rispose di non avere incaricato altri di negoziare come risulta da una lettera al Tosti di Monsignor Mocenni, sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede, in data del 25 giugno.
Ma nella seconda metà di luglio le trattative furono troncate essendo in Vaticano prevalso il partito degli intransigenti. Il cardinale RAMPOLLA sconfessò i negoziati e dichiarò che il Santo Padre non poteva rinunziare alla rivendicazione del potere temporale.
Padre Tosti dovette scrivere una lettera di completa ritrattazione, che, secondo la promessa, non doveva essere resa di pubblica ragione; e invece fu pubblicata nell'Osservatore Romano. Così tutto ciò che aveva scritto prima, e lo stesso opuscolo, andò a finire nella carta straccia.
Di "Conciliazione" non si parlerà pià per molti anni.

Prima che i negoziati con la Santa Sede fossero troncati, e precisamente il
7 luglio del 1887, DEPRETIS, malandato in salute, aveva lasciato Roma e si era recato a Stradella per cercare di rimettersi, ma il 29 cessava di vivere. Aveva 74 anni; da quasi quarant'anni era deputato e da circa dieci, come presidente del Consiglio, aveva capeggiato 8 ministeri.

Nato nel 1813, in gioventù mazziniano, sotto ancora Carlo Alberto, nel 1848 a 35 anni fu eletto deputato subalpino, sedendo all'opposizione, quindi acceso avversario di CAVOUR. Nel 1860 prodittatore della Sicilia. Ministro con RATTAZZI (1862) e con RICASOLI (1867.1868), divenne capo della Sinistra parlamentare nel 1873, e nel 1876 succedette a MINGHETTI alla guida del governo. Nonostante una larga maggioranza il suo programma (enunciato a Stradella) trovò un'attuazione solo parziale. Alternatosi con CAIROLI (periodo 1878-1881), contestato dalla stessa sinistra (e in questa, principale oppositore, CRISPI), varò una coalizione meno omogenea, avviando nel 1882-83 la politica detta del "trasformismo", che gli permise di costituire un forte gruppo politico-finanziario di tendenza moderata, e di sostenere la prima espansione coloniale che abbiamo appena accennato in queste pagine (che nei suoi successivi sviluppi parleremo ancora nel prossimo capitolo).

Moriva insomma un protagonista; ma passarono poche ore, e lasciò sulla sua stessa poltrona di capo del Governo, un uomo che pur non di molto inferiore come anni (70), ma piuttosto energico ed efficiente, anche lui mazziniano, poi garibaldino, ma poi convinto monarchico, doveva a sua volta diventare un protagonista nei successivi dieci anni:
FRANCESCO CRISPI.

Parleremo proprio di lui nel prossimo capitolo…

…periodo dal 1887 al 1889 > > >

 
 
 

Storia. Anni 1886-1887. Parte prima.

Post n°47 pubblicato il 11 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1886-1887. Parte prima.
AFRICA: NUOVE OCCUPAZIONI - ECCIDIO DOGALI - I TRATTATI

ECCIDIO DELLA SPEDIZIONE PORRO - NUOVE OCCUPAZIONI ITALIANE IN AFRICA E PROTESTE DEL NEGUS - INTIMAZIONE DI RAS ALULA - COMBATTIMENTO DI SAATI - COMBATTIMENTO DI DOGALI - DISEGNO DI LEGGE PER AUTORIZZAZIONE DI SPESE STRAORDINARIE E PER LA SPEDIZIONE DI RINFORZO IN AFRICA - DIMISSIONI DEL GABINETTO - OTTAVO GABINETTO DEPRETIS. - CRISPI MINISTRO DELL'INTERNO-IL " CORPO SPECIALE D'AFRICA" - ACCORDO ITALO-BRITANNICO - RINNOVAMENTO DELLA TRIPLICE ALLEANZA

NUOVE OCCUPAZIONI ITALIANE IN AFRICA E PROTESTE DEL NEGUS
ECCIDIO DELLA SPEDIZIONE PORRO
COMBATTIMENTI DI SAATI E DOGALI

Verso la metà di agosto 1885, il comando italiano di Massaua estendeva l'occupazione verso l'interno prendendo possesso e mettendo un presidio a Saati a 30 chilometri da Massaua.
Il 6 settembre era richiamato il colonnello SALETTA e nominato comandante superiore in Africa il generale GENÈ, che, alla fine dello stesso mese, assumeva anche la direzione e i servizi amministrativi, proclamava la sovranità italiana, faceva abbassare la bandiera egiziana ed imbarcava per l'Egitto i 180 soldati regolari di questo paese, gli ultimi che fino allora erano rimasti a Massaua. Proteste dall'Editto nessuna, Recriminazioni invece del Negus di Abissinia, al quale l'Inghilterra aveva assicurato questi territori ex egiziani, dopo che gli stessi inglesi erano ormai diventati arbitri di tutti i possedimenti dell'Egitto.

Nel nuovo Gabinetto Depretis del 29 giugno 1855, era stato chiamato come ministro degli Esteri il generale DI ROBILANT. Questi, volendo rassicurare il NEGUS GIOVANNI che il Governo italiano non nutriva propositi aggressivi contro l'Abissinia, nel gennaio del 1886 gli inviò -guidata dal generale POZZOLINI- una missione. Ma l'atmosfera non era favorevole, essendo stata resa torbida dalle trame del viceconsole francese SOUMAGNE, residente a Massaua (con due soli cittadini francesi ivi residenti), e il Pozzolini, da questa città, fu richiamato in Italia; temevano a Roma che i membri della missione, inoltratisi in un paese ostile, erano troppo esposti a dei pericoli.
(ma di questo Soumagne, e delle sue trame, parleremo ancora nel prossimo capitolo)
Questo fatto aumentò le diffidenze abissine e inasprì i rapporti italiani con l'Etiopia, specie con RAS ALULA, governatore dell'Hamasien, donde frequenti scorrerie furono effettuate contro alcune tribù locali che dal giorno dello sbarco erano state costrette loro malgrado ad andare sotto la protezione italiana.
I rapporti italo-abissini divennero più tesi nella successiva primavera, a causa dell'eccidio avvenuto presso Gildessa sulla via da Zeila ad Harrar il 9 aprile 1886 della spedizione del conte GIAN PIETRO PORRO, della quale facevano parte il conte CARLO COCASTELLI di Montiglio, il prof. GIOVANNI LICATA, i dott. GIROLAMO GOTTARDI, GUGLIELMO ZANNINI, UMBERTO ROMAGNOLI, PAOLO BIANCHI e GIUSEPPE BLANDINO.

Anche questo massacro commosse il paese. Nella seduta parlamentare del 15 giugno 1886, l'on. DI BREGANZE interrogò il nuovo ministro degli Esteri "riguardo al disastro della spedizione del conte Porro nell'Harrar ed agli intendimenti del Governo circa la tutela degl'interessi dell'Italia sulle coste orientali d'Africa"; l'on. PANTANO svolse un'interpellanza "sugli ultimi episodi della politica coloniale in Africa e sui criteri" a cui questa s'ispirava, domandando "a cosa giovava il tributo di uomini e di denaro che l'Italia rendeva alla politica africana?; in quale modo il Governo intendeva tutelare il decoro italiano in Africa?; perché la "missione Pozzolini" aveva avuta una soluzione così diversa da quella del capitano Schmidt?; se l'occupazione nostra era definitiva o provvisoria?; se quella di Massaua era un'occupazione militare o commerciale? e se il Governo aveva già calcolato la gravità di una occupazione militare e gli svantaggi di una occupazione commerciale".

Il ministro Di Robilant rispose che il Governo declinava ogni responsabilità sull'eccidio della spedizione Porro, "avendola in precedenza già avvertita di non poter assecondare la loro impresa; dichiarò in nome del Governo che "...l'iniziativa di pochi cittadini non poteva assolutamente impegnare quella del paese; e quanto al contegno del Governo in seguito all'eccidio sostenne che non si poteva pensare ad un'azione armata contro l'Harrar. 1° perché il paese dei Somali che avrebbe dovuto esser base dell'operazione non era "res nullius" e perciò l'azione militare doveva esser preceduta da un'azione diplomatica; 2° perché in quel momento l'attenzione nostra sarebbe potuto essere rivolta altrove con più opportunità; 3° perché una spedizione nell'Harrar avrebbe richiesto 6.000 uomini, 25 milioni di spesa ed un anno almeno di tempo; 4° perché, anche a spedizione compiuta, il soggiorno nell'Harrar sarebbe costato 6 od 8 milioni l'anno senza contare le spese per la costruzione di una strada o di una ferrovia.

"E così -dissero gli oppositori alla politica governativa- per la grettezza degli uomini di Governo e per un male inteso proposito d'economia, noi lasciamo invendicati otto connazionali e ci lasciamo sfuggire all'occasione di occupare un'importantissima regione.

(Continuavano intanto le razzie a danno delle tribù "sottoposte" alla protezione italiana e il generale Genè (per difenderle!) nel novembre del 1886 fece occupare da una centuria costituita con gli stessi indigeni, il villaggio di Uaà, 40 km. a sud di Massaua, allo sbocco della valle dell'Haddos, cioè in un territorio ex egiziano, ma sotto la recente dominazione inglese lasciato agli abissini.
Prima l'occupazione di Saati ora di Uaà, provocarono le proteste del Negus e di RAS ALIDA. Quest'ultimo anzi non si limitò alle proteste, ma con numerose truppe si portò a Ghinda, a 60 km. ad ovest di Massaua, e il 10 gennaio del 1887 mandò ad intimare al generale GENÈ di sgombrare Uaà e Saati, minacciando, in caso di rifiuto, di decapitare i tre viaggiatori italiani conte SALIMBENI, maggiore PIANO e tenente SAVOIROUG, che, accingendosi ad esplorare il Goggiam, erano stati trattenuti dalle autorità abissine.

Il generale GENÈ non si lasciò intimorire dalle minacce, e all'intimazione rispose che avrebbe respinto ogni attacco; quindi rinforzó i presidi di Uaà e di Saati e dislocò a Moncullo una colonna di riserva al comando del ten. colonnello TOMMASO DE CRISTOFORIS composta di tre compagnie di fanteria, due mitragliere e due "buluc" indigeni, della forza totale di circa 500 uomini.

Il 24 gennaio 1887 (le notizie "volavano" ed erano piuttosto serie) l'on. DE RENZIS interrogò alla Camera il ministro degli Esteri "sulle notizie, indicanti come possibile un attacco abissino contro le nostre truppe d'Africa". Il DI ROBILANT rispose che da un telegramma del GENÈ, giunto il 18, risultava che una colonna abissina si proponeva di attaccare le nostre posizioni, che però erano state rafforzate; e aggiunse che "...non era il caso d'impensierirsi di tali notizie e, appellandosi alla serietà della Camera, affermò che "non gli pareva che nel momento attuale convenisse - e non conveniva certamente - dare tanta importanza a quattro predoni che si avevano tra i piedi in Africa".

Proprio il giorno dopo, il 25 gennaio 1887, con ras ALULA alla testa di 10.000 uomini (e non "quattro predoni"), attaccava violentemente il fortino di Saati, presieduto dal maggiore BORETTI con due compagnie di fanteria, una sezione d'artiglieria e trecento indigeni; ma dopo tre ore di combattimento era costretto a ritirarsi con perdite rilevanti. Il 26 gennaio la colonna di riserva del ten. Colonnello TOMASO DE CRISTOFORIS partì da Moncullo per portare soccorso a Saati, ma a mezza strada, vicino l'altura di Dogali, fu sorpresa dagli uomini di ras Alula. Ritiratisi sul colle, furono accerchiati e con valore incredibile resistettero prima con i fucili, poi, terminate le munizioni, con le baionette. Il De Cristoforis fu anche lui eroe tra gli eroi. Colpito ben quindici volte, meravigliato dall'eroismo dei suoi, all'ultimo drappello che era ancora in piedi, ordinò che fossero presentate le armi ai caduti; quindi continuò a resistere ma poco dopo fu travolto con tutti gli altri; non ne rimase in piedi nemmeno uno. Gli Abissini perdettero circa un migliaio di uomini; gli italiani morti furono 430, e circa novanta feriti che dati per morti e abbandonati dal nemico sul campo, furono, il giorno dopo, salvati dalle truppe italiane giunte in soccorso da Massaua.

Nella seduta parlamentare del 10 febbraio del 1887, il presidente del Consiglio
DEPRETIS dava lettura del drammatico telegramma del generale GENÈ così concepito: "Il 24 ras Alula lasciò Ghinda accampandosi a sud-est di Saati che attaccò il 25, ma fu respinto dopo tre ore di combattimento. Nostre perdite quattro feriti e cinque morti. Le perdite degli Abissini sono sconosciute. Il 26, tre compagnie e 50 irregolari partiti da Moncullo per vettovagliare Saati furono attaccati a mezza via. Dopo parecchie ore di combattimento la colonna fu distrutta. Novanta feriti sono già ricoverati all'ospedale di Massaua. Mi riservo di spedire particolari esatti circa le perdite ed i feriti. Causa l'eccessiva estensione delle nostre linee, ho richiamato i posti di Saati, Uaà ed Arafali.
Ras Alula sembra essere rientrato a Ghinda a causa delle gravi perdite e i numerosi feriti e probabilmente anche per attendere rinforzi e l'arrivo del Negus che si dice essere in marcia".

In seguito a queste gravi notizie, DEPRETIS, in nome dei ministri della Guerra, della Marina e delle Finanze, presentava un disegno di legge per autorizzare una spesa di 5 milioni sui bilanci della Guerra e della Marina per la spedizione urgente di rinforzi militari sulle coste del Mar Rosso.
L'on. BACCARINI faceva pervenire un saluto a quei prodi che avevano combattuto contro un nemico meno miserabile ("i quattro predoni") di quello che pochi giorni prima aveva presentato il ministro degli Esteri; diceva di non ritenere opportuno per il momento di giudicare l'opera del Governo ed esprimeva il desiderio che la domanda dei crediti fosse approvata subito per confortare almeno quelli che esponevano la loro vita per l'onore italiano; e la domanda di credito del Depretis l'approvava in pieno.
Il disegno di legge fu discusso alla Camera il 3 febbraio. Parlarono MUSSI, che affermò "…essere necessario ritirarsi dall'Africa, ma la ritirata doveva conciliarsi con l'onore della bandiera e non avere l'aspetto di una fuga; PAIS-SERRA, ripeté lo stesso concetto, e che "….il solo accennare a un ritiro in quei momenti sarebbe stato lo stesso che proporre una fuga"; LAZZARO deplorò l'imprevidenza del Governo nell'ordinare e condurre la spedizione in Africa; DI BREGANZE si preoccupò dell'insufficiente organizzazione del corpo d'esercito d'Africa; infine COSTA parlò contro la chiusura della discussione proposta dal Di Rudini e da Spaventa.
Ma la chiusura fu approvata e si passò allo svolgimento degli ordini del giorno.
Che furono cinque: quelli cioè degli onorevoli NAPODANO, FERRARI, FORTIS, ODESCALCHI e PELLEGRINI che deploravano la condotta del Governo; quello di COSTA che invitava il Governo a richiamare le truppe dall'Africa, lanciando la famosa frase "né un uomo né un soldo per l'impresa africana"; quello di PATERNOSTRO che acconsentiva al credito richiesto e riservando ad una prossima tornata la discussione sull'insufficienza politica ed amministrativa del ministero; quello DI CAMPOREALE che voleva che si provvedesse con energia alla tutela del prestigio e alla sicurezza delle truppe d'Africa; quello di POZZOLINI che confidava che il ministero avrebbe saputo prendere "le misure atte a tenere alto in Africa il nostro prestigio militare e la nostra influenza politica"; BACCARINI che proponeva "l'ordine del giorno sopra tutti gli ordini del giorno" e osservava che se il disegno fosse stato votato senza la questione di fiducia avrebbe dato il voto favorevole e in caso diverso lo avrebbe dato contrario.
L'ultimo o.d.g. era quello di CAVALLOTTI che inviava "un pensiero di onoranza" ai Caduti, e pur accusando violentemente il governo a causa della sua politica interna e della scelta a favore della Triplice, accordava "i crediti e i sacrifici richiesti per rinforzare i presidi in Africa e per le necessità presenti della bandiera" e si riservava di "deliberare circa la responsabilità dei ministri, la cui politica e la cui insufficienza e leggerezza, avevano condotto al recente disastro".

La frase del Costa ("né un uomo né un soldo") diventa la parola d'ordine e sarà fatta propria dal movimento socialista durante le successive imprese coloniali. Alcuni deputati radicali, fra cui ACHILLE TEDESCHI ed ETTORE FERRARI, si mantengono sulle stese posizioni.

La discussione continuò il 4 febbraio 1887, e parlarono Bonghi, Bovio e il Di Robilant, che riconobbe infelici le sue parole dette nella seduta del 24 gennaio. La Camera accordò la fiducia al Governo con 215 voti favorevoli e 181 contrari. Il Senato il credito di 5 milioni lo approvò il giorno dopo all'unanimità. Il ministro degli Esteri, giudicando la votazione poco favorevole alla sua politica, si dimise, provocando le dimissioni dell'intero Gabinetto, annunciate dal capo gabinetto alla Camera l'8 febbraio, a causa delle critiche provenienti non solo dall'estrema sinistra e dal gruppo dei "Pentachi", ma anche da diversi esponenti della destra dissidente.


OTTAVO MINISTERO DEPRETIS -CRISPI MINISTRO DELL'INTERNO
IL "CORPO SPECIALE d'AFRICA" -
ACCORDO ITALO-BRITANNICO
RINNOVO TRIPLICE ALLEANZA - ACCORDO ITALO-SPAGNUOLO.

La crisi ministeriale fu travagliata: il conte di ROBILANT, BIANCHERI e FARINI si rifiutarono di formare il nuovo ministero e allo stesso DEPRETIS riuscì quasi impossibile formarne un altro.
Allora il Re respinse le dimissioni e il DEPRETIS, il 10 marzo 1887, annunciando alla Camera questa decisione dichiarò che il Sovrano attendeva dal Parlamento un voto deciso ed esplicito. CRISPI allora chiese la vera ragione della crisi e, non soddisfatto delle dichiarazioni del presidente del Consiglio, presentò una mozione che però fu respinta con 214 voti contro 194. DI ROBILANT tornò a dimettersi e DEPRETIS, accordatosi con CRISPI, il 4 aprile, formò il suo VIII ed ultimo gabinetto che risultò così composto: Presidenza ed Esteri: DEPRETIS; Interni: CRISPI; Finanze: MAGLIANI; Istruzione Pubblica: COPPINO; Grazia e Giustizia: ZANARDELLI; Guerra: BERTOLÈ-VIALE; Marina: BRIN; Lavori Pubblici: SARACCO: Agricoltura: GRIMALDI (riprenderemo più avanti questo discorso)

Prima e durante la crisi furono inviati a Massaua più di 2000 uomini con i quali fu costituito un "Corpo speciale d'Africa" che nell'estate raggiunse la cifra di 5000 uomini (2 reggimenti di cacciatori a piedi, 1 squadrone di cacciatori a cavallo, 2 compagnie di artiglieria da fortezza, 1 batteria da campagna, 1 batteria da montagna, 1 compagnia Genio, 1 compagnia di Sanità, 1 compagnia di Sussistenza ed 1 compagnia treno). Il 18 marzo 1887, il generale GENÈ fu richiamato e sottoposto ad un'inchiesta formata da un consiglio di generali che però non lo trovarono colpevole dei tristi avvenimenti d'Africa.

I TRATTATI

Durante questa crisi ministeriale avvennero due fatti importantissimi di politica estera: un accordo italo-britannico e il rinnovamento della Triplice Alleanza.

Il trattato ITALO BRITANNICO

Fu stipulato il 12 febbraio su queste basi:
1° - Si manterrà, per quanto è possibile, lo "status quo" nel Mediterraneo come nell'Adriatico, nell'Egeo e nel Mar Nero. Si avrà perciò cura di sorvegliare e, in caso di bisogno, impedire ogni cambiamento che, sotto forma d'annessione, occupazione, protettorato o in qualunque altra maniera tocchi la situazione attuale con detrimento delle due potenze.
2° - Se il mantenimento dello "status quo" divenisse impossibile, si farà in modo che non produca una qualsiasi modifica se non in seguito ad un accordo preventivo tra le due potenze;
3° - L'Italia è pronta ad appoggiare l'opera della Gran Bretagna in Egitto. A sua volta la Gran Bretagna è disposta, in caso d'invadenza da parte di una terza potenza, ad appoggiare l'azione dell'Italia sopra qualunque altro punto del litorale settentrionale dell'Africa e particolarmente nella Tripolitania e Cirenaica.
4° - In generale, e in quanto le circostanze lo comporteranno, l'Italia e l'Inghilterra si promettono mutuo appoggio nel Mediterraneo per ogni divergenza che sorgesse fra una di loro e una terza potenza".

A questo patto, il 24 marzo, aderì l'Austria-Ungheria.
Il trattato, che rinnovava la Triplice Alleanza fino al maggio del 1892, fu stipulato a Berlino il 20 febbraio del 1887. Inoltre, furono firmati due altri trattati, il primo fra l'Italia e l'Austria-Ungheria, il secondo tra l'Italia e la Germania.

Il primo (ITALIA-AUSTRIA-U.) era formato di quattro articolo:

1° - Le Altre Parti contraenti, non avendo di mira che il mantenimento, per quanto è possibile, dello "status quo" territoriale in Oriente, si impegnano ad usare la loro influenza per prevenire ogni modifica territoriale che rechi danno all'una od all'altra delle potenze firmatarie del presente trattato. Esse si comunicheranno tutte le informazioni capaci di illuminarle mutualmente sulle loro disposizioni, come su quelle delle altre potenze.

Tuttavia, nel caso che per forza degli avvenimenti il mantenimento dello "status quo" nei Balcani o delle coste o isole ottomane nell'Adriatico e nel mare Egeo divenisse impossibile, e che, sia in conseguenza dell'azione di una terza potenza, sia altrimenti, l'Austria-Ungheria o l'Italia si vedessero nella necessità di modificarlo con un'occupazione temporanea o permanente da parte loro, quest'occupazione non avrà luogo se non dopo un accordo preventivo fra le due sopraddette potenze; accordo basato sul principio di un compenso reciproco per ogni vantaggio territoriale o altro che ciascuna di esse ottenesse in più dello" status quo" attuale, e tale da dare soddisfazione agli interessi e alle pretese ben fondate delle due parti.

2° - Le alte parti contraenti si promettono naturalmente il segreto sul contenuto del presente trattato.
3° - Il presente trattato entrerà in vigore dal giorno dello scambio delle ratifiche e lo resterà fino al 30 maggio 1892.
4° - Le ratifiche saranno scambiate a Berlino in quindici giorni e più presto se si può fare.
In fede di che i rispettivi plenipotenziari hanno firmato il presente trattato e vi hanno apposto i loro sigilli.

Il trattato tra ITALIA e GERMANIA,
sempre del 20 febbraio, firmato da BISMARK e dal conte DE LAUNAY, comprendeva i seguenti sette articoli:

1°Le Alte Parti contraenti, non avendo di mira che il mantenimento, per quanto è possibile, dello "status quo" territoriale in Oriente, s'impegnano ad usare della loro influenza per prevenire, sulle coste e isole ottomane nel mare Adriatico e nel mare Egeo, ogni modifica territoriale che porti danno all'una o all'altra delle potenze firmatarie del presente trattato. A questo effetto esse si comunicheranno tutte le informazioni atto ad illuminarle mutualmente sulle loro disposizioni, come su quelle delle altre potenze.
2° - Le stipulazioni dell'articolo 1° non si applicano in alcun modo alla questione egiziana, circa la quale le Alte Parti contraenti conservano rispettivamente la loro libertà d'azione, avendo sempre riguardo ai principi su cui riposano il presente trattato e quello del 20 maggio 1882.
3° - Se avvenisse che la Francia facesse atto di estendere la sua occupazione o il suo protettorato o la sua sovranità sotto qualunque forma, sui territori nordafricani, sia del villayet di Tripoli, sia dell'impero marocchino, e che in conseguenza di tale fatto l'Italia, per salvaguardare la sua posizione nel Mediterraneo, credesse dovere essa stessa intraprendere un'azione sui detti territori nord-africani, oppure ricorrere, sul territorio francese in Europa, ai mezzi estremi, lo stato di guerra che ne seguirebbe tra l'Italia e la Francia costituirebbe "ipso facto", su domanda dell'Italia e a carico comune dei due alleati, il "casus foederis" con tutti gli effetti previsti dagli articoli 2° e 5° del suddetto trattato del 20 maggio 1882, come se simile eventualità vi fosse contemplata espressamente.
4° - Se la fortuna di qualunque guerra intrapresa in comune contro la Francia portasse l'Italia a cercare delle garanzie territoriali verso la Francia, per la sicurezza delle frontiere del Regno e della sua posizione marittima, come anche in vista della stabilità della pace, la Germania non vi porrà alcun ostacolo, e al bisogno, e in misura compatibile con le circostanze si applicherà a facilitare i mezzi di raggiungere un tale scopo.
5° - Le alte Parti contraenti si promettono mutualmente il segreto sul contenuto del presente trattato.
6° - Il presente trattato entrerà in vigore dal giorno dello scambio delle ratifiche e lo resterà fino al 30 maggio 1892.
7° - Le ratifiche saranno scambiate a Berlino in quindici giorni o più presto se si può fare".

 
 
 
 
 

Ringraziamenti.

Post n°45 pubblicato il 11 Agosto 2008 da wrnzla

Ringraziamenti.

E' con dovere e con estremo piacere che mi accingo a postare la pagina del blog dedicata ai ringraziamenti.
Tutte le immagini e gli articoli pubblicati salvo rarissime eccezioni sono stati ricavati da quanto disponibile in rete.
Spero di essermi attenuto ai limiti di utilizzo consentiti dalle fonti e di non aver pubblicato immagini, testi o altri contenuti soggetti a diritti d'autore. Se malauguratamente, e nonostante l'attenzione posta ad evitare tale eventualità, fosse accaduto, me ne scuso sin d'ora. Le fonti sono state comunque sempre citate ed i relativi collegamenti inseriti in modo da renderne merito agli autori. Inoltre, il blog non ha scopo di lucro, non di proselitismo politico, ma solo di divulgazione storica di un periodo ai molti poco conosciuto ma che meriterebbe di esserlo perchè vide l'eroismo di un intero popolo, quello eritreo col quale noi italiani abbiamo un grandissimo debito di riconoscenza mai minimamente saldato. E ora i rangraziamenti....

- http://miles.forumcommunity.net - Un caloroso saluto a tutti gli utenti. Ringrazio tutti gli utenti della "sezione coloniale" ed in particolare i sig.ri TUV, MUSAFA, MILITE IGNOTO, FANTE....... Per ultimo, ma solo perchè merita una citazione particolare, il sig. GHEBRET moderatore del forum ed enciclopedia vivente della nostra storia coloniale. Mi permetta di esternarle tutta la mia stima e aprezzamento per la sua competenza e per il lavoro da lei svolto. Una vigorosa stretta di mano....e se mi permette una pacca sulla spalla. GRAZIE.

- http://cronologia.leonardo.it - Ringrazio l'autore sig. Franco Gonzato e colgo l'occasione per esternargli il mio aprezzamento per la sua opera meritoria sia nei contenuti che negli intenti. Senza dubbio il migliore sito storico dell'intera rete. Assolutamente da visitare. Grazie ancora. Wrnzla


INCOMPLETO - IN ALLESTIMENTO 

 
 
 

Post N° 44

Post n°44 pubblicato il 11 Agosto 2008 da wrnzla

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- Storia. ERITREA COLONIALE. Cronologia storica 1879/1941
- TABELLA EVENTI PRINCIPALI. Cronologia minima.
- Storia, COLONIALISMO ITALIANO. Cronologia storica 1869/1960
- TABELLA EVENTI PRINCIPALI. Cronologia minima.
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- Storia. ERITREA COLONIALE.
- CRONOLOGIA STORICA DETTAGLIATA: ELENCO CONTENUTI.
- PARTE PRIMA: ANNI dal 1852 al 1889 (a seguire)
- PARTE SECONDA: ANNI dal 1900 al 1932 >>>
- PARTE TERZA: ANNI dal 1935 al 1941 >>>

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- PARTE PRIMA: ANNI dal 1852 al 1889 -

- Storia. Anni 1852-1885. Parte prima.
- I PRIMI ANNI DEL COLONIALISMO
- L'ITALIA IN AFRICA: ASSAB
- I PIONIERI ITALIANI IN AFRICA NEL SECOLO XIX
- LA SOCIETA' RUBATTINO ACQUISTA ASSAB
- LA STAZIONE GEOGRAFICA DI LET-MAREFIÀ
- ECCIDIO DELLA SPEDIZIONE GIULIETTI
- IL GOVERNO ITALIA ACQUISTA ASSAB
- DISEGNO DI LEGGE SUI PROVVEDIMENTI PER ASSAB
- L' ITALIA RIFIUTA DI COOPERARE CON L' INGHILTERRA IN EGITTO.
- Storia. Anni 1852-1885. Parte seconda.
- ECCIDIO DELLA SPEDIZIONE BIANCHI
- INTERPELLANZE SUL MASSACRO DEL BIANCHI
- LA POLITICA COLONIALE
- OCCUPAZIONE DI MASSAUA
- MISSIONE FERRARI-MAZZINI
- DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA AFRICANA
- DIMISSIONI DEL MINISTERO
- Storia. Anni 1886-1887. Parte Prima.
- AFRICA: NUOVE OCCUPAZIONI
- ECCIDIO DOGALI
- I TRATTATI
- ECCIDIO DELLA SPEDIZIONE PORRO
- NUOVE OCCUPAZIONI ITALIANE IN AFRICA E
PROTESTE DEL NEGUS
- INTIMAZIONE DI RAS ALULA
- COMBATTIMENTO DI SAATI
- COMBATTIMENTO DI DOGALI
- DISEGNO DI LEGGE PER AUTORIZZAZIONE DI
SPESE STRAORDINARIE E PER LA SPEDIZIONE DI RINFORZO IN AFRICA
- DIMISSIONI DEL GABINETTO
- OTTAVO GABINETTO DEPRETIS.
- CRISPI MINISTRO DELL'INTERNO
- IL " CORPO SPECIALE D'AFRICA"
- ACCORDO ITALO-BRITANNICO
- RINNOVAMENTO DELLA TRIPLICE ALLEANZA
- Storia. Anni 1886-1887. Parte seconda.
- ACCORDO ITALO-SPAGNOLO
- PREVISIONE DELLA SPESA DEL MINISTERO DELLA GUERRA PER L'ESERCIZIO 1887-88
- DISCORSO DI FERDINANDO MARTINI
- MONUMENTO AI CADUTI DI DOGALI
- TENTATIVO DI RICONCILIAZIONE FRA LA
CHIESA E LO STATO
- MORTE DI DEPRETIS
- Storia. Anni 1888-1889.
- LA SPEDIZIONE SAN MARZANO IN AFRICA
- CONVENZIONE SEGRETE DEL RE CON LO SCIOA
- LA MISSIONE PORTAL
- RITIRATA DEL NEGUS GIOVANNI
- INTERPELLANZE ALLA CAMERA SULLA CAMPAGNA D'AFRICA
- Storia. Anni 1890-1891. Parte Prima
- L'ASMARA-NEGUS
- TRATTATO DI UCCIALLI
- CRISPI IN CRISI
- BALDISSERA GOVERNATORE A MASSAUA
- COMBATTIMENTO DI SAGANEITÌ
- IL CONTE ANTONELLI E LA POLITICA SCIOANA
- MORTE DEL NEGUS GIOVANNI
- IL TRATTATO DI UCCIALLI
- RAS MAKONNEN IN ITALIA
- LA CONVENZIONE ADDIZIONALE AL TRATTATO DI UTCCIALLI
- L'AZIONE DI BALDISSERA - OCCUPAZIONE DI CHEREN E DI ASMARA
- IL GENERALE ORERO SOSTITUISCE BALDISSERA
- Storia. Anni 1890-1891. Parte Seconda
- LA "COLONIA ERITREA"
- LA MARCIA SU ADUA
- L'ART. 17 DEL TRATTATO DI UCCIALLI
- RICHIAMO DEL GENERALE ORERO
- LA MISSIONE ANTONELLI PRESSO MENELICK
- AZIONE DI CRISPI PER IMPEDIRE L'ANNESSIONE DELLA TUNISIA ALLA FRANCIA E LA FORTIFICAZIONE DI BISERTA
- L'INCONTRO TRA I CRISPI E IL CANCELLIERE TEDESCO CAPRIVI
- DIMISSIONI DEL GIOLITTI
- L'INAUGURAZIONE DELLA XVII LEGISLATIURA
- Storia. Anni 1890-1891. Parte Terza
- DIMISSIONI DEL MINISTERO CRISPI
- Storia. Anni 1891-1892.
- FORMAZIONE DEL MINISTERO DI RUDINÌ; IL PROGRAMMA
- NEGOZIATI ITALO-INGLESI PER DELIMITARE I CONFINI TRA L'ERITREA E IL SUDAN
- LA NOMINA DELLA COMMISSIONE D'INCHIESTA PER I FATTI COMPIUTI DA CAGNASSI E DA LIVRAGHI
- DISCUSSIONE PARLAMENTARE DI ALCUNI DISEGNI DI LEGGE E INTORNO ALLA POLITICA E AGLI INTERESSI ITALIANI IN AFRICA
- LA POLITICA TIGRINA
- IL CONVEGNO DEL MAREB
- IL GEN. GANDOLFI SOSTITUITO DAL COL. BARATIERI - UCCISIONE DEL CAPITANO BETTINI
- Storia: Anni 1889-1895. Parte Prima.
- GUERRA D'AFRICA - PATTI E ACCORDI - POI, L'AMBA ALAGI
- IL PROTETTORATO ITALIANO SUI SULTANATI DI OBBIA E DEI MIGIURTINI E SULLA COSTA DEL BENADIR
- IL PROTOCOLLO ITALO-INGLESE DEL 21 MARZO 1891
- ESPLORAZIONI DEL ROBECCHI-BRICCHETTI, DEL FERRANDI, DEL BÒTTEGO E DEL RUSPALI IN SOMALIA
- CONVENZIONE TRA L' ITALIA, L'INGHILTERRA E IL SULTANO DI ZANZIBAR
- LA COMPAGNIA FILONARDI
- PROTOCOLLO ITALO-INGLESE PER LA DELIMITAZIONE DELLA SFERA D'INFLUENZA NELL'AFRICA ORIENTALE
- UCCISIONE DEL SOTTOTENENTE DI VASCELLO ZAVAGLI
- PRIMO COMBATTIMENTO DI AGORDAT
- COMBATTIMENTO DI SEROBETÌ
- SECONDO COMBATTIMENTO DI AGORDAT
- PRESA DI CASSALA
- INSURREZIONE DELL'ACCHELÈ-GUZAI
- COMBATTIMENTO DI HALAI
- LE GIORNATE DI COATIT E SENAFÈ
- Storia. Anni 1889-1895. Parte Seconda.
- OCCUPAZIONE DELL'AGAMÈ E DEL TIGRÈ
- IL GENERALE BARATIERI A ROMA - OPERAZIONI CONTRO MANGASCIÀ
- COMBATTIMENTO DI DEBRA-AILÀ
- COMBATTIMENTO DI AMBA ALAGI E DI ADERÀù
- Storia. Anni 1889-1895. Parte Terza.
- DOPO L'AMBA ALAGI, LE DISCUSSIONI PARLAMENTARI.
- Storia. Anni 1895-1896. Parte Prima.
- GUERRA AFRICA - RINFORZI - BATTAGLIA ADUA - CRISPI CONTENSTATO
- CONCENTRAMENTO ITALIANO AD ADIGRAT ASSEDIO DI MAKALLÈ
- AIUTI DELLA FRANCIA A MENELICK
- RINFORZI ITALIANI IN ERITREA
- MOVIMENTI DELLE TRUPPE ITALIANE ED ETIOPICHE
- DEFEZIONE DI RAS SEBATH E DI AGOS TAFARÌ
- COMBATTIMENTO DI SEETÀ E DI ALOQUÀ
- DIMOSTRAZIONE DI ADÌ CHERAS
- IL GENERALE BALDISSERA NOMINATO GOVERNATORE CIVILE E MILITARE DELL' ERITREA
- COMBATTIMENTO DI MAI MARET
- CONSIGLIO DI GUERRA DEL 27 FEBBRAIO 1896
- Storia. Anni 1895-1896. Parte Seconda.
- L'ORDINE DI OPERAZIONE DEL 29 FEBBRAIO
- LA MARCIA DI AVVICINAMENTO LA BATTAGTIA DI ADUA.
- COMBATTIMENTI DI ENDA CHIDANE MERET, DI MONTE' RAIOREBBI ARIENNI, E DI MARIAU SCIAVITÙ
- Storia. Anni 1895-1896. Parte Terza.
- DOPO LA DISFATTA: IL PROCESSO BARATIERI
- CADUTA DI FRANCESCO CRISPI
-Storia. Anni ANNI 1896-1897. Parte prima.
- DOPO ADUA
- IL SECONDO MINISTERO DI RUDINÌ
- SUO PROGRAMMA
- DISEGNO DI LEGGE PER LE SPESE DI GUERRA NELL'ERITREA
- DISCUSSIONE PARLAMENTARE
- Storia: Anni 1896-1897. Parte seconda.
- IL GENERALE BALDISSERA IN ERITREA
- ORGANIZZAZIONE DELLA DIFESA
- RITIRATA DEGLI ABISSINI - OPERAZIONI CONTRO I DERVISCI
- SCONTRO DI GULUSIT COMBATTIMENTO DI SABDERAT
- COMBATTIMENTI DI MONTE MOCRAM E DI TUCRUF RITIRATA DEI DERVISCI
- OPERAZIONI PER LA LIBERAZIONE DI ADIGRAT
- SGOMBRO DI ADIGRAT E DELL'AGAMÈ
- SEPPELLIMENTO DEI MORTI DI ADUA
- LA SORTE DEI PRIGIONIERI ITALIANI
- COMITATI E SPEDIZIONI DI SOCCORSO
- LA DURA LETTERA DI CRISPI
- Storia. Anni 1896-1897. Parte terza.
- IL TRATTATO DI PACE DI ADDIS ABEBA
- LA POLITICA AFRICANA DISCUSSA ALLA CAMERA
- L'ECCIDIO DI LAFOLÈ
- UCCISIONE DEGLI ESPLORATORI VITTORIO BOTTEGO E MAURIZIO SACCHI
- LA CAMERA APPROVA LA POLITICA COLONIALE DI RACCOGLIMENTO
- FERDINANDO MARTINI GOVERNATORE CIVILE DELL' ERITREA
- ABBANDONO DI CASSALA
- Storia. Anni1897-1898.
- LA POLITICA ESTERA ED INTERNA DEL BIENNIO RUDINÍ. (solo Eritrea. Nota1)
- INAUGURAZIONE DELLA XX LEGISLATURA
- POLITICA FINANZIARIA E PROMULGAZIONE DI LEGGI FINANZIARIE E SOCIALI
NOTE:
1)Per motivi di pertinenza dalla cronaca del Biennio Rudinì sono state estrapolate le sole notizie concernenti l' Eritrea. Per l'articolo completo degli anni 1897/1898 riferirsi al sito: cronologia.leonardo.it/storia/a1896c.htm
- Storia. Anni1890-1897. Parte Prima.
LA CAMPAGNA CONTRO I DERVISCI.
- Storia. Anni1890-1897. Parte Seconda.
LA CAMPAGNA CONTRO I DERVISCI.
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>>> Segue Parte Seconda: ANNI dal 1900 al 1932

 
 
 
 
 

Storia. Anni 1852-1885. Parte seconda.

Post n°42 pubblicato il 11 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1852-1885. Parte seconda.

ECCIDIO DELLA SPEDIZIONE BIANCHI
INTERPELLANZE SUL MASSACRO DEL BIANCHI
LA POLITICA COLONIALE - OCCUPAZIONE DI MASSAUA
MISSIONE FERRARI-MAZZINI - DISCUSSIONE PARLAMENTARE SULLA POLITICA AFRICANA - DIMISSIONI DEL MINISTERO

Il Governo italiano -non era solo Carducciano- e non voleva la politica delle grandi avventure e si accontentava delle imprese piccine. Di aver messo il piede nella baia di Assab non si era, in verità, scontenti e qualche piccola somma in più di quanto era stato stabilito il Parlamento era disposto a concedere. Intanto si eseguivano nella colonia alcune costruzioni, vi si mandava un ispettore del Genio civile per compilare il progetto di un porto, si negoziava felicemente con una compagnia nazionale di navigazione per ottenere una corrispondenza mensile in certe stazioni e quindicinale in altre, tra Assab, Aden e l'Italia; s'inviavano missioni diplomatiche al re d'Abissinia e allo Scioa; si rinforzava la sorveglianza costiera, affidata ad un presidio stanziato permanente, con l'invio di un'altra nave; si facevano propositi di reprimere la tratta degli schiavi nel Mar Rosso; si negoziava con il sultano d'Aussa e ci si preoccupava della sorte di Massaua che si temeva di vedere restituita (dagli inglesi) all'Abissinia.

Nel dicembre del 1884, essendosi sparsa la voce che la "spedizione BIANCHI" (che era già scampata al massacro Giulietti nel'81) era stata trucidata, fu presentata in proposito un'interrotazione dagli onorevoli CARPEGGIANI e GATTELLI, ai quali però MANCINI rispose (22 dicembre) che il Governo non sapeva nulla circa la sorte di quella spedizione. La notizia era purtroppo vera. Nei primi dell'ottobre, mentre da Makallè tentavano di raggiungere Assab, GUSTAVO BIANCHI e i due suoi compagni MUNARI e DIANA erano stati trucidati dai Dankali ai pozzi di Tio nel territorio del sultano del Birù.

Il 1° gennaio, sul giornale "Il Diritto" d'ispirazione governativa, per la prima volta in modo aperto, si dichiaravano le intenzioni del governo di intraprendere una politica di espansione coloniale.
La notizia destò scalpore; ma nello stesso articolo, si giustificava questa scelta, per bilanciare quella "frenesia" che stava portando le maggiori potenze europee a nuove conquiste territoriali. E si affermava che "...l'anno che stava nascendo avrebbe deciso le sorti dell'Italia come grande potenza.
Queste intenzioni non erano casuali: pochi giorni prima, il 22 dicembre con gli inglesi c'erano stati degli accordi (che leggeremo più avanti).

Il nuovo "massacro Bianchi" aveva enormemente commosso l'Italia, e si cominciò a reclamare a gran voce una esemplare punizione. Alla Camera, nella seduta del 15 gennaio 1885, l'on. BRUNIALTI interrogava MANCINI "intorno all'assassinio di Gustavo Bianchi e compagni ed ai provvedimenti che intendeva prendere per far rispettare in Africa il nome e gli interessi d'Italia", e, svolgendo la sua interrogazione, esprimeva il timore che al contegno troppo remissivo del Governo in seguito al "massacro Giulietti" fosse da attribuirsi la causa del nuovo eccidio.
Rispose in quella stessa seduta MANCINI dicendo che il Governo aveva sconsigliato a Bianchi l'impresa per quella via pericolosa, e che tuttavia, avuta notizia dell'eccidio, aveva fatto i suoi passi diplomatici presso il re d'Abissinia e il sultano d'Aussa affinché facessero luce sulla sorte dei viaggiatori italiani e ne punissero gli assassini; e infine, che "...aveva provveduto alla spedizione di un presidio militare in Assab, che avrebbe elevato il prestigio italiano in quelle regioni e avrebbe ricercato i modi per infliggere una punizione agli assassini del Bianchi".

Infatti, nei primi dell'anno '85, "era già stato" costituito e salpò da Napoli il 17 gennaio, un "corpo di spedizione" verso il Mar Rosso, comandato dal colonnello TANCREDI SALETTA; 1500 uomini, suddivisi in un battaglione di bersaglieri, una compagnia di artiglieria da campagna, un plotone del Genio, drappelli dei vari servizi, zappatori e telegrafisti. Il "Corpo" si era imbarcato al molo fra gli applausi della popolazione. A Saletta era stato consegnato il seguente messaggio: "L'Italia vi affida l'onore della sua prima spedizione in Africa, e voi e i vostri Mille, emuli di quelli di Marsala, dimostrate a quei barbari che l'Italia è veramente civile, all'Europa che è potente, al mondo che è grande".(Ma andavano veramente nel Mar Rosso?)

Il 25 gennaio del 1885, a spedizione partita, proseguì e iniziò alla Camera lo svolgimento d'interpellanze sui criteri e gl'intendimenti del Governo in fatto di politica coloniale. Parlarono l'on. DE RENZIS che lodò il ministero della Guerra per l'allestimento della spedizione, ma si mostrò scettico sull'azione delle navi da guerra italiane nel Mar Rosso, perché le maggiori, non potevano passare il canale, e dubbioso sui benefici commerciali della colonia di Assab, sostenendo che "...l'Italia aveva bisogno di una colonia agricola nel Mediterraneo non nel Mar Rosso"; l'on. DI CAMPOREALE, più o meno disse le stesse cose del De Renzis; l'on. PARENZO che accennò "...all'ignoranza dell'Italia in materia di colonizzazione" e si dichiarò contrario all'impianto di una colonia agricola in Assab; e l'on. OLIVA, il quale chiese quali fossero "gli intendimenti" del Governo intorno ai modi di efficacemente provvedere alla tutela dell'attività coloniale degli italiani, specialmente nelle regioni africane, e "quali i suoi intendimenti" nell'eventuale necessità d'occupazioni territoriali per la tutela degli interessi coloniali d'Italia.

Lo svolgimento delle interpellanze continuò nella seduta del 27. L'on. CANZI dichiarò di non aver fiducia nell'azione del Governo, ne criticò la politica coloniale debole e incerta, consigliò che fossero occupati i luoghi dov'era avvenuto l'eccidio Giulietti e si disse "contrario all'occupazione di vaste zone costiere nel Mar Rosso pur essendo favorevole all'impianto di piccole stazioni commerciali in varie parti del mondo.
Rispose a tutti gli oratori MANCINI. Sostenne che:
"…nella politica coloniale vi è la base della prosperità economica delle nazioni marinare, specie quando queste non possono impedire l'emigrazione, che è utile dirigere verso contrade su cui sventola, tutrice degli interessi nazionali, la bandiera italiana"; e aggiunse che "di fronte all'attività delle potenze europee in Africa, l'Italia non poteva rimanere inoperosa"; pertanto "…il Governo italiano crede di poter intraprendere una modesta e circospetta politica coloniale, non avventurosa ma entro certi limiti e sotto determinate condizioni, vale a dire quando è dimostrata l'utilità economica e politica di una qualsiasi iniziativa coloniale; quando non si offendono i diritti acquisiti di altri Stati; quando si concorre all'attività privata e commerciale del popolo italiano, senza invadere il compito delle private utilità e che l'azione governativa si deve restringere nel campo delle funzioni proprie dello Stato, cioè a preparare, facilitare e rimuovere ostacoli, proteggendo all'ombra della bandiera italiana e tutelando efficacemente gl'interessi creati dal lavoro dei nazionali all'estero".
Dichiarò infondato il timore che l'azione nel Mar Rosso distogliesse il Governo dal Mediterraneo. Concluse invocando l'appoggio e la fiducia della Camera: "…nel momento in cui il Governo assumeva la responsabilità di una modesta politica coloniale che poteva essere all'Italia sorgente di gloria e di prosperità".

La discussione continuò nella seduta del 28. l'on. DE RENZIS non si mostrò soddisfatto delle dichiarazioni del ministro degli Esteri; l'on. DI CAMPOREALE prese atto invece di queste dichiarazioni e disse di volerne aspettare la conferma dai fatti; l'on. PARENZO disse di non credere all'utilità di colonie commerciali, perché se "erano insignificanti sarebbero state inutili, se importanti sarebbero andate a benefizio del commercio di altri". L'on. OLIVA invece lodò le dichiarazioni, l'attività e l'indirizzo politico di Mancini; l'on. CANZI aggiunse, che il Governo doveva agevolare lo spirito d'iniziativa privata e si congratulò con il ministro degli Esteri su quanto aveva detto circa il Mediterraneo; mentre CRISPI pur non disapprovando, sostenne che "...nel Mediterraneo vi doveva esser posto per tutti e che una politica diversa (di rinuncia) sarebbe stata fatale all'Italia".

La spedizione militare italiana nel Mar Rosso (che sopra abbiamo visto già costituita ai primi di gennaio e partire il 17) e intorno alla quale erano state chieste spiegazioni al ministro degli esteri, era stata provocata (o abilmente suggerita), oltre che dal desiderio di tutelare in Africa il prestigio italiano, dalle offerte dell'Inghilterra di intervenire in quel mare.
L'Inghilterra, assalita nel Sudan dall'insurrezione mahdista, aveva prima chiesto l'aiuto dell'Abissinia, con la quale aveva, per mezzo dell'ammiraglio HEWETT, concluso un trattato (Aden, 3 giugno 1884). Con questo gli inglesi cedevano all'Abissinia il territorio dei Bogos, appartenente all'Egitto e assicuravano il libero transito delle merci abissine nel porto di Massaua. Ma essendo stato di breve durata l'aiuto abissino, l'Inghilterra in ottobre si era rivolta all'Italia, spingendola all'occupazione di Massaua (distogliendola così -dissero i maligni- dal Mediterraneo).
Infatti il 22 dicembre dello stesso 1884, l'Inghilterra non con un "trattato" ma con un "accordo", assicurava all'Italia il "disinteresse" britannico nel caso di un'occupazione italiana di Massaua.
Mancini dirà poi, che quest'accordo era "una comunione cordiale d'interessi e di vedute". Cioè nulla di scritto.

La vera mèta della spedizione si tenne segreta e si volle far credere che quel migliaio di soldati fosse diretto ad Assab per punire l'eccidio del Bianchi. Il 25 gennaio, l'ammiraglio CAIMI, comandante le navi italiane nel Mar Rosso, fece occupare la baia di Beilùl da, un centinaio di marinai della "Castelfidardo"; il 5 febbraio giunse a Massaua il "Gottardo" con il corpo del colonnello SALETTA, il quale prese in nome dell'Italia possesso della città senza che la modesta guarnigione egiziana opponesse resistenza (gli inglesi pur protettori degli Egiziani non si mossero. Avevano altre mire).

Solamente la Turchia, la Russia e la Francia sollevarono proteste per l'occupazione di Massaua, ma le proteste non ebbero seguito e SALETTA, si mise a fortificare la città, poi estese l'occupazione a Moncullo e Otumbo.
Il 12 febbraio salpò per Massaua un secondo scaglione formata da 42 ufficiali e 920 uomini di truppa; e un terzo scaglione di 1600 uomini comandati dal generale AGOSTINI RICCI salpò il 24 febbraio e giunse in Africa nei primi di marzo.
Ad Assab fu messo a presidio una compagnia di soldati; il 10 aprile fu occupata Arafali in fondo alla Baia di Zula, quindi occupate Archico, le isole Hanachil, Meder, nella baia di Amfilè, e la baia di Edd.

L'occupazione di Massaua non era sicuramente gradita al Negus d'Abissinia, che vedeva nell'azione italiana un ostacolo alla sua aspirazione di assicurarsi uno sbocco al mare. In base al trattato HEWET (del 3 giugno 1884) lui fece occupare Cheren e il paese dei Bogos. Dal canto suo il Governo italiano, per calmare le apprensioni abissine, mandò la missione FERRARI-NERAZZINI con ricchi doni del re d' Italia e una lettera, in cui fra l'altro si affermava:
"Ci preme di assicurare la Maestà Vostra che tutti i vantaggi, che la Gran Bretagna e l'Egitto avevano assicurato a Massaua e all'Abissinia saranno da noi scrupolosamente mantenuti e, se le circostanze lo consentiranno, saranno anche accresciuti. Però è nostro intendimento, quando piaccia a Vostra Maestà, di farci conoscere il suo gradimento sull'invio di una apposita missione, con l'incarico non solo di confermare solennemente ciò che sta scritto a tale riguardo nel trattato stipulato dalla Maestà Vostra il 3 giugno 1884 con quei due Stati, ma altresì di negoziare ulteriori accordi che potrebbero essere di comune profitto".

Tutti questi fatti (missione, occupazione, accordi, promesse vaghe) furono oggetto di varie interpellanze alla Camera. Il 17 marzo, l'on. BOVIO, svolgendo una sua interpellanza, lodava il Governo per l'avvicinamento dell'Italia con l'Inghilterra, che sarebbe stata assai più utile ed efficace alleata nostra di quel che fossero state le potenze centrali, e chiedeva quali "accordi" fossero stati presi con i governi inglese e abissino; l'on. SOLIMBERGO interrogava il ministro degli Esteri sull'equipaggiamento delle truppe inviate in Africa, e se "...l'azione italiana si collegasse con quella inglese nel Sudan e se l'occupazione di Massaua fosse temporanea o, come si augurava, definitiva e preludio di una penetrazione nei dintorni"; l'on. DI SAN GIULIANO "...dubitava che la nuova colonia potesse dare uno sbocco all'emigrazione italiana, si diceva scettico sui risultati che il nostro commercio avrebbe conseguito nell'interno dell'Africa, e sosteneva che bisognava tenere alto il prestigio del nome italiano e stringere amicizia con l'Abissinia non inimicizia"; l'on. TOSCANELLI infine si associava ai precedenti oratori per quel che riguardava gli accordi con l'Inghilterra e l'Etiopia, però consigliava l'occupazione del Cheren e l'accrescimento del presidio di Massaua.

MANCINI dichiarò che "...l'Italia occupando Massaua, occupava tutto il territorio che potesse costituire il suo raggio d'azione; che si erano prese tutte le misure per impedire sollevazioni ed incursioni; che le relazioni tra l'Abissinia e l'Italia erano ottime"; e infine soddisfatto di ciò che aveva detto e sostenuto, pregò la Camera d'inviare un saluto affettuoso ai soldati che primi, dopo un quarto di secolo dalla costituzione del regno, avevano portato la bandiera italiana in Africa (qualcuno rimembrava Scipione o le aquile imperiali).

La discussione continuò il 18 marzo e si chiuse con un saluto del presidente della Camera all'esercito e all'armata che rappresentavano l'Italia sulle coste del Mar Rosso (che erano però fuori da quei "confini naturali della più grande nazione latina" che il poeta Carducci stava manifestando nell'incipiente culto della guerra e delle armi; con non poca influenza sulla "molto prossima" cosiddetta "megalomania Crispina".

Altre interpellanze sulla politica coloniale e sulle occupazioni africane furono svolte alla Camera il 6 maggio del 1855 dagli onorevoli Di CAMPOREALE, CAIROLI, BRANCA, DO RENZIS, che parlarono dell'occupazione abissina di Cheren, delle spese non lievi sostenute per l'Africa, della riluttanza del Governo nel dar notizia sull'azione africana, e della incompatibilità della nostra presenza a Massaua con la sovranità egiziana.
MANCINI affermò che "le occupazioni nel Mar Rosso non erano dannose o pericolose o inutili, che le spese non erano state cosi forti come si pretendeva", e dichiarò che, "occupando Massaua, il Governo aveva voluto iniziare una modesta impresa coloniale per aprire un nuovo campo al lavoro ed all'industria italiana, che non esistevano impegni con l'Inghilterra bensì una comunione cordiale d'interessi e di vedute, che lui, infine, "avrebbe seguita una politica coloniale proporzionata alle forze della nazione e si sarebbe dimesso se fosse prevalso il concetto di una politica in "grande stile" o di "misere vedute".

La discussione prosegui il giorno dopo e vi parteciparono OLIVA, MAURIGI, DE ZERBI, e CRISPI, il quale disse che l'acquisto di Assab era una triste eredità della Destra e che se fosse dipeso da lui l'Italia sarebbe andata in Egitto nel 1882, ma poiché era andata nel Mar Rosso, "ora doveva restarci".
Parlarono inoltre FORTI, BONGHI e il COSTA che affermò che "...l'Italia lavoratrice non voleva una politica coloniale e invitò il Governo "…a richiamare le truppe dall'Africa"; De RENZIS, invece preoccupato "temeva e vedeva la possibilità di una guerra pericolosa con l'Abissinia". Infine l'on. PARENZO svolse il seguente ordine del giorno: "La Camera deplora la mancanza, nell'indirizzo di politica estera, di una conveniente energia e di una preparazione corrispondente ai suoi propositi"; CORDOVA svolse quest'altro allarmante o.d.g.: "La Camera deplora la politica coloniale aggressiva del Governo e... lo invita a fortificare le coste, le spiagge e i porti dell'Italia meridionale e della Sicilia".

Altri ordini del giorno svolsero gli onorevoli BACCARINI e PANDOLFI; nel primo "…la Camera invitava il Governo a non impegnare ulteriormente gli interessi politici e finanziari del paese senza esplicita approvazione del Parlamento"; nel secondo la Camera confidava che il Governo avrebbe sostenuto "con energia l'onore della nostra, bandiera e gli interessi nazionali".
MANCINI espose le ragioni che lo avevano indotto a non accettare l'intervento in Egitto e si disse convinto di aver fatto gl'interessi del paese; respinse l'accusa di avere inviato truppe senza aver chiesto il consenso del Parlamento; riaffermò che, "...l'Italia nel Mar Rosso e in Africa non doveva rimanere inoperosa ed inerte, senza, alcun beneficio economico e senza esercitare una legittima influenza politica nella soluzione della questione d'Egitto, alla tutela del cui territorio concorreva. Disse infine, che "altre volte lui aveva accennato agli studi che si facevano, affinché altre terre, meritevoli di diventar sede di colonizzazione italiana, potessero per vie legittime essere forti e prosperose sotto la protezione dell'Italia. Terminò chiedendo alla Camera un voto di fiducia che desse autorità e stabilità alla politica iniziata dal Governo.

Anche DEPRETIS ritenne opportuno prendere la parola per difendere il ministro Mancini e concluse il suo breve discorso dicendo che il voto doveva essere preciso e dato a tutto il Gabinetto dal momento che il ministro degli Esteri aveva agito in pieno accordo con esso. Parlarono ancora CRISPI, BONGHI, TOSCANELLI, BACCARINI, PARENZO; e COSTA presentò il seguente ordine del giorno: "La Camera, convinta che la politica coloniale iniziata dal Governo non corrisponde né ai concetti di vera civiltà né a quei principi di diritto e di giustizia per cui l'Italia si rivendicò a nazione, invita il Governo a richiamare dall'Africa i soldati colà inviati e a rivolgere le sue mire a sollevare le classi più numerose e più povere in Italia".
TAJANI invece presentò un ordine del giorno di fiducia al Governo, che fu accettato dal Depretis e approvato l'8 maggio 1885, dalla Camera con 180 voti favorevoli, 97 contrari e 7 astenuti.
La spedizione a Massaua fu dunque approvata! E come disse Crispi, "doveva restarci".

Nella seduta del 21 maggio la Camera, dietro ordine del giorno della Commissione del bilancio, approvava le proposte di maggiori stanziamenti per le spedizioni africane; il 1° giugno, avendo fin dall'11 aprile il ministro della Guerra chiesto che si iscrivesse nel progetto di legge per spese straordinarie la somma di 2 milioni al capitolo approvvigionamenti di mobilitazione per l'esercizio 1884-1885, la Camera approvava questo stanziamento. Il giorno dopo il ministro della Guerra presentava il disegno di legge Autorizzazione di spesa per i distaccamenti militari del Mar Rosso, chiedendo un maggiore assegno di 2 milioni; il 6 giugno a nome della commissione generale del bilancio l'on. GANDOLFI presentava la relazione favorevole e il 13 giugno il disegno veniva approvato con 139 voti contro 89.

Nella seduta del 16 giugno, discutendosi alla Camera il bilancio di previsione del ministero degli Esteri per l'esercizio 1885-1886, l'on. SORMANI-MORETTI chiese se il Governo "...voleva insistere nella politica di espansione e dichiarò di ritenere in alcuni casi più utile e dignitoso sapere rifare la via percorsa, per evitare danni o pericoli maggiori che prima non si erano potuti calcolare o prevedere. MANCINI dichiarò che nessun avvenimento, dopo l'ultimo voto della Camera, era successo che poteva indurre la Camera stessa ad alterare la linea di condotta dell'Italia in Africa; quanto all'avvenire, affermò che il Governo non avrebbe fatto passi nuovi senza l'approvazione del Parlamento. Il 18 giugno, terminata la discussione, il bilancio fu approvato con 163 voti contro 159. Troppo esiguo il voto per poter stare in piedi il governo.

Nella seduta successiva il Depretis annunziava alla Camera che, in seguito alla votazione del giorno precedente il Gabinetto aveva dato le dimissioni.
Il 23 giugno il Re incarica ancora DEPRETIS a formare un nuovo ministero, che il 29 giugno 1885, costituisce con il ritiro di MANCINI, assumendo lui temporaneamente il ministero degli Esteri (assieme al ministero degli Interni). Gli Esteri andrà poi il 6 ottobre a CARLO FELICE NICOLI DI ROBILANT, già ambasciatore a Vienna.
In Africa l'espansione italiana continua con delle nuove occupazioni, e la reazione dei locali provoca una nuova tragedia.

... è il periodo piuttosto critico per l'Italia, per gli Italiani, per il ministero, anche se si sono fatti accordi, trattati, e promesse

...è il periodo dal 1886 al 1887

 
 
 

Storia. Anni 1852-1885. Parte prima. I PRIMI ANNI DEL COLONIALISMO - L'ITALIA IN AFRICA: ASSAB

Post n°41 pubblicato il 11 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1852-1885. Parte prima.
I PRIMI ANNI DEL COLONIALISMO - L'ITALIA IN AFRICA: ASSAB

I PIONIERI ITALIANI IN AFRICA NEL SECOLO XIX - LA SOCIETA' RUBATTINO ACQUISTA ASSAB - LA STAZIONE GEOGRAFICA DI LET-MAREFIÀ - ECCIDIO DELLA SPEDIZIONE GIULIETTI - IL GOVERNO ITALIA ACQUISTA ASSAB - DISEGNO DI LEGGE SUI PROVVEDIMENTI PER ASSAB - L' ITALIA RIFIUTA DI COOPERARE CON L' INGHILTERRA IN EGITTO.

Il primo uomo di stato italiano che pensò di fornire ai suoi connazionali nuove vie oltre i mari e specie in Africa, fu CAVOUR, che nel 1852 e ancora nel 1857, chiese ai missionari italiani d'Africa di cercare un luogo adatto per stabilirvi una colonia penale, che fosse però "idoneo ad un futuro sviluppo commerciale".
Che cosa aveva in mente Cavour, sappiamo poco. Il savoiardo Padre LEONE DES AVANCHÈRES, vicario di Monsignor Massaia, rispose a Cavour nel 1859 che il degiàc NEGUSSIÈ del Tigrai era disposto a cedere un punto della costa del Mar Rosso. Ma altri avvenimenti di grande importanza si svolgevano allora in Italia e queste trattative furono troncate e dai successori del Conte, idee accantonate o nemmeno più pensate.

Tuttavia prima e dopo questi contatti dello statista piemontese, nella metà del secolo XIX l'attività dei pionieri europei in Africa era intensa, e cospicua era pure quella degli italiani, sia essi missionari sia esploratori. Nel 1850 il missionario FILIPPO da SEGNI si spingeva da Tripoli nel Bornu; nel 1851 GIUSEPPE SAPETO percorreva l'Abissinia settentrionale e GUGLIELMO MASSAIA giungeva a Fadasi e nel Goggiam; nel 1853 il maltese ANDREA DE BONO giungeva oltre le cateratte di Makedongo; l'anno dopo GIOVANNI BELTRAME lo troviamo nei paesi di Fazogl e di Benisangol e il De Bono esplorava l'alto Nilo; nel 1856 ANTONIO BRUN-ROLLET, console sardo a Chartum, risaliva il fiume Bianco fino al lago No e il Bahr-el-Ghazal; dal 1857 al 1860 Leone des Avanchères visitava i paesi dei Galla e dei Somali; nel 1858 MASSAIA si spingeva all'Enarea, al Ghera e nel Caffa; nel 1859 ORAZIO ANTINORI arrivava a Sennar e l'anno seguente visitava il Cordofan mentre GIOVANNI MIANI e il DE BONO toccavano Gondocoro, il paese dei Liria e giungevano fino a Galuffi; dal 1860 al 1861 l'ANTINORI visitava il Cordofan e Gondocoro e risaliva il Bahr-el-Ghazal, mentre il dottor ORI iniziava i suoi viaggi nei distretti del Fiume Azzurro; e tra il 1863 e il 1865 CARLO PIAGGIA visitava il paese dei Niam-Niam.

L'11 aprile del 1867 a Firenze, per iniziativa di CRISTOFORO NEGRI, furono gettate le basi della "Società Geografica Italiana"; due anni dopo si apriva il canale di Suez e, per iniziativa delle camere di commercio italiane, il Governo autorizzava il prof. GIUSEPPE SAPETO ad acquistare dai sultanelli della costa per conto della Società di Navigazione RUBATTINO la baia di Assab, nel Mar Rosso, per stabilirvi una base, cioè un deposito di carbone per i rifornimenti delle navi italiane dirette alle Indie. Intanto la Società Geografica promuoveva una spedizione nel paese dei Bogos, che fu compiuta da ANTINORI, da BECCARI e da ISSEL; e nel marzo del 1875 deliberava una spedizione fino ai laghi Equatoriali.

La spedizione, composta da ANTINORI che la comandava, dall'ing. CHIARINI, dal capitano MARTINI, dal capitano CECCHI e, più tardi, dal conte ANTONELLI, partì dall'Italia nel marzo del 1876. Nel gennaio del 1877, Menelik concesse alla spedizione di usufruire della terra di Let Marefià, nello Scioa, dove fu impiantata una stazione geografica, da dove nel maggio del 1878 partirono CECCHI e CHIARINI, e si spinsero nell'Enarea e a Ghera. Fatti prigionieri e condotti a Cialla, Chiarini vi morì nell'ottobre del 1879; CECCHI, liberato, riuscì a toccare il Caffa, nel settembre del 1880 a unirsi con GUSTAVO BIANCHI e nel marzo del 1881 ritornare a Let Marefià.

Due mesi e mezzo dopo, il 25 gennaio del 1881, il noto viaggiatore italiano GIUSEPPE MARIA GIULIETTI, il tenente di MARINA VINCENZO BIGLIERI e dieci marinai dell'"Ettore Fieramosca", mentre tentavano di collegare Assab con l'Aussa e l'altipiano etiopico, sorpresi in un'imboscata ad una decina di giornate da Beilul, furono massacrati dagli uomini delle tribù Dankali.

La notizia dell'eccidio commosse gli italiani. L'on. MASSARI presentò un'interrogazione sul massacro al ministro degli Esteri, e MANCINI, il 13 giugno, in risposta, tessé un elogio delle vittime, promise un'accurata inchiesta e concluse: "E' inutile che io aggiunga alla Camera l'assicurazione che il Governo non mancherà in questa, come ogni altra occasione, al dovere, che sente vivissimo, di proteggere con l'ombra della sua bandiera e della sua autorità tutti quegli Italiani, i quali per uno scopo scientifico industriale si adoperano a portare lontano e onorato il nome italiano".

L'eccidio della "spedizione GIULIETTI" non fu l'ultima causa che spinse il governo italiano ad acquistare con la convenzione del 10 marzo del 1882, dalla Società Rubattino Assab e le sue immediate adiacenze (la baia). Il 12 giugno del 1882, MANCINI, di concerto con i ministri delle Finanze e dell'Agricoltura, presentò un disegno di legge dal titolo "Provvedimenti per Assab", tendenti a migliorare le condizioni materiali della baia e del possedimento di terraferma e a collegare la colonia agli altri centri commerciali.
Il disegno costava di quattro articoli:
il 1° fissava l'estensione del territorio della colonia che era di 630 kmq (una fascia di circa 20 x 30 km);
il 2° dava facoltà al governo di provvedere con decreti reali o ministeriali all'ordinamento legislativo, amministrativo, giudiziario, economico della colonia stessa, che sarebbe stata sotto la diretta dipendenza del ministero degli Esteri;
i1 3° fissava l'applicazione dei codici e delle leggi italiane agli Italiani del Regno là residenti; rispetto agli indigeni, un cadì avrebbe in nome del re d'Italia amministrato la giustizia secondo la legislazione consuetudinaria locale;

il 4° fissava il pagamento dovuto alla Compagnia Rubattino in tre rate annuali di Lire 138.666,66 ciascuna; proponeva lo stanziamento in apposito capitolo del ministero degli Esteri, nella straordinaria parte, per l'esercizio 1882, di Lire 60.000. Con legge speciale si sarebbe provveduto alla costituzione di un porto e delle altre opere occorrenti nella baia di Assab. Al disegno erano uniti la convenzione del 10 marzo e i contratti tra il rappresentante della Società Rubattino e i venditori del territorio.

Il 19 giugno 1882 alla Camera fu presentata la relazione della convenzione a firma dell'on. PICARDI e nella tornata del 26 giugno cominciò la discussione sul disegno di legge. Intervennero gli onorevoli VOLLARO, MERZARIO, MALDINI, CAVALLETTO, PIEARDI, PARENZO E OLIVA.

L'on. SANT'ONOFRIO, ricordando il massacro della "spedizione Giulietti", espresse l'augurio che il Governo agisse con energia dovunque fossero impegnati la bandiera e l'onore nazionale, soggiungendo che difficilmente le nostre carovane avrebbero potuto penetrare nell'interno per aprirci delle vie di commercio con l'Abissinia e con lo Scioa, se i massacri dei nostri concittadini fossero rimasti impuniti. Il ministro degli Esteri MANCINI rispose che "…se, ad Assab o altrove gli Italiani avessero ricevuto offese e vi fosse stata possibilità di infliggere severa ed esemplare punizione, il Governo non avrebbe mancato al sacro dovere di provvedere alla difesa e al prestigio della sovranità italiana".

In quella stessa seduta fu terminata la discussione degli articoli; il disegno di legge fu approvato il 28 con 147 voti contro 72. Presentato al Senato il 29 giugno, lo approvò senza discussione il 4 luglio con 39 voti contro 32.

L'ITALIA RIFIUTA DI COOPERARE CON L'INGHILTERRA IN EGITTO

Nello Stesso anno in cui il Governo italiano prendeva ufficialmente possesso di Assab avvenimenti importanti avvenivano in Egitto, dove sotto il "Kedive" TEWFICK, era nato ed aveva preso straordinario sviluppo il partito nazionalista, capitanato da ARABÌ pascià, il quale nel febbraio del 1882 era stato nominato ministro della guerra. La Francia e l'Inghilterra, che, come creditrici dell'Egitto (per il Canale) vi esercitavano un controllo amministrativo e finanziario, preoccupate dal movimento nazionalista, inviarono nel maggio una flotta nelle acque di Alessandria. Il provvedimento risultò utilissimo perché, infatti, l'11 giugno in questa città scoppiò un'insurrezione dei nazionalisti contro gli europei e la squadra inglese bombardò la piazza, cogliendo il pretesto dei lavori di fortificazione che ARABÌ pascià aveva iniziato. La Francia, temendo complicazioni, non volle nella repressione del movimento egiziano unirsi all'Inghilterra; questa allora invitò l'Italia a cooperare ad un'azione militare in Egitto, ma il governo italiano rifiutò. Avuta notizia di questo rifiuto, FRANCESCO CRISPI, che si trovava a Londra, scrisse al MANCINI in data del 29 luglio: "Sono dolentissimo che hai declinato l'invito che ti fu fatto dall'Inghilterra ad intervenire in Egitto. Voglia Iddio che il tuo rifiuto non sia la causa di nuovi danni all'Italia nel Mediterraneo. Bisognava accettare senza esitazione. Quando Cavour gli fu fatta l'offerta di unirsi alle potenze occidentali per andare in Crimea, non vi pensò un istante. Il Governo del piccolo Piemonte ebbe quel coraggio che oggi manca al Governo d'Italia".

Il rifiuto della Francia e dell'Italia non scoraggiò di certo l'Inghilterra, la quale agì da sola. Il "Kedive" TEWFICK si mise sotto la protezione inglese e destituì da ministro della guerra ARABÌ pascià. Questi si ribellò e tentò di resistere alle truppe britanniche, ma il 13 settembre fu sbaragliato a Tell el-Kebir, fatto prigioniero e deportato all'isola di Ceylon. L'Inghilterra iniziò a "dominare" l'intero Egitto; il Kedive, riempito di sterline e lusso, il suo "servente" esecutore.

La politica estera del governo italiano, specie per quanto riguardava l'Egitto, non poteva che essere disapprovata. Nella seduta del 10 marzo del 1883, SONNINO mosse aspre critiche a MANCINI per avere rifiutato l'offerta dell'Inghilterra. "L'Italia - disse fra l'altro - non può disinteressarsi delle condizioni politiche del Mediterraneo; non può avere le stesse mire, la stessa politica, sia che le si chiudano o no gli sbocchi ai suoi commerci, sia che le si restringa o no il campo all'emigrazione dei suoi lavoranti e alla concorrenza dei suoi industriali, e le si tolga ogni speranza di un grandioso avvenire coloniale. Gli avvenimenti precipitano. La Russia e Austria si danno la mano per avanzarsi, l'una alla riva del Bosforo, l'altra dell'Egeo. Il "leone" inglese ha posato la zampa sull'Egitto, e non saranno le vostre piccole risorse ed innocue punture di spillo che gli faranno chiudere gli artigli. La Francia comanda a Tunisi, e ormai ogni nostra opposizione a quell'occupazione non appare più che una fanciullaggine. Tutti rispettano il Marocco come cosa che tocchi prima o poi alla Spagna. E l'Italia ? Riassume tutta la sua arte di Stato nel motto: "inertia sapientia".

Anche MINGHETTI si lamentò che l'Italia si fosse lasciata sfuggire l'occasione di recuperare in Egitto quell'influenza e quel prestigio che erano richiesti dai suoi interessi; gli onorevoli DI SANT'ONOFRIO, DELVECCHIO, MICELI e SAVINI, invece, si dichiararono contrari alla politica delle "grandi avventure" e sostennero che l'Italia, intervenendo in Egitto avrebbe violentemente negato il principio della sua nazionalità. Nel rispondere a tutti, MANCINI giustificò il suo rifiuto, sostenendo che "...l'Italia non poteva venir meno al principio del non intervento cui doveva la sua unità, che, dopo l'accettazione della Turchia ad intervenire in Egitto, l'azione italiana e inglese sarebbe stata interpretata come una contraddizione; che una spedizione italiana in Egitto avrebbe trovato contraria l'opinione pubblica del paese e provocato gravi provocazioni internazionali; e che la nazione Italia non avrebbe ricavato da una sua azione armata in Egitto "nessun adeguato vantaggio".

Ma il vero motivo del rifiuto era di ordine finanziario e lo disse pure: "Noi avremmo dovuto - dichiarò Mancini - assoggettare il paese, senza una manifesta necessità, senza la speranza di ottenere proporzionati compensi, ad una spesa ben considerevole. Essa era stata calcolata dal ministro della guerra ad oltre 50 milioni, per soli sei mesi, per l'invio di 20.000 o 25.000 uomini !".

Gli oppositori, i maligni e i retorici nazionalisti del grande Antico Impero, così commentarono: "la grettezza di un Governo, che si voleva gabellare per saggezza, chiudeva all'Italia uno degli sbocchi del Mediterraneo e la rendeva prigioniera in quello stesso mare, che era stato di Roma, e che suo doveva tornare". A pensare e dire le stesse cose, c'era pure Giosuè Carducci, che dimenticato il Risorgimento, tornava al mito di Roma: per riportare le Aquile imperiali in terra d'Africa; "armi, armi, armi, per la sicurezza" E armi, non per difendere, ma per offendere. L'Italia non si difende che offendendo".

Segue >>> Storia. Anni 1852-1885. Parte seconda.

 
 
 
 
 

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...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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