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I vantaggi dell'unità d'Italia

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La Guantanamo dei Piemontesi

Post n°1532 pubblicato il 08 Marzo 2011 da luger2
 

Nel 1868 un piano del governo per deportare i briganti all'estero
 "Porteremo tutti i criminali meridionali in Patagonia o nel Borneo"   di RAPHAEL ZANOTTI
Tutti i criminali meridionali dovrebbero essere deportati in un luogo disabitato e lontano migliaia di chilometri dal Belpaese. In Patagonia, per esempio». Non si tratta dell’ultima provocazione leghista. E nemmeno di qualche folkloristica proposta proveniente dal profondo Nord. Intenzioni e progetto portano la firma di un presidente del consiglio italiano: Luigi Federico Menabrea. Siamo nel 1868, l’Italia unita muove i suoi primi passi e deve affrontare un problema enorme: il brigantaggio al Sud. Nemmeno la pena di morte sembra dissuadere i briganti, che sempre più numerosi si riuniscono in bande. Così il governo italiano decide di cambiare strategia: deportare i briganti dall’altra parte del pianeta, in modo da recidere affetti e rapporto con il territorio. Un progetto perseguito per oltre dieci anni e che fallì solo per la ritrosia dei Paesi stranieri a cedere aree per impiantare una colonia penale per meridionali italiani. 

Deportazione di massa 
A rendere pubblico il piano di deportazione è stata la «Gazzetta del Mezzogiorno». Il giornale di Bari ha rintracciato il progetto della «Guantanamo» piemontese nei documenti diplomatici conservati all’Archivio storico della Farnesina. Secondo le carte, il presidente Menabrea provò prima a sondare gli inglesi, chiedendo loro un’area nel Mar Rosso, senza riuscirci. Quindi, il 16 settembre del 1868, il capo del governo italiano contatta il ministro della Croce a Buenos Aires, perché domandi al governo argentino la disponibilità di una zona «nelle regioni dell’America del Sud e più particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro, che i geografi indicano come limite fra i territori dell’Argentina e le regioni deserte della Patagonia». 

Anche questo secondo tentativo, oerò, si trasforma in un buco nell’acqua, perché tre mesi più tardi, il 10 dicembre, Menabrea è già all’opera per trovare soluzioni alternative. Contatta il console generale a Tunisi, Luigi Pinna, e gli chiede di «studiare la possibilità di stabilire in Tunisia una colonia penitenziaria italiana». Ma anche i tunisini oppongono un no. 

A questo punto Menabrea ritorna alla carica con gli inglesi. Prima chiede loro di poter costruire un «carcere per meridionali» sull’isola di Socotra (tra la Somalia e lo Yemen), quindi domanda loro di farsi perlomeno da tramite con l’Olanda, perché conceda un’autorizzazione identica per un’area del Borneo. Menabrea e il governo italiano sono assolutamente convinti della necessità di deportare i criminali del Sud. Il senatore Giovanni Visconti Venosta, più volte ministro degli Esteri, incontrando il ministro d’Inghilterra sir Bartle Frere, si spingerà a dirgli: «Presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte». 

È l’idea di abbandonare la famiglia, il Paese natale, il deterrente che il governo considera la carta giusta per sconfiggere il brigantaggio. Tanto più che in quegli anni sta nascendo il mito di alcune figure come Carmine Crocco, detto Donatelli, brigante che riesce a riunire intorno a sé una banda composta di almeno 2500 uomini e che viene visto come un eroe dalla popolazione locale. 

Centro penitenziario 
Le istanze del governo italiano, però, cadono nel vuoto. Il 3 gennaio 1872 il governo inglese fa sapere di non vedere di buon occhio la creazione di un centro penitenziario per i meridionali italiani. Il 20 dicembre di quell’anno anche l’Olanda si defila: concentrare criminali italiani in un luogo circoscritto viene visto come un problema per la sicurezza interna. Gli ultimi tentativi risalgono al 1873. Il lombardo Carlo Cadorna, ministro a Londra, prende contatto con il conte Granville, ministro degli Esteri inglese, ancora per il Borneo. E ancora una volta, da Londra, arriva un rifiuto.

http://www.lastampa.it/

 
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Neapocalisse

Post n°1531 pubblicato il 08 Marzo 2011 da luger2
 

Neapocalisse di Jean Noel Schifano, un libro per chi ama Napoli

 La copertina riesce a inquietare, con quei personaggi anonimi che girano su una classica giostra a cavallo in un luogo sconosciuto in un tempo anonimo. Lo stesso titolo “Neapocalisse” non rassicura. Ma una volta aperto l’effetto è “barocco”. Una sorpresa continua man mano che si va avanti nella lettura. La firma è, in fin dei conti, una vera e propria garanzia: Jean-Noël Schifano. Neapocalisse, edito da Tullio Pironti nel maggio 1990, è la traduzione (affidata a Costanza Jori) del testo Naples risalente al 1981 quando l’Ed. du Seuil di Parigi raccolse le impressioni di un francese a Napoli. Non un francese qualunque, in ogni caso, visto che si sta parlando di Schifano.

Non qualunque perché la formazione dell’autore lo rende uno dei più preparati e sicuramente uno dei maggiori conoscitori di Napoli e della napoletanità visti gli anni che ha trascorso in città nella sua veste di direttore dell’istituto Grenoble e poi come direttore editoriale e critico editoriale di N.R.F. e del quotidiano Le Monde. Ma veniamo a Neapocalisse. Il libro non è nient’altro che una guida attraverso la capitale che fu, ma non una classica guida turistica. Si tratta di una guida per chi ama Napoli e chi l’ha scritta ama questa straordinaria città dai mille volti e dai mille colori. L’amore è evidente in ogni parola impressa su quel centinaio di pagine. Neapocalisse è storia, geografia, poesia, amore allo stato puro come si capisce quando Schifano spiega: “Non si può visitare Napoli come si visita New York. La metropoli dell’America settentrionale ha tre secoli di esistenza, la metropoli del meridione italiano tre millenni. E questi tremila anni, se li porta dentro di sé, sin dalle sue origini, stratificati fino ai giorni nostri”. Ancora amore dichiarato per la città quando consiglia allo straniero esterrefatto per il classico caos automobilistico: “Non imprecare viaggiatore straniero, non maledire questo disordine infruttuoso, questa ricreazione d’ogni istante, e abbi pazienza. Spalanca gli occhi. Napoli, città spettacolo, t’impartisce la sua prima lezione. Alla scuola dello sguardo, quella vera, impara a guardare; non un palcoscenico artificiale, uno schermo di tela o di vetro, bensì direttamente, in mezzo alla via, la vita quotidiana dei più grandi attori del mondo. Il solo potere a regnare su Napoli, dall’alba dei tempi, è l’immaginazione. L’immaginazione al servizio della trasgressione”. Ma Napoli non è certo un guscio vuoto e i napoletani sono semplicemente splendidi con tutti i loro difetti e tutti i loro pregi. Dal bambino maledetto Cola Pesce, che sfugge alla grande madre terra, allo storico Masaniello, che non vuole il potere e trova la morte, passando attraverso le alchimie del principe Raimondo di Sangro e le “parenti” che reclamano il sangue di San Gennaro ma partendo dai vinti, gli umili, i veri, i napoletani che si accontentano della cosa più bella, il sole: “Il sole penetra nelle profonde fessure di Napoli fino al selciato di lava nera per un breve lasso di tempo: una mezz’oretta al giorno circa. L’artigiano, il piccolo commerciante, allora, tirano fuori una sedia e si piazzano nel vicolo e niente o nessuno, neppure il più facoltoso cliente, potrà interrompere questa fusione della sedia, del sole e dell’uomo che formano, nell’arco di una mezz’ora, un animale fiammeggiante, una chimera di felicità. Napoletani, cioè unici, irriducibili, incorruttibili”. Neapocalisse è un viaggio dentro la vera Napoli, dal Vomero a piazza San Domenico, da San Martino e Castel Sant’Elmo, alla Cattedrale, Palazzo Reale, il San Carlo, Spaccanapoli, via San Biagio dei Librai e Santa Chiara. E chi ama Napoli non può dimenticare la triste sua realtà e guardando la statua di Vittorio Emanuele II di Savoia davanti Palazzo Reale Schifano scrive: “Tutti questi vincitori, spettri dal grottesco scettro, venuti dai quattro punti cardinali, qui a Napoli sono spariti nella loro stessa vittoria, una vittoria che qui non può che perdere braccia e testa, come in quella sua allegoria acefala e monca del Museo Nazionale. Napoli li ha assorbiti, fagocitati nella dolcezza avviluppante del suo popolo. Questa Napoli pidocchiosa spogliata di tutto, soggiogata militarmente, politicamente, economicamente se n’è infischiata di tutti i poteri, fino a quelli dell’attuale repubblica, ha scelto la nudità dell’anarchia lasciando la pompa degli affari di Stato, questo osso senza polpa vitale da rosicchiare, a coloro che si sono accaniti a cambiare il mondo al prezzo della sua felicità”. Viva Napoli! E buona lettura.

Scritto da Roberto Della Rocca (Istituto di ricerca storica delle Due Sicilie)

 
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150 anni: non solo l’Italia degli eroi, ma l’Italia degli intrighi, dei ladri, dei corruttori

Post n°1529 pubblicato il 07 Marzo 2011 da luger2
 

Giusto ricordare i fondatori della 'giovine' nazione. Ma non dimentichiamo la piaga che dal 1861 perseguita il popolo italiano. Storia delle nostre mani nere che Sergio Turone comincia a scrivere nel 1984, libro tragicamente attuale. Da rileggere!                                                                      di Riccardo Lenzi

«Ecco perché riteniamo che la denuncia documentata e sobria del malcostume politico, lungi dall’essere sfogo fustigatorio, sia un oggettivo contributo alla governabilità delle democrazie. I partiti di potere sono apparsi finora incapaci di cogliere la valenza soprattutto politica della “questione morale”».Sono passati quasi trent’anni da quando Sergio Turone – giornalista, docente universitario e parlamentare, scomparso nel 1995 – pronunciò queste parole. Due anni prima la Rai dei partiti aveva “accantonato” l’amico e collega Corrado Stajano, dopo alcune sue inchieste tv dedicate a Piazza Fontana e ad altri fattacci della storia italiana. Sono tanti i giornalisti che, da allora, hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti dei “fascismi dal linguaggio democratico”, per citare il titolo di uno dei paragrafi introduttivi del libro di Turone “Corrotti e corruttori. Dall’Unità d’Italia alla P2”, pubblicato da Laterza nel 1984.

Libro di successo, oggi dimenticato. Sequestrato in un primo momento dal tribunale di Varese in seguito alla denuncia di Umberto Ortolani, allora potentissimo braccio destro di Gelli, condannato in via definitiva nel 1998 a 12 anni per il crack del Banco Ambrosiano, morto tuttavia nel letto di casa sua a Roma, nel 2002. Destino identico a quello di un altro saggio pubblicato in quel periodo dall’editore barese: “Il banchiere di Dio. Roberto Calvi”, traduzione dell’inchiesta del giornalista inglese Rupert Cornwell. Sono passati trent’anni da quel 1984: data spartiacque nella storia della Repubblica, iniziava con l’omicidio del coraggioso giornalista Pippo Fava, direttore de “I Siciliani” (5 gennaio) e conclusosi nel sangue con 15 morti e centinaia di feriti sul Rapido 904 (23 dicembre, “la strage di Natale”). In giugno era morto Enrico Berlinguer, lasciando un vuoto che si dimostrerà incolmabile. A ottobre Craxi aveva partorito il decreto che salva Berlusconi dall’ordinanza dei pretori che impediva alle reti Fininvest di continuare ad aggirare il monopolio Rai. Un «decreto – scriverà nel 1990 un certo Vittorio Feltri – che perfino in una repubblica delle banane avrebbe suscitato scandalo e sarebbe stato cancellato dalla magistratura, in un soprassalto di dignità, e che invece in Italia è ancora spudoratamente in vigore senza che i suoi genitori siano morti suicidi per la vergogna».Decreto approvato definitivamente nel 1985 grazie ad un voto di fiducia col quale Craxi espropriò la sovranità del Parlamento. “Stupro politico” che venticinque anni dopo il Caimano ha trasformato in routine istituzionale.

In realtà, solo il capitolo finale del libro di Turone è dedicato al “partito piduista (1978-1983)”. Audace ma rigorosa controstoria d’Italia, autobiografia non autorizzata dei poteri nazionali (costantemente influenzati da poteri extranazionali, a cominciare da quello d’Oltretevere). Storia appassionante che inizia con un agguato notturno: «Vigilia dell’estate 1869 a Firenze. L’Unità d’Italia ha solo otto anni di vita, Roma è ancora sotto il papa. È una notte senza luna. I lampioni a gas non bastano che a rendere meno compatto il buio. Rumori di rade carrozze, pochissimi passanti. Mezz’ora fa è suonato il tocco, a separare il 14 dal 15 giugno. È una notte totale, come dovevano essere le notti del secolo passato. Firenze è la capitale del Regno. Un uomo cammina rapido per via Sant’Antonino: è Cristiano Lobbia, un deputato della Sinistra. (…) uno sconosciuto gli si avventa contro vibrando un pugnale. La lama è diretta al cuore, ma il cuoio duro del portafogli la fa deviare. L’aggredito – un uomo aitante, sui quarant’anni – non resta passivo. I due rotolano sul marciapiedi. Il deputato ha in tasca una pistola, ma la stretta dell’aggressore gli impedisce di estrarla. Il pugnale scende altre due volte; la seconda ferita, alla testa, è abbastanza seria. Ma nel frattempo Lobbia è riuscito a estrarre la pistola e fa fuoco. Forse ferito, il sicario fugge. Il deputato sanguina, ma è salvo. Accorre gente. Con questa sequenza potrebbe aprirsi il film sulla corruzione politica in Italia, se il regista – così fortunato da trovare un produttore disposto a finanziare un’impresa tanto rischiosa – volesse dare fin dall’inizio, in termini spettacolari, un’idea veritiera della tumultuosa vivacità che ha sempre caratterizzato il rapporto tra lotta politica e affarismo. (…) fu l’episodio più drammatico di quel clamoroso “scandalo della Regìa” (così allora si chiamava il Monopolio dei Tabacchi) attorno al quale si sviluppò una lotta sorda e violenta in parlamento, nei tribunali, nelle piazze, e soprattutto negli uffici felpati delle banche e in quelli inaccessibili dei ministeri». Cosa aveva combinato questo deputato – morto sei anni dopo, a soli 45 anni – per meritarsi tre pugnalate dirette al cuore? «Lo scandalo della Regìa maturò fra il 1868 e il 1869. Presidente del Consiglio era Luigi Federico Menabrea, uomo di assoluta fiducia dei Savoia, già aiutante di campo di Vittorio Emanuele II. Ministro delle Finanze – e promotore dell’operazione – era il marchese Luigi Guglielmo Cambray-Digny, esponente della grande proprietà terriera. La Sinistra all’opposizione. (…) Nel decalogo dell’uomo di potere, un comandamento fondamentale insegna – quando si vuole imporre una certa scelta – a contrabbandarla come una “riforma”. Usava così anche allora. (…) Si riteneva utile affidare la Regìa dei Tabacchi – disse il ministro Cambray-Digny nella relazione alla Camera – a “una associazione di capitalisti, la quale, svincolata dai molti legami e tradizioni degli uffici governativi, potesse sradicare gi abusi, procedere a decisive riforme, ed avere l’interesse privato a sprone nell’introdurvi quelle norme e quei sistemi più semplici e capaci di cavarne un prodotto maggiore”. È curioso: lo Stato italiano aveva sette anni, e già un suo ministro parlava in termini così spregiativi di “legami e tradizioni degli uffici governativi”».

La controstoria prosegue, mostrandoci via via quanto siano radicati i guasti della politica italiana: dall’ambiguità della sinistra di Crispi e Depretis («Nacque allora la formula definita del “trasformismo”, che, presumibilmente concepita come strumento utile a garantire quella che oggi definiremmo “governabilità”, si risolse in un elemento di corruzione spicciola e di cooptazione interessata»), all’omicidio del banchiere Emanuele Notarbartolo, pugnalato e scaraventato fuori dal treno Messina-Palermo, nel 1893: assassinio che «chiosava col sangue, per intervento di mafia, gli sviluppi siciliani dello scandalo scoppiato a Roma con il crack della Banca Romana». Un caso di giustizia manipolata, uno dei tanti delitti impuniti della nostra storia. Fino agli scandali affaristici del fascismo, denunciati e pagati con la vita da Giacomo Matteotti: il “tesoro misterioso” di Farinacci, gli “scandali d’alcova nella concorrenza fra gerarchi”, lo champagne e il caviale del “sultano” Italo Balbo (governatore della Libia!). E ancora la scomparsa dell’oro e dei soldi che Mussolini aveva con sé quando fu fermato dai partigiani a Musso, sul lago di Como, il 25 luglio 1945.

Sergio Turone arriva poi a descrivere la nascita della Repubblica, raccontando l’evoluzione di quella che definisce “cinismocrazia”: dal caso Montesi, all’amante segreta del ministro Scelba; dallo scandalo Lockheed a quello dell’Italcasse, dal caso Moro alla fuga a Parigi – favorita dall’allora presidente del Consiglio, Francesco Cossiga – del terrorista rosso Marco Donat Cattin, figlio dell’ex ministro democristiano Carlo e membro del commando di Prima Linea che aveva ucciso il giudice Emilio Alessandrini. Bisognerà aspettare Tangentopoli e le stragi del 1993 perché la corruzione torni, per un attimo, al centro dell’attenzione dei telespettatori italiani. La Democrazia Cristiana e il potere craxiano furono costretti (finalmente) a farsi processare. Intanto il Potere aveva già deciso – sulla pelle del popolo italiano – i nuovi equilibri della cosiddetta seconda Repubblica. Com’era accaduto nel 1962 con l’eliminazione di Enrico Mattei – fatto che sancì la definitiva subalternità (politica, economica e culturale) dei governi italiani a quello statunitense -, l’Italia nel 1993 vide scomparire di scena alcuni tra i protagonisti del potere economico: Raul Gardini,Sergio Castellari, Gabriele Cagliari. È la stagione di Mani Pulite, ennesima rivoluzione mancata: da allora la corruzione è aumentata. Meno tangenti, più evasione fiscale; meno mazzette, più finanza creativa; meno lavoro, più controllo sociale; meno nascite, più clericalismo; meno bombe, più tv. Partitocrazia e terrorismo hanno lasciato il posto alla telecrazia. Ma la lobotomizzazione catodica degli italiani era iniziata da tempo. Esempi straordinari di italiani come Tina Anselmi e Sandro Pertini, a prescindere dai processi, avevano capito – e lo dicevano – che la loggia P2 era una «associazione per delinquere».

Effettivamente le attività svolte dalla P2 erano note ben prima della scoperta degli elenchi (incompleti) di Gelli. Proprio per questo il vero scandalo furono le mancate dimissioni, prima, e il ritorno sulla scena, successivamente, di tanti politici presenti in quella lista. Basti pensare che Mino Pecorelli – “capo dell’ufficio stampa della P2” ucciso nel 1979 – già nel ’77 descriveva così i suoi “fratelli”: «Si ha un bel dire che sia un covo di golpisti e sovversivi… Vi aderiscono personaggi politici delle più diverse espressioni, ma tutti di primo piano; militari, magistrati, alti funzionari della pubblica amministrazione. Si può dire che Gelli rappresenti quel che resta dello Stato. E ormai si può aggiungere pure che tutti insieme i fratelli della P2 hanno giurato di far giustizia e pulizia».

Dopo l’84 le Anselmi e i Pertini scomparvero progressivamente dalle istituzioni, dai partiti, dalla televisione e, infine, dall’immaginario degli italiani. Avanzava un nuovo che nuovo non era: Silvio Berlusconi, il signor Tv, tessera P2 n. 1816. Campione mondiale di maleducazione civica. Ennesimo contributo negativo dell’Italia alla storia d’Europa.

Il mondo nel frattempo è cambiato, ma la questione morale in Italia resta questione primaria ed irrisolta. Proprio come il conflitto d’interessi. Chissà se un giorno i testi scolastici racconteranno chi, come e perché nel 1994 gli consentì di candidarsi e di essere eletto, in barba alla legge. Gli italiani del futuro si vergogneranno della lunga accondiscendenza al berlusconismo/piduismo, spesso travestita da “moderazione”. Equilibrismo spacciato per equilibrio.

Già, il futuro. Cosa sta per succedere al Belpaese? L’Italia s’è desta? Le scosse mediterranee contageranno anche il nostro suolo? Forse. Vedremo se i giovani d’oggi si dimostreranno meno addomesticabili dei giovani cresciuti nell’Italia governata da Licio Gelli. Intanto la storia d’Italia, come ai tempi del generale Dalla Chiesa, si gioca ancora tra Milano e Palermo. Tra il Palazzo, le piazze e le procure. Al posto del bianco DC c’è l’azzurro forzitaliota; al posto dell’edera repubblicana un acido verde leghista; al posto del rosso socialista e comunista c’è il rosso della vergona e di una crescente indignazione popolare. Turone non poteva prevederlo. Ma anche oggi che la degradazione antropologica denunciata da Pasolini è arrivata al culmine, forse, non cambierebbe il finale del suo libro di storia: «analizzare il fenomeno della corruzione politica, scriverne, discuterne, sottrarsi all’omertà cinica della rassegnazione, giova, se non a eliminare la piaga, a contenerne la pericolosità e a dimostrare che anche in politica l’onestà non è – o non sempre – una fatica inutile».

Fortunatamente la storia non è fatta solo dal Potere: i suoi percorsi sono segnati anche dai passi di chi continua a camminare in direzione ostinata e contraria. Lo scorso 1° marzo, mentre gli stranieri d’Italia scioperavano, è partita la Carovana antimafiedi Libera: 96 giorni attraverso regioni italiane e nazioni vicine, per un totale di 17.440 chilometri. Realismo ed ottimismo si fondono nelle parole di don Luigi Ciotti: «Sono 150 anni dall’unità d’Italia, sono 150 anni di presenza criminale mafiosa nel nostro Paese, ma anche 150 anni di lotte contro la violenza criminale». E il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso lancia un messaggio, forte e chiaro, agli italiani: «E’ vero che i garibaldini partirono in mille – dice – ma arrivarono in Toscana che erano già decine di migliaia, perchè il germe della ribellione ai Borbone era già nell’aria. Oggi come allora si svegli ora la voglia di alzare la testa, in particolare tra i giovani. Per questo il ruolo della cultura e della scuola è fondamentale».

Come nel 1861 e come nel 1943, oggi siamo ad un bivio: risorgere o rassegnarsi.   http://domani.arcoiris.tv/

 
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La Lega apre in Friuli lo sportello anti immigrati

Post n°1528 pubblicato il 07 Marzo 2011 da luger2
 

Da una parte l’alta finanza, le banche, i posti di governo. Dall’altra l’animo populista e xenofobo che non cambia. Sono i due volti della Lega, partito di lotta e di governo. Per un ministro dell’Interno come Roberto Maroni, negli ultimi mesi prudente e ai limiti del saggio, spunta un Danilo Narduzzi che va a occupare i posti che furono di Erminio Boso e Mario Borghezio. Il capogruppo della Lega al Consiglio regionale in Friuli Venezia Giulia (non un consigliere di circoscrizione) ne sforna una al giorno: tre giorni fa ha proposto di mandare gli immigrati in fuga dalla Libia in campi di lavoro in Aspromonte, ieri ha inaugurato (non è una proposta, è già operativo) uno sportello anti immigrati. In sostanza si tratta di un numero telefonico al quale possono rivolgersi tutte quelle persone convinte di aver subito un danno provocato da un “uomo nero”: una casa assegnata agli stranieri, un bonus bebè mai ricevuto, nonostante il vicino (straniero) lo abbia invece incassato. Tutto quello che il welfare regionale prevede insomma, secondo il Carroccio deve soddisfare prima le esigenze degli italiani. E dopo, semmai, gli immigrati, ma meglio di no. Un dillo alla Lega in salsa razzista.  Contro la linea morbida che qualche sindaco in Friuli Venezia Giulia ha già adottato o potrebbe adottare per favorire le fasce deboli (residenti e non) con bonus bebè, carte famiglie e alloggi popolari, il capogruppo leghista Danilo Narduzzi che fa? Lancia un servizio telefonico che diventerà uno sfogo in materia razziale e, nel migliore dei casi, consentirà ai cittadini di fare la spia. Basta comporre un numero di telefono (che poi è quello del gruppo consiliare della Lega) e chiedere, a una persona incaricata, di fare delle indagini su questo o quell’altro non-residente che, forse, usufruisce di alcuni servizi. A scapito di persone nate e cresciute in regione, che magari parlano anche il dialetto e hanno un cognome Dop, denominazio origine protetta.Nulla possono, secondo la Lega, le sentenze della magistratura ordinaria, le bocciature del governo, gli avvertimenti della Ue contro i paletti troppo rigidi delle leggi regionali sulla distribuzione del welfare. “Su affitti, case popolari, carta famiglia, bonus bebè e altri servizi ci sono delle regole precise che danno priorità ai friulani e giuliani che tutti sono tenuti a rispettare. È la democrazia – sostiene Narduzzi –. È giusto che chi rema contro gli interessi di friulani e giuliani abbia un nome e un cognome”.Per il consigliere regionale democratico Franco Codega questo tipo di democrazia significa “irresponsabilità”. Non riesce a dare un’altra definizione, quasi scoraggiato da un atteggiamento ai limiti della xenofobia. “Quello della Lega è il segno di un atteggiamento culturale che denota prepotenza e scarso senso della legalità. Tante disposizioni regionali che normano l’accesso al welfare sono state censurate o dal governo nazionale o da sentenze del tribunale di Udine perché contrarie alla Costituzione. Il principio della legalità dovrebbe prevalere al di là della propria posizione politica. E invece si fa il contrario: si incita ad applicare norme di dubbia legalità, giungendo addirittura alla minaccia”.

 
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De Magistris si presenta come il “sindaco di napoli”

Post n°1527 pubblicato il 07 Marzo 2011 da luger2
 

L'ex magistrato e parlamentare dell'Idv scioglie dunque gli indugi. Correrà per le amministrative di Napoli. Quindi fa un appello a Nichi Vendola: "Ci metta la faccia".      E al Pd: "la mia è una scelta di rottura con il passato".

Luigi De Magistris rovescia il tavolo della politica napoletana. Rompe equilibri, prende per il bavero vecchi e nuovi notabili di un centrosinistra scosso dalle divisioni, piegato in due dalla figuraccia delle primarie in stile laurino del Pd, e rassegnato a consegnare le chiavi di Palazzo San Giacomo al Pdl di Nicola Cosentino e Gigino Cesaro. E mentre nel Pd in tanti sembrano vinti dalla sindrome dei ballerini del Titanic e ancora discutono, mediano tra di loro, cercano candidati che vadano bene tanto ai bassoliniani quanto a quelli che Bassolino non lo hanno mai amato, lui si presenta come “il sindaco di Napoli”. Sceglie un cinema-teatro caro alla sinistra, Il Modernissimo, dove nel 1943 Palmiro Togliatti dettò la linea dell’unità di tutte le forze antifasciste, per lanciare la sua sfida. Al centrodestra e a Berlusconi, in primo luogo. “Quella con Gianni Lettieri (che il Cavaliere propone come candidato a sindaco, ndr) sarà una bella battaglia. Ma io mi chiedo, chi lo ha portato a Palazzo Grazioli, chi lo ha presentato a Berlusconi? Nicola Cosentino, l’uomo che i magistrati ritengono il referente politico del clan dei casalesi. E allora che vogliamo fare consegnare anche il Comune a Nick ‘o mericano e a Giggino ‘a purpetta?”. Nick è l’affettuoso nomignolo col quale “i casalesi” chiamano l’ex sottosegretario all’Economia, ormai vero padrone del Pdl a Napoli, ‘a purpetta è il presidente della Provincia, anche lui in affanno per legami con la camorra: sono loro la punta di diamante del nuovo sistema di poteri e di affari che punta a conquistare Napoli. E allora l’ex magistrato ora parlamentare europeo di Idv usa parole nette per lanciare un appello al centrosinistra. A Nichi Vendola: “Perché non sei qui, perché non ci metti la faccia anche tu in questa battaglia per ridare una speranza a Napoli e alla sua gente? Caro Nichi, da qui passa il cambiamento del Paese. Da come le forze della sinistra si comporteranno a Napoli si capiranno molte cose”. E al Partito democratico. “La mia avventura è una netta rottura col passato”, è l’esordio. Napoli governata dal 1993 dal centrosinistra, prima Bassolino, poi Rosa Iervolino, la Regione e la Provincia. Il centrosinistra, è il ragionamento di De Magistris, può ancora vincere, ma tagliando tutti i legami con i metodi di gestione del passato, i gruppi di potere che in questi anni di governo hanno strozzato le istituzioni. “Al Pd io chiedo se vuole mantenere la conservazione o aiutare il cambiamento. Ma qui c’è una parte del centrosinistra che preferisce perdere ma non cambiare”. Parla a braccio De Magistris, è teso, commosso, non si nasconde la durezza della battaglia. “Lo tritureranno, gli apparati di potere vecchi e nuovi spareranno bordate ad alzo zero”, profetizza un suo vecchio amico. E ha ragione. Basta leggere il titolo del “lancio “ di una agenzia (l’Ansa) che riassume la giornata: “Debutto di De Magistris tra pregiudicati e intellettuali”.In effetti il Modernissimo è stracolmo, almeno settecento persone pigiate in sala, fuori ce ne sono altrettante ad aspettare sotto la pioggia, al punto che l’ex magistrato deve uscire e salutare tutti. Sul palco e nel teatro ci sono vecchi volti della intellettualità cittadina, uomini e donne della società civile, militanti della sinistra che hanno fatto tante battaglie del passato, ma anche ragazzi e ragazze che negli anni dell’emergenza rifiuti si sono battuti contro discariche e veleni, gli operai di Pomigliano, la gente che vive nei vari Bronx cittadini. E lui, “il pregiudicato”, Gaetano Di Vaio, che la malavita l’ha frequentata davvero, che l’inferno di Poggioreale lo ha visto. Ora si occupa di marginalità a Scampia, gira per le scuole e cerca di strappare i ragazzi alla camorra. “E chi me lo avrebbe detto che un giorno sarei stato qui a parlare accanto a un magistrato?”. C’è Antonio Musella protagonista dei giorni di fuoco di Chiaiano contro la discarica. E poi Elena Coccia, avvocato dei diritti civili, il giovane economista Riccardo Realfonzo che fu assessore al Bilancio con la Iervolino, il costituzionalista Carlo Iannelli e il musicista Enzo Avitabile, raffinato ricercatore di musicalità mediterranee. L’altra faccia dell’intellettualità napoletana. “Molti di noi in questi anni sono stati la cinghia di trasmissione del sistema di potere”, dice criticamente il professor De Vivo. E tutti si alzano in piedi quando sul palco sale l’anziano avvocato Gerardo Marotta. Poche parole sulla “speranza che si può riaccendere a Napoli”. De Magistris in campo, dunque, con il Pd ancora alla ricerca di una “candidatura condivisa”, con i riti della politica (Di Pietro che lancia un appello a Vendola e Bersani per sostenere l’ex pm), i nomi già “bruciati” e la ricerca di un “papa straniero”, Guglielmo Epifani, l’ex segretario della Cgil. In queste ore il pressing su di lui è fortissimo.

Da Il Fatto Quotidiano.it

 
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150° ANNIVERSARIO DELL’EROICA DIFESA DELLA REAL CITTADELLA DI MESSINA

Post n°1526 pubblicato il 07 Marzo 2011 da luger2
 

Da venerdì 11 a domenica 13 marzo 2011 a Messina verrà ricordato, con un ricco programma di iniziative, il 150° anniversario dell’eroica difesa della Real Cittadella di Messina da parte dei fedelissimi soldati duosiciliani, comandati dal Generale Fergola, assediati dalle truppe piemontesi del Generale Cialdini.Era il 13 Marzo 1861, a quattro giorni dalla proclamazione a Torino del Regno d’Italia, quando dalla Cittadella veniva ammainata la candida bandiera duosiciliana. La fortezza messinese rappresentò, insieme con quelle di Gaeta e di Civitella del Tronto, l’estrema resistenza del millenario Regno delle Due Sicilie, dove i nostri soldati pur sapendo della inutilità di ogni sforzo cercarono di difendere la Patria esprimendo la propria fedeltà al Re Francesco II di Borbone.Una gloriosa pagina del nostro passato volutamente cancellata dalla storiografia ufficiale come la stessa Real Cittadella, testimone inesorabile dei fatti, che ancora oggi versa nel totale abbandono.Per oltre un secolo è stato ripetuto lo stesso banalissimo ritornello infarcito di vane e vaghe parole quali “libertà” e “tirannide straniera”, “eroismo” e “capacità militari” contro inadeguatezza e fellonia, in un clichè traboccante di retorica risorgimentale secondo i cui schemi fissi i buoni e i bravi erano tutti da una parte ed i brutti e i cattivi dall’altra. Le cose andarono diversamente, facili vittorie da una parte, vero e consapevole eroismo dall’altra.Ruoli ribaltati, chi avrebbe ragionevolmente dovuto vincere la battaglia ha ufficialmente e sostanzialmente perso, chi non avrebbe potuto neanche sperare nella vittoria in pratica vinse. Le fantomatiche qualità di stratega riferita a Garibaldi avevano fondamento solo ed esclusivamente nella concussione e nel tradimento di buona parte di quanti comandavano le agguerrite truppe borboniche. Non un solo scontro, da Calatafimi a Milazzo vide prevalere, se non nel numero sproporzionato di vittime, i garibaldini. Se i generali tradirono altrettanto non avvenne tra le truppe fedeli al Re Francesco II come dimostrano i numerosi casi di insubordinazione dei reparti ai loro comandanti felloni e venduti al nemico.Ben vengano le celebrazioni del 150° dell’Unità nazionale ma a ciascuno sia riconosciuta pari dignità e non si perduri con la sopraffazione, con la distorsione di una realtà storica troppo a lungo praticata. Il tempo scopre la verità, ed anche la verità negata al popolo meridionale e siciliano nella fattispecie ha diritto di cittadinanza in una nuova Italia colta e consapevole delle proprie origini e della comune millenaria cultura. Da sempre è stato facile e preferibile schierarsi dalla parte dei vincitori, da sempre più difficile e pericoloso continuare a difendere le ragioni dei vinti.Questa cerimonia si svolge dal lontano 1998 ed è organizzata dall’Associazione Amici del Museo, dall’Associazione “Generale Fergola”, dalla Delegazione di Sicilia del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, dalle Delegazioni di Messina dell’Associazione Culturale Neoborbonica e dei Comitati delle Due Sicilie, da Alleanza Cattolica, dalla Fondazione Thule Cultura di Palermo, dal Network ZDA - Zona d’Arte ad alto rischio di contaminazione - Messina e dall’Associazione Due Sicilie “Nicola Zitara” di Gioiosa Jonica.

L’Addetto Stampa della Manifestazione Dott. Marco Grassi

 
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Il Risorgimento? Solo un sogno!

Post n°1525 pubblicato il 07 Marzo 2011 da luger2
 

Questo è parte del discorso che fece il sindaco di Gaeta , prof Pasquale Corbo, nel 1961, nel centenario dell'Unità d'Italia, davanti al presidente dell Consiglio Amintore Fanfani,, che qualche imbecille ha fischiato durante la manifestazione del 12 febbraio del 2011. Erano cinque sei persone, male infomate, qualcuno, riconosciuto dal sottoscritto, provocatore di professione, qualche altro in buona fede. Il Sindaco Corbo è morto la vigilia di natale del 2010, ha dato la sua vita allo sviluppo delle città, e, per primo, ebbe il coraggio di affontare le Istituzioni dello stato.                             (nella foto Antonio Ciano)

Durante le manifestazioni del centenario dell’unità d’Italia svoltesi nella città martoriata e martire, nel 1961, il sindaco della città Prof. Pasquale Corbo, rivolgendosi al presidente del Consiglio Amintore Fanfani, senza peli sulla lingua come era suo costume, crudamente, continuò ad attaccare il regime savoiardo, ritenendolo il responsabile principe della decadenza della città:<< Purtroppo. Signor Presidente, la realtà è stata molto diversa dalle speranze che nacquero in ogni gaetano all’indomani dell’annessione all’Italia. Tutto l’immenso complesso immobiliare costituente l’antica piazzaforte veniva infatti mantenuto interamente perché, come sostenne il generale Fanti in una sua relazione del 18-2-61 << se cadesse in mano ad altri ci darebbe immenso fastidio>>. D’allora Gaeta ha vissuto periodi tristissimi di abbandono e di miseria; la Città è stata umiliata in tutti i modi, e dal ruolo di fortezza chiave passò a quello di sede di carcere militare, sicchè il suo nome, che era stato unito a sentimenti di gloriosa ammirazione, incominciò a diventare sinonimo di penoso luogo di espiazione. La gloriosa fortezza diventò sinistra parola di minaccia. La città, che per oltre tre quarti non apparteneva più ai gaetani a cui era stata espropriata nei secoli ai fini di erigere le necessarie opere fortificatorie, continuò a restare demaniale... Gaeta fu costretta alla vita più grama e ad una emigrazione massiccia, partirono in quegli anni migliaia di nostri concittadini...” ( 4 anni di progresso per Gaeta, edito dal comune di Gaeta, stralcio del discorso pronunciato per le celebrazioni dell’unità d’Italia dall’allora sindaco della città Prof. Pasquale Corbo). Lo stato siamo noi Gaeta, sotto i Savoia, era diventata la città che non c’è, una mera espressione geografica. Cialdini e soci l’hanno scannata. Il suo territorio, esteso per 2.847 ettari, per oltre due terzi non è amministrabile da parte dei suoi cittadini in quanto sotto la giurisdizione demaniale. Il Comune, per far utilizzare strade, scuole ed impianti sportivi ai gaetani è costretto a pagare il pizzo allo Stato; vorremmo sapere se il comune di Milano o quello di Torino pagano per piazza Duomo o per piazza San Carlo. Non ci risulta. Di tutto il centro storico dell’antica città è rimasto ai gaetani solo Piazza Commestibili, per chi non lo sapesse è quella dove al centro c’è il leone marmoreo che rappresenta la grandiosità di Gaeta nei secoli. Il resto è tutta proprietà di Cialdini, di Cavour, di Vittorio Emanuele II, di Enrico Cosenz, di Menabrea, di Mazzini: eh già! Sono tutti edifici pubblici costruiti dai Borbone e intitolati a coloro che hanno massacrato la città. Il Prof. Corbo è un gaetano verace, nel bene e nel male, forse l’unico sindaco, dopo Ianni, ad aver capito che la città era ancora preda dei piemontesi. Il primo fatto destituire dal potere savoiardo ed il secondo da quello massonico: s’era preso la briga di distruggere ciò che non era riuscito a Cialdini e a Persano: i bastioni dell’Annunziata, quelli del Castrone Sant’Antonio e quelli dell’Avanzata. Noi siamo stati sempre critici per quell’operazione, ma dopo anni, cercando di immedesimarci nel pensare del Sindaco, nella rabbia che doveva avere in corpo Pasquale Corbo, uomo di grande cultura e storico, uomo di grande carattere, capiamo. Quei bastioni rappresentavano il potere coloniale Statale, l’asservimento totale, Gaeta era nelle mani dei militari e del demanio, nella fortezza non vi erano più i Borbone ma i piemontesi e l’unico modo per riprendersi la città, era l’apertura di un varco, di una breccia che desse luce e potere a chi era stato eletto democraticamente. Corbo cadde in disgrazia ma nessun altro sindaco ha saputo combattere il Demanio statale che, oggi, ha messo in vendita tutti i gioielli che i Borbone ci hanno lasciato integri. I Borbone pagavano alla città l’essere fortezza, le casse del comune erano sempre piene, cinque grana ( la famosa tassa di stallaggio) al giorno per ogni militare di stanza a Gaeta rendevano floride le sue finanze, oggi la città, per poter far passeggiare e studiare i suoi cittadini, deve pagare il pizzo allo Stato essendo demianiali quei luoghi. Che differenza! Corbo sapeva tutto questo e non usava pagare il pizzo allo Stato, qualcuno, pare, sembra aver udito dalla sua bocca:” lo Stato siamo noi” e aveva ragione. Madre di tutti non più matrigna per moltiA Gaeta molti ricordano il sindaco Corbo, sia per le opere pubbliche dalla sua amministrazione realizzate e sia per la sua cultura; amministratore tenace e decisionista, non disdegnava le considerazioni dell’opposizione dura dei comunisti Mariano Mandolesi e Gigino Dell’Anno, e del socialista Archita Danaro; lavoravano tutti per il bene ed il benessere della città, sempre con lealtà ed onestà assoluta. Ebbene, quel giorno erano tutti sul palco, quel giorno in cui si celebrava il centenario dell’unità d’Italia, di fronte al Presidente del Consiglio Fanfani e alle massime autorità dello Stato, il Prof. Corbo così finì il suo coraggioso discorso:” ...Ed infine, Signor Presidente, mi permetta di parlare a nome di tutte le città del nostro Meridione, in qualità di Sindaco di Gaeta, che per il suo generoso tributo di sangue e di sacrificio, per la sua insostituibile missione di civiltà e di storia, è stata sempre ed è considerata la porta del Sud d’Italia. A nome di questo Sud, fucina inesausta di nobili intelletti e di cuori generosi, io formulo l’auspicio ed il voto, nel giorno solenne che celebra i cento anni trascorsi dall’unità con la Patria, che le popolazioni meridionali possano finalmente concludere, sotto l’impulso del Governo Democratico e repubblicano, il loro millenario travaglio. Noi vogliamo concludere, Signor Presidente, l’opera di chi attuò nel sogno e nella pratica il Risorgimento d’Italia: facciamo sì che la Patria sia veramente la la Madre di tutti, e non più matrigna per molti; diamo a tutti una certezza, e non più soltanto speranza, di lavoro e di benessere; concludiamo cioè, lealmente e liberamente, quel moto risorgimentale che non voleva essere soltanto l’attuazione dell’unità territoriale e politica, ma soprattutto dell’unità morale, sociale e spirituale degli italiani. Auspicio che è già una certezza essendo formulato alla Sua presenza, Signor Presidente, e di tutte le altre responsabili ed illuminate autorità; ma soprattutto di fronte a questo popolo meraviglioso che è testimonianza di un solo cuore che palpita per gli stessi ideali e da Gaeta in questo giorno memorabile per le memorie del passato e per le speranze del futuro, io rilancio l’antico grido dei nostri avi, che già risuonò in ogni vicenda lieta e dolorosa, e che oggi risuoni in ogni cuore nella fede di un avvenire migliore: Viva l’Italia!”Prof. Corbo, le sue parole sono ancora attuali. L’Italia, per il Sud, è ancora matrigna e non madre; l’Italia, per il Sud , in parte è ancora patria lontana, patria che fa emigrare i suoi figli, patria che non ha risolto la problematica della ricchezza di una sola parte del suo territorio, di quella patria che non vuole risolverla perché i Savoia hanno costruito artatamente un’economia padana a spese della colonia Sud; l’Italia è nostra patria quando ci chiamano a morire per guerre che non ci riguardano, l’Italia è nostra patria quando mandano i Meridionali a lavorare all’estero, senza protezione alcuna e senza assistenza; l’Italia è nostra patria quando sfruttano le risorse del Sud come il petrolio, o quando sfruttano da 140 anni le rimesse dei nostri emigranti assistendo il Nord padano. L’Italia non è nostra patria quando tutta l’economia è nelle mani degli imprenditori del Nord, quando andiamo a comprare merce nei supermercati, tutti del Nord, tutti nelle mani del capitale nordista; l’Italia non è la nostra patria quando vendono i nostri beni demaniali, i nostri gioielli lasciatici dai Borbone in eredità perenne. L’Italia non è la nostra patria quando le concessioni di qualunque tipo finiscono nelle mani massoniche degli imprenditori del Nord. Hanno distrutto il nostro apparato industriale, hanno distrutto la nostra economia, le nostre banche inglobate da quelle padane e nordiste, i mass media quasi tutti nelle mani del Nord. Volevano distruggere la nostra identità. Non ci sono riusciti, la memoria storica sta tornando, il Sud ha intrapreso la via maestra tracciata a San Leucio dai Borbone.

Tratto dal libro di Antonio Ciano " Le stragi e gli eccidi dei savoia"

 
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Lettere da un territorio che non c'è (Figli di un dio Minore)

Post n°1524 pubblicato il 07 Marzo 2011 da luger2
 

Qualcuno si affida a facebook, qualcun altro si rivolge direttamente al nostro giornale online. Ma le due missive che vi proponiamo, scritte da due giovani concittadini pisticcesi attualmente fuori sede, sono animate dalla stessa delusione. La Lucania devastata dall’alluvione ha avuto una visibilità marginale nel circuito dell’informazione italiana, alimentando ancora una volta la convinzione che questa terra sia figlia di un dio minore.

Caro direttore,le scrivo per aprire una discussione sui social network e sul suo giornale. Negli ultimi anni, quando in paesi governati da dittature, vi sono state rivolte e processi storici importanti come quelli attuali del nord africa i social network hanno svolto un ruolo fondamentale. Questo perchè i cittadini hanno sostituito i mezzi d'informazione impossibilitati, per varie ragioni, a documentare le situazioni politiche di quei lontani paesi. Lei si sorprenderà ma facebook e twitter mi hanno fatto conoscere una situazione terribile che il suo giornale ha ignorato, chissà per quali ragioni. Inoltre ho anche capito che, probabilmente, non sono italiano come io credevo. Sono nato in Basilicata (ha presente? fino a poco tempo fa credevo fosse una regione italiana) e per studio e lavoro ora vivo a Roma la capitale della sua nazione. Grazie a Facebook e Twitter ho scoperto che la mia regione, non so di quale nazione, sta vivendo in questi giorni una situazione terribile. La mia regione è sconvolta da un'alluvione senza precedenti, i danni sono enormi e i miei concittadini sono disperati. Devo ringraziare internet se so qualcosa, se fosse stato per il suo giornale non avrei saputo niente. Ma la perdono, infondo chi se ne frega della Basilicata, ultima ruota del carro di una nazione che ha cose più importanti a cui pensare. Le varie starlette e donne di malaffare che circolano intorno a palazzo grazioli e ad arcore ci interessano di più rispetto ad un danno così grave ad una regione di cui non si sa nemmeno il nome degli abitanti (basilicatesi? basilicatiani? bo?!). quindi grazie ancora. E' importante sapere che la mia regione conta meno di una marocchina minorenne o forse maggiorenne e dei suoi viaggi a Vienna. Mi informerò comunque e le dirò se la Basilicata è ancora una regione dell'Italia così, magari, lei deciderà di darle più spazio. Almeno quando ci sono tragedie come queste.

P.s. gli abitanti della Basilicata si chiamano Lucani. E se davvero non conoscesse l'incredibile storia di questa regione la invito a documentarsi. Siamo pieni di storie e di cose meravigliose e la mia gente non merita questo terribile trattamento.

Egregi Signori,a scriverVi è Sara T., originaria, nonchè residente, di una delle Regioni colpite dalle alluvioni dei giorni scorsi. Penserete alle Marche? No, sbagliato. Penserete all'Abruzzo? Ancora sbagliato. Sono lucana. Basilicata. Vi scrivo proprio in riferimento a questo, ossia al maltempo ed alla Basilicata. Guardo le edizioni principali del Tg1 e, con grande rammarico, negli ultimi tre giorni ho sentito scarsamente nominata la mia Regione o meglio, si badi una sola volta, nel meteo. Ho aspettato. Ho seguito l'edizione successiva. Poi ancora l'altra. E l'altra. Ma delle difficoltà che noi lucani, della provincia di Matera, stiamo affrontando, non ne avete parlato. Non una foto, non un'intervista, non un filmato, niente.Mi chiedo come mai. Eppure la nostra agricoltura, risorsa fondamentale dell'economia Nazionale, ha avuto un colpo durissimo! Le nostre strade sono ridotte straccio! Le arterie, e parlo stavolta di "SS", di Strade Statali, quali la Basentana 407 e la Jonica 106, sono interrotte! Alcuni nostri concittadini hanno visto affondare la propria abitazione nell'acqua e fango! Altri hanno perso i sacrifici di una vita! Non posso credere che non sappiate...Al Museo Archeologico presso le Tavole Palatine (Metaponto) è stato allestito, grazie solo ai volontari del gruppo Nov di Protezione Civile di Pisticci ed il gruppo di Montalbano, un campo d'accoglienza per 50 persone, tra cui donne e bambini.Si è mosso l'Esercito, portando qui circa 60 dei suoi uomini da Foggia e Bari. Come?! Neanche un giornalista alla ricerca del servizio?! Aveva forse ragione Papaleo quando diceva che "la Basilicata è un concetto di Dio"?! Perdonate l’irruenza ma i miei (ri)sentimenti sono alterati dagli avvenimenti dei giorni scorsi e da quel che ci aspetta affrontare. La situazione sta peggiorando. Piove sulle nostre teste...tra il fango e la disperazione anche noi aspettiamo il 17 marzo per festeggiare l'Unità d'Italia....Credete sia il caso di sensibilizzare l'opinione pubblica?In attesa di una Vostra risposta e fiduciosa nel vostro operato. Distinti saluti.

da: http://www.pisticci.com
 
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Con lo sciopero della messa i preti del Sud sfidano Cavour

Post n°1523 pubblicato il 07 Marzo 2011 da luger2
 

I parroci partenopei infuriati per la legge sui beni ecclesiastici. Ma Roma ammonisce: celebrare è un obbligo. A Parigi va subito esaurita la prima edizione di un opuscolo provocatorio sui rapporti tra l'Italia e la Santa Sede.

 È uscito ieri a Parigi un opuscolo intitolato La Francia, Roma e l'Italia. Il tema, trattato in maniera didascalica ma insieme provocatoria, sono i rapporti fra la rivoluzione italiana e la Santa Sede, alla luce della funzione di arbitro che esercita al loro interno, fra difficoltà sempre crescenti, l'impero transalpino. L'autore è un patrizio francese, il visconte Louis-Etienne-Arthur Laguéronnière, ma si lascia intendere che il testo sia stato approvato da Napoleone III. Era proprio ciò che mancava ad acuire i sospetti e il malcontento delle alte sfere vaticane rispetto alla tutela, ormai giunta all'apice dell'ambiguità, che la Francia si è assunta in merito alle ambizioni dell'Italia su Roma. Si racconta che, in meno di un'ora, la prima edizione, mille copie, sia andata esaurita. 
  Con lo sciopero della messa  i preti del Sud sfidano Cavour
 Un giornale di Parigi, La Patrie, che esprime l'opinione del governo, tenta di attenuare la drastica impressione che il libello ha suscitato fra Parigi, Torino e la Capitale vaticana: non si tratterebbe dell'annuncio di un allentamento di quell'alleanza fra le Tuileries e i Sacri Palazzi che ha tenuto finora in bilico la situazione sorreggendo le speranze della Curia di sottrarsi alla ventata di liberalismo che percorre la penisola. Si esclude che il governo francese tenda ad abbandonare il potere temporale del Papa, o ciò che ne resta, ritirando da Roma le proprie truppe. Si pensa piuttosto a un'intesa fra il nuovo Stato italiano e le antiche prerogative della Chiesa: se riusciranno a coniugare queste esigenze - peraltro opposte - l'Italia e il papato troveranno in tale unione la propria grandezza. Auspicio facile da formularsi. 
 È noto che al vertice dell'impero austriaco si minaccia, in caso di richiamo delle truppe francesi da Roma, di mandarvi un proprio contingente per scoraggiare - così sostiene, e non solo in Italia, la stampa legittimista - l'aggressività della nuova Italia. Tutto questo non fa che acuire l'intransigenza di Pio IX, ai cui occhi è intollerabile che Napoleone III metta sullo stesso piano i valori spirituali di cui il Pontificato è depositario e le velleità di conquista da parte di una potenza geograficamente periferica qual è il Piemonte. Sembra a Roma, per essere più concreti, un'eresia il fatto che l'Impero francese attribuisca lo stesso valore al diritto del Papa alla propria autonomia territoriale e ai presunti diritti dell'Italia "sopra Roma". 

Intanto, attraverso tramiti sempre più complessi che coinvolgono, accanto all'abate Carlo Passaglia, altri prelati come il siciliano don Salvatore Aguglia - vicinissimo al cardinale Antonelli - e il padre Molinari, confidente di Cavour, le trattative per raggiungere l'ideale di una "libera Chiesa in libero Stato" sembrano fermarsi al livello di agitazione più che di progetto. Mentre, un po' in tutti i paesi europei, l'episcopato grida al sacrilegio si racconta, oltre tutto, di un pontefice preoccupato per l'ormai radicata presenza in Roma di Francesco II, il quale vede la propria posizione vacillare al minimo accenno d'una trattativa della Santa Sede con il Piemonte, e inclina a privilegiare, tra i propri favoriti, personaggi non immuni da collusioni con il brigantaggio. 

Un garbuglio diplomatico che di sacro non ha che l'apparente unzione. L'eco delle lettere che Cavour si scambia con padre Passaglia è diventata una specie di "mattinale" quotidiano. Scrutato nei giornali, questo gioco che impegna patrioti, dignitari ecclesiastici e depositari di Imperi può apparire eccitante nella sua problematicità. Purché se ne intraveda una conclusione. La primavera italiana assume, a tratti, le tinte sfumate d'un enigma. 

Al suo punto d'arrivo, cioè nei rapporti fra preti e fedeli, la controversia che oppone la Chiesa all'Italia produce quotidiani stridori. A Napoli, taluni parroci si rifiutano di dire messa, sostenendo che, con la nuova legge sui beni ecclesiastici, il governo s'è impossessato dei redditi - detti "benefìcii" - di cui godevano le comunità sacerdotali. Il Consigliere per gli affari ecclesiastici ha diramato ai Diocesani, cioè ai capi delle comunità religiose, una circolare nella quale raccomanda l'obbligo di far celebrare, "come per lo passato", messe ed altre cerimonie. Avverte i rettori delle varie congregazioni che la Cassa Ecclesiastica è disposta a rifondere tutte le spese sostenute "nei limiti del solito finora praticato", per l'acquisto di ostie, vino, incenso, rammendo di stole, paramenti e così via. Un santo compromesso di cui è incerto l'esito. Anche perché appaiono lampanti e minacciose le implicazioni politiche di simili recriminazioni religiose. La cronaca di vita cittadina, intanto, registra l'apertura del primo asilo infantile.
La Guardia nazionale di Portici, a ridosso di Napoli, ha scoperto affissi sulle mura alcuni cartelli intestati al "Popolo delle due Sicilie". Il breve testo così si conclude: "In nome dell'Onnipotente, leviamoci in massa, armiamoci e schiacciamo i perfidi nostri nemici. Viva Iddio, viva l'Immacolata Vergine, viva Francesco II!"

Dall'Inghilterra, infine, giunge voce del discorso del marchese di Normanby pronunciato il primo marzo alla Camera dei Lord: l'aristocratico tuona contro l'Unità d'Italia. Il nuovo Regno viene difeso, però, da altri nobili britannici come Lord Woodhouse e Lord Lenover. Quest'ultimo elogia lo spirito pubblico italiano favorevole alla Gran Bretagna.
di NELLO AJELLO

 
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Bari, il pianto dei sindaci contro il Federalismo Emiliano: una rapina

Post n°1522 pubblicato il 06 Marzo 2011 da luger2
 

«Il federalismo fiscale crea difficoltà ancora maggiori delle precedenti e colpisce i Comuni virtuosi del Sud. Il periodo che va da ora al 2013 sarà uno dei più tragici per i Comuni meridionali, che dovranno affrontare sacrifici smisurati insieme alle Regioni per i tagli da realizzare, mentre lo Stato non taglierà nulla. Il federalismo fiscale alla fine risulterà contrario a quello previsto dalla Costituzione con danni incalcolabili per i Comuni meridionali: sarà la rapina del secolo». Boccia senz’appello il federalismo appena approvato dal Parlamento il sindaco di Bari Michele Emiliano al convegno dell’Anci Puglia che si è riunito ieri nel capoluogo regionale. E’ polemico Emiliano, anche perché gli brucia troppo il fatto che il Comune di Bari possieda in cassa 120 milioni di euro, ma che non possa spenderli a causa del patto di stabilità. 

Il sindaco del capoluogo ha ricordato come «la responsabilità» di aver avviato il federalismo sia stata proprio del centrosinistra, dando una prima attuazione all’art. 119 della Costituzione, ma lasciando poi meriti e demeriti al centrodestra. Ma non è stato realizzato il principio che l’addizio - nale Irpef doveva servire a prelevare il denaro vicino a dove poi si doveva spenderlo (principio fondamentale nell’art. 119 della Costituzione), per far capire ai cittadini l’efficienza o meno di chi li governava». Ma Emiliano non risparmia nemmeno l’Anci, quando respinge il giudizio positivo dato al federalismo («perché è un organo bipartisan con destra e sinistra e ha necessità di tenere insieme l’associazione dei Comuni e gestire con prudenza la dialettica Nord-Sud»), «ma io non ho cariche particolari e posso dire la verità: lo Stato ci ha tolto, senza restituire nulla; il capo di questo Paese è il ragioniere generale dello Stato, i politici sono nelle mani di chi fa i conti e impedisce ai Comuni anche di fare un bilancio creativo».

Per Emiliano il compito dei Comuni è diventato quello di fare gli spioni del fisco, un compito, tra l’altro, difficile da realizzare in mancanza di strumenti adeguati per fare validi accertamenti. Il risultato è la totale immobilità economica e finanziaria, per cui l’inefficienza si scaricherà tutta sui cittadini, aumentando il disagio sociale e i tagli al welfare. 

Il convegno di Bari, organizzato dall’Anci Puglia e dall’Ifel (Istituto per la finanza e l’economia locale) è stato incentrato soprattutto sugli effetti del federalismo fiscale sul bilancio dei Comuni per il 2011 e in particolare la riforma delle entrate ed i fabbisogni standard, gli obiettivi di spesa comunitaria per 2011 delle Regioni Convergenza. Ad introdurre i lavori è stato il presidente dell’Anci Puglia, Gino Perrone per il quale «il federalismo è un atto di responsabilità dei Comuni. Ritengo che tutto quello che i Comuni non hanno fatto in passato, il governo ha avuto la capacità di esprimerlo e di indicare quali sono le vie del federalismo. Oggi come oggi, i Comuni devono attivare quello che non è stato fatto in passato». 
«Io – a spiegato – ritengo che i sindaci dovrebbero attivarsi per dare quell'impulso necessario di autonomia dei Comuni. Tutte le riforme sono difficili, ma ritengo che ci sia una capcità degli amministratori di portare avanti questa innovazione». «I tagli – ha concluso Perrone – sono una cosa, e sono dovuti a una crisi mondiale; ma il federalismo è una innovazione che saremo capaci di portare avanti». 

Presentato in anteprima il vademecum «bilanci 2011 istruzioni per l’uso», la guida Ifel per accompagnare i Comuni nella stesura del bilancio preventivo. Le relazioni tecniche sono state affidate a Silvia Scozzese (direttore scientifico Ifel), Andrea Ferri e Salvatore Parlato (esperti Ifel) e Francesco Monaco (responsabile Anci Mezzogiorno e cooperazione). Hanno concluso i lavori Vito Santarsiero (delegato nazionale Anci Mezzogiorno) e Mauro D’Attis (delegato nazionale Anci sviluppo economico).
 
di FELICE DE SANCTIS da http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it

 
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Un matrimonio senza conoscere la sposa

Post n°1521 pubblicato il 04 Marzo 2011 da luger2

Ma guarda: Milano, Monza, Parma, Imperia, Siena, Pescara, Lodi, Padova, Mantova, Brescia. E’ la classifica delle città che più ci guadagneranno col federalismo fiscale. Pescara stia attenta, potrebbero espellerla come spia. Tutto Centro Nord, anzi più Nord che Centro. Sistema rapido per confermare il ritornello di Bossi: i soldi nostri ce li teniamo noi. Le città che più ci perderanno? Napoli, Cosenza, Taranto, L’Aquila, Foggia, Brindisi, Salerno. Tutte Sud, tranne L’Aquila, altra intrusa. Sono dati degli Artigiani di Mestre, non meridionali. 

Commento (loro): ovvio che sia così, quelle città sono meglio amministrate. Ma a nessuno, meno che mai ai politici del Sud, che salti in mente un’obiezione. Essendo più ricche, hanno entrate più ricche. Magari sono meglio amministrate, compresa la Milano di Tangentopoli, degli assessori arrestati con le bustarelle in tasca, degli scandali finanziari, dei soldi della ‘ndrangheta che non dispiacciono, degli sprechi e della guerra per bande dell’Expo 2015. Ma essere più ricchi significa avere più asili, più assistenza agli anziani, più bus. Vivere meglio. 

Situazione col federalismo fiscale: meno trasferimenti (soldi) dallo Stato alle città. Con quelle più ricche sempre più ricche e quelle più povere sempre più povere. Allora quelle più povere, per non chiudere gli asili e non abbandonare gli anziani, dovranno aumentare le tasse, tranne che non sia cambiata l’aritmetica. E con l’evasione che c’è, le tasse in più le pagano i soliti lavoratori dipendenti e i soliti pensionati. 

Va bene, aumentano le tasse locali, ma diminuiscono quelle nazionali, di che vi lamentate? No, di questo nessuno ha finora parlato nel Paese più tassato d’Europa e con i servizi pubblici peggiori d’Europa. Ai politici meridionali non è venuta mai la curiosità di chiederlo. Perché non può ridurre le sue tasse uno Stato col terzo debito del mondo, e con 80 miliardi di interessi da pagare ogni anno. E uno Stato che, nonostante i proclami, continua ogni anno ad aumentare la sua spesa invece di diminuirla. Tranne poi accusare i sindaci (soprattutto del Sud, ovvio) di essere spendaccioni, ma ora il federalismo li costringerà alla responsabilità. Piccolo particolare tra parentesi. Bossi vuol tenersi i suoi soldi, perché Roma Ladrona glieli toglierebbe andando a spenderli al Sud. Falso: la spesa pubblica è maggiore al Nord. Quindi quand’anche glieli togliesse, glieli restituisce uno dietro l’altro (controllare su Internet, ministero del Tesoro). E se il Nord cede ogni anno 50 miliardi dei suoi soldi, dal Sud al Nord ne salgono ogni anno 96, in acquisto di prodotti e servizi del Nord (tipo ricoveri nei loro ospedali), in ragazzi che emigrano con la laurea pagata dai loro genitori al Sud. 

Conclusione: federalismo uguale più tasse. E più a Sud, ovviamente. Proprio quel Sud che Bossi e i «bossoidi» dicono di voler avvantaggiare. Però federalismo uguale anche più spesa. La Spagna federale ha raddoppiato i suoi dipendenti. Ma basta vedere cosa è avvenuto in Italia con le Regioni. E scommessa: se alcune funzioni passeranno dallo Stato agli enti locali, ci sarà un dipendente che vorrà trasferirsi senza promozione, buonuscita, vertenza, danno biologico? Ma allora, occorre capire cosa è questo federalismo. Non è la madre di tutte le riforme che finalmente modernizzerà l’Italia e risolverà il problema del minore sviluppo del Sud. Non è insomma ciò che dice col sorrisetto razzista il “lumbard” Salvini, quello che “i napoletani puzzano”. E’ una riforma fiscale col principio contrario a quello costituzionale della progressività delle imposte: pagherà più tasse chimeno ha (il Sud), ne pagherà di meno chi più ha (il Nord, ma non se ne stia anch’esso così tranquillo). 

Tutti si sono innamorati della parola “federalismo” come un tempo si combinavano i matrimoni senza conoscere lo sposo o la sposa. Essere contrari al federalismo sembrava ammettere di avere l’alito pesante. E così i politici del Sud dichiarano, per carità, di non aver paura del federalismo. Ma anche gli industriali, i sindacati, gli intellettuali, tanto per capirci quando si parla di classe dirigente meridionale. Però lo vogliono “equo e solidale”, cioè partire dalle stesse condizioni, o quasi. Allora si vedrà davvero chi sarà più capace. 

Pronto consenso della Lega Nord. E ci mancherebbe, si venderebbero le sorelle pur di fare il secondo colpo della storia (dopo l’Unità d’Italia tutta a loro vantaggio). Ci sarà un fondo di perequazione per consentire al Sud di diminuire o azzerare il divario col Centro Nord. Bene, dov’è, quant’è, com’è? Ricerche finora tutte vane, quand’anche siano state fatte. Nessuno ne sa nulla, né c’è un onorevole sudista che sia andato a chiederlo. Ma il federalismo è bello, ce lo prendiamo a scatola chiusa come abbiamo sempre fatto in 150 anni. Ce lo prendiamo proprio.

 
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La Lega: "Troppi alpini meridionali"

Post n°1520 pubblicato il 04 Marzo 2011 da luger2
 

Troppi meridionali tra gli alpini. L’allarme arriva dal centrodestra, direzione Lega.

Non è una boutade, ma una proposta di legge presentata due anni fa che, secondo quanto riporta il sito Linkiesta, è pronta ad essere discussa e votata a giorni nella Commissione difesa della Camera dei deputati. Mentre sul fronte afghano si è consumata l’ennesima tragedia (costata la vita a un militare e il ferimento ad altri quattro), un gruppo di deputati capitanati dal leghista Caparini ha firmato infatti una proposta di legge con l’obiettivo di “favorire, nelle regioni dell'arco alpino, il reclutamento di militari volontari in ferma prefissata da destinare ai reparti delle truppe alpine”. Tradotto in soldoni: i deputati del centrodestra lamentano la riduzione “drastica” della partecipazione delle “popolazioni” del Nord; ai reparti delle truppe alpine – scrivono - viene destinata “un'aliquota sempre crescente di volontari provenienti dalle regioni del sud”. E tutto ciò, a parer loro, “incide profondamente sull'efficacia operativa delle unità appartenenti ai reparti delle truppe alpine, snaturandone l'identità e spezzando i secolari legami con il retroterra sociale di cui sono tradizionalmente espressione”. Spazio dunque a una serie di incentivi per favorire il reclutamento dei giovani padani. Una proposta, quella firmata dal deputato della Lega, che porta la data del 30 aprile 2008 che ora a torna a far discutere (e a essere discussa) in Parlamento. Dei 35 militari caduti in Afghanistan, gran parte (22) faceva parte degli Alpini e proveniva dalle regioni del Sud. Tra le regioni più colpite, la Puglia (con sei soldati uccisi), la Sardegna e la Campania (3 vittime a testa).                                                                                                            

Non si può commentare una notizia del genere anche per rispetto a quei poveri ragazzi che sono morti per gli interessi economici dei soliti soggetti che sul sangue di questi poveri ragazzi (che sono costretti ad arruolarsi perchè in questo schifo di paese non ci sono più opportunità di lavoro, specie al sud) ci lucra! Vergognatevi razzisti di merda!

 
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Federalismo, Borghezio: "Il sud non lo merita"

Post n°1519 pubblicato il 04 Marzo 2011 da luger2
 

Per l'europarlamentare della Lega la legge è adatta solo ai popoli liberi e civili e non ai "figli dei figli che baciavano la pantofola al signore locale". Poi aggiunge: "Grande risultato e grande soddisfazione per Bossi, ma l'Italia delle cricche non lo accetterà"

Milano - Il federalismo? Troppo civile per il Sud. Almeno secondo il leghista Mario Borghezio che, intervistato da Klaus Davi, ha detto: "Il Sud e l’Italia profonda non meritano il federalismo".Un abito giuridico per i popoli civili L'europarlamentare, sottolineando che la sua è un'opinione condivisa da "molti patrioti padani", ha spiegato che il federalismo è adatto ai popoli liberi e civili, come gli svizzeri, che lo hanno adottato da secoli. "C’è un’enorme differenza - ha precisato - per quanto riguarda il rapporto tra cittadino e Stato, tra la condizione dei figli dei figli che hanno creato la civiltà dei Comuni e i figli dei figli che nello stesso periodo anzichè essere liberi baciavano la pantofola al signore locale".Grande risultato, ma sarà difficile farlo accettare "E' un grosso risultato politico - ha ribadito Borghezio - e una grande soddisfazione per Umberto Bossi. Solo lui poteva vincere una battaglia parlamentare di questo genere, utilizzando machiavellicamente tutte le possibilità che gli sono state offerte dalla situazione politica". L'europarlamentare però non crede che "l'Italia che conta, l'Italia delle cricche, l'Italia degli enti pubblici e parapubblici accetterà la logica calvinista del federalismo che dice che chi sbaglia paga, che si prendono solo i soldi che si possono spendere."

Intanto anche a Milano ci sono uomini che baciano la mano a zulù africani! E poi diciamocelo chiaro il federalismo con le attuali leggi italiane servirà a far rubare meglio altri soggetti rispetto ai primi! I cittadini alla fine non avranno nessun vantaggio e poi si solleveranno contro!

 
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Le imposizioni fiscali al Sud subito dopo la conquista Piemontese

Post n°1518 pubblicato il 04 Marzo 2011 da luger2
 

Col termine Gabella, si identificava una forma di tassazione sorgente nell’azione di scambiare beni e merci. Tale forma di tassazione progenitrice delle ultime tasse moderne colpiva così beni di primaria necessità e non, come i materiali da costruzione. Abbiamo fatto l’esempio dei materiali da costruzione perché i frequenti terremoti o inondazioni venivano a gravare doppiamente sulla classe meno abbiente che abitava in zone disagiate, come il sud! Il termine gabella è quindi sempre stato sinonimo di vessazione, e se abbinato a un malgoverno anche peggio. Spesso si confondono coi dazi che sono confinari, ma che all’epoca della non unità d’Italia erano praticamente dovunque vista la frammentazione della penisola. Non abbiamo messo i monopoli, come quello del sale e dei tabacchi, dove lo stato speculava su due bisogni primari della gente e che sono un’altra cosa. Naturalmente il contadino che autoproduceva quasi tutto finiva per restare escluso dalla basa contributiva, ma si trovò il sistema anche per lui. Controsistemi che ingeneravano sotterfugi e ritorsioni nei rapporti col daziere o gabelliere. I gabellieri poi erano spesso dei privati a cui veniva dato l’incarico della esazione e che si arricchivano sulle spalle dello stato e del contribuente. La moda non è ancora scomparsa, anzi sembra in netta ripresa. In fin dei conti è anche una maniera per il potere di non apparire fiscale.  Invece che andare io mando un terzo. I Dazieri gabellieri hanno continuato la loro attività fino ad anni recenti (INGIC - Istituto Nazionale Gestione Imposte di Consumo soppresso nel 1974, i cui impiegati sono passati a costituire i primi uffici iva). Tipico esempio di esattori erano i Salvo in Sicilia, ma non erano gli unici. La vecchia gabella comunale era di solito identificata alle porte della città da un “casotto” (così lo chiamavano) da cui non potevi evitare di passare per essere perquisito. Le cinta murarie delle città favorivano questo. Spesso si era anche dotata di una pesa su cui facevano salire le merci per essere tassate al chilo. Ecco sotto a sinistra alcuni esempi e mostruosità passate e non. C’erano state tasse sull'aratro, sul carbone o sulla legna, tasse sulle finestre, sui merli dei castelli (lastrici solari), della carne o "scannaria" (macellazione), dell'immissione del pesce fresco e salato, della calce, gabella del " piè tondo " e gabella dei contratti. In Prussia, c'era la tassa sugli stivali mentre in Inghilterra, nel XVI secolo, una sulla polvere di riso. A Venezia si pagavano le tasse sulle parrucche, nel ventennio famoso quella sui Celibi. Ci fu anche una tassa sugli ebrei, sui pianoforti, sulle domestiche, sulle fotografie e sui camini che poi assomigliava al focatico. Per non pagare si eliminarono i camini ed allargarono le finestre, ma mal li incolse perché arrivò la tassa sulle finestre. Restrinsero le finestre e morirono soffocati !!!. A mitigare questa esosità nelle classi bracciantili c’erano gli usi civici riconfermati nel regno delle Due Sicilie con le leggi sul Demanio e gli Usi Civici del 20 settembre 1836. Tali diritti consentivano di fare legna, prelevare acqua, far pascolare gli animali, costruire ricoveri, fare calce, raccogliere funghi, prodotti del bosco etc (senza pagare) su terreni demaniali o della chiesa allora molto estesi. La Chiesa, che allora possedeva un terzo delle terre del Sud, era considerata fra i padroni il "padrone migliore". Per far cassa uno dei primi provvedimenti postunitari fu quello di vendere le terre demaniali e ecclesiastiche (espropriate), naturalmente a chi aveva i soldi, andando così ad incrementare il già vasto latifondo, monocolturale. Le "principali e nuove" imposizioni fiscali, oltre la fondiaria che era l’imposta base, introdotte dai Piemontesi:

  1. Imposta personale
  2. Tassa sulle successioni.
  3. Tassa sulle donazioni, mutui e doti; sull’emancipazione ed adozione
  4. Tassa sulle pensioni
  5. Tassa sanitaria
  6. Tassa sulle società industriali
  7. Tassa per pesi e misure
  8. Diritto d’insinuazione
  9. Diritto di esportazione sulla paglia, fieno, ed avena
  10. Sul consumo delle carni, pelli, acquavite e birra
  11. Tassa sulle mani morte, o manomorta
  12. Tassa per la caccia
  13. Tassa sulle vetture
  14.  e poi bolli bollini bolletti paradiso tutt'ora del fisco italiano

 Mentre nelle Due Sicilie lo stato incassava 40 milioni d’imposta fondiaria, nel 1866 se ne pagheranno 70. La differenza è anche più evidente se si considerano le aliquote per ettaro: nelle province di Napoli e Caserta si pagavano 9,6 lire per ettaro, contro una media nazionale molto più bassa. Nel primo decennio del XX secolo, una provincia depressa come quella di Potenza pagava più tasse di Udine (altrettanto depressa, non la Udine di adesso) e la provincia di Salerno, ormai lontana dalla floridezza dell'epoca borbonica, essendo state chiuse cartiere e manifatture, pagava più tasse della Como della seta (ma anche qui passerà la falce della crisi). Il diritto all’uso civico seguiva il bene (il cespite, bosco, pascolo, fiume, lago etc), a somiglianza di un diritto naturale collettivo ed era impersonale poiché era a favore di chi li risiedeva senza scadenza di tempo. In un mondo in cui la famiglia contadina non sempre riusciva a sfamarsi, questa forma di usufrutto collettivo offriva l’ultimo soccorso alla povertà. Ma a un certo punto della sua esistenza il sistema feudale si scontrò con la crescita della produttività del lavoro e con il livello dei consumi. Quando il lavoro era poco produttivo e persino i signori vivevano di poco, la concessione di terre in uso ai contadini serviva ad attrarre braccia nel feudo. Diffusisi gli scambi mercantili, i baroni presero a consumare di più (non a mangiare di più, ad aver bisogno di più soldi) e ad aspettarsi una rendita sempre più consistente. Intorno al 1740 gli illuministi napoletani erano favorevoli alla formazione della proprietà piena, ma erano anche preoccupati per i duri contraccolpi che la transizione provocava sulla condizione dei contadini. Perciò propugnavano una maggiore diffusione del contratto d’enfiteusi, che favoriva (e favorisce) la formazione della piccola proprietà coltivatrice. Non se ne fece però nulla. Contemporaneamente alle operazioni repressive, l’economia seguiva il suo iter. Tra il 1808 e il 1875 due milioni e mezzo di ettari di terre comuni (la superficie della Calabria e Basilicata) furono tolte ai contadini e svendute alla nuova borghesia redditiera.In Italia il primo sistema tributario fu istituito (negli anni fra il 1859 - 1864) sulle basi di quello vigente nel Regno di Sardegna, efficiente e gravoso. Più tardi fu introdotta anche l'imposta sui redditi di ricchezza mobile e la Manomorta per tassare quei beni rimasti alla chiesa dopo gli espropri, che non ricadevano mai nelle successioni e sulla vendita sfuggendo pertanto alle relative imposizioni fiscali. L’attuale amministrazione della Agenzia delle Dogane, risale all’Azienda delle Gabelle Sarde che, entrata a far parte del Ministero delle Finanze nel 1843 con la denominazione di Direzione Generale delle Gabelle e delle Privative, divenne nel 1918 Direzione Generale delle Dogane e delle Imposte Indirette. Alla proclamazione del Regno d’Italia (1861) la Direzione Generale delle Gabelle e delle Privative comprendeva vasti settori dell’attività fiscale: i servizi delle Dogane; delle manifatture di Tabacchi, delle Saline, dei Dazi di Consumo, e, infine, il Corpo della Guardia Doganale.

Denominazione delle Gabelle Piemontesi

Acquatico uso delle acque demaniali
Bagliva: controllo delle unità di peso e misura
Colletta o maldenaro: tributi fondiari o in genere una qualsiasi imposta obbligatoria in occasioni particolari, come nozze della figlia del re, spese di guerra, ecc.;Veniva tassata anche la neve per le ghiacciaie
Decima: il tributo dovuto allo Stato o alla Chiesa, gravante sul fondo agricolo e consistente nella decima parte del raccolto o del reddito;
Erbatico: censo che il pastore pagava per tagliare l'erba in luogo pubblico o prestazione per aver diritto di condurvi a pascolare gli animali;
Focatico: tassa su ciascun fuoco o focolare, istituita da Carlo I D'Angiò; tassa di famiglia;
Ghiandatico: tassa da pagarsi per la raccolta delle ghiande nel demanio pubblico;
Pedatico: tassa imposta agli utenti di strade, o tributo per diritto di passaggio su ponti che allora si chiamavaPontatico: (ricordato dal film di Benigni “Non ci resta che piangere”)
Plateatico: tassa che si pagava al comune per esporre la merce nelle piazze o nelle vie;
Strenna: dono da farsi al barone in generi o in denari, in giorni solenni; ora ha lo stesso significato e fine ma un obiettivo diverso 
Terratico: canone o imposta in natura, dovuta per lo sfruttamento della terra;
Vinatico: tassa che si pagava per la produzione di vino.
Macinato o sul macinato: La gabella colpiva il frumento e tutti quei generi portati al mulino per ridursi in farina: 
Formaggio: Colpiva la vendita di formaggio o ricotta (e anche il vino) fuori del territorio: 
Mortigio a favore del clero per il seppellimento dei cadaveri e l'accompagnamento "con cotta" al cimitero

Nel 1872, Pasquale Villari scriveva: Che volete che faccia dell' alfabeto colui al quale manca l'aria, la luce, che vive nell' umido, nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlie nella pubblica strada tutto il giorno? Se gli date l' istruzione, se gli spezzate il pane della scienza, come oggi si dice, risponderà come ho inteso io: Lasciatemi la mia ignoranza, poiché mi lasciate la mia miseria. L’alimentazione dei contadini salariati nel 1878: Essi sono comandati da un massaro che somministra ogni giorno a ciascuno un pane nerastro e schiacciato del peso di 1 Kg. Questo contadino lavora dall’alba fino al tramonto e alla sera, cessato il lavoro, si reca dal massaro che ha messo a bollire acqua, sale e un pò d’olio. I contadini si dispongono in fila con le scodelle dove il massaro versa il brodo e loro intingeranno il pane. Questa è la zuppa di tutto l’anno a cui si aggiunge in stagione del vinello. Questi contadini risparmiano anche sul pane che portano alla famiglia. Ricevono uno stipendio di 132 lire all’anno e 50 kg di grano e fave. (per l'epoca uno stipendio modesto doveva essere di almeno di 1.ooo lire annue). Come si può non diventare in queste condizioni un Brigante! Come non si può in queste condizione non fuggire da un quadro di miseria estrema divenendo un'Emigrante! Il popolo meridionale tutto visse 150 anni fà una tragegia che si chiama unità d'italia ma che tutto fù tranne che unità! Gli ideali del risorgimento di uguaglianza (italiani tutti fratelli), di libertà, di giustizia, ecc. ecc. non furono mai attuati e non lo sono ancora nonostante 4 generazioni si sono succedute nella speranza di un benessere sociale morale e materiale che non abbiamo mai visto! Ci chiedono di festeggiare i 150 anni di un'unità falsa e inattuata, mi dispiace per chi non conosce la storia o peggio per chi la conosce e fà finta di niente, ma noi meridionali non possiamo festeggiare, non è giusto! Non possiamo continuare a fingere, continuando a rimanere terroni, tiriamo fuori la nostra dignità e urliamo al mondo noi non festeggiamo!

 
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Il prezzo di 150 anni di Unità Nazionale

Post n°1517 pubblicato il 04 Marzo 2011 da luger2
 

I 150 anni trascorsi dal giorno in cui è stata sancita l'Unita d'Italia sono stati ricordati sabato 22 gennaio scorso nel teatro comunale di Cassano durante un convegno ben organizzato dall'Associazione culturale Giorgio La Pira di Cassano. Il solerte presidente Francesco Garofalo ha fatto le cose per bene, infatti ha chiamato come relatore principale della manifestazione il prof. Cesare Mirabelli, calabrese illustre, presidente emerito della Corte Costituzionale, a corollario, ma non meno importanti, gli interventi del neo-prefetto di Cosenza dott. Raffaele Cannizzaro, del vescovo della nostra diocesi mons. Vincenzo Bertolone, del prof. Antonio Morabito preside dell'Istituto d'istruzione superiore di Cassano, dell'on. Gallo, dell'assessore comunale Atene, il tutto coordinato in modo eccellente dal dott. Vincenzo Conso segretario nazionale di Retinopera. Il prof. Mirabelli ha fatto un'analisi storica, di questi primi 150 anni di unità nazionale, attenta e precisa senza cedere alle facili retoriche risorgimentali e mettendo spesso in evidenza, seppur in modo garbato, le problematiche gravi che il meridione ha subito di continuo per sopportare il peso di un'unità sofferta e ancora tutta da realizzare.Si è soffermato sull'importanza storica di un'unità ch esisteva già sotto il profilo linguistico, ma che mancava sotto il profilo politico e che ha permesso alla nostra nazione di crescere d'importanza nel consesso internazionale e di realizzare nel secondo dopo-guerra il boom economico che l'ha vista al quinto posto tra le potenze mondiali. Una relazione, quella del prof. Mirabelli, tutto sommato, lineare, senza sbavature e senza appigli polemici com'era da aspettarsi da un presidente di Corte Costituzionale. La relazione del nostro vescovo, seppur contenuta nei termini, ha fatto rilevare in alcuni passaggi, la dimenticanza in cui è tenuto il meridione dall'attuale governo nazionale, che, in modo neppur tanto nascosto, dirotta proditoriamente investimenti e fondi europei verso destinazioni diverse. Di ben diverso tenore le domande di alcuni studenti dell'Istituto tecnico di Cassano, rivolte al prof. Mirabelli, riguardo proprio i disagi pesanti che il sud ha sopportato in nome di un'unità voluta da pochi e subita da molti. Domande spontanee, certamente non frutto di accordi preliminari, che hanno messo in evidenza il distacco sempre più grande tra il sud e il nord del paese, domande sulle quali tutti dovremmo riflettere con grande attenzione. Il prof. Mirabelli, a onor del vero, nella sua prolusione aveva rimarcato come l'unità d'Italia era stata raggiunta per una serie di "annessioni" (per quel che riguarda il Regno delle due Sicilie si potrebbe utilizzare il termine occupazione armata) e non in seguito a sconvolgimenti popolari. Ha ricordato che ai plebisciti popolari di cui si parla nei libri di storia, parteciparono solo poche centinaia di migliaia di cittadini e che non fu concesso di votare alle donne. I ragazzi, seppur in modo garbato, hanno posto l'accento sulle sofferenze che ancor oggi il meridione sopporta in nome di un'unità a due pesi e due misure.Alla fine è risultato un incontro interessante, potrebbe essere l'inizio di un dibattito da portare avanti, sopratutto con i giovani che spesso sono fuorviati dalla storia che per 150 anni è stata propinata nelle nostre scuole.Mons.Vincenzo BertoloneMolti non sanno per esempio, che subito dopo l'annessione del regno borbonico allo stato sabaudo, in tutto il sud furono tenute chiuse le scuole per circa 15 anni, in modo da ottenere un'intera generazione di analfabeti da utilizzare come servi nelle zone industrializzate del Nord. Ai ragazzi bisognerebbe consigliare di leggere gli scritti di alcuni letterati meridionali come Vincenzo Padula che vissero proprio a cavallo di quegli anni che segnarono col sangue la storia del sud. Letterati che in un primo tempo guardarono con entusiasmo verso il risorgimento, ma che poi, negli anni successivi, dovettero amaramente rendersi conto che l'annessione aveva ulteriormente impoverito le classi meno abbienti a vantaggio dei vecchi e nuovi ricchi creati dai nuovi padroni del Nord. Voglio chiudere questa nota con due frasi scritte da due importanti personaggi della nostra storia nazionale, Garibaldi e Gramsci, leggetele e riflettete con attenzione. Viva l'Italia.....!? 

di Tonino Cavallaro

BREVE PRO-MEMORIA (PER NON DIMENTICARE)

Ogni anno viene ricordata giustamente la SHOA degli ebrei trucidati dai nazisti, ma nessuno ricorda le centinaia di migliaia di meridionali, tra cui vecchi, donne e bambini, morti, trucidati barbaramente dall'esercito dei "fratelli italiani" del Nord. Quando chiederà il Sud il risarcimento per questi soprusi? Bossi e compagni contano i centesimi che vengono spesi nel meridione, se dovessero pagare in danaro contante tutto quello che è stato subito dovrebbero pagare da ora fino all'eternità.L'unita' d'italia e' stata fatta sulla pelle del regno delle due sicilie, una nazione di gente mite, di gente operosa, gente che col duro lavoro, aveva conquistato un posto d'onore in Europa, mentre i miseri staterelli del nord della penisola, affogavano nell'ignoranza e nella miseria, dove il popolo moriva di pellagra, mentre al sud si collezionavano primati d'eccellenza:- prima ferrovia- prima illuminazione stradale a gas- piu' medici per numero d'abitanti- piu' ospedali per abitanti- un esercito di 92000 regolari, tra i meglio equipaggiati d'europa- la flotta navale militare piu' imponente d'europa- flotte mercantili all'avanguardia- i cantieri navali di castellammare di stabia fino al 1860 contavano 1000 operai- primo ospedale per i poveri- primo museo- primo teatro lirico del mondo, il real teatro san carlo- primi a portare l'acqua potabile nelle case- un sistema fiscale efficiente ed equo- la nazione che possedeva oltre i due terzi della ricchezza di tutti gli stati della penisola- il polo siderurgico piu' importante d'europa (officine di Pietrarsa , Portici e mongiana in Calabria)- e tanti altri primati...... solo nella sua capitale NAPOLI senza citare il resto del regno che si estendeva dalla Sicilia all'Abruzzo , compreso il basso lazio. TUTTO QUESTO E' STATO DISTRUTTO! ANNIENTATO! DALLA CUPIDIGIA DEGLI STATI DEL NORD, PIEMONTE INNANZITUTTO, CHE INSIEME ALLA SARDEGNA VIVEVANO UN GRAVE PERIODO DI CRISI ECONOMICA, A CAUSA DELLE TANTE GUERRE. COLPA DEL MERCENARIO GARIBALDI E DEL SUO FALSO ESERCITO , FORMATO IN GRAN PARTE DA GALEOTTI E DISSIDENTI POLITICI ESILIATI, UN ESERCITO CHE CORROMPENDO ALCUNI MILITARI DEL REGNO E' RIUSCITO A METTERE PIEDE IN SICILIA, CON LA CONNIVENZA DEGL'INGLESI, E SENZA DICHIARAZIONE DI GUERRA E CONTRAVVENENDO A TUTTE LE REGOLE INTERNAZIONALI HANNO INCENDIATO INTERE CITTA' HANNO AMMAZZATO POPOLAZIONI INERMI , HANNO VIOLENTATO E OLTRAGGIATO LE DONNE. I BERSAGLIERI ED I CARABINIERI, CORPI D'ECCELLENZA Di QUELLO STATO, HANNO INFILZATO CON LE BAIONETTE DEI LORO FUCILI I BAMBINI, PER NON SPRECARE MUNIZIONI, HANNO ATTACCATO LA CITTA’ DI GAETA, DURANTE LA NOTTE E L'HANNO RASA AL SUOLO. GARIBALDI HA TRAFUGATO ORO E TITOLI DAL BANCO DI NAPOLI PER UN AMMONTARE DI CINQUE MILIONI DI LIRE E PER GIUSTIFICARE QUESTA CARNEFICINA NEI CONFRONTI DELL'EUROPA, HANNO FATTO PASSARE QUELLA CHE OGGI POTREMMO DEFINIRE "PULIZIA ETNICA" COME LOTTA AL BRIGANTAGGIO, I BRIGANTI, POVERA GENTE CHE DIFENDEVA IL PROPRIO STATO DALLO STRANIERO, GENTE CHE HA PREFERITO LA MACCHIA, CHE NON ARRENDERSI AGLI INVASORI, SCRIVETELO SUI LIBRI DI SCUOLA CHE IL PRIMO LAGER DELLA STORIA DELL'UMANITA' E' STATO IL CARCERE DI FENESTRELLE A TORINO, DOVE VENNERO DEPORTATI CENTOMILA PERSONE E SETTANTAMILA FURONO CALATE NELLA CALCE VIVA, PERCHE' NON VOLLERO RICONOSCERE LA SOVRANITA' DEI PORCI SAVOIA, I SAVOIA CHE HANNO FATTO CHIUDERE LE NOSTRE FABBRICHE, I NOSTRI CANTIERI NAVALI , CHE HANNO FATTO AMMAZZARE DAI BERSAGLIERI DECINE DI OPERAI CHE SCIOPERAVANO PER DIFENDERE IL LORO POSTO DI LAVORO, I SAVOIA CHE HANNO CHIUSO LE SCUOLE AL SUD PER QUINDICI ANNI. QUESTA E' LA VERA STORIA DELL'UNITA' D'ITALIA, LA STORIA DI UN GRANDE SOPRUSO, DI UN INGANNO ... DI UNA RICCHEZZA RUBATA, DI UNA CULTURA ANNIENTATA...TUTTO QUESTO NON RESTERA' IMPUNITO, OGGI I NOSTRI GIOVANI STANNO CONOSCENDO LA VERITA' E LA LORO VENDETTA SARA' TREMENDA, GIUSTIZIA UN GIORNO SARA' FATTA ED IL GIORNO CHE CERTI ITALIANI FESTEGGIANO, SARA' IL GIORNO DELLA COMMEMORAZIONE DEI NOSTRI MORTI ED IL GIORNO DELLA NOSTRA LIBERAZIONE. (Giuseppe D’Urso)

 
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LE MULTE DEL LATTE PAGATE CON I SOLDI DEI MALATI TERMINALI

Post n°1516 pubblicato il 03 Marzo 2011 da luger2
 

Non ci voleva credere nessuno. Allo schifo non c'è più limite!  Ma nel decreto mille proroghe è stato deciso il rinvio del pagamento delle quote latte e per finanziare l’operazione saranno tolti i soldi agli ammalati terminali di cancro.  Precisiamo: la Finanziaria del 2010, al comma 40, aveva stanziato 50 milioni di euro per l’assistenza agli ammalati oncologici. Da quei 50 milioni la Lega ha imposto il prelievo di cinque milioni per consentire agli allevatori di rinviare per altri sei mesi il pagamento delle multe per la sovraproduzione del latte. Premesso che le quote latte sono una truffa all'Italia perché ci impediscono di produrre latte buono condannandoci all'importazione perpetua e di latte scadente i soldi non adavano sottratti a malati o a qualsiasi altra attività di welfare! Non si può rubare ad un povero! (CAZZO)   Alla Camera c’è stato uno scontro in cui ha vinto l’indecenza: il ministro Galan del Pdl, era contro; La Lega Nord, a favore. Ha vinto la Lega Nord.

   Il deputato calabrese Nicodemo Oliverio ha chiesto a Galan di dimettersi. Errore. Non se ne abbia a male Oliverio – comprendiamo il gesto simbolico della sua richiesta - ma se si dimette Galan e arriva un altro ministro non cambia nulla perché il potere della Lega sul governo è reale. Da qui, con buona pace di tutti, la politica rigorosamente subalterna dell’intero centro destra al governo di Roma; meglio, al governo della Lega.

   Le quote latte sono i soldi che vanno pagati da parte di chi produce più latte di quello consentito. Una norma europea, con l’obiettivo di salvare gli stessi allevatori dal fallimento se il prezzo del latte crollasse per iperproduzione. Fino ad oggi, la furbizia di chi sfora la produzione, è costata all’Italia 4miliardi e mezzo in gran parte pagati dallo Stato, cioè da tutti i cittadini: quando si dice Roma ladrona…

   Ci occupiamo di questa vicenda apparentemente piccola piccola perché gli allevatori che sforano nella produzione del latte sono tutti del Nord e quindi l’emendamento che toglie soldi e cure a chi sta morendo (in tutta Italia) serve per finanziare i furbi di una sola parte del paese (producono più del consentito rischiando di mandare all’aria le loro stesse aziende e poi scaricano il costo  del danno sugli altri).

   E poi ci da fastidio il cinismo di chi pensa: tanto quelli del cancro muoiono lo stesso. Non ci piace la concretezza di questo fare… 

 

 
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PERCHE’, IO MERIDIONALE, NON POSSO FESTEGGIARE IL 17 MARZO di Dora Liguori

Post n°1515 pubblicato il 03 Marzo 2011 da luger2
 

Il giorno 17 Marzo 1861, come è ormai noto, a Torino, s' inaugurava il primo Parlamento italiano e s'inaugurava in modo davvero anomalo poiché mentre, da una parte si affermava di voler glorificare quello che doveva essere il primo Parlamento frutto della bella intervenuta unità dell'Italia, dall'altra parte Vittorio Emanuele, per rendere chiaro che di annessione, invece, del Sud al Regno del Piemonte trattavasi, non si peritava di cambiare neppure il numero della legislatura. Infatti, se davvero si fosse parlato di un nuovo regno, con pari dignità fra Nord e Sud, e non di semplice annessione, la legislatura del nuovo Regno d'Italia, avrebbe dovuto iniziare con il numero uno. Analogamente Vittorio Emanuele II re di Piemonte e Sardegna (proclamato da Cavour, re d’Italia) avrebbe dovuto assumere la denominazione di Vittorio Emanuele I re d’Italia.

 

Purtroppo non erano queste le intenzioni di Vittorio e dei notabili piemontesi, per i quali nulla di rimarchevole era successo. Infatti, per essi, il regno sabaudo aveva soltanto, e fortunosamente, inglobando la quasi totalità della penisola, allargato i suoi confini e acquisito nuove ricche colonie.

 

Pertanto che motivo c'era d'interrompere la numerazione delle legislature e della dinastia?

 

E se poi questo allargamento stava provocando un massacro nel meridione (parole di Garibaldi) ... poco male! Ciò rientrava nei normali eccessi che sempre accompagnano (si badi bene) le guerre di conquista e non certo le azioni di affettuosa e voluta fratellanza. 

 

Viste, dunque, queste inoppugnabili premesse, io, meridionale, ritengo di non poter festeggiare, così motivando la mia scelta: 

 

- non posso festeggiare perche non v'è nulla di cui essere fieri se qualcuno, ipocritamente definitosi fratello, viene a conquistare la mia terra e mi riduce a somiglianza di colonia africana;

 

- non posso festeggiare perché l'unione (bella e sacra se altrimenti attuata) non fu indolore ma comportò azioni particolarmente dolorose e violenti, tali da distruggere il mio popolo;

 

- non posso festeggiare perché i massacri si ricordano, non con le feste, ma soltanto con la pietà e il rispetto;

 

- non posso festeggiare perché sarebbe davvero insopportabile fare delle feste, dimenticando quei tanti giovani che nel Sud, e anche nel Nord, caddero a cagione di una guerra fratricida (ammesso che siamo davvero fratelli); guerra che è stata intrapresa e combattuta, non per degli ideali (anzi bandendoli) bensì per poco lodevoli interessi internazionali e rinsanguamento delle ... finanze dei Savoia;

 

- non posso festeggiare perché a causa delle spietate azioni repressive dei vertici dell'esercito piemontese, immensa fu l' umiliazione e la sofferenza vissuta dalla popolazione del Sud;

 

- non posso festeggiare perché similmente sarebbe ingiurioso non ricordare le sofferenze subite dai calabresi, lucani e campani, ingiustamente trascinati in catene nei lager del novarese, ove tutti trovarono una tremenda morte;

 

- non posso festeggiare perché migliaia di uomini e donne del Sud furono fucilati senza processo dai nuovi fratelli sabaudi;

 

- non posso festeggiare perché la miseria e il terrore che hanno fatto seguito alla cosiddetta unione, hanno comportato un esodo epocale della mia gente verso paesi lontani; gente che mai, prima di allora, aveva lasciato la sua terra;

 

- non posso festeggiare perché sarebbe davvero demenziale fare delle feste in ricordo della distruzione di un grande regno culturalmente e industrialmente all'avanguardia, quale appunto era la mia terra;

 

- non posso festeggiare perché tutti gli eventi succedutisi all'Unità, alla fine, hanno comportato, per i meridionali, l'umiliazione di divenire degli extracomunitari in patria;

 

- non posso festeggiare finché le teste di poveri meridionali continuano ad essere esposte, senza pietà e a testimonianza della genetica propensione delinquenziale che avrebbero le genti del Sud, in quell'abominevole luogo che è il museo Lombroso. Un oscenità di cui non si è macchiato neppure Hitler;

 

- non posso festeggiare perché la "damnatio memoriae" voluta dai vincitori, privandomi della memoria storica, mi ha condannato anche a non possedere una storia. E un popolo senza storia è un popolo che non esiste!

 

Pertanto, io meridionale, il 17 Marzo non posso festeggiare un qualcosa che mi ha condannato a essere ... nessuno!

 

Dora Liguori.

 

 

P.S. Non mi risulta che la Polonia abbia mai espresso la volontà di festeggiare l'invasione di Hitler a Danzica, e ciò anche alla luce di quanto ne è seguito soprattutto per gli Ebrei, deportati e massacrati nei lager. Perché allora, noi meridionali, dovremmo festeggiare l'invasione del Piemonte e la fine che, in conseguenza di questa violenza militare, hanno fatto migliaia di calabresi, lucani e campani, anch'essi, appunto, brutalmente deportati nei lager del novarese dal "buon" Vittorio Emanuele? O per caso, se le deportazioni riguardano il popolo ebreo ciò costituisce un abominevole e delinquenziale crimine contro l'umanità (e lo è); e se invece ad essere deportati e massacrati sono dei meridionali, costoro non meriterebbero né pietà né rispetto, anzi se ne dovrebbe festeggiare il martirio?

 

Non festeggiamo dunque ma celebriamo il 17 marzo rendendo un pietoso ricordo a tutte le vittime incolpevoli che, da Nord a Sud, furono sacrificate e perirono per questa, già vagheggiata nei secoli, Unità. Nel contempo, al di fuori delle fastidiose retoriche, sottolineiamo che, proprio per l'alto tributo di dolore che essa comportò, soprattutto nel martoriato Sud, questa Unità dovrebbe, oggi, essere davvero difesa e onorata da tutti, quale imprescindibile valore nazionale.

 

 

 
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Islanda: una rivoluzione nel cuore dell'Europa

Post n°1514 pubblicato il 03 Marzo 2011 da luger2
 

Recentemente ci hanno sorpreso i fatti della Tunisia che sono sfociati nella fuga del tiranno Ben Alí, tanto democratico per l’Occidente fino all’altroieri e allievo esemplare del FMI. Tuttavia, un’altra· “rivoluzione” in atto da due anni è stata opportunamente censurata dai mezzi di comunicazione al servizio delle plutocrazie europee.È successo proprio nel cuore dell’Europa (nel senso geopolitico), in un Paese con la democrazia probabilmente più antica del mondo, le cui origini risalgono all’anno 930, e che si è piazzato al primo posto nel rapporto dell’ONU sull’Indice di Sviluppo Umano 2007/2008. Indovinate di chi si tratta? Sono sicuro che la maggioranza non ne ha idea, come non ce l’avevo io prima di scoprirlo per caso (nonostante sia stato là nel 2009 e nel 2010). Se tratta dell’Islanda, dove un governo intero si è dovuto dimettere, sono state nazionalizzate le principali banche, è stato deciso di non pagare il· debito che queste avevano creato con la Gran Bretagna e l’Olanda a causa della loro esecrabile politica finanziaria ed è stata appena creata un’assemblea popolare per riscrivere la sua costituzione. E tutto questo in forma pacifica: a colpi di casseruole, urla e un appropriato lancio di uova. Questa è stata una rivoluzione contro il potere politico-finanziario neoliberista che ci ha condotto alla crisi attuale. Ne parlo qui perché per due anni non c’è stata quasi nessuna informazione su questi fatti o si è informato in modo superficiale o di rimbalzo: cosa succederebbe se il resto dei cittadini europei prendessero esempio? E per inciso si conferma ancora una volta, come se ancora non fosse chiaro, al servizio di chi sono i mezzi di comunicazione e come ci restringono il diritto all’informazione nella plutocrazia globalizzata del Pianeta S.p.A.Questa è, brevemente, la storia dei fatti:Alla fine del 2008, gli effetti della crisi nell’economia islandese sono devastanti. In ottobre· si nazionalizza Landsbanki, principale banca del Paese. Il governo britannico congela tutti gli attivi della sua sussidiaria IceSave, con 300.000 clienti britannici e 910 milioni di euro investiti da amministrazioni locali ed enti pubblici del Regno Unito. A Landsbanki seguiranno le altri due principali banche, la Kaupthing e la Glitnir. I loro principali clienti sono in questo Paese e in Olanda, clienti a cui gli Stati devono rimborsare i loro risparmi con 3 miliardi e 700 milioni di euro di denaro pubblico. Di conseguenza il totale dei debiti bancari dell’Islanda equivale a diverse volte il suo PIL. Inoltre la moneta crolla e la Borsa sospende le sue attività dopo un crollo del 76%. Il Paese è alla bancarotta. Il governo chiede ufficialmente aiuto al Fondo Monetario Internazionale (FMI), che approva un prestito di 2 miliardi e 100 milioni di dollari, integrato da altri 2 miliardi e mezzo di alcuni Paesi nordici. Le proteste dei cittadini di fronte al parlamento a Reykjavik aumentano. Il 23 gennaio 2009 vengono convocate le elezioni anticipate e tre giorni dopo le manifestazioni con le pentole sono già di massa e provocano le dimissioni del Primo Ministro, il conservatore Geir H. Haarden, e di tutto il suo governo in blocco. È il primo governo (e l’unico che io sappia) que cade vittima della crisi mondiale. Il 25 aprile si tengono le elezioni generali dalle quali esce un governo di coalizione formato dall’Alleanza Social-democratica e dal Movimento della Sinistra Verde, guidato dal nuovo Primo Ministro Jóhanna Sigurðardóttir. Nel corso del 2009 continua la pessima situazione economica del Paese e l’anno chiude con una caduta del PIL del 7%. Tramite una legge ampiamente discussa nel parlamento si propone la restituzione del debito a Gran Bretagna e Olanda mediante il pagamento di 3 miliardi e mezzo di euro, somma che pagheranno tutte le famiglie islandesi mensilmente per i prossimi 15 anni al 5,5% di interesse. La gente torna a riempire le piazze e chiede di sottoporre la legge a referendum. Nel gennaio 2010 il Presidente, Ólafur Ragnar Grímsson, si rifiuta di ratificarla e annuncia che ci sarà a consultazione popolare. A marzo si tiene il referendum e il NO al pagamento del debito stravince con il 93% dei voti. La rivoluzione islandese ottiene una nuova vittoria in modo pacifico. Il FMI congela gli aiuti economici all’Islandia in attesa che venga effettuato il pagamento del suo debito. A questo punto, il governo ha iniziato una ricerca per individuare giuridicamente le responsabilità della crisi. Cominciano gli arresti di diversi banchieri e di alti dirigenti. L’Interpol emana un ordine internazionale di arresto contro l’ex-Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson. In questo contesto di crisi, lo scorso mese di novembre si elegge un’assemblea costituente per scrivere una nuova costituzione che raccolga le lezioni apprese dalla crisi e che sostituisca l’attuale, una copia della costituzione danese. Per questo si ricorre direttamente al popolo sovrano. Si scelgono 25 cittadini senza appartenenza politica tra i 522 che hanno presentato la loro candidatura, per la quale era necessario solo essere maggiorenni ed avere l’appoggio di trenta persone. L’assemblea costituzionale inizierà i lavori nel febbraio 2011 e presenterà un progetto di carta magna sulla base delle raccomandazioni approvate nelle diverse assemblee tenutesi in tutto il Paese. Dovrà essere approvata dall’attuale Parlamento e da quello che si formerà dopo le prossime elezioni legislative. E per finire, un’altra misura “rivoluzionaria” del parlamento islandese: l’Iniziativa Islandese Moderna per i Mezzi di Comunicazione (Icelandic Modern Media Initiative), un progetto di legge che intende creare una cornice giuridica destinata alla protezione della libertà d’informazione e di espressione. S’intende fare del Paese un rifugio sicuro per il giornalismo di ricerca e la libertà d’informazione dove siano protette le fonti, i giornalisti e i provider Internet che ospitino informazione giornalistica; l’inferno per gli USA e il paradiso per Wikileaks.Quindi questa è la breve storia della Rivoluzione Islandese: dimissioni in blocco di un governo, nazionalizzazione delle banche, referendum perché il popolo decida sulle decisioni economiche fondamentali, carcere per i responsabili della crisi, riscrittura della costituzione da parte dei cittadini e un progetto di blindatura della libertà d’informazione e di espressione. Ci hanno parlato di questi sui mezzi di informazione europei? Si è commentato tutto questo nei ripugnanti dibattiti radiotelevisivi di politicastri da strapazzo e mercenari della disinformazione? Sono state viste le immagini dei fatti in TV? Chiaramente no. Sarà che agli Stati Uniti d’Europa non sembra abbastanza importante che un popolo riprenda le redini della sua sovranità e affronti a muso duro il matterello neoliberista. O forse temono di perdere la faccia per la vergogna risultando ancora una volta chiaro che hanno trasformato la democrazia in un sistema plutocratico dove nulla è cambiato con la crisi, eccetto l’inizio di un processo di socializzazione delle perdite con tagli sociali e precarizzazione delle condizioni lavorative. È molto probabile anche che pensino che ancora rimanga vita intelligente tra le loro unità di consumo, che tanto gli piace chiamare cittadini e temono un effetto contagio. Anche se la cosa più sicura è che questa calcolata sottovalutazione informativa, quando non silenzio clamoroso, si debba a tutte queste cause insieme.Alcuni diranno che l’Islanda è una piccola isola di solo 300.000 abitanti, con un tessuto sociale, politico, economico e amministrativo molto meno complesso di quello di un grande Paese europeo, per cui è più facile organizzarsi e metter in atto questo tipo di cambiamenti. Però è un Paese che, anche se gode di una grande indipendenza energetica grazie alle sue centrali geotermiche, dispone di pochissime risorse naturali ed ha un’economia vulnerabile le cui esportazioni dipendono per il 40% dalla pesca. Ci sarà anche qualcuno che dirà che hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità indebitandosi e speculando nel casinò finanziario, e questo è vero. Come hanno fatto nel resto dei Paesi guidati da un sistema finanziario liberalizzato all’infinito dagli stessi governi irresponsabili e suicidi che ora si mettono le mani nei capelli. Io penso semplicemente che il popolo islandese sia un popolo colto, solidale, ottimista e coraggioso, che ha saputo cambiare tirando fuori le palle, affrontando a muso diro il sistema e dando una lezione di democrazia al resto del mondo.Il Paese ha già iniziato trattative per entrare nell’Unione Europea. Spero per il suo bene, e per come si stanno mettendo le cose nel continente con la banda di commedianti che ci governa, che il popolo islandese completi la sua rivoluzione rifiutando l’adesione. E magari succedesse il contrario, che fosse l’Europa a entrare in Islanda, perché questa sì che sarebbe la vera Europa dei popoli.

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La prigione che racconta le ombre del dopo unità

Post n°1513 pubblicato il 03 Marzo 2011 da luger2
 

Siamo lontani dalla Sicilia, molto lontani. Tanto più sorprende la lapide murata su una delle fortezze, a commemorazione di «migliaia di soldati dell' esercito delle Due Sicilie» morti di stenti. Subito non si capisce. Gli anni ricordati nella lapide sono quelli dell' Unità: che ci facevano i soldati delle Due Sicilie sulle montagne piemontesi? Ma non erano tutti accorsi a dare man forte a Garibaldi? Le risposte richiamano il lato in ombra del tardivo processo di formazione dello Stato italiano, in genere presentato come il frutto logico-naturale di una volontà collettiva trionfante sui retrivi regimi preunitari. E la retorica è solo un velo sottile, buono a coprire le spinte centrifughe pronte a rimettere in discussione l' assetto nazionale: come i due volti della stessa medaglia, dove non trova spazio una volontà «empaticamente illuminista», che può permettersi di conoscere anche gli aspetti meno esaltanti della nostra storia. I campi di prigionia per meridionali sono un buon esempio di questa storia ignorata, segreta, nascosta. Era il 1860, Garibaldi ancora combatteva e già bisognava decidere il destino dei 97 mila soldati dell' esercito borbonico. Molti si danno alla macchia, protagonisti di una taciuta guerra civile che per anni imbarazza il nuovo Stato. Gli altri vengono portati in campi provvisori a Livorno, Genova, Alessandria, Ancona, Rimini e Fano: migliaia di prigionieri, il primo problema è come trasportarli. Nel Carteggio di Cavour - volume III, pagina 347 - una lettera del generale Manfredo Fanti invoca soccorsi, vapori noleggiati all' estero «perché altrimenti è impossibile uscire da questo labirinto»: c' erano da spedire 40 mila uomini da Napoli e dalla Sicilia, la Marina militare non bastava a contenerli tutti. Dai centri provvisori i prigionieri erano destinati al campo di Fenestrelle o a San Maurizio Canavese, nei momenti di emergenza arrivano anche nella Cittadella fortificata di Milano. A San Maurizio ci sono i militari sbandati, destinatari di una prima «rieducazione»: ogni soldato riceve un sacco e una coperta da campo, un berretto, una «cravatta a sciarpa», una gavetta con cucchiaio, giubba e pantaloni, una sobria razione di viveri da pagare col proprio soldo. Ai borbonici è riservata una «istruzione di moralità militare», se promossi possono arruolarsi nell' esercito nazionale. Altrimenti vengono portati al campo di Fenestrelle, «finché si correggano e diventino idonei al servizio». Nell' universo carcerario del nuovo Stato la prigione di Fenestrelle è il tassello più importante, il più temuto. Più che un campo di prigionia è un sistema fortificato adibito a carcere militare dove i soldati borbonici cominciano ad arrivare nell' agosto del 1860, quando il gelido inverno dell' alta montagna è alle porte. In un libro intitolato I lager dei Savoia Fulvio Izzo riporta la testimonianza di un pastore valdese, che incontra una colonna di prigionieri e decide di visitare il campo. è l' ottobre del 1860, il valdese Georges Appia trova «i nostri prigionieri sparsi lungo le mura della fortezza a scaldarsi al sole; altri lungo la riva del torrente lavavano la loro unica camicia». Fenestrelle rigurgita di meridionali laceri, malnutriti, che rifiutano di giurare fedeltà a Vittorio Emanuele. Il nuovo Stato si mostra assediato dalle emergenze interne e dalla necessità di apparire solido alle potenze europee, in piedi quasi per scommessa ma sempre a rischio di implosione, con una precoce vocazione autoritaria che ne tradisce la fragilità. I campi di prigionia sono l' episodio-limite di un atteggiamento che porta a perseguitare anche Garibaldi e le sue camicie rosse, che pure erano stati tanto utili. Il guaio è che, dissoltasi l' eco dei proclami retorici, l' adesione allo Stato unitario appare precaria: e se il Meridione è l' anello debole sul fronte interno, con gli agguerriti avversari esterni la competizione è per non soccombere sulla scena internazionale. è così che l' insicurezza e la paura spingono a moltiplicare la rigidità, col risultato di approfondire le vecchie diffidenze. La situazione allarma anche qualche patriota ed è Massimo d' Azeglio, ricordato soprattutto per la sua frase che «fatta l' Italia bisognava fare gli italiani», a scrivere che il re Borbone era stato cacciato per stabilire un regime fondato sul consenso universale. Ma allora, come si spiegava che «per controllare la parte meridionale del regno ci vogliono sessanta battaglioni?» Fenestrelle è il lager di casa, la Siberia italiana, lo spauracchio da agitare davanti ai riottosi, il luogo-simbolo della cattiva coscienza nazionale. Gli internati di Fenestrelle sono «delinquenti» per definizione ed è Caroline Marsh, moglie dell' ambasciatore americano a Torino, che nel diario annota: «Pare che ci siano quasi 6 mila di questi malintenzionati ed è un numero eccessivo, che potrebbe causare problemi». Infatti il pomeriggio del 22 agosto 1861 quasi mille prigionieri tentano di impadronirsi della fortezza: divisi in 4 gruppi vogliono chiudere le porte, occupare il magazzino delle armi e i punti strategici, uscire dalla prigione. Vengono scoperti e disarmati ma la notizia della mancata insurrezione trova spazio sui giornali, che registrano come - mentre l' esercito piemontese combatte i briganti - si corre il rischio che i meridionali possano ricambiarli portando la guerra nelle valli piemontesi. La Sicilia sembra solo marginalmente coinvolta in questi episodi, prima dell' Unità l' Isola non s' era lasciata sfuggire una sola occasione per proclamare il suo essere visceralmente antiborbonica. A Fenestrelle e negli altri campi di prigionia i siciliani saranno arrivati soprattutto nel 1862, dopo la fallita impresa di Aspromonte, quando nella fortezza vengono consegnati 473 garibaldini. è un' ipotesi sensata, dalla Sicilia, in tanti seguono Garibaldi e finiscono prigionieri. Ma in un libro pubblicato nel 1864 da Alessandro Bianco leggiamo un episodio insolito, poco spiegabile con le vecchie categorie: è il 6 aprile 1862, fra i generali dei briganti napoletani arriva un palermitano. Si chiama Politini, «farmacista siciliano, omicida e uomo cognito per antiche violenze» che ha la missione di uccidere il generale Cialdini, vale a dire l' uomo a capo delle truppe inviate per reprimere il brigantaggio. Resta il fatto che su Fenestrelle e i siciliani non si hanno dati precisi, forse non si potranno mai avere. I corpi dei tanti che morirono per il freddo e i maltrattamenti furono dissolti nella calce, solo in pochi ebbero la ventura di lasciare i loro nomi nei registri della parrocchia di San Luigi. E, al momento, i più attenti nel ricordarli sono gli aderenti al "Comitato delle Due Sicilie", che lo scorso luglio hanno scoperto la lapide dedicata alle «migliaia di soldati dell' esercito delle Due Sicilie che si erano rifiutati di rinnegare il Re e l' antica patria».                     - AMELIA CRISANTINO

 
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