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Questo è un altro primo maggio. Una pagina rimossa della nostra storia nazionale. È la storia di quattro operai uccisi da baionette e spari di bersaglieri, la storia di una protesta, di molto precedente agli scioperi degli anni successivi al Nord. Una storia in un’Italia unita ancora in fasce. È la storia di Pietrarsa e dei primi operai morti nel nostro Paese durante una manifestazione. Fu 150 anni fa: il 6 agosto del 1863. Si dice Pietrarsa e si ricorda un grande stabilimento, voluto da Ferdinando II di Borbone nel 1830. L’area è tra Portici, San Giorgio a Cremano e il quartiere napoletano di San Giovanni a Teduccio. Era regno delle Due Sicilie, protezionismo doganale, attività industriali estranee a logiche di mercato e concorrenza selvaggia. Pietrarsa, azienda di Stato, fu voluta dal re «perché del braccio straniero a fabbricare le macchine, mosse dal vapore il Regno delle Due Sicilie più non abbisognasse».
Nel 1843, lo stabilimento produceva locomotive e riparava materiale ferroviario. Quando, nel 1845, a Napoli arrivò in visita lo zar Nicola I di Russia, visitò lo stabilimento e chiese una pianta per realizzare una fabbrica simile a Kronstadt. Nel 1847, gli operai erano 500. Lavoro sicuro, in monopolio e per lo Stato. Una struttura modello, con officina per le locomotive, grandi gru, fonderia, reparto lavorazione caldaie, fucineria, magazzini, biblioteca.
Fu il 1853 l’anno di maggiore sviluppo del primo nucleo industriale d’Italia: 44 anni prima della Breda e 57 anni prima della Fiat. Al lavoro, 700 operai. Poi, l’Italia divenne unita. Pietrarsa poteva diventare occasione di sviluppo per le regioni meridionali, ma le scelte furono diverse. Il governo Rattazzi doveva prendere le prime decisioni di politica industriale del nuovo regno. Nella siderurgia, oltre Pietrarsa il nuovo regno aveva l’Ansaldo a Genova: quale conservare come industria di Stato? La scelta fu affidata ad una relazione, che doveva preparare l’ingegnere 44enne, originario di Nizza, Sebastiano Grandis.
Direttore del sistema ferroviario piemontese, aveva gestito il trasferimento delle truppe sui treni nella seconda guerra d’indipendenza. La sua relazione fu consegnata il 15 luglio del 1861, quattro mesi dopo l’unificazione. L’ingegnere, che sarà poi ricordato per il progetto del traforo del Frejus, concluse che i due impianti erano della stessa importanza, con Pietrarsa più ricco di macchinari e di ampi fabbricati. La scelta, però, cadde sull’Ansaldo perché ritenuto impianto «più flessibile per futuri ampliamenti». Condizione ritenuta fondamentale per potenziare il sistema ferroviario italiano. Una scelta politica che, per risparmi di costi, avrebbe comunque favorito gli investimenti ferroviari nel centro-nord.
L’impianto di Pietrarsa veniva definito costoso e con personale eccessivo. Fu la condanna inesorabile per le ambizioni di Pietrarsa. Lo Stato italiano decise una veloce dismissione. E conveniente per il privato che si accaparrò tutto il blocco per un canone di appena 46mila lire annue: Jacopo Bozza. Per risparmiare, chiuse la scuola d’arte per la formazione degli operai, aumentò le ore di lavoro e licenziò. Il nuovo proprietario, speculatore con saldi legami politici, si impegnò a mantenere almeno 800 operai dei 1050 di un anno prima. Fu accolto da lettere anonime, tensioni. I lavoratori temevano di perdere il posto. Sui muri, comparvero i primi manifesti di protesta: «Muovetevi, artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria». Era l’estate del 1863, quando Bozza annunciò che non avrebbe potuto mantenere i suoi impegni. Chi restava a casa, almeno nei primi tempi, avrebbe potuto ricevere metà dello stipendio «pel conto del governo». Una forma rudimentale di cassa integrazione. Il 31 luglio, gli operai in servizio erano 458, minacciati da licenziamenti e pagati con ritardo. Una situazione di continua tensione e conflittualità dagli effetti imprevedibili, in uno stabilimento privo di prospettive future. C’entravano anche le scelte di politica industriale fatte dal governo con la preferenza data all’Ansaldo. Il 6 agosto la situazione precipitò. Alle due del pomeriggio, il capo contabile dell’azienda, tale Zimmermann, chiese al delegato di polizia di Portici l’invio di almeno sei agenti, per controllare gli operai in sciopero per ottenere lo stipendio. La risposta erano stati altri 60 licenziamenti.
Al primo allarme, ne seguì un secondo, più drammatico: «Non bastano sei uomini, occorre un battaglione di truppa regolare». Al suono convenuto di una campana, tutti gli operai, di ogni officina dello stabilimento, si erano riuniti nel gran piazzale dell’opificio. Zimmermann sottolineò: «In atteggiamento minaccioso». La polizia non bastava ad evitare il pericolo di incidenti, furono allertati i bersaglieri. Il maggiore Biancardi inviò una mezza compagnia, al comando del capitano Martinelli e del sottotenente Cornazzoni.
Dovevano circondare l’opificio, ma ai cancelli trovarono gli operai. I rapporti ufficiali parlarono di minacce, insulti ai bersaglieri. La reazione fu assai violenta: una carica alla baionetta e poi spari alla schiena sui fuggitivi. Il bilancio finale fu di quattro morti: Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri. I feriti, ricoverati all’ospedale Pellegrini di Napoli, furono invece dieci: Aniello De Luca, Giuseppe Caliberti, Domenico Citara, Leopoldo Alti, Alfonso Miranda, Salvatore Calamazzo, Mariano Castiglione, Antonio Coppola, Ferdinando Lotti, Vincenzo Simonetti.
Tutto riportato nei documenti dell’Archivio di Stato di Napoli, fondo Questura. Ci fu qualcuno che non riuscì a nascondere l’imbarazzo per l’accaduto: il questore Nicola Amore, futuro sindaco di Napoli. Scrisse di «fatali e irresistibili circostanze». Per ridimensionare l’accaduto, gli incidenti vennero attribuiti a «provocatori» e «mestatori borbonici». Gli operai, erano tempi ancora non maturi per un movimento sindacale e anarchico organizzato, vissero una condizione d’isolamento. Due mesi dopo, ne vennero licenziati altri 262. Si cercò di raccogliere denaro per le vedove dei morti, ma con scarso successo. Ecco, fu quella la prima protesta dinanzi ad una fabbrica nell’Italia unita. Quelli i primi morti. Solo 26 anni dopo, si arrivò a celebrare il primo maggio per decisione della Seconda internazionale. L’occasione era stata la protesta, nel 1886, dinanzi alla fabbrica McCormick di Chicago. Sarebbe bello che, nei tanti concerti di oggi a ricordo delle lotte operaie e a difesa del lavoro, si citassero anche i morti di Pietrarsa. Uomini di Resina e San Giorgio a Cremano senza ricordo nazionale.
Quasi fosse una vicenda minore, da rimuovere e dimenticare. Forse, c’è di mezzo la vergogna di uno Stato che, già dall’inizio, mostrava ambiguità e miopie nelle politiche industriali al Sud. Già, perché oltre i morti di 153 anni fa, c’è un epilogo successivo: la lenta agonia di Pietrarsa. Nel 1875, gli operai erano ridotti a 100, due anni dopo lo stabilimento fu affidato in fitto per 20 anni alla Società nazionale per le industrie meccaniche. Fino al 1885, vennero realizzate 110 locomotive, 845 carri, 280 vetture ferroviarie, caldaie e vapore e altro materiale ed eseguite 77 riparazioni. Dopo il suicidio di 44 anni prima, nel 1905 lo Stato si riprese la gestione diretta di Pietrarsa. Per assenza di investimenti e abbandono, la chiusura definitiva fu decisa 70 anni dopo.
di Gigi Di Fiore
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