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RIFIUTI TOSSICI SVERSATI PER SALVARE L’INDUSTRIA NAZIONALE

Post n°2312 pubblicato il 07 Ottobre 2013 da luger2
 

     Rifiuti tossici sversati per salvare l’industria nazionale italiana attraverso un patto scellerato fra poteri porti e malavita organizzata.    
 E’ questa la verità fornita da L’INDIPENDENT, il quotidiano britannico in un articolo sulla Terra dei Fuochi: «Il problema dei rifiuti tossici non è venuto per caso. è il risultato di un patto tra la criminalità organizzata, i poteri forti dello Stato, i servizi segreti e, la massoneria,
un patto per salvare l’industria della nazione.
La distruzione dell’ambiente in questa regione, in base a questa teorìa, è considerato come un prezzo accettabile da pagare. »
Probabilmente se non si fosse sversato in Campania (ma anche Calabria e Puglia come sostiene il magistrato Ceglie), in maniera illegale, molte industrie non avrebbero potuto sostenere i costi di smaltimento e quindi reggere la concorrenza internazionale.
Avrebbero quindi chiuso. Tutti i cittadini della Campania, quindi, sono stati considerati UN “PREZZO ACCETTABILE DA PAGARE”. Per ora si tratta solo di una ipotesi; ma una ipotesi che potrebbe spiegare tantissime cose, come ad esempio, i pesantissimi ritardi
nelle inchieste. Forse la verità, questa verità, è nota da tempo all’estero e darebbe un senso al silenzio, in Italia, che per lunghi anni ha caratterizzato alcune istituzioni e certi uomini dello Stato.
«This problem of toxic waste did not come about by chance [...]. It is the result of a compact between organised crime, the strong powers of the state, the secret services and perhaps the Freemasons, a pact to save the nation’s industry. The destruction of this region’s environment, according to this theory, is regarded as an acceptable price to pay.»
I rifiuti urbani sono stati solo una coreografia, un’arma di confusione di massa, il cavallo di Troia attraverso il quale sono stati smaltiti illegalmente i rifiuti industriali (locali e “d’importazione”) che causano gravissimi problemi di salute alla popolazione e che costituiscono il vero problema della regione in generale e delle province di Napoli e Caserta in particolare.

 
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Disastro ambientale Campania 60.000 alla marcia per la vita.

Post n°2310 pubblicato il 06 Ottobre 2013 da luger2
 

                                                     4 ottobre 2013 Intervengono mons. Angelo Spinillo Vescovo di Aversa, don Maurizio Patriciello parroco S. Paolo Apostolo Caivano, Antonio Marfella medici per l'ambiente, padre Alex Zanotelli missionario Comboniano, Vincenzo Caso sindaco di Frattaminore, Luigi Di Maio vicepresidente camera dei deputati, Lucio Iavarone coordinamento comitati fuochi, Peppe Pagano Nuova Cucina Organizzata, Luigi Costanzo medici per l'ambiente, Vincenzo Spadafora.

 
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Anche gli americani scappano dalla Terra dei fuochi!

Post n°2309 pubblicato il 06 Ottobre 2013 da luger2
 

Sul viale Ferdinando di Borbone, a San Tammaro, si trova un parco residenziale elegante composto da sobrie villette mono familiari su due livelli, adagiate l’una accanto all’altra. Noto come ‘il Parco degli americani’, quelle villette erano, infatti, abitate dai militari, con relative famiglie, in servizio presso la base Nato di Gricignano, che si trova a pochi chilometri dalla cittadina sull’Appia. Da qualche tempo però, il complesso residenziale, è deserto.

Porte e finestre sbarrate, luci spente e nessuna macchina parcheggiata all’interno del condominio; sono scomparse persino le fioriere ai balconi. All’improvviso infatti, i militari e i loro congiunti sono letteralmente svaniti. Capitava di incontrarli al supermercato o di vederli girare per le strade del paese con i loro enormi Suv e, stando al parere dei tammaresi, pare fossero persone simpatiche, allegre e disponibili; ben integrate si direbbe. Ma allora perché, all’improvviso, gli americani si sono volatilizzati? Cosa li ha allontanati, nottetempo, da San Tammaro?

Qualcuno pensa al fatto che non abbiano inteso rinnovare i contratti d’affitto scaduti per l’intero immobile, altri invece, imputano l’allontanamento agli episodi predatori di cui, anche loro, sono rimasti vittime. Ma c’è anche un’altra e più attendibile ipotesi che si fa strada in queste ultime ore. Negli ultimi vent’anni, in Campania, sono stati ‘dispersi’, per la maggior parte interrati, oltre 13 milioni di tonnellate di rifiuti speciali (l’equivalente di 500mila tir); un giro d’affari che ha fruttato alla camorra oltre 5 miliardi di euro, sulla pelle dell’ignara popolazione campana. Questa valanga di veleni ha generato morte e distruzione. Sono infatti aumentate in maniera esponenziale le neoplasie, i carcinomi al polmone e allo stomaco e, dato ancor più allarmante riportato dagli organi sanitari, hanno avuto una impennata i tumori al testicolo nei giovani e giovanissimi.

I dati sono perfettamente sviscerati nel ‘Cluster Analysis of mortality and malformation in the Provinces of Naples and Caserta’ che, come ricorda Gaetano Rivezzi, presidente dell’associazione campana di ‘Medici per l’Ambiente’: “E’ un lavoro scientifico internazionale che evidenzia chiaramente come i dati di mortalità, derivante da tumore al polmone, al fegato, allo stomaco, al rene e alla vescica, siano ricorrenti in alcune zone. Si contano – prosegue il dirigente medico – circa 800 morti per tumore del seno, di cui 100 nella sola provincia di Caserta".

A squarciare il velo che copriva il traffico di rifiuti tossici, intervenne ‘Cassiopea’, l’indagine iniziata nel 1999 e durata ben sette anni, sotto il coordinamento del Pm del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Donato Ceglie. Per quanto, ad un passo dalla verità, l’encomiabile lavoro del Pm si sciolse nell’acido della prescrizione, la serrata inchiesta portò alla luce il più grande traffico di rifiuti tra nord e sud del Paese. Il coordinamento tra la Forestale e le altre forze dell'ordine, permise, in seno a ‘Cassiopea’, di individuare una buona parte di aree interessate allo sversamento di quei rifiuti tossici oggetto del traffico, cristallizzato dal Pm sammaritano. Vaste aree tra le province di Napoli e Caserta, vennero destinate a nascondiglio per l’immondo carico di veleni e morte. Da questo momento in avanti entrano in scena gli americani.

Era il 2008 quando, a causa del possibile avvelenamento delle falde acquifere, nel perimetro di Casal di Principe, le famiglie statunitensi, vennero invitate dall’ospedale della Marina Militare, a lasciare le abitazioni in cui risiedevano per salvaguardare la loro salute: "La presenza delle sostanze inquinanti presenti nel sottosuolo – ha sostenuto Paul Gilloly, medico americano e capo della ‘Pubblic Health Evil’ – possono, potenzialmente, entrare nelle abitazioni ed essere inalate con effetti nocivi. Per questo abbiamo deciso di far trasferire le persone". Nel giro di pochi mesi infatti, a cavallo tra il 2008 e il 2009, sono stati riallocati ben 38 nuclei familiari. Ma gli americani hanno deciso di vederci chiaro e, nel giro di un anno e mezzo, hanno prodotto un allarmante dossier basato su numerose analisi ambientali. Un team di esperti, infatti, composto da medici e tecnici dell’ambiente delle forze alleate, ha dato luogo ad un campionamento dell’aria, del suolo e delle acque. Ne è derivato un corposo documento, anche video, che è stato trasmesso dalla ‘American Forces Network Europe’, la tv seguita dai militari in Italia e nelle regioni europee.

Dalle risultanze emerse dal lavoro degli esperti, l’amministrazione americana ha stabilito che il proprio personale non possa, temporaneamente, stipulare contratti di fitto in tre specifiche aree intorno a Napoli, perché considerate a rischio; una di queste ingloba anche San Tammaro e gli altri comuni del circondario. L’opera scientifica di riscontro, ha fornito proiezioni su esposizioni ad aree inquinate sul medio termine e non sui tempi più lunghi che, va da sé, comporterebbe una maggiore e più invasiva incidenza sul fisico, delle sostanze inquinanti. 

Tim Halenkamp, ‘Naples Phe Medical Advisor’, spiega come: "Alcuni di questi test mostrano la presenza di un agente chimico, il Tetracloroetilene". Ma questa è solo una delle altre 17 sostanze pericolose e per la salute, presenti in alta concentrazione, che lo studio americano ha permesso di rilevare. Oltre al tetracloroetilene anche il benzene, la diossina, l’etilbenzene e il cromo esavalente, solo per citarne alcune. Ma gli americani non si sono limitati a questo; hanno anche riportato, nella scioccante tabella dei veleni, anche il tipo di cancro che può derivare dalle singole sostanze e il tempo che esso impiega a svilupparsi nel corpo umano. Ve ne sono alcuni infatti, secondo quanto riportato nell’analisi conclusiva, che hanno un tempo di incubazione che va dai 20 ai 30 anni generando una morte lenta e inconsapevole. I militari statunitensi, in sinergia con il relativo ministero per la salute, nel breve volgere di un anno e mezzo, hanno creato le condizioni di massima tutela verso i loro concittadini, temporaneamente residenti in Italia.

Forse anche per questo ‘il parco degli americani’ di San Tammaro, è stato sgomberato. Il processo ‘Cassiopea’, del Procuratore Donato Ceglie, che aveva portato ben 95 persone al banco degli imputati, si è concluso con un nulla di fatto a causa della prescrizione; peccato che, con essa, non siano stati prescritti anche gli effetti letali dei rifiuti che il magistrato era riuscito a scovare. C’è da chiedersi quando avrà inizio, da parte delle autorità italiane, un serio lavoro di tutela e salvaguardia delle popolazione costrette a soccombere per ‘biocidio’ e non vuol pensare di esser meno fortunata delle genti del ‘nuovo mondo’. Ma nonostante gli allarmi e l’opera delle forze dell’ordine e della magistratura, i traffici di rifiuti illeciti con la Campania, continuano imperterriti. E’ notizia delle ultime ore, infatti, che la Forestale sarda ha bloccato, al porto di Cagliari, un ingente carico di carcasse di animali infette, proveniente da un’azienda in provincia di Sassari e dirette a Napoli, essendo destinate ad una fabbrica per la produzione di mangimi per pesci, cani e gatti. E’ proprio vero che non c’è mai fine al peggio.  tratto da interno18.it

 
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LA NUOVA PESTE IN CAMPANIA

Post n°2308 pubblicato il 06 Ottobre 2013 da luger2
 

Il disastro ambientale in Campania – causato da anni di traffico illecito di rifiuti e emergenze perpetrate nel tempo – è paragonabile ad un’epidemia di Peste. Con questo paragone agghiacciante la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti sintetizza tre anni di lavori. Due giornalisti di IRPI hanno documentato – tra il 2009 e il 2010 – la situazione del ‘triangolo della morte’, de ‘la terra dei fuochi’ e dell’emergenza rifiuti. Vi riproponiamo un video – in inglese – che ne riassume gli aspetti principali. A seguire, una sintesi della relazione della Commissione.Sono settecentosettantadue le pagine della relazione sulla Campania che la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, presieduta dall’onorevole Gaetano Pecorella, ha reso pubblica in questi giorni dopo tre anni di audizioni, missioni, sopralluoghi, studi e dossier.

Le conclusioni della Commissione sono agghiaccianti. Nè sono una sorpresa per chi, da anni, si occupa del fenomeno: giornalisti, ma, soprattutto, cittadini e associazioni che convivono con il problema rifiuti da troppo tempo. E che da troppo tempo denunciano, fotografano, riprendono, mostrano, nell’indifferenza di una nazione.

“Quanto l’inquinamento si sia trasferito nel terreno”, si legge nella relazione, “quanto dal terreno ai prodotti alimentari, quanto dai prodotti alimentari all’uomo non è dato sapere con esattezza”.

Ma una cosa è certa: “Si tratta di danni incalcolabili, che graveranno sulle generazioni future. Il danno ambientale che si è consumato è destinato, purtroppo, a produrre i suoi effetti in forma amplificata e progressiva nei prossimi anni con un picco che si raggiungerà, secondo quanto riferito alla Commissione, fra una cinquantina d’anni. Questo dato può ritenersi la giusta e drammatica sintesi della situazione campana”.

Un caso esemplare, citato dalla relazione, riguarda l’avvelenamento delle falde acquifere di Giugliano e dintorni. La causa? Aver smaltito, a partire dalla fine degli anni Ottanta fino al 2004, 30.700 tonnellate di rifiuti nocivi scaricati dall’Acna di Cengio, azienda chimica del savonese. E dalle falde avvelenate i micidiali rifiuti sono penetrati nei pozzi circostanti utilizzati per l’alimentazione bovina e umana.

Riguardo al caso di Giugliano e della relativa zona limitrofa (ormai conosciuta come la ‘terra dei fuochi’, confinante con la terribile zona de ‘il triangolo della morte’, cioè Acerra, Nola, Marigliano), la relazione riporta le dichiarazioni del sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA) di Napoli Alessandro Milita, ascoltato in commissione il 10 ottobre 2010: “Si tratta di un caso paradigmatico perché… vede un accertato avvelenamento delle falde con, dato più preoccupante, un culmine di contaminazione, pur attualmente presente, che raggiungerebbe l’apice nel 2064. Si tratta quindi di uno di quei casi (l’unico in corso di celebrazione in Italia) in cui una condotta permanente prevede un aggravamento nel corso del tempo, per cui, facendo un parallelismo tra organismo umano e ambiente, può essere soltanto paragonata all’infezione da Aids (…)”.

La perizia su quelle zone viene presentata alla Commissione anche dal geologo toscano Giovanni Balestri, che per conto della Procura di Napoli, fece uno studio mettendo in luce come tutta la zona a nord di Napoli e il casertano, infestata da discariche abusive opera della Camorra, è oggi tutta inquinata.

Secondo Balestri il picco si raggiungerà fra 50 anni quando il percolato e le altre sostanze tossiche provenienti da migliaia di tonnellate di rifiuti precipiteranno nella falda acquifera.

Pesante il commento finale della Commissione, che non si è occupata soltanto del traffico di rifiuti della Camorra, ma anche della tragedia dell’emergenza rifiuti soldi urbani, causata da anni di inefficienze governative. “É evidente – cita la relazione – che il sistema risulta essere stato riprogrammato per far funzionare una macchina capace senz’altro di produrre profitti, ma destinata a non risolvere i problemi, dal momento che il raggiungimento dello scopo costituirebbe evidentemente motivo per far cessare ogni possibile spunto di guadagno riguardo al ciclo dei rifiuti. In questo preciso momento storico il problema dei rifiuti in Campania non è più un problema regionale, se mai lo è stato, ma è un problema nazionale che sta esponendo l’Italia a sanzioni gravissime da parte della comunità europea, che ha avviato procedure di infrazione per violazione delle norme comunitarie”. E ancora: il disastro ambientale cui si sta assistendo a Napoli e zone limitrofe “costituisce ormai un fenomeno di portata storica, paragonabile soltanto ai fenomeni di diffusione della peste  secentesca.”                                                                     

 
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In una cena a Villaricca politica, camorra, massoneria decisero la nostra fine.

Post n°2307 pubblicato il 05 Ottobre 2013 da luger2
 

Riportiamo un estratto dal bellissimo libro "le vie infinite dei rifiuti" edito già anni fa e disponibile online che racconta la storia delle ecomafie. 

L’emergenza rifiuti che oggi assedia la Campania da oltre un decennio trova qui le sue radici antiche. Nasce nel 1989 in questo piccolo comune alle porte di Napoli, nel ristorante dell’albergo “La Lanterna”, sulla circumvallazione esterna di Napoli, quella che la gente chiama “Doppio senso”, o “Strada degli americani”. Nasce tra gli invitati ad una cena speciale. Infatti si tratta di invitati molto speciali. Ci sono i camorristi di Pianura e dell’area flegrea, tra cui Perrella. Ci sono i casalesi. C’è Ferdinando Cannavale, nel ruolo di massone amico dei politici locali e nazionali. Ci sono i proprietari delle discariche, tra i quali quel Luca Avolio, proprietario dell’Alma di Villaricca, che sarà arrestato nel corso dell’Operazione Adelphi. C’è Gaetano Cerci, il titolare dell’azienda “Ecologia ‘89”, che trasporta e smaltisce rifiuti, ma è anche nipote di Francesco Bidognetti, braccio destro di Francesco Schiavone “Sandokan”. Cerci è inoltre il tramite tra il clan dei casalesi e Licio Gelli.
Luca Avolio, con la sua azienda, nel giuglianese era passato dallo smaltimento al servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti. Figura importante quindi proprio per quanto riguarda il trasporto e gli stoccaggi provvisori. Sarà il primo degli arrestati.
Che ruolo aveva Gelli in questa questione? Gelli era necessario in quanto massone a capo della P2, e quindi in possesso di una fitta rete di “contatti amici” con l’imprenditoria del nord Italia, cioè con quell’imprenditoria che sarebbe stata un vero e proprio “albo fornitori” di rifiuti da smaltire in Campania. Imprenditori settentrionali con la necessità di risparmiare denaro in quel settore che non fa guadagnare nulla ma che costituisce anzi una spesa reputata “inutile”: quello dell’eliminazione dei rifiuti delle proprie attività industriali.
Questa è la profonda differenza tra il “rifiuto” ed ogni altro prodotto della nostra società moderna: ha un’economia che funziona all’inverso rispetto alle altre merci. Mentre ogni prodotto è vendibile, ed è quindi in grado di generare profitto, il “rifiuto” è costituito da tutto ciò che non solo non può essere venduto, ma che genera perdite di profitto in quanto occorre pagare per disfarsene. Mentre nell’economia normale, quella dei beni, il flusso di denaro si muove nel verso opposto rispetto alle merci, con i rifiuti denaro e merci si muovono parallelamente, nella stessa direzione. In generale, vale la regola secondo cui più il rifiuto è tossico, più è costoso il suo smaltimento.

Alla riunione di Villaricca c’è anche Gaetano Vassallo, proprietario assieme ai sui fratelli della Novambiente Srl che gestiva una discarica di rifiuti urbani, ma anche assessore comunale a Cesa, un comune dell’agro aversano, la cui giunta sarà sciolta proprio a causa della sua presenza; in un’epoca caratterizzata dall’assenza di legislazione ambientale, è stato possibile, anni dopo, arrestare Vassallo per altri motivi, come il traffico di armi e di stupefacenti. Su personaggi come Cerci o Vassallo si potrebbe scrivere un intero volume. 
L’accordo raggiunto tra le parti è allo stesso tempo semplice e cinico: la camorra accettava di privarsi di una parte delle tangenti che venivano pagate sui rifiuti, tale cifra veniva ceduta ai politici, in cambio delle necessarie autorizzazioni a scaricare rifiuti, anche provenienti da fuori regione, e di una messa a tacere di quasi ogni forma di controllo pubblico. Le autorizzazioni per i rifiuti portano tutte la firma di Raffaele Perrone Capano, uomo forte di De Lorenzo. Il patto fissava anche le condizioni economiche: il costo della tangente che gli imprenditori pagavano per ogni chilogrammo di rifiuto era di 25 lire31, da questa cifra venivano detratte 10 lire da versare a Perrone Capano ed al suo partito. Oltre questo, i casalesi si impegnarono anche a perpetuare l’accordo per il futuro, cioè in occasione delle elezioni si impegnavano a “portare voti” al Partito Liberale Italiano. 

Francesco De Lorenzo insieme a Paolo Cirino Pomicino, Carmelo Conte e Giovanni Prandini formava la cosiddetta "banda dei quattro", definizione coniata dal democristiano Guido Bodrato ed utilizzata dalla sinistra per sottolineare la natura predatoria del gruppo. Il democristiano Pomicino, il liberale De Lorenzo e il socialista Di Donato vennero invece definiti I viceré e alcuni li descrivono come i "veri padroni di Napoli per oltre un decennio"

 
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LA STRAGE SILENZIOSA

Post n°2306 pubblicato il 05 Ottobre 2013 da luger2
 

Una strage silenziosa e continua. I decessi per cancro sono aumentati del47% nelle terre fra Napoli e Caserta, inquinate dai rifiuti tossici sotterrati dalle aziende del Nord, uno dei business più redditizi della camorra. Come ha confermato in un'intervista choc aSkyTg24 ilboss pentito Carmine Schiavone. Il business più lucroso per la criminalità organizzata è stato eresta lo smaltimento dei rifiuti tossici, interrati illegalmente a tonnellate in mezza Italia ma soprattutto nelle campagne al Sud e in Campania, fra le province di Napoli e Caserta, con conseguenze devastanti per la salute delle popolazioni. Sono fatti risaputi escontati, quelli ripetuti dal boss pentito CarmineSchiavone, 70anni, cugino di Francesco detto Sandokan, il gran capo del clan dei Casalesi che da decenni imperversa nelle campagne del Casertano estendendo il proprio malaffare ormai in mezzo mondo.
Sono dati risaputi, quelli scanditi dal boss che si presenta sorridente e rilassato. Fa impressione ascoltarli nudi e crudi dalla vivavoce di uno dei protagonisti dell’orrendo business che sta facendo ammalare e morire migliaia di cittadini (tra cui moltissimi bambini)colpiti da svariate forme di cancro.
Schiavone ha confermato al 100% quel che da anni i cronisti più attenti e i movimenti di protesta denunciano inascoltati: «Gran parte dell’imprenditoria del Nord d’Italia», ha detto il capo clan pentito, giunto altermine del suo programma di protezione, «per risparmiare smaltisce illegalmente i rifiuti pericolosi, da quelli della pittura agli ospedalieri fino ai fanghi termonucleari di cui sono ricolme le campagne del basso Lazio, di Casal di Principe, Castelvolturno, Grazzanise, Santa Maria La Fossa, Caivano, Marcianise». A chiedere alla camorra di sotterrare fiumi di policlorobifenili e altre schifezze in cambio di soldi e senza troppi scrupoli sono statee sono «le grosse società del Nord, ma anche di Pisa, di Santa Croce sull’Arno, di Verona». E poi, molte società francesi, del Belgio e di altri Paesi europei.
Insomma, mezzo mondo - avverte il boss, che è atteso da una trentina di processi - scarica nel Sud d’Italia i suoi residui più pericolosi. «Il materiale tossico», racconta ancora Schiavone, «viene sotterrato nelle cave di sabbia o sotto terra e poi viene ricoperto con cura». La verità, aggiunge, è che in Campania «stanno morendo 5 milioni di persone per colpa dei veleni che abbiamo sepolto, protetti da insospettabili connivenze».

Le dichiarazioni di Schiavone sembrano ricalcare appieno le denunce avanzate dai comitati di protesta, che da sempre affermano che esiste «una stretta correlazione tra l’altissimo numero di tumori registrato nell’area casertana a nord di Napoli e le tonnellate di rifiuti al veleno che in quelle terre sono state smaltite fuori da ogni regola». Ma con le sue parole, l'ex boss Schiavone sembra voler far sapere di più e andare oltre l’auto -denuncia.  «Ho fornito alla commissione sulle ecomafie i numeri di targa dei camion che da sempre trasportano rifiuti tossici: perché finora i proprietari egli autisti non sono stati identificati e arrestati?».
Schiavone reintroduce, un dubbio già consolidato tra coloro che seguono le vicende di ecomafia: perché non si riescono a compiere concreti passi avanti sul versante dei controlli e della prevenzione contro chi avvelena le campagne sotterrando tonnellate di immondizia ad alto rischio? E soprattutto: perché il famoso progetto di monitoraggio satellitare (si chiamava Stir) che avrebbe dovuto tenere sotto costante controllo i camion carichi di immondizia (seguendoli passo dopo passo lungo i loro percorsi) non è mai nato nonostante i finanziamenti (in parte scomparsi) e le tante promesse? «Siamo al paradosso», dicono i leader del Comitato dei Fuochi, che fa monitoraggio sulle aree più inquinate, «ora c’è da augurarsi che il boss Schiavone venga utilizzato come consulente per le bonifiche delle terre in cui viviamo: nessuno meglio di lui conosce e può indicare i luoghi esatti in cui sono stati sotterrati i veleni.Nessuno sa a memoria come lui quali sono i camion fantasma che ogni sera scorazzano lungo l’Asse mediano e chi ne è alla guida».
Secondo un recente report pubblicato dal ministero per la Salute, nel 2009 in Campania sono stati prodotti 5 milioni di tonnellate di rifiuti tossici rispetto ai 3 milioni e 750 mila del 2008, con un incremento del 13%. Una percentuale, assicurano gli esperti, che è ulteriormente aumentata negli anni successivi. Eppure, il governo continua a negare che sia dimostrabile un nesso tra veleni sotterrati e boom dei tumori.
In Campania non è mai stato possibile far nascere il registro regionale dei tumori, sebbene uno studio dei ricercatori Angir commissionato dalla Giunta comunale di Napoli abbia confermato che i napoletani che abitano nei quartieri a nord, cioè quelli più vicini all’area casertana invasa dai rifiuti avvelenati, si ammala di cancro molto più che in qualsiasi altra parte d’Italia: 131 cittadini ogni 100 mila rispetto agli 80 del dato nazionale. I numeri parlano chiaro. Eppure il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ha ipotizzato che buona parte delle morti per cancro tra Napoli e Caserta siano dovute «a stili di vita sbagliati e a un’alimentazione che si allontana dalla dieta mediterranea».
Don Maurizio Patriciello, parroco e leader del comitato Fuochi, stanco di celebrare funerali costellati da bare bianche, ha affisso tutt’intorno  all’altare maggiore nella sua chiesa al parco Verde di Caivano, le fotografie dei bambini uccisi dal cancro e dalla leucemia: due, sei, 10, 100. Una strage infinita, negata dalle istituzioni.
Qui si fa jogging con la mascherina anti-gas. E le finestre si tengono chiuse anche d’estate. Per settimane, don Patriciello ha celebrato messa circondato dalle immagini dei bimbi scomparsi e dalle ceste ricolme di pomodori, frutta e verdure appena raccolte nei campi avvelenati. L’instancabile parroco ha chiesto via Facebook a disegnatori, fotografi e vignettisti di dargli una mano per stampare centinaia di cartoline che raffigurino immagini della terra dei Fuochi da spedire al presidente della Repubblica, ai ministri, «a tutti coloro che potrebbero fermare la strage bonificando il territorio e non lo fanno».
Dice Bruno Sepe, del comitato Fuochi: «La nostra è una tragedia trans-nazionale, la cui tragica verità viene oggi ammessa e confermata perfino da chi, da criminale, ha contribuito a determinarla. Siamo al paradosso: a non crederci è rimasto solo chi ai vertici dello Stato ancora straparla di diete sbagliate e stili di vita non sani». Un’emergenza straziante e sotto gli occhi di tutti. Eppure, il registro regionale dei tumori continua a restare nei cassetti della Giunta regionale.«Finora si è perso solo un sacco di tempo», dice Maurizio Montella, epidemiologo dell’istituto oncologico Pascale di Napoli. «Faccio parte di un comitato scientifico che in otto mesi, invece di attivare il registro tumori in Campania, si è riunito solo due o tre volte senza combinare nulla». La Campania, nonostante la tragedia-inquinamento, è fra le pochissime regioni italiane a essere rimasta al palo. La mancanza di un registro tumori «è un’omissione gravissima», denuncia Antonio Marfella, oncologo in prima fila nella battaglia anti-veleni. «Si è sottratto ai cittadini e ai magistrati l’unico strumento scientifico di monitoraggio che potrebbe essere usato nelle aule di tribunale per sancire giuridicamente i nessi tra l’incremento dei tumori e la persistenza in loco di fonti di inquinamento».
VENT'ANNI DI INCHIESTE: Adelphi (1993), Greenland (2002), Re Mida, Eldorado e Cassiopea (2003), Mosca(2004) Terra Madre (2006), Dirty Pack (2007), Carosello (2008). Sono numerose le inchieste giudiziarie che attestano il rischio salute in Campania, ma dimostrare i nessi tra sorgenti avvelenate e morti per cancro resta impresa ardua senza cifre né dati scientifici.
«Per noi», dicono al comitato Terra dei fuochi, «la storia del registro tumori costituisce l’esempio lampante di come non si debba gestire un territorio già devastato dal crimine organizzato e da una governance politica quasi sempre incapace».
Le date sono impietose ed eloquenti. Il 10 luglio 2012, all’unanimità, i 62 consiglieri approvarono in Regione Campania la legge numero 19 che istituiva il registro per i tumori. Una legge tanto attesa. Pochi mesi dopo, il 14 settembre 2012, l’Autorizzazione unica ambientale, organo di controllo dello Stato italiano, impugnò dinanzi alla Corte costituzionale la legge perché «contiene alcune disposizioni incontrasto con il piano di rientro dal disavanzo sanitario della Campania». La Consulta, infine, accolse l'istanza e bocciò il registro, giudicandolo «troppo oneroso e fuori budget» (1 milione e mezzo è il costo annuale, rispetto ai 12 miliardi di danni finora stimato). I giudici, con la sentenza numero 79, ritennero che «lalegge approvata in Campania viola gli articoli 117 comma 3 e 120 comma 2 della Costituzione».
Ma che vuol dire? Vuol dire, spiegarono i giudici, che «non è il registro a essere censurato, mal’istituzione di nuovi uffici e di nuovi incarichi professionali che imporrebbero oneri aggiuntivi incompatibili con il piano di rientro previsto per la Campania». Insomma, i consiglieri regionali (51 dei quali finirono di lì a poco sotto indagine della procura di Napoli per lo scandalo dei regalini fatti a spese della comunità e dei rimborsi spese gonfiati) approvarono all’unanimità una legge sacrosanta, ma sbagliandone l’elaborazione. E così sorge un dubbio: è stato un errore commesso in (unanime) buona fede o nella consapevolezza che l'aumento dei costi per nuovi uffici e consulenze avrebbe costretto la Consulta a bocciare il travagliato provvedimento? Non manca, poi, chi abbraccia la tesi più maliziosa,immaginando che l’attivazione di un efficiente registro dei tumori «porterebbe alla luce troppe verità finora tenute nascoste».

Mala storiaccia del registro tumori mancato non finisce qui. Di fronte al no della Consulta, il 24 settembre 2012 il governatore Caldoro varò un decreto legge che puntava ad attivare comunque il registro tumori in attesa che sul piano legislativo fosse elaborata una nuova proposta. Solo un'illusione. L'ennesima.
Il decreto di Caldoro innescò, infatti, un meccanismo che da subito apparve farraginoso e, per molti aspetti, gattopardesco.
«Nel decreto, il coordinamento e la lettura dei dati raccolti dalle Asl», spiega Marfella, «non vengono affidati, come accade ovunque, all’istituto di ricerca oncologica Pascale ma all’Osservatorio epidemiologico regionale, cioè a una struttura che opera sotto il diretto controllo della Regione».
A dirigere l’Osservatorio è dal 1987, cioè da 26 anni, Renato Pizzuti, stimato professionista che però ricopre anche l’incarico di direttore del dipartimento per la Sanità regionale, comparto che è privo di assessore, visto che il governatore ne ha assunto le deleghe. «Insomma», conclude l'oncologo, «ancora una volta i ruoli si confondono: controllore e controllato finiscono per sovrapporsi».
A discutere e a decidere sui dati e sul da farsi sarà, infine, un comitato scientifico che Caldoro ha costituito scegliendo 12 fra i docenti e i ricercatori disponibili. L’unico esponente dell’istituto Pascale ammesso è l’epidemiologo Maurizio Montella.
Dopo otto mesi, il bilancio di Montella è da brividi. «Per me commissioni e comitati come questo non servono: sono solo un modo per allungare il brodo», denuncia. E poi aggiunge: «Eliminare l’istituto Pascale dal coordinamento dei lavori è stato un errore imperdonabile: in Svezia, in Europa, in altre zone d’Italia una simile assurdità non sarebbe stata mai consentita. Dalle Asl non sono arrivati dati ma solo uno studio sui costi e sui tempi del monitoraggio». La verità, secondo il medico, è un'altra. «Sono 20 anni che su questo tragico tema si gioca a scaricabarile per beghe interne, voglia divisibilità, smania di finanziamenti», è il suo j'accuse.

 
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LO STERMINIO NELLA TERRA DEI FUOCHI

Post n°2305 pubblicato il 04 Ottobre 2013 da luger2
 

Tra Napoli e Caserta «si sta consumando una tragedia sotto la luce del sole, un ecocidio». In quella che viene chiamata la 'Terra dei fuochi' negli ultimi 20 mesi sono stati appiccati oltre 6 mila roghi,30 al mese, più di 10 al giorno. E oltre al danno ambientale, nei luoghi più segnati dalla criminalità organizzata, a preoccupare è il rischio sanitario con una «stretta correlazione tra discariche e tumori, che trova nella zona di Acerra i picchi più alti». Il rapporto di Legambiente, lanciato in occasione della presentazione dell'iniziativa 'Puliamo il mondo', ha scattato un'istantanea impietosa di quest'area della Campania, tanto bella quanto«martoriata e dilaniata» dallo smaltimento illegale dei rifiuti. Dal primo gennaio 2012 al 31 agosto 2012, si legge nel documento preparato da Legambiente in base ai dati dei Vigili del fuoco incaricati dal viceprefetto Donato Cafagna, l'uomo del ministero dell'Interno che da novembre lavora sulla Terra dei fuochi, i roghi di rifiuti tra Napoli e Caserta sono stati oltre 6.034: 3.049 riguardano la provincia di Napoli e 2.085 quella di Caserta. «Da gennaio ad agosto si è registrato un calo degli incendi dolosi di rifiuti, che rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente sono passati da 3.101 a 1.894, con una riduzione del 38,9%».
Guardando bene, i numeri non lasciano spazio a dubbi. In questa area «negli ultimi cinque anni sono stati compiuti ben 205 arresti per traffici e smaltimenti illegali di rifiuti, pari al 29,2% del totale nazionale». D
al 2001 ad oggi «ci sono state 33 inchieste per attività organizzata di traffico illecito di rifiuti condotte dalle procure» attive delle due province (Napoli, Nola, Torre Annunziata e Santa Maria Capua Vetere). Si tratta di più del 15% di quelle svolte in tutto il Paese che hanno portato i magistrati ad emettere «311 ordinanze di custodia cautelare, con 448 persone denunciate e 116 aziende coinvolte».
Eppure sui siti inquinati le cifre raccontano una realtà cruda. Sui 2.001 censiti dall'Agenzia per l'ambiente della Regione Campania nel 2008, il commissario per le bonifiche certifica nel 2009 «l'esistenza di 1.122 aree avvelenate da smaltimenti illegali in 70 comuni». C'è poi anche il danno sanitario, che viene raccontato dall'Istituto superiore di sanità (Iss) che evidenzia la «stretta correlazione» tra smaltimenti illegali di rifiuti e «l'incremento significativo di diverse patologie tumorali, con picchi negli otto Comuni con il maggior numero di discariche di rifiuti censite dallo studio 'Sentieri': Acerra, Aversa, Bacoli, Caivano, Castelvolturno, Giugliano in Campania, Marcianise e Villaricca».
Per questo Rossella Muroni, direttore generale di Legambiente, ricorda che l'associazione ha deciso di lanciare una petizione, che possa essere anche un simbolo per la rinascita di un'area così«ferita dall'ecomafia», a sostegno di una direttiva per l'introduzione del delitto di ecocidio in Europa aderendo a 'End Ecocide in Europe'. Sulla stessa linea il presidente della commissione Ambiente della Camera Ermete Realacci ha annunciato un'interrogazione sulla Terra dei fuochi rivolta alla presidenza del Consiglio e al ministro dell'Interno Angelino Alfano. Nell'interrogazione, oltre a chiedere una «maggiore forza delle attività di controllo, risorse specifiche, e di allargare la cabinadi regia per l'emergenza roghi anche ai ministeri dell'Ambiente,della Salute e dell'Agricoltura, ci si sofferma sulla predisposizione di strumenti per il risarcimento del danno ambientale». (ANSA). Adesso,di fronte alla diffusione dei dati scientifici sui tumori deinapoletani, politici e imprenditori «si travestono da mammolette, sbalordite e attonite». Eppure, fra i medici più impegnati e gli ambientalisti locali, c’è chi da decenni è trattato da incompetente perché denuncia e mette in guardia sui veleni incontrollati e sul traffico illegale dei rifiuti tossici. I dati sanitari ufficiali ora parlano chiaro. E danno ragione, in tema di correlazione fra veleni e cancro, a chi ha sempre denunciato la strage e non a chi, prime fra tutti le istituzioni, ha sempre minimizzato e ritenuto «non dimostrabile il nesso». Napoli inquinata si guarda allo specchio. E fa la conta dei danni. Le cifre, diffuse da un gruppo di 14 ricercatori Angir che hanno operato su commissione della giunta comunale guidata dal sindaco Luigi de Magistris, raccontano che a Bagnoli - dove per 40 anni la gente ha respirato i fumi Italsider, l’amianto Eternit, le polveri Cementire dove ancora ingoia i veleni della mancata bonifica - il mesotelioma pleurico (quello, per intendersi, che deriva dall’esposizione all’amianto) impazza sia fra i maschi che fra le femmine molto più che altrove. A livelli da incubo il mesotelioma si registra anche fra la popolazione che abita i quartieri Soccavo e Fuorigrotta, che sono confinanti. Nei quartieri a Nord di Napoli, quelli dove pure si registrano le più ampie disponibilità di verde pubblico, in forte incremento appare invece il cancro al fegato. Forse perché chi ci abita beve troppo alcol? «No», rispondono i ricercatori, «le statistiche assicurano che lì ci si ubriaca meno che altrove». Allora, perché il cancro al fegato è così diffuso? «Nessun mistero», hanno spiegato gli studiosi Angir, «i quartieri di Chiaiano, Scampìa, Piscinola, Marianella, Secondigliano, San Pietro a Patierno sono i più vicini all’area casertana il cui suolo è da decenni avvelenato da miriadi di discariche illegali e dal fiume disversamenti illegali di rifiuti tossici industriali provenienti dall’Italia settentrionale». Chi si ammala di più, insomma,vive a ridosso della cosiddetta Terra dei Fuochi dove ogni buco nasconde fiumi di policlorobifenili e di sera, al tramonto, i camion lungo l’Asse mediano scaricano residui proibiti mentre squadre di giovani delinquenti appiccano il fuoco alle scorie tossiche.   A Napoli, assicurano i ricercatori Angir, si muore per colpa dei tumori più che in qualsiasi altro luogo d’Italia: 131 cittadini ogni 100 mila rispetto agli 80 del dato nazionale. Per giungere a tali conclusioni, i ricercatori hanno analizzato il registro delle cause di morte nel periodo 2004-2009 della Asl Napoli 1. Entrando nei dettagli, è accertato che a Napoli muore per tumore al polmone il 32,4% dei maschi deceduti, per tumore al colon retto il 9,9, per tumore al fegato l’8,3. Fra le femmine, il tumore alla mammella resta il più diffuso (16,1%). Seguono quello al polmone (13,3) e quello al colon retto (12,1). Il tumore al fegato è al 7,1%. Le donne che abitano nella Napoli bene,secondo lo studio, fumano troppo: si ammalano, infatti, di tumore al polmone nel 18,9% dei casi. In altri quartieri il dato appare meno allarmante. A Chiaia, invece, come a Posillipo e al Vomero, i maschi si ammalano molto di leucemia. E di melanoma. Antonio Marfella, medico e ricercatore dell’istituto oncologico Pascale che da anni studia e denuncia i veleni della camorra, ha accolto con favore i dati Angir che confermano in pieno i suoi inascoltati Sos: «A Napoli e dintorni le ragazze si ammalano di cancro alla mammella fin da giovanissime. Eppure, si continua a dar la colpa alle sigarette e non all’ambiente inquinato». L’amarezza di Marfella non è fuori luogo: a Napoli e in Campania, nonostante le proteste, non è stato finora possibile creare un registro regionale dei tumori per monitorare e tenere sotto controllo il dramma in atto. La Regione Campania, dopo aver azzerato il comitato scientifico scelto dalle associazioni e dagli enti sanitari, ha avocato a sé la materia e approvato un progetto da 1 milione e mezzo di euro contro cui il governo ha inoltrato ricorso. Il risultato? Tutto resta nei cassetti: in stand by, mentre la gente muore.  Vincenza Cristiano, giovane architetto abitante in Terra dei fuochi, ammalata di tumore e diventata un personaggio simbolo della lotta ai veleni, ha scritto una lettera al ministro per l’ambiente Andrea Orlando tornato alla carica per sollecitare i nuovi inceneritori a Napoli che la giunta de Magistris invece non vuole. Nella lettera, Vincenza ha denunciato l’assenza di un controllo satellitare sulle centinaia di Tir che ogni giorno scaricano impunemente nei terreni attorno a Napoli tonnellate di rifiuti tossici provenienti dalle aziende del Nord d’Italia. «Nel corso degli anni», ha precisato Vincenza, «lo Stato italiano ha sprecato investimenti e risorse, ma del controllo satellitare non si vede traccia». E ha aggiunto, delusa: «Già nel 2004 la rivista scientifica The Lancet Oncology pubblicò i dati sulla correlazione fra malattie oncologiche e veleni sulterritorio. Le autorità non hanno mai dato importanza a quei numeri, sebbene la fonte fosse prestigiosa. Gli studi lo certificano, i cimiteri si riempiono, ma nessuno ferma i Tir al veleno».

   Una mappa dettagliata di tutte le discariche presenti sul territorio giuglianese (Giugliano, Qualiano e Villaricca) con indicazioni e informazioni aggiuntive su ogni sito, come lo stato e il periodo di attività. https://maps.google.it/maps/ms?ie=UTF8&oe=UTF8&msa=0&msid=110249202866734475369.00045859692b88e942751

 
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Triangle of death: Surge in cancer cases in Campania linked to illegal dumping of toxic waste

Post n°2304 pubblicato il 03 Ottobre 2013 da luger2
 

The Ancient Romans called this region Campania felix, "happy Campania", and you can still just about see why. Once it was an earthly paradise: the aquamarine Tyrrhenian Sea full of fish, the bulk of Vesuvius to the south, which menaced destruction but was also responsible for the immense fertility of the soil.

Here in the broad plain east of Naples, towns sprang up which, thanks to that fertility, were still prospering 1,000 years later. They had become important seats of culture: in the 16th century one of them, Nola, produced the restless genius of Giordano Bruno, one of the first people to reach the conclusion that the Earth went around the sun rather than the other way around, and that the stars were also suns with planets of their own, and that they were infinitely numerous and would exist for ever. For these outrages against received wisdom the Church burned him at the stake in Rome.

The man who shows me around Bruno's town and takes me to admire the view at the medieval convent of Sant'Angelo in Palco, raised high above the plain like a great pulpit, is a Nolan like Bruno, and hugely proud of his town, its history and heritage. And like Bruno, it has fallen to him to spell out truths that the authorities do not wish to hear.

The name of cardiologist Dr Alfredo Mazza, today a still-boyish 40, became known across Italy and beyond seven years ago when, in a report published by The Lancet Oncology, the British cancer journal, he came up with the term "Triangle of Death" to describe the zone bounded at its eastern extreme by his home town and to the west by Marigliano and Acerra, 8km and 17km away respectively.

His research revealed that in this area the incidence of some types of cancer is massively higher than elsewhere in Italy. Across Italy, on average, 14 males in every 100,000 die of liver cancer; here, it was 35.9. The incidence of bladder cancer was nearly twice as high, of leukaemia 30 per cent higher. And though he could not prove it, he believed there was an explanation. "Two hundred and fifty thousand people in the region have been exposed to toxic pollutants for decades," he said. "Pollutants in the air, water and in produce from the area are well above regulation levels."

Pollution from cars and lorries in Campania probably rivals anything to be found in the industrial heartland in the north of the country. But for Dr Mazza, the density of the traffic has a different meaning. "This area is significant as it is the most important crossroads of autostrade in southern Italy," he tells me. In other words, Nola, Marigliano and Acerra are very easy to reach. If the modern development of Italy had taken place in a more balanced way, with the south enjoying levels of investment similar to the north, that ease of access might by now have transformed Dr Mazza's "Triangle" into something like the densely industrialised area between Milan and Bergamo. But despite Naples' fabulous port, that never happened. What happened instead was far, far worse: this hinterland of Naples, thanks to the motorways, has become the pattumiera, the poisoned dustbin, of the country. And thanks to a Neapolitan godfather-turned-state witness called Nunzio Perrella, in the early 1990s it began to emerge that the Camorra, the Naples Mafia, had discovered a lucrative new trade.

As the thousands of factories, refineries and other industrial plants of the north prospered through the boom years of the 1980s and 1990s, some unacknowledged boss – a gangster, an influential businessman, perhaps a powerful politician – hit on a cunning way to give the industries of Italy a unique edge over competition anywhere else on the continent. Instead of paying exorbitantly to have their toxic waste disposed of correctly by specialist companies, they would pay organised crime to truck it away and simply "lose" it. The gangs would take charge of the whole thing: their well-educated, white-collar members would iron out the bureaucratic issues, faking the paperwork, paying off any official busybodies, paying off also the owners of the land where the toxic waste ended up. The manufacturers, refineries and the rest paid the gangs only a fraction of what it would have cost to get the job done safely and legally.

The Camorra took delivery of the waste and brought it down to their own backyard – not to the densely populated streets of Naples but to the agricultural hinterland, "Campania felix". They dumped it anywhere and everywhere: in the fields, in old wells, in worked-out quarries, in or around canals, in caves. Sometimes they simply buried the loaded trailers or containers underground. Sometimes they mixed the waste with soil and scattered it on the fields. This went on for years and because the k Italian state, especially in the south, is notoriously lax, for a long time no one was any the wiser.

Yet the coming and going of lorries all night could surely not be ignored. Then there were the strange manifestations, which have the tinge of urban legends: smoke pouring from the ground in particular weather, as if the earth were volcanic; foul stenches coming from nowhere; canal water or soil that was a sickly shade of blue. And then, as years turned into decades, the young people started to fall sick.

Carolina Capasso, who lives in Marigliano, lost her 21-year-old son Andrea to sarcoma of the lungs, one of the cancers which, according to Dr Mazza, is most likely to be caused by toxic waste. "Gradually it became clear that more and more people, especially young people, were having health problems," she says, recalling the slow dawning of local awareness of the problem. "They had allergies, leukaemia, various tumours. And as they grew older one would die of cancer, one of leukaemia, and gradually we began to realise that there was something wrong. In 2009, my son started to feel bad and we found out he had cancer: a kid of 21."

She blames in particular a warehouse full of agricultural chemicals near her home where there had been an explosion and fire years before, the aftermath of which, she says, had never been properly dealt with – but, as in the rest of the Triangle, linking cause with effect and trying to hold anyone to account is a hopeless task. "I am convinced my son fell ill because of these substances, the disgusting stuff there is in Marigliano," she goes on. "Gradually we discovered nobody was doing anything about it. Andrea was ill with this cancer for seven months [before he died]. Other kids died, too. What can I tell you? Marigliano is a town of the living dead."

A few months after Andrea died, Antonella di Francesco followed him, contracting tongue cancer and dying at the age of 35. Their families lived near to each other in the same forlorn and ramshackle modern estate in Marigliano.

I go to see Gennaro di Francesco, Antonella's father. He has lost his wife, too, dying in her fifties, so now he lives alone with his 11-year-old granddaughter, Teresa, Antonella's daughter. Their first-floor flat is bare and comfortless. It is a few days before Christmas when I visit and there is a large Christmas tree in one corner, hung about with clumps of cotton wool. Gennaro, a metal worker by trade, submits to my questions as one might to a blood test, his large grey eyes wide and blank. Teresa, dark of complexion and with a sweet gypsy smile, makes me a tiny cup of coffee.

It was two years from Antonella's diagnosis to her death, Gennaro says. "She was in hospital in Naples for a month; they gave her radiation and chemotherapy and she began to get better, but then she got worse again. Then I took her to a cancer hospital in Milan where they did an operation to remove part of her jaw, then to another hospital in Turin for another operation." None of it did any good. By the end he was having to feed her through a tube in her stomach.

"Lots of young people have been dying around here," he recalls. "Ten or 20 that I heard about, and it's still going on today; every now and then you hear about another." The toxic waste is an equally persistent presence. "Everyone knows it's a problem but they don't admit it and they don't do anything about it. Because it's a big business. The politicians say they are going to clean it up but they don't."

So where, I ask, is the problem concentrated? What is the source of the poison? "Go to Boscofangone," he says. "Beyond Faibano. That's where they dump it all."

Place names such as Boscofangone, literally "muddy wood", and Pantano, "quagmire", take one back to the remote past, when this area was marshy and subject to frequent flooding. In the 17th century the Spanish Bourbon rulers of Naples took the problem in hand, building a 55km canal, the Regi Lagni, from Nola to the sea with another 210km of secondary canals feeding into it, "producing an image of a naked fish vertebra with the spines running off it", as a local historian puts it. It was a magnificent feat of engineering and it kept the plain well drained for centuries. It was only with the onset of the boom years after the Second World War that things began to go awry.

I drive from Marigliano to Polvica, looking for the elusive Boscofangone, through terrain that is neither city nor country. Plastic bags of rubbish dot the side of the road. Industrial buildings, including a shiny new rubbish recycling centre, alternate with orchards and vegetable fields; I am halted at one point by a flock of dirty-brown, long-eared sheep crossing the road to pasture in a field of dandelions. This area has not switched from agriculture to industry – the two continue to co-exist – but it's as if they live in different dimensions, each oblivious to the other.

I stop at a bar in the town of Polvica, up against the Partenio mountains, much-scarred by quarrying, to ask advice. The vivid, paunchy barista, Massimo Bernardo by name, with a face like Gene Wilder, tells me where to go. "Turn left by the Esso station, drive as far as the little round medieval church," he says. "The Boscofangone canal starts there."

Mr Bernardo knows all about the toxic-waste problem but has convinced himself it is all in the past. "Yes, there were lorries running along the canal all night, dumping their loads," he remembers. "But they've cleaned it all up. This is the best soil in Italy! We produce the best tomatoes, the best potatoes, the best oranges... Why do they import all that stuff from abroad when we have the best here?"

I follow his directions. At the entrance to the canal's towpath, barred by a swing gate, there is an official notice, describing "Interventi di straordinaria manutenzione per l'adeguamento funzionante" ("Operations of extraordinary maintenance for the satisfactory functioning") of the Regi Lagni canal. Bulldozer tracks along the path indicate that the "bonifica", the clean-up, which was promised to start on 26 September 2011 and go on for 180 days, has indeed got under way: the canal is no longer frothing with rubbish as in one amazing video available on YouTube; its sides are no longer clogged with old fridges, washing machines, plastic bags and oil drums. But they have not disappeared: after walking for half an hour I discover that a fresh load of items, including those listed above, have been dumped right into the canal, blocking its flow.

Contrary to the venomous views of local activists, work to deal with the degradation of the area has been undertaken. The problem is that it was a one-off. Once cleaned, the canal would need to be monitored, protected, guarded. It would need to be reintegrated into the planner's view of the region's future. Schemes drawn up by the local authority envisage kilometres of tree-lined canals running through recreational areas and archaeological parks – but these are pipe dreams. Instead, the canal is a relic of a past that few local people seem to know or care about; and, unless adequate protections are put in place, the dumpers will merely bide their time to start dumping all over again.

Meanwhile, there is the question of what effect the many years of illegal dumping have had on the region's water table and food chain. Emblematic of that massive public-health headache are two large, neatly squared-off mounds of God-knows-what a couple of hundred metres from the canal, covered with heavy black polythene tarpaulins: heaps of toxic rubbish that have been seized and impounded here. The tarpaulin stops the emissions of whatever is inside from getting into the air, but does nothing to stop them seeping into the earth, the water table and thence the k food chain. That, far more than the visible scarring of what remains of the countryside, is the heart of the problem.

In Italy it is always difficult to separate overheated conspiracy theory from reality. Even an observer as astute and well-informed as Dr Mazza appears to have a weakness for malign, broad-brush explanations of events. "This problem of toxic waste did not come about by chance," he tells me soon after we meet. "It is the result of a compact between organised crime, the strong powers of the state, the secret services and perhaps the Freemasons, a pact to save the nation's industry." The destruction of this region's environment, according to this theory, is regarded as an acceptable price to pay.

It is an appealing explanation, but like most such theories it is short of proof: I have seen no useful evidence that Campania's disaster was the result of a diabolical plot. Undoubtedly northern Italy has used this region as a vast unlicensed landfill site. Undoubtedly those responsible for the dumping have been Camorra gangsters or people in their pay. Equally beyond doubt are the shockingly high rates for certain cancers and genetic malformations. Beyond those facts, however, it is impossible to claim with any conviction that there has been a terrible plan at work – impossible but also unnecessary. The economic logic of what the gangs have been doing is plain to see.

While dumped toxic waste is one particular problem with terrifying implications for public health, it is part of a far larger and apparently insoluble crisis in this region involving the disposal of rubbish of every sort. The lingering image of Naples in the outside world is no longer of the city's great, sweeping bay with Vesuvius behind but of streets lined with mountains of uncollected domestic trash. This revolting phenomenon comes and goes – I am fortunate to visit when it is at a low ebb – but like the toxic-waste issue, it is never really solved.

Twenty or more years ago the Camorra succeeded in obtaining a near-monopoly in the disposal of waste of every type in Campania. They continue to use this power as a blackmail tool every time a new mayor or other official threatens to crack the whip, to cut out the gangs by enforcing the differential collection of rubbish (which scarcely exists here) or to take other decisive steps to solve the problem permanently. In this, the local political forces of the left play into the gangs' hands by orchestrating hostility to new incinerators. And the easygoing, simpatico nature of the local character – people such as Massimo Bernardo, with his blithe assurance that the toxic-waste problem has been solved – doesn't help much, either.

Piera Mucerino, a local woman who has campaigned about the toxic-waste issue for years, says the problem is that people become resigned. She is haunted by the results of an experiment she once read about. "They put a dog in a cage," she explains. "They sent electric shocks down the right-hand side of the cage; the dog moved to the left. Then they sent the shocks down the left-hand side and the dog moved to the right. Then they put shocks through the whole cage: the dog gave up and stayed where it was. Then, with the shocks still running back and forth through the whole cage, they opened the door. The dog stayed where it was.

"We're like that," she concludes. "Resignation. No matter what happens, in the end we don't move. We sit there and take it. People react to the bad news, but after a time they forget about it and get on with their lives. And when people die of cancer they just hope it won't happen to them, or they pray to God. Instead of doing the big battle for everyone, people say, 'I will do the little battle for me.'"

For Andrea and Antonella and many others in Campania Infelix, the little battles ended badly, too.

tratto da www.independent.co.uk

 
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Monnezza connection

Post n°2303 pubblicato il 03 Ottobre 2013 da luger2
 

Un business capace di fruttare in Italia oltre 20 miliardi di euro l’anno, superando per profitti il narcotraffico: è il commercio illecito di rifiuti, che vede il suo epicentro nella Regione Campania. Ma quanti, investigatori o magistrati, hanno cercato di fermare l’ecomafia, sono stati tutti destituiti o…“promossi”. La criminalità organizzata che fa business riempiendo le discariche, legali e abusive, del territorio campano con rifiuti industriali, pericolosi e di ogni altro genere, e pur di fare quattrini li seppellisce a pochi metri dalle sue splendide ville. Un affare gestito da 239 clan che hanno riversato sul territorio regionale dieci milioni di tonnellate di veleni SOLO negli ultimi DUE ANNI. Secondo l’ultimo rapporto di Legambiente, dall’Italia escono rifiuti verso Hong Kong, Tunisia, Pakistan, Senegal, Cina, Croazia, Serbia e Albania. Ma la «Monnezza connection» ha ramificazioni in tutta Italia anzi il suovero epicentro è nel Varesotto, nel recinto di molte stimate aziende“pulite” italiane della «Lombardia». Qui nasce un filone di una inchiesta in cui passavano di nascosto i rifiuti urbani di Napoli dell'emergenza (?) targata 2003, qui sarebbero state smistate una serie di schifezze raccolte in mezza Italia del Nord e smaltite abusivamente: corrompendo i responsabili di discariche autorizzate, falsificando i documenti; oppure, facendo un buco in qualche terreno e sotterrandoci i veleni. Sì perchè i signori industriali non hanno problemi ad inquinare le terre e l'acqua altrui pur di non spendere soldi, anzi in questo modo ci guadagnano pure, perchè si fanno fatturare da pseudo ditte per il trattamento dei rifiuti nocivi pagandole meno ma scaricando le tasse su importi maggiori!

Alla fine però, come nelle peggiori storie, a pagare è sempre la povera gente, che silenziosamente muore sempre di più per patologie tumorali. Nel 2005 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha condotto uno studio intitolato Trattamento dei rifiuti in Campania: impatto sulla salute umana dal quale emerge «che la mortalità per tutte le cause è risultata in eccesso significativo per gli uomini nel 19% dei comuni della provincia di Caserta, e nel 43% dei comuni della provincia di Napoli; per le donne nel 23% dei comuni della provincia di Caserta, e nel 47% dei comuni della provincia di Napoli». Le analisi sono basate su indagini epidemiologiche di tipo geografico che utilizzano come fonte i dati delle schede di dimissione ospedaliera, i registri delle anomalie congenite e i registri tumori.  Questi sono dati e numeri certi. Quindi in un paese “normale” i responsabili sanitari si mobiliterebbero subito per istituire un REGISTRO dei TUMORI per stabilire con la forza dei numeri e le percentuali matematiche l'incidenza delle patologie tumorali per poi decidere i provvedimenti da attuare. Semplice, poco costoso e di facile esecuzione, quindi a tutt'oggi non realizzato! Bisogna allora pensare che non viviamo in un paese né civile, né normale! Il direttore del camposanto di Caivano ha confidato però a don Maurizio Patriciello, parroco della Terra dei fuochi: che di recente in paese sono morti in 300, e il 70% per tumore, ha specificato fornendo, senza volerlo, l’unico dato disponibile al riguardo, visto che in Campania un registro che conti di quelli che muoiono avvelenati, non si può fare perchè c'è la censura dello stato! 

                    Un povero contadino campano ignorante ma non stupido ha detto: la fine delle“zoccole” è quello che ci attende. Ma le zoccole vivono nelle fogne e negli anfratti. Escono sì, ma solo dopo che il sole è calato. Invece noi, qui siamo, diventati zoccole costretti a vivere come degli esseri umani. Dobbiamo comprare, andare in macchina, mandare i figli a scuola e pagare le tasse, dobbiamo votare per decidere di che morte dobbiamo morire!       Ma dai, come le zoccole col veleno. 

 
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Un traffico di rifiuti tossici tra Italia e Romania

Post n°2302 pubblicato il 02 Ottobre 2013 da luger2
 

Ad est dell’est c’è Sulina, piccola cittadina del distretto di Tulcea: il punto più orientale della Romania e dell’intera Unione Europea. Quattromila anime sparse tra casette di legno e orribili condomini di epoca sovietica. Poche strade, alcune in terra battuta che conducono quasi tutte al porto, situato allo sbocco del ramo centrale del Delta del Danubio. È stata questa la breccia che ha trasformato la Romania nel primo paese pattumiera d’Europa. Una “pietra miliare” dei traffici illeciti di rifiuti provenienti dall’Italia, come la definì in una lettera al settimanale Famiglia Cristiana lo 007 Guido Garelli (personaggio coinvolto nel progetto Urano per lo smaltimento di materiale pericoloso in una depressione dell’ex Sahara spagnolo). Di certo nella seconda metà degli anni ’80 il porto franco di Sulina rappresentava un salvacondotto per molti trasporti illegali e dal 1987 in poi divenne anche l’approdo privilegiato delle navi dei veleni provenienti dall’Italia.

Nella primavera del 1987 due mercantili carichi di rifiuti pericolosi, la Akbay I e la Corina, salparono dai porti di Marina di Carrara e di Chioggia diretti a Sulina. A commissionare i viaggi fu un’azienda italiana, la Sirteco Italia S.r.l. , che si impegnò a smaltire tramite la compagnia rumena Kimica ICE di Budapest varie centinaia di barili d’acciaio per mezzo di incenerimento o conferimento in discarica. Ma era tutto falso: a Sulina non esistevano né inceneritori né discariche adatte a smaltire materiali tossici. Dopo essere state stoccate in via provvisoria nei magazzini del porto, le sostanze nocive dovevano semplicemente essere gettate nel Mar Nero. A questo proposito il capitano turco Mustafa Aygor, imbarcato sulla nave Faz 1 Mete ha dichiarato che «fra giugno e luglio del 1988 furono caricati sulla nave turca Munzur, ormeggiata nel porto di Sulina, dei barili sigillati con la lettera “R”. In quell’occasione parteciparono anche chimici italiani come supervisori delle operazioni di carico». Da un dossier di Greenpeace del 2002 si apprende che la Corina giunse in Romania l’11 aprile 1987 con 2796 fusti e solo cinque giornipiù tardi la Kimika ICE emise un falso certificato attestante la distruzionedei rifiuti. Il 26 di aprile dello stesso anno la seconda nave, la Akbay I, scaricò nel porto rumeno 828 tonnellate di rifiuti industriali. Il disegno criminoso prevedeva l’arrivo in Romania di 150.000 tonnellate di scorie all’anno pagate, così pare, dalla Sirteco alla Kimika ICE circa 600 lire al chilo, quando lo smaltimento legale in Italia sarebbe arrivato a costare oltre 2000 lire al chilo. Un business colossale stimabile secondo l’Agenzia Ambientale delle Nazioni Unite in 50 milioni di euro che ancor prima dello sbarco all’est della criminalità organizzata vide protagoniste alcune aziende italiane con la complicità delle alte sfere del regime di Nicolae Ceausescu. Ma non tutti si mostrarono d’accordo perché Sulina ospitasse una bomba ecologica. Nel corso di una dichiarazione rilasciata nel 1995, Aldo Anghessa, legato ai servizi segreti, affermò che il comandante del porto venne fucilato per essersi opposto al traffico di rifiuti. La Stampa di Torino del 13 agosto 1988 riportòla notizia delle dimissioni del ministro del Commercio del regime di Ceausescu in seguito allo scandalo del traffico di rifiuti tra Italia e Romania. Nello stesso articolo si apprese anche dell’esistenza di una terza nave, la Kapitan Fehmi, battente bandiera turca, che avrebbe scaricato a Sulina altre duemila tonnellate di rifiuti italiani. Ciò confermerebbe i sospetti di Greenpeace circa l’esistenza di altre navi dei veleni attraccate nel porto franco. Una di queste,la meno conosciuta e misteriosa, è la Prahova. Di questo cargo e del suo caricosi sa pochissimo. Arrivò in Romania, nell’estate del 1987. I lavoratori del porto scaricarono dalla nave barili d’acciaio con scritte di pericolo in italiano e in tedesco ed alcuni di loro svennero a causa dei fortissimi odori rilasciati dai contenitori. Forse proprio a causa di questi malori l’operazione di scarico non venne completata. I barili già arrivati sulla banchina vennero lavati con l’acqua pompata dal Danubio e poi trasportati nei magazzini del porto, altri rimasero nella stiva del mercantile a causa del clamore suscitato dal caso, che proprio in quei giorni investì alcuni importanti esponenti del governo rumeno. La successiva interruzione dei traffici spinse le autorità portuali a sbarazzarsi dei rifiuti scaricandoli direttamente nel Danubio o sul fondo del mar Nero. I fusti rimanenti trovarono alloggiamento per ben quattro anni nella stiva della Prahova, ancorata, nel porto di Sulina con il suo carico di veleni senza che nessuno ne reclamasse la proprietà. Finché il 24 febbraio del 1991 lanave scomparve nel nulla. Quasi si dissolse, nella nebbia di una notte d’inverno. Ma dove finirono i centinaia di fusti zeppi di sostanze tossico-nocive? Alcuni abitanti di Sulina dichiararono che dopo la fine del regime di Ceausescu le voci sulle presunte malattie provocate dalle scorie stoccate nel porto convinsero le autorità a disfarsi della nave. Probabilmenteil cargo venne prelevato da un rimorchiatore turco, l’Ocean Asli, e poi affondato nelle acque internazionali del Mar Nero. Un destino comune a quello della Akbay I, una delle prime navi dei veleni arrivate in Romania, che non venne mai più ritrovata. Un’inchiesta del tibunale di Venezia sul traffico di rifiuti con la Romania rivelò che la Sirteco  aveva raccolto e trasportato rifiuti tossici sversati nel Mar Nero. Nel luglio del 2000 il Ministero dell’Ambiente turco dichiarò che fino a quel momento erano stati ritrovati in Turchia 367 barili con stampigliata la lettera “R” e le cui etichette indicano senza ombra didubbio la presenza di rifiuti tossici prodotti in Italia.

Il ministero dell’Ambiente italiano dichiarò che avrebbe riportato i barili in Italia se si fosse provata l’origine dei rifiuti. Una copia della documentazione relativa alle scorie venne inviata al governo italiano che nonostante l’evidenza valutò di non aver ricevuto sufficienti prove per dimostrare l’origine italiana delmateriale nocivo. 

 
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1994: Muore Ilaria Alpi e Miran Hrovatin i primi morti di munnezzopoli!

Post n°2301 pubblicato il 02 Ottobre 2013 da luger2
 

Perché è morta Ilaria? 

Diversi documenti e testimonianze affermano che la Alpi stava arrivando al cuore dei malaffari che legavano la Somalia all’Italia, all'Europa e ai Paesi dell’Est, dai quali provenivano gli armamenti, pagati col permesso di seppellire in loco i rifiuti tossici!                                                                                          Quale mistero ha intravisto Ilaria Alpi, inquietante al punto da costarle la vita? Un fatto è certo: tra il 16 e il 20 marzo 1994 la Alpi lavorò a Bosaso con l’operatore Miran Hrovatin. Qualche ora dopo aver rimesso piede a Mogadiscio, i due giornalisti furono uccisi in un agguato condotto da sette killer. Cosa videro, esattamente? La domanda è senza risposta, perché da allora omissioni, coperture, depistaggi, silenzi hanno impedito ai familiari, e a tutti gli italiani, di sapere. Si è steso un velo sui malaffari definiti "malacoperazione" che hanno visto intrecciarsi a Bosaso traffici d’ogni genere: armi, rifiuti tossici, scorie radioattive, tangenti e riciclaggio di denaro sporco. Questo è l'intricato scenario in cui si è nascosto il movente e i mandanti del duplice omicidio.

Nel Marzo 1994. Ilaria Alpi stava seguendo le tracce di questi traffici illegali. Al processo celebratosi contro Hashi Omar Hassan (accusato dell’omicidio, ma definito dalla seconda Corte d’assise di Roma "un capro espiatorio", e quindi assolto). Diversi testimoni raccontano agli inquirenti un articolato sistema di traffici di armi, rifiuti pericolosi e scorie radioattive, i cui proventi alimentavano in parte conti neri o finivano in tangenti. Un sistema gestito da faccendieri italiani e stranieri, che chiamano in causa complicità politiche legate in special modo all’area socialista. Testimoni e faccendieri fanno ripetutamente i nomi di Paolo Pillitteri e di Pietro Bearzi, all’epoca rispettivamente presidente e segretario generale della Camera di commercio italo-somala, stretti collaboratori di Bettino Craxi, nonché i nomi di uomini dell’Intelligence dell’Italia e di altri Paesi. In particolare, gli investigatori di Torre Annunziata (alcune risposte si trovano nell’inchiesta condotta dalla Procura di Torre Annunziata, provincia di Napoli dal pm Paolo Fortuna, e dai Carabinieri di Vico Equense, al comando del maresciallo Vincenzo Vacchiano, i cui atti all’inizio del 1999 sono stati trasmessi alla Procura di Roma e consegnati al pm Franco Ionta, titolare delle indagini sulla morte dei due giornalisti.), sulla base del materiale raccolto, ritengono che Ilaria Alpi possa essere stata uccisa non tanto per aver raccolto informazioni e prove su presunti trasporti di armi fatti con i pescherecci della società italo-somala Shifco, quanto per aver scoperto a Bosaso depositi di armi trasportate da Hercules C-130 italiani e ancora recanti l’indicazione della loro provenienza dai Paesi dell’Europa orientale. Armi, insomma. Dall’Italia alla Somalia, via mare e via cielo. Così nel 1992, nel 1993 e anche nel 1994, sotto gli occhi della missione Onu. Armi, ma non solo, in quasi tutto il litorale somalo, a Merca, a Mogadiscio, a Obbia, nel Moduk, in Migiurtinia (l’area di Bosaso, ndr) erano sepolti dei fusti di cui non si conosceva il contenuto. Ho inoltre fatto notare a Ilaria che erano comparse in Somalia delle malattie nuove, e che si erano registrate morie di pesci». (dalla deposizione di Faduma). «Tra il 1987 e il 1989 mi chiamò una persona che conoscevo, prospettandomi un grosso affare, perché era stato contattato da alcuni italiani, i quali dovevano sbarazzarsi di un carico di container fermi al porto di Castellammare di Stabia o a quello di Gioia Tauro, contenenti rifiuti tossici o radioattivi, e volevano un referente capace di riceverli e sotterrarli in un’area desertica della Somalia. Successivamente seppi che un carico di materiale radioattivo era stato portato in Somalia e i contenitori sotterrati in un’area desertica nel Nord del Paese». (informazioni rese agli investigatori da Marco Zaganelli il 7 agosto 1997). «Ilaria Alpi ha toccato il segreto più gelosamente custodito in Somalia, lo scarico di rifiuti pagato con soldi e armi da in circa vent’anni. La regìa di tutto questo è appannaggio dei servizi d’informazione coinvolti in quello che è sicuramente il business più redditizio del momento. Non mi riferisco solo al Sismi (servizio segreto militare italiano, ndr) e al Sisde; vi sono anche gli organismi omologhi dei Paesi che hanno "usato" vari Stati dell’Africa per smaltire porcherie».

 

 
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Un Popolo Distrutto

Post n°2300 pubblicato il 02 Ottobre 2013 da luger2
 
Tag: MORTE

ATTENZIONE

Questo blog sospende la normale pubblicazione storico-meridionalista per Protestare a causa delle gravissime condizioni in cui si trovano i molti comuni delle martoriata provincia di Napoli nella quale è stato riscontrato negli ultimi anni un forte aumento della mortalità per cancro che per alcune patologie raggiunge livelli molto più alti della media italiana. La causa dell'aumento di mortalità è attribuita all'inquinamento ambientale, principalmente dovuto allo smaltimento illegale di rifiuti tossici da parte della Camorra. Nell'agosto 2004 dalla prestigiosa rivista scientifica internazionale The Lancet Oncology  ha pubblicato uno studio di Kathryn Senior e Alfredo Mazza,  ricercatore del CNR di Pisa, dal titolo: Italian “Triangle of death” linked to waste crisis (Il "Triangolo dellamorte" italiano collegato alla crisi dei rifiuti). l clan dei Casalesi,  ha sversato sistematicamente in Campania rifiuti tossici corrompendo politici e funzionari del commissariato di Governo. La maggior parte dei rifiuti arriva dal nord Italia, come anche affermato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel giugno del 2008.

 
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1861 UN ANNO "DIFFICILE" PER I PIEMONTISI

Post n°2299 pubblicato il 25 Settembre 2013 da luger2
 

Il 7 aprile 1861 un orgoglioso Alfiere regge la Bandiera Duosiciliana e avanza seguito dal Gen. Crocco e da circa 500 armati, perfettamente inquadrati, e da 160 cavalieri. Dal 7 aprile ai primi di maggio 1861 tutta la Basilicata è in fiamme! In rapida successione, segnata dalla altrettanta rapida fuga dei presidi piemontesi e delle guardie nazionali, vengono liberate Ripacandida, Barile, Venosa, Lavello ed in fine la gloriosa Melfi, città cara a Federico II. Il bottino in armi è ingente, in ogni cittadina Crocco restaura il Governo Borbonico, vengono bruciati il tricolore e i simboli savoiardi, l’entusiasmo della popolazione è indescrivibile. Le superstiti truppe piemontesi si sono rifugiate a Maschito, ben lontani dall’epicentro della rivolta.
Lo stato maggiore degli invasori piemontesi, colto di sorpresa, ordina a tutte le truppe stanziate a Salerno, Benevento, Avellino e Foggia di convergere sul Melfese. Il loro cammino sarà segnato dagli orrori di fucilazioni di massa e dall’incendio di interi paesi. Crocco nel contempo dirige la sua marcia in Alta Irpinia, dove libera Carbonara, Calitri, S. Andrea e Conza. Il numero dei briganti piemontesi uccisi dagli insorgenti è ancora oggi coperto da segreto militare.
Senza che vi siano gruppi organizzati, si sollevano Grassano, S. Chirico, Avigliano, Ruoti, Rapolla, Atella e Rionero. Circa 4000 piemontesi, appoggiati da altrettante guardie nazionali, stringono un cerchio di truppe su Crocco, ma nella rete non resta nulla. Crocco ha diviso la sua forza in piccoli gruppi che hanno filtrato le maglie dell’accerchiamento piemontese.
Nelle sue memorie lo stesso Crocco scrive: "Ai primi di maggio, trovando difficoltà a trarre mezzi di sussistenza … divisi le truppe in plotoni, dando per punto di riunione i boschi di Lagopesole". Mentre Crocco è acquartierato a Lagopesole, i suoi luogotenenti Angelo Maria Villani e Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), nell’intento di alleviare la pressione esercitata su Crocco, attaccano con successo reparti piemontesi in Capitanata.
Il 14 maggio Villani libera Mattinata, il 10 giugno Poggio Imperiale, le vittime piemontesi sono numerosissime. In Capitanata gli scontri avvengono tra la cavalleria piemontese e la cavalleria degli insorgenti: il bottino in cavalli è per i borbonici veramente sostanzioso. A Palazzo S. Gervasio, Summa al comando di reparti di cavalleria insorgente travolge i Lancieri di Montebello e la guardia nazionale, una vittoria totale. Il 24 luglio insorge Gioia del Colle, il 30 Vieste sul Gargano. Nessuna formazione di truppe insorgenti era presente nelle zone delle due cittadine e i piemontesi fucilano 170 persone a Gioia e 65 a Vieste, saccheggiando anche le chiese.
La gravità della situazione la si può intuire dal telegramma che il 7 agosto il gen. Cialdini invia al suo degno compare Cadorna: "Nel caso di avvenimenti gravi ed imprevisti a Napoli o altrove, concentri la sua truppa a Teramo, Aquila, Pescara ed agisca secondo le circostanze se le comunicazioni con me venissero interrotte" ("Il gen. Cadorna nel Risorgimento", Milano, 1922, pag. 202). Il 10 agosto truppe piemontesi occupano Ruvo del Monte, le case vengono saccheggiate e 23 persone fucilate. Il Melfese, la Capitanata e la Terra di Bari diventano l’epicentro di una serie infinita di piccoli e grandi scontri e in queste zone vengono inviate molte truppe piemontesi. Il terrore tuttavia attanaglia gli occupanti, gli insorgenti hanno adattato il loro comportamento a quello dei piemontesi: niente piú prigionieri, visto che la fucilazione era il trattamento riservato ai Duosiciliani caduti in mano ai savoiardi. Le azioni nel Melfese e in Puglia rendono piú difficile il controllo nella fascia che va da Terra di Lavoro al Beneventano. Napoli rischia di rimanere isolata.
Lo stesso 10 agosto Crocco muove verso Ruvo del Monte: intende punire i piemontesi e i "galantuomini" per i delitti ed il saccheggio cui il paese è stato sottoposto. Occupata la cittadina fa sterminare tutti i piemontesi e le guardie nazionali, piú 17 galantuomini, impadronendosi di gran quantità di armi e munizioni.
La reazione piemontese è immediata e l’11 agosto scagliano contro Crocco circa 4000 uomini, composti da un battaglione bersaglieri, un battaglione del 62° Rgt. Ftr, tre battaglioni di carabinieri, due compagnie del 32° Rgt. Ftr., affiancate da centinaia di guardie nazionali. Crocco decide di accettare lo scontro e, unendo alle sue forze, circa 160 cavalleggeri comandati da Agostino Sacchitiello, finge in un primo tempo di puntare su Calitri, poi inverte la marcia e si posiziona a Toppacivita (nome che non compare certo nelle carte militari piemontesi), ove fa approntare un campo trincerato.
Insieme a Crocco, forte di 1000 fanti e 200 cavalieri, ad aspettare l’assalto dei luridi briganti piemontesi, sono i suoi luogotenenti i cui nomi passeranno alla storia quando il Sud tornerà ad essere libero e indipendente:
- Giuseppe Nicola Summa, di Avigliano;
- Giuseppe Schiavone, di S.Agata di Puglia;
- Agostino Sacchitiello, dall’Irpinia;
- Giovanni Coppa, di S. Fele;
- Pasquale Cavalcante, di Corleto Perticara;
- Teodoro Gioseffi, di Barile:
- Giuseppe Caruso, di Atella, ed altri.
Il 14 agosto, alle ore 04.00, comincia la battaglia che si concluderà solo alle 17,30 del pomeriggio. Crocco respinge tre attacchi piemontesi e contrattacca a sua volta mettendo in fuga i nemici. Nicola Summa e Pasquale Cavalcante, che guidano la cavalleria insorgente, provano ad avvolgere il nemico in fuga, ma questi riescono a salvarsi. I piemontesi uccisi in combattimento sono duecento. Vengono fatti 50 prigionieri, compreso un capitano, che in seguito vengono scambiati con 12 insorgenti. I piemontesi, ripiegati su Rionero, abbandonano enormi quantità di salmerie e munizionamento. Il giorno dopo i partigiani di Crocco festeggiano la vittoria con un memorabile pranzo immolando 1000 polli e 200 pecore. Nei giorni seguenti i piemontesi, i veri briganti, si sfogano con crudeli repressioni. Vengono decimati interi paesi, distrutti i raccolti e abbattuti migliaia di capi di bestiame. Il piú delle volte, per queste vili operazioni, si servono della Legione Ungherese, un corpo di mercenari di crudeltà inaudita. Questi metodi fecero dire a Napoleone III, nonostante fosse complice del Vittorione Emanuele: "Les Bourbons n'ont jamais fait autant ..." (Molfese, pag. 95).
Dopo Toppacivita, Crocco va ad acquartierarsi a Lagopesole, ma il 20 dello stesso mese attacca i presidi di Monteverde e Teora in Alta Irpinia. Il 31 lo troviamo nella pianura che circonda Lucera in Capitanata, dove travolge una compagnia del 62° Rgt. Ftr. e due battaglioni di guardie nazionali.
In settembre, il giorno 22, la compagnia di Caruso subisce forti perdite in uno scontro con alcuni reparti del 39° e 61° Rgt. Ftr. Poi, il primo ottobre, anche la compagnia di Caschetta subisce la perdita di 40 uomini e lo stesso Caschetta viene fucilato a Melfi il giorno dopo.
Nella seconda metà di ottobre Crocco ordina ai suoi luogotenenti di radunare le truppe a Lagopesole, dove attende l’arrivo di un ufficiale legittimista spagnolo, il generale spagnolo José Borjes, inviato dal Comitato Borbonico di Marsiglia. Borjes era sbarcato a Bruzzano il 17 settembre con 12 ufficiali spagnoli, ma il suo arrivo, annunciato dai soliti pentiti, fece accorrere numerose truppe nel tentativo di catturarlo. Il percorso compiuto da Borjes fu molto difficoltoso e molto rischioso, ma intanto egli ha modo di valutare la situazione militare e politica in quelle regioni, comprende che alla sua azione dovrà seguire un solido aiuto esterno di uomini e armi. Nel suo diario riporterà una frase che evidenzierà l’isolamento in cui si trovavano i rivoltosi: "I proprietari della Sila sono antirealisti, perché quando il Re fosse sul trono non potrebbero comandare dispoticamente ai loro vassalli" (Diario A.S.M.E., cartella 1506).
Il 15 ottobre presso Lavello (Cerignola) reparti di lancieri piemontesi uccidono una ventina di contadini solo perché sospetti, ma Borjes, nel frattempo, riesce comunque ad arrivare al bosco di Lagopesole il giorno 19, dove avrebbe potuto incontrarsi con Crocco. L’incontro avviene il giorno 22. Sono due personalità molto diverse, tuttavia Borjes riesce a far accettare a Crocco il suo piano di compiere un atto che provochi una grande risonanza politica: la conquista di Potenza.
Nel primo giorno di novembre 1200 uomini al comando di Borjes e di Crocco, divisi in centurie comandate da ufficiali spagnoli e dai luogotenenti di Crocco si muovono da Lagopesole nella seconda e ben piú pericolosa spedizione contro gli invasori piemontesi.
L’avanzata inizia il 3 novembre con la liberazione di Trivigno, il 5 vengono eliminati i presidi di Calciano e Garaguso, il 6 tocca al grosso centro di Salandra, il 7 e l’8 vengono liberati anche Craco ed Aliano, posizionata sulla sponda destra del torrente Sauro. Nel frattempo 1200, tra piemontesi e guardie nazionali, convergono verso il Raggruppamento di Crocco da Stigliano e da Matera.
I savoiardi, provenienti da Stigliano per riunirsi con le altre truppe provenienti da Matera, vengono attaccati mentre si accingono a guadare il Sauro. 600 piemontesi sono assaliti da 400 Duosiciliani: l’urto è violentissimo. Due battaglioni del 62° Rgt. Ftr vengono travolti dalla cavalleria di Nicola Summa al grido di "viva 'o Re" e le acque del Sauro diventano rosse del sangue dei piemontesi e delle guardie nazionali. La truppa piemontese è letteralmente terrorizzata e ripiega disordinatamente su Stigliano e successivamente proseguono verso S. Mauro Forte, ma su questa strada vengono ancora assaliti e sterminati da un altro drappello di cavalleria duosiciliana proveniente da Gorgoglione.
La disfatta è totale e il numero dei morti piemontesi sembra sia stato 350, tanto che il generale Della Chiesa viene sostituito e deferito ad un consiglio di disciplina. Intanto Borjes e Crocco vengono accolti a Stigliano dalle autorità cittadine con grandi festeggiamenti e con l'esposizione della bandiera delle Due Sicilie in tutta la cittadina. La notizia della brillante vittoria fece sí che altri 300 volontari si arruolassero con Borjes e in molti paesi si incominciò a sperare. Il totale dei patrioti di Crocco e di Borjes raggiunge il numero di 2.180.
Il Raggruppamento Duosiciliano riprende la marcia il giorno 13 e vengono liberate Cirigliano, Gorgoglione, Accettura, Oliveto e Garaguso. Il 14 novembre le truppe duosiciliane vengono accolte da Grassano in festa e il giorno dopo viene liberato S. Chirico. Solo Vaglio, alle porte di Potenza, oppone una dura resistenza per il suo forte presidio e per la sua naturale posizione, ma dopo sette ore di continui attacchi viene conquistato e il presidio piemontese viene decimato.
Il 16 novembre la vallata prospiciente Potenza accoglie le truppe di Borjes e Crocco. Il piano di Borjes sembra avviarsi verso la conclusione progettata. Il presidio piemontese, pur abbastanza consistente, è davvero terrorizzato, temono di ricevere lo stesso trattamento che essi hanno tenuto contro i cittadini dei vari centri della Basilicata. Secondo i piani, e anche in funzione delle esigue truppe duosiciliane, a Potenza dovrebbero verificarsi dei disordini fomentati dal clandestino comitato borbonico, ma anche qui il tradimento incombe. Crocco nelle sue memorie scrive: "Presiede il comitato il sig. …, liberale della sola fascia tricolore, che non avendo potuto arricchire nella rivoluzione, cambiò bandiera e si rifece borbonico. Ma questo camaleonte ancora una volta cambiò colore, avvertí il comandante della piazza, indicò dove erano deposte le armi, e, dopo aver intascato i ducati del Borbone, si vantò di aver salvato la Basilicata" (Memorie, pag. 95).
Il piano di Borjes fallisce, mentre migliaia di soldati affluivano alle spalle dei Duosiciliani. L’attacco frontale senza artiglieria era da escludere, sarebbe stato un suicidio collettivo, e cosí Borjes devía la truppa verso Pietragalla con l’intento di avvolgere Potenza da nord-ovest. A questo punto sorgono contrasti tra Crocco e Borjes: il primo decide di liberare Bella, Balvano e Ricigliano. Poi, dopo aver eliminato il presidio di Pescopagano, si ritira verso i sicuri e imprendibili boschi di Monticchio.
Mentre Crocco si ritira, si scatena la bestiale reazione piemontese sugli indifesi abitanti. A Trivigno i piemontesi addirittura fanno un apposito bando promettendo il perdono ai rivoltosi che si costituiscono, ma i 28 presentatisi vengono tutti fucilati e i cadaveri lasciati insepolti nella piazza del paese come esempio e monito. A Ruvo del Monte, non trovando briganti da combattere, il comandante del 31° battaglione bersaglieri, il maggiore lodigiano Davide Guardi, ammazza numerosi cittadini, anche questi lasciati in piazza insepolti, rubando anche il poco denaro delle casse comunali.
Il 27 Borjes si congeda da Crocco perché intende raggiungere i confini pontifici per presentarsi al Generale Clary. Al termine di un’esaltante marcia, sempre braccato dai piemontesi e dalle manutengole guardie nazionali, raggiunge la Marsica. Il 6 dicembre i bersaglieri prelevano dalle carceri di Potenza un gruppo di detenuti, tra i quali due luogotenenti di Crocco, Vincenzo D’Amato (Stancone) e Luigi Romaniello, e, anziché tradurli a Salerno, li uccidono lungo il tragitto.
L’8 dicembre, Borjes, tradito da un francese che li aveva avvistati, è circondato dai piemontesi nei pressi di Tagliacozzo, nella cascina Mastroddi dove ha cercato riparo. Dopo una sparatoria, vinti dal fumo per il fuoco appiccato dai nemici alla cascina, gli spagnoli sono costretti ad arrendersi, anche perché il comandante piemontese, il maggiore Franchini, promette salva la vita. Borjes, cavallerescamente porge la sua spada all’ufficiale piemontese, che la rifiuta e poi vigliaccamente fucila subito dopo sia Borjes che gli altri Spagnoli catturati, impossessandosi di tutte le monete d’oro trovate loro addosso.

 
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Studenti del Sud ma come vi permettete ?

Post n°2298 pubblicato il 12 Settembre 2013 da luger2
 

Due pesi e due misure, al solito, col Sud. Quando ogni anno vengono pubblicati i voti degli esami di maturità, apriti cielo. Meglio il Sud del Nord. Scrive la stampa settentrionale: come spiegare che a Milano solo un maturando su 381 è valutato meritevole di lode, e a Crotone uno ogni 35? E nessuno che si domandi perché la domanda, visto che nessuna legge impone il contrario. Ma appunto: come si fa a spiegare al Nord che all’improvviso al Sud non sono più tutti brutti, sporchi e cattivi?
 A conferma dello scandalo, del “come si permettono”, si citano puntualmente le prove Invalsi sul rendimento degli studenti, con le quali l’ordine ritorna sotto il cielo: Nord meglio del Sud. E allora si conclude accusando i docenti meridionali di essere di manica più larga. Non aggiungendo che meridionali sono anche buona parte dei docenti che al Nord insegnano e lì sarebbero di manica molto più stretta. Né andando a vedere se queste prove Invalsi siano la bibbia.
 La polemica sarebbe meno furente se quei voti alla maturità non pesassero nei test di accesso alle facoltà universitarie dal numero chiuso. I test di questi giorni, coi ragazzi del Sud appunto considerati favoriti. E con l’orrore di vedere le patrie nordiche università minacciate da una ennesima emigrazione terrona. Come se non ci fossero poi gli esami a dire la verità: e non risulta che gli studenti meridionali al Nord siano poi peggiori dei nativi, anzi, con ciò che gli costa e coi sacrifici che devono fare.
 Ora, che al Sud si chiuda di più un occhio, è possibile. Ma è impossibile che chi è pronto a puntare il dito si preoccupi anche, visto che ci siamo, di quanto la scuola sia più difficile al Sud. Di quanto, ad esempio, al Sud ci siano case con meno libri e città con meno biblioteche. Di quanto i genitori possano aiutare meno. Di quanto, insomma, ci si dovrebbe occupare delle condizioni del Sud sempre e non solo per i presunti favoritismi alla maturità.
 Ma, come canta Pino Daniele, nessuno se ne importa. E a nessuno viene in mente che magari i giovani del Sud, di fronte al loro futuro molto più incerto, si diano da fare sgobbando alla maturità. E che un voto più generoso possa essere un risarcimento inconscio non solo per i discenti ma anche per i docenti.
 Così la questione delle università. A parte che nessuno può tirare la prima pietra, visto che non ce n’è una italiana fra le prime cento migliori del mondo. E che le università meridionali non vanno assolte dai loro peccati, fra nepotismo delle cattedre a familiari e comari, megalomania di sedi distaccate, tsunami di corsi di laurea inutili. Ma se andiamo a vedere certi criteri che le condannano, facciamo qualche scoperta.
 Uno: sono valutate (e finanziate) di più le università nelle quali c’è un maggior apporto economico dei privati. Ovvio che questo favorisca le università al Nord, dove ci sono privati più facoltosi (e 81 delle 89 fondazioni bancarie italiane, che spendono al Nord anche gli utili delle banche settentrionali al Sud). Due: sono valutate (e finanziate) di più le università i cui laureati trovano più facilmente lavoro. Doppia condanna per il Sud, dove il lavoro che non c’è penalizza i ragazzi ma anche le università nelle quali hanno studiato. Ma anche qui ci si limita a constatare con distratto cinismo, senza muovere un dito per cambiare queste condizioni del Sud.
 Due pesi e due misure anche per l’abolizione dell’Imu. Lasciamo stare la consueta guerra civile nazionale se servisse o no, se fosse la pensata più urgente per rimettere in moto il Paese. Ma dal 2014 l’Imu sarà sostituita da una Service tax, con la quale si pagheranno anche i servizi forniti ai cittadini (raccolta rifiuti, illuminazione e gli altri servizi comunali indivisibili che riguardano tutti: esempio, bitumazione delle strade). I sindaci che vorranno aumentarla, potranno farlo. In pratica l’Imu esce dalla porta e rientra dalla finestra (con una differenza: che invece di pagare i proprietari di case, pagheranno di più gli affittuari più numerosi a Sud).
 Ma nessuno potrà gridare all’aumento della pressione fiscale, perché avverrà città per città. Indoviniamo quali? Quelle del Sud, perché avendo cittadini meno ricchi hanno meno gettito fiscale ma non meno servizi da erogare. Anzi di più, perché ci sono più poveri, più sfrattati, più anziani bisognosi, più bambini senza asili, più scuole sfasciate.
 In questo caso non si è alzata però la canea dei voti alla maturità, stavolta tutto bene, chi se ne importa del Sud. Per la verità non si è alzata nemmeno la voce dei politici meridionali, ma non è una novità. Visto il livello di servizi che condannano il Sud, e visto che il Sud se li deve pagare anche di più, verrebbe da dire: il Sud faccia lo sciopero della Service tax, tanto non ci date tanto non vi diamo. Fugace pensiero da rabbia passeggera, al Sud c’è gente seria, mica come quelli della Lega Nord.    
 di Lino Patruno 

da la " Gazzetta del Mezzogiorno "

 
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Un' italia che non c'è!

Post n°2297 pubblicato il 04 Settembre 2013 da luger2
 

Una parte dell’Italia non esiste. Il Meridione non ha infatti strade, autostrade, linee ferroviarie ed aeroporti minimamente paragonabili agli standard europei, non ha un sistema produttivo proporzionale alla sua estensione e popolazione, ma acquista in larga parte i beni dall’industria del Nord. Non ha propri importatori dei beni extranazionali, ma delega anche questa importante funzione ad operatori di altri territori, non ha Banche autonome, né società assicuratrici. Collegandosi alla purtroppo ben nota attualità relativa al disastro verificatosi in Irpinia con la perdita di 38 vite umane, appaiono evidenti le gravi carenze tecniche dell’autostrada, con particolare riferimento all’assoluta inadeguatezza delle barriere. In questo caso il concessionario ha giocato al risparmio, contribuendo al sacrificio di tante vittime innocenti. E fa rabbia pensare che siano in costruzione ben 25 nuove autostrade al centro-nord ed una sola al Sud (il completamento che dura da decenni della SA-RC), mentre lo stesso concessionario realizza tanti utili da permettersi di andare a fare shopping in mezzo mondo (basta visitare il sito della soc. Autostrade per l’Italia (?) o Atlantia per rendersene conto). Lo stato dei fatti ha origine lontane, dall’epoca della cosiddetta unità italiana, quando gli interessi di Piemonte, Lombardia, Liguria ed anche della Toscana sono stati anteposti a tutti gli altri, creando così quella divaricazione che prima non esisteva. Investimenti pubblici tutti orientati in una sola direzione ed una politica economica pensata per favorire la nascita del cosiddetto triangolo industriale a scapito delle altre realtà, attingendo alle riserve del Sud ed alle rimesse degli emigranti, hanno posto le basi per la situazione attuale. Quando si è trattato poi di creare delle infrastrutture per l’intera nazione si è fatto in modo che le imprese impegnate fossero tutte del Nord, sia che si trattasse di ferrovie che di telecomunicazioni. E’ emblematico che la società scelta per dotare la nazione di un sistema telefonico sia stata la SIP (Società Idroelettrica Piemontese , poi Società italiana per l’esercizio telefonico, poi Telecom Italia) di Torino, così come per la TV sia stata scelta l ‘EIAR (poi RAI ) di Torino. E potremmo continuare all’infinito, con le tristemente note vicende di Pietrarsa, di Mongiana, di Bombrini e della Banca Nazionale Sarda (poi Banca d’Italia) e così via. Ecco, così è nato il dualismo che conosciamo,con una parte dell’Italia trattata da colonia e con un’altra che si è così avvantaggiata, sviluppandosi a livelli quasi europei. Ma il danno più grande è stato sicuramente prodotto nelle coscienze dei meridionali, che hanno in larghi strati della popolazione maturato la convinzione di essere inferiori, fannulloni e mediamente più disonesti della restante parte d’Italia. A ciò hanno contribuito sicuramente l’oggettivo dualismo venutosi a creare, ma anche la TV e la stampa. La RAI, pagata anche da noi, si è distinta per un’azione costante di delegittimazione e marginalizzazione di tutta la realtà meridionale, dando eco e visibilità solo agli accadimenti negativi che si verificassero al Sud, mai a quelli positivi. Basta guardare qualunque notiziario o programma televisivo anche di intrattenimento per accorgersi che l’Italia meridionale per la RAI semplicemente non esiste e può essere solo oggetto di biasimo per le vicende negative a cui si da ampio risalto. Pure la stampa contribuisce ampiamente a diffondere nelle coscienze e giustificare quella subalternità del Meridione, basti pensare alle ben note classifiche che Il Sole 24 ore ci propina regolarmente e che ci vedono sempre alle ultime posizioni in tutto. Per inciso, a qualcuno è bastato aggregare i dati in maniera differente, per ottenere risultati sorprendenti. Altra causa fondamentale dell’attuale situazione disastrosa è sicuramente la politica. Basta guardare infatti la composizione dei governi, con particolare riferimento ai primi ministri ed ai ministri dell’economia, per rendersi conto che solo il Nord è rappresentato, con qualcuno dei nostri nel ruolo di comprimario. Non dimentichiamo inoltre che esiste un partito regionale dichiaratamente antimeridionale che ha avuto ed ha un ruolo importantissimo nella politica nazionale e che ha tra l’altro prodotto un aumento a dismisura dei costi della politica e l’aggravio del debito pubblico. In conclusione si ha la piena evidenza di un Sud completamente dimenticato e costretto a livelli da terzo mondo. Per risalire la china occorrerà cominciare ad eleggere politici realmente radicati nei territori, giustamente fieri e ben determinati a rappresentare i nostri interessi ed inoltre a favorire la nascita di una nuova imprenditoria che possa, senza nessun timore reverenziale, cominciare a riequilibrare la bilancia commerciale interregionale, oggi fortemente squilibrata. Quest’ultimo aspetto, che appare molto difficile viste le oggettive maggiori difficoltà operative e la scarsità di capitali, è in realtà l’unica strada percorribile, ben sapendo che occorrerà uno straordinario impegno e grande spirito di sacrificio. Tutto deve essere messo in discussione ed occorre pensare in positivo. Quello che viene realizzato industrialmente al Nord può infatti essere migliorato, reso maggiormente rispondente alle richieste degli utilizzatori, proposto in veste più innovativa. Sarà indispensabile inoltre uno sforzo particolare nel campo dell’aggregazione delle imprese e nella cooperazione, senza il quale non si riuscirà a raggiungere quella massa critica necessaria per poter competere efficacemente.

di Nicola Perrini tratto da: http://www.laltrosud.it
 
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Una dedica riparatrice a una brigantessa di nove anni -

Post n°2296 pubblicato il 04 Settembre 2013 da luger2
 

Non c’è comune in Italia, piccolo o grande che sia, che non celebri le glorie del nostro Risorgimento, a cui va il merito di aver concepito e poi realizzato l’unità della penisola. Migliaia di corsi, viali, piazze portano i nomi di Mazzini, Cavour, Garibaldi, e tramandano la memoria dei reali di casa Savoia, che hanno favorito l’iniziativa e governato l’Italia unita fino a consegnarla nelle mani della Repubblica. Ma la storia a volte nasconde anche realtà scomode, a lungo tenute nascoste, e ogni tanto si squarcia il velo su episodi feroci e brutali, davanti ai quali ci assale un dubbio: il Risorgimento fu davvero una guerra di liberazione o non fu piuttosto una guerra di invasione e di conquista da parte dei Piemontesi? Già alcuni storici concordano nel giudicarlo un evento voluto da pochi e motivato da interessi economici. La fucilazione di Angelina Romano, ad opera dei soldati del regio esercito italiano, rientra tra gli eventi più agghiaccianti.

Castellammare del Golfo, provincia di Trapani, 3 gennaio 1862
I soldati piemontesi erano stati mandati in Sicilia per reprimere il malcontento popolare, generato soprattutto dall’introduzione della leva militare obbligatoria, provvedimento sconosciuto sotto i Borbone, che avrebbe costretto tanti giovani ad allontanarsi dalle famiglie e dalla loro terra per sette lunghi anni. Molti si rifugiarono nelle montagne, altri ebbero il coraggio di contestare, e il 2 gennaio 1862 diedero l’assalto alla sede del commissario di leva. Per reprimere la rivolta arrivarono da Palermo i bersaglieri sotto il comando del generale Quintini, già noto nell’isola per l’efferatezza della sua condotta. I rivoltosi fuggirono un po’ ovunque. I bersaglieri, nelle loro perlustrazioni, si imbatterono a Falconiera in un gruppo di cittadini, tra cui anche il parroco del paese, che si erano rifugiati lì per paura, e il generale Quintini, dopo un sommario interrogatorio, diede ordine di fucilarli. Nel frattempo si udì una bambina piangere, aveva freddo e fame, ed era terrorizzata dallo spettacolo a cui involontariamente aveva dovuto assistere; i soldati, senza tanti scrupoli, la presero di peso e la misero davanti al plotone di esecuzione. La sua fucilazione è registrata nell’archivio storico militare con queste parole: “Castellammare del Golfo, 3 gennaio 1862, Romano Angelina, di anni 9, fucilata, accusata di brigantaggio”.

Longobardi, provincia di Cosenza, 3 agosto 2013

Dopo più di 150 anni, Longobardi, deliziosa cittadina cosentina, illuminata dal sole e bagnata da un mare azzurro, dai colori cangianti, è stato il primo centro italiano a intitolare una strada ad Angelina, martire della nostra unità. L’iniziativa, nata su proposta di Franco Gaudio, Consigliere comunale, nonché gentile autore della foto, ha avuto il patrocinio, oltre che del Comune stesso, della Banca Bruzia e di importanti aziende locali.

Il territorio, conteso da tanti popoli che vi si stabilirono per la fertilità del suolo, per la posizione favorevole ai traffici economici e culturali, e per la natura difensiva delle coste, frastagliate e ricche di alti promontori, conserverà la memoria della piccola vittima di soprusi politici, accanto a tre Madonne e tre sante, fino ad ora uniche rappresentanti femminili nell’odonomastica cittadina su un totale di novanta aree di circolazione.

I longobardesi non sono nuovi a episodi di soprusi: il nome stesso del paese deriva dagli invasori Longobardi che dal nord Europa vi giunsero nel VII secolo; durante il dominio francese, nella lotta tra Borbonici e Napoleonici, dovettero subire saccheggi e angherie, durante le quali furono trucidate centinaia di persone e le loro case date al fuoco. Fu terra di briganti, sulla cui valutazione la critica storica è ancora discorde. Oggi, per riparare a una ingiustizia, dedica una strada ad Angelina, brigantessa di nove anni!

- di Livia Capasso da:http://www.dols.it

 
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Torre del Greco la capitale dell'oro rosso

Post n°2294 pubblicato il 03 Settembre 2013 da luger2
 

Nel sud Italia la pesca del corallo era stata regolamentata con precise norme già dal re Guglielmo che concesse al Monastero di San Pietro e Sebastiano di Napoli 300 ducati annui ricavati da “la Gabella del corallo de la spiaggia de mare” (questa gabella fu tramutata in esazione sulla pesca quando, ai primi del ‘600,il corallo si esaurì).   Carlo D'Angiò emanò il 25 febbraio 1277 delle ordinanze “pro pescatoribus corallorum” nei mari di Terra di Lavoro (prov. di Napoli) e Principato Citra (prov. di Salerno). Carlo concesse particolari privilegi ai marinai provenzali e marsigliesi che esercitavano tale pesca nel regno, riscuotendo sul prodotto pescato una decima che al tempo di re Roberto corrispondeva ad un’oncia per ogni barca. Dette ordinanze furono confermate da Giovanna I d’Angiò. Tale gabella continuò ad essere riscossa anche in epoca aragonese. All’atto di fondazione della certosa di San Giacomo a Capri la regina Giovanna I concesse ai certosini un diritto detto “pecunia maris” in cui, oltre all’esazione della decima parte del pesce pescato, era compresa anche metà dei proventi della gabella sul corallo. Ed i monaci continuarono a riscuotere fino al 1500, quando i banchi si esaurirono, malgrado le proteste dei corallari che ricorsero al regio fisco. Ma i certosini nel ‘600 continuarono a reclamare i loro diritti, ottenendone conferma fino alla fine del secolo. Il corallo si pescava nell’isola di Ponza e lungo le coste del Cilento, in particolare a Palinuro, ed in Calabria. In Calabria nel ‘400 si dirigevano i pescatori di Praiano (SA) e di Trapani. In epoca spagnola i genovesi ed altri “forestieri” che pescavano corallo nel mar grande di Taranto, dovevano pagare particolari diritti doganali. Ma il corallo cominciava a scarseggiare ed i pescatori dovettero dirigersi in Sardegna e Corsica. Documenti del XIII secolo attestano la produzione di corallo lavorato proveniente da Genova ed inviato ai mercati di Costantinopoli dove c’era una estesa richiesta. Anche i mercanti amalfitani commerciavano l’oro rosso con i levantini e nel secolo successivo possedevano case e botteghe nell’Impero d’Oriente. Napoli fu meta dell’ ambasciatore Raban Bar Sauma, turco nestoriano, nato in Cina e designato dal Khan dei Mongoli dell’Iran a guidare un’ambasceria in Europa in cerca di alleanze. Nel suo diario di viaggio Sauma parla con ammirazione di Napoli ove regnava Irrid Charladou (Carlo II). Il risultato dell’ambasceria fu la nomina del salernitano padre francescano Giovanni di Montecorvino ad arcivescovo di Pechino. Le lettere spedite in Italia da padre Giovanni parlano della presenza di mercanti italiani, soprattutto genovesi e veneziani, in Persia e Medio Oriente, e scambi commerciali di corallo, nel Turkestan, nell’Uzbekistan. Ma è Torre del Greco che viene considerata la città del corallo, poiché i suoi marinai praticavano la pesca già dal 1200. Per certo si sa che nel XV secolo partivano dal porto numerose coralline, per cui il feudatario locale, appartenente alla famiglia dei Carafa, cercò di imporre dazi agli armatori delle imbarcazioni. Nel Cinquecento e Seicento, crebbe a tale punto il numero dei pescatori di corallo che partivano da Torre del Greco che si sentì la necessità, nel 1615, per difendersi dai rischi della navigazione –naufragio e rapine dei pirati – di costituire un Monte Pio dei marinai, cioè un istituto di assicurazione al quale i marinai versavano la ventesima parte del guadagno di ogni corallina. In cambio, le famiglie degli associati ricevevano un sussidio in denaro in caso di bisogno, oppure per curarsi dalle malattie o per costituire una dote per le figlie che si sposavano. I mesi buoni per la pesca erano quelli primaverili ed estivi, cioè i marinai partivano in aprile e tornavano ad ottobre. Il corallo pescato veniva venduto sulle piazze di Livorno, Genova, Marsiglia, Trapani e Firenze. I pescatori torresi, attratti dai tesori dei mari africani iniziarono nel 1780 lo sfruttamento dei ricchi banchi corallini presso l’isola di Galita, sulla costa tunisina. Da qui continuarono ad approvvigionarsi spingendosi parecchie miglia ad est.  A fare da intermediari fra i pescatori e gli artigiani erano gli ebrei, che riuscivano a realizzare buoni guadagni.Una volta lavorato, il corallo veniva venduto ad un prezzo del 150 – 300% in più rispetto al prodotto grezzo. Intorno alla pesca del corallo si commettevano diversi soprusi, ruberie, piraterie e speculazioni varie sul prezzo praticato e sulle forme di pagamento dei marinai e della merce. I marinai spesso disertavano le barche per imbarcarsisu altre coralline; le città rivierasche, dove la pesca veniva praticata, pretendevano esosi diritti; spesso scoppiavano liti fra i pescatori e gli abitanti delle località della pesca con lunghi strascichi giudiziari; nelle acque africane, vi era concorrenza con i pescatori genovesi e francesi. Per mettere ordine in tanta confusione e frenare i soprusi, il governo borbonico, nel 1790, riconosciuta l’importanza della pesca del corallo per l’economia del Regno di Napoli, promulgò il “codice corallino”. Si trattava di norme ben precise per gli addetti alla pesca e al commercio del corallo. Fu messo ordine nelle operazioni di “cambio marittimo”. Il  prestito poteva concedersi solo ai marinai a“certa determinata ragione” e per il periodo che andava dalla partenza alritorno dalla pesca. L’interesse variava in base al tempo. In caso di naufragio, il partitario non aveva diritto alla restituzione del prestito. In caso di avaria, o di preda da parte dei pirati del mare, il danno veniva ripartito fra creditori e pescatori. Per redimere le controversie che sorgevano fra gli addetti alla pesca, il codice previde la costituzione di un Magistrato (o Consolato), composto da cinque consoli che stabilivano il tempo più opportuno per la partenza delle barche; fissavano il prezzo dello spago, delle vele e quanto altro occorresse per armare le barche. Tenuto conto della quantità e della qualità del corallo pescato, ogni anno, i consoli dovevano fissare il prezzo di vendita per ciascuna specie. Nessuno poteva “rompere” quel prezzo. Si stabilì anche la ripartizione del pescato fra i membri dell’equipaggio, dopo avere dedotto le spese sostenute ed i diritti pagati. Il codice corallino, citato dai giuristi e studiosi napoletani, secondo Tescione, fu “un esempio unico di codificazione del tempo e come un modello tipico di regolamento della pesca, esaminato al riflesso di tutti gli elementi raccolti è, soprattutto, un documento storico della continuità e della unicità delle consuetudini marinare del Mediterraneo: una testimonianza dallatradizione millenaria della partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa sociale; delle leggi immanenti della cooperazione, della divisione del lavoro e di quelle della obiettivazione del rischio e della mutualità”.

Nonostante il corallo fosse pescato dai torresi da più secoli, solo nei primi annidell’Ottocento fu aperta la prima azienda che lavorava il corallo. Ad iniziare, nel 1805, fu il marsigliese Paolo Bartolomeo Marten, che ottenne da GioacchinoMurat, l’esclusiva,  per un decennio della vendita del corallo lavorato in tutto il regno di Napoli. Prima dellascadenza della privativa, alcuni lavoranti incisori (Veneziani, Mangiarotti,Persichini, Fattori) – si opposero al comportamento di Marten e decisero dimettersi in proprio. A nulla valse il ricorso al Consiglio di Stato inviato daMarten, perché si ritenne la lavorazione del corallo un’arte liberale, che non poteva sottostare a privative. Da quel momento, le piccole aziende artigiane che lavoravano il corallo si moltiplicarono.  Nel 1837, le aziende artigiane di Torre del Greco erano 8, ma negli anni successivi si moltiplicarono, tanto che, nel 1878, si sentì la necessità di costituire una “Scuola per la lavorazione del corallo”.

La bellezza dei gioielli prodotti a Torre del Greco veniva ampiamente riconosciuta alle grandi esposizioni nazionali e internazionali di Firenze, Londra  e Parigi, l’artigianato del corallo aveva saputo conquistare  un posto di grande dignità nella produzione mondiale. Il corallo di Torre del Greco, costituito dal ramo rosso carico ed uniforme del Mediterraneo, veniva venduto ed apprezzato in Europa – principalmente a Londra e a Parigi – ma anche in India, Africa,Austria, Ungheria, Polonia, Russia e Giappone. Negli ultimi anni dell’800, si cominciò ad importare a Torre del Greco anche il corallo pescato in Giappone e a Formosa, che era  di qualità più scadente rispetto a quello del Mediterraneo, ma ugualmente bello, per cui dai primi decenni del Novecento, oltre a migliorarne lo stile, la produzione si diversificò per il colore. Contemporaneamente, crebbe la lavorazione dei cammei, cioè prodotti ricavati dall’impiego delle conchiglie sfruttando la stratificazione dei colori. Alla fine dell’Ottocento, Torre del Greco veniva considerata la “capitale mondiale del corallo”, grazie alla capacità artistica degli artigiani, accompagnata alla capacità di “intraprendenza commerciale”degli abitanti di Torre del Greco, che varcarono i ristretti confini nazionali istituendo filiali all’estero delle loro aziende (es. Calcutta) per la vendita dei prodotti.

Purtroppo il ristagno dell’economia, che si ebbe fra le due guerre, fu particolarmente avvertito dalla pesca e dalla lavorazione del corallo, trattandosi di un bene di lusso. I prodotti dell’artigianato esportati principalmente all’estero, risentirono,della chiusura dei mercati internazionali provocata dalle guerre e dalla politica autarchica.  A poco valse, per ridare fiato alla lavorazione, l’impiego di nuove materie prime come la bachilite, la galalite, la plastica, il vetro colorato, le perle finte, i cristalli sfaccettati, che producevano una bijoutterie a basso costo.   Una caratteristica della commercializzazione del corallo di Torredel Greco è che si effettua, prevalentemente, sui mercati esteri, la vendita locale è molto limitata, in generale, per la particolarità delle materie prime lavorate di valore elevato. La produzione diminuì moltissimo ed oggi sopravvive appena.

 
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Napoli pattumiera? Sì, anche dell’operoso Nord e dei suoi pregiudizi

Post n°2293 pubblicato il 02 Settembre 2013 da luger2
 

Come è facile fare i giudici: l’Eco di Bergamo e i luoghi comuni sul Sud

DI GIULIANA CASO 
Brutti, sporchi, cattivi e pure senza riguardo per la nostra memoria storica. Che siano gli scavi di Pompei o il Colosseo, abbiamo tanta roba ma non ce la meritiamo, riempiamo le nostre città di immondizia e siamo contenti se i sacchetti arrivano al terzo piano. Ecco, siamo noi italo/napoletani per l’acuto occhio del giornalismo del nord, come esemplifica fantasticamente l’autorevole Eco di Bergamo. napolipattumierafoto   Perché, secondo loro, a noi ci piace. Ci piace veder crollare le case degli antichi pompeiani, ci piace dichiarare a imperitura memoria che Pasquale ama Chantal sopra gli affreschi, ci piace produrre monezza e depositarla qua e là, quasi a comporre un’opera di Pistoletto. No, non ci vengono i crampi nello stomaco a vedere i nostri giardini urbani ridotti a veri immondezzai, non sappiamo cosa siano quei pali con tre luci colorate piazzati agli incroci, siamo furbi e preferiamo il sotterfugio al diritto. L’abituale sguardo lungo della stampa d’oltre Tevere preferisce accomodarsi sui rassicuranti luoghi comuni sui napoletani anziché, come dovrebbe, guardare un tantino oltre.
Eppure, non sarebbe poi difficile rendersi conto che sui pur congeniti difetti dei napoletani si è avvitata colpevolmente e con lucida e criminale freddezza tanta, ma tanta di quella mala politica mischiata con la peggiore camorra che ha trasformato una terra fertile in un inferno di veleni, proprio quei veleni che le produttive ed efficienti industrie dell’operoso nord non volevano nel loro giardino; che a pagare lo scotto del loro passato miracolo economico sono stati proprio quei puzzoni scansafatiche dei napoletani, che hanno avuto la disgrazia di vivere in un luogo malamministrato dove avvenivano i peggiori crimini sotto il naso di tutti, e dove ancora oggi i rifiuti speciali bruciano e bruciano appestando l’aria e facendo morire di cancro uomini, donne e bambini.
Bambini, sì, bambini che hanno avuto la sfortuna di nascere e crescere lì, e non nelle incontaminate e brumose terre nordiche, bambini che pagano il prezzo più alto per quello che negli anni ai napoletani e ai campani ê toccato subire, nell’indifferenza della classe dirigente e politica, mentre la camorra che gestiva il traffico dei rifiuti illeciti made in nord si arricchiva sempre più, e la terra moriva.
Ecco, illustri colleghi dell’Eco di Bergamo ma anche degli echi di tutte le pulitissime ed efficienti città settentrionali, fate il vostro lavoro, scavate nelle notizie, parlate con la gente, quella vera, con i napoletani, i casertani, i beneventani, gli avellinesi perbene, e vedrete che dai tempi de “La pelle”, in cui Malaparte raccontava una Napoli selvaggia e pezzente, qualcosa, forse, è, cambiato. Del resto, mi pare che oggi, al Nord, anche voi abbiate smesso da tempo di dipingervi la faccia di blu e ululare alla luna. 

 
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