Tra parentesi
Didascalie della vitaL'auto nuova
Ho deciso di cambiare auto. E non è una decisione facile da prendere. Da quando ho la patente ho cambiato la mia macchina solo una volta, passando da una Small Innocenti ad una Seicento, tra infiniti dubbi e perplessità.
Ma andiamo con ordine, innanzitutto perchè cambiare l'automobile? Be' se non consideriamo il fatto che la mia scatoletta ha già sette anni e da tempo ha problemi all'impianto di raffreddamento per cui giro con una bottiglia d'acqua nel bagagliaio, non si può non notare i considerevoli danni alla carrozzeria. Devo dire che non sono stati tutti dovuti a mia imperizia... solo la maggior parte.
Si inzia di solito con qualche riga che il cretino di turno ti fa vedendo un'auto nuova: che sia una Mercedes o una Seicento c'è sempre un minorato cerebrale che prova gusto nel farti uno sfregio sulla portiera, purtroppo quando non hai un garage e tieni l'auto fuori lo devi mettere in preventivo. Poi però quando te ne accorgi, dopo aver espresso qualche imprecazione lieve, tutto sommato ti fa persino piacere perchè così non avrai più lo scrupolo di stare attenta a non rigare la macchina. In realtà sai benissimo che i colpi e colpetti alla carrozzeria da lì in poi si susseguiranno e avrai sempre l'attenuante che "tanto ormai era già rigata"!
Devo ammettere che dopo il battesimo del cretino ho spesso scaricato la colpa dei miei borli su ignoti, anche l'ultima volta che ho "leggermente sfiorato" un muretto di cemento mentre parcheggiavo ( non è colpa mia se mi è rientrato copriruota anteriore sinistro e cofano... è la Fiat che fa carrozzerie di latta!).
"L'ho parcheggiata e al mio ritorno me la sono trovata così... quei disgraziati... cosa gli costava mettere un bigliettino per l'assicurazione!" ...nessuno ha messo in dubbio.
Quindi sostanzialmente la povera "bestia" ora è proprio mal ridotta e credo sia ora di provvedere alla sua sostituzione. Come sempre prima di fare qualcosa io amo documentarmi e quindi ho prima di tutto provveduto a fornirmi della Bibbia dell'auto, ovvero ho comprato Quattroruote per vedere che cosa mi proponeva il mercato.
Premesso che io cerco un'auto simile a quella che ho già e quindi non penso di passare da una Seicento a una Jaguar X-Type 2.2D Cambio sequenziale ( ...saperlo cos'è un cambio sequenziale...), la scelta si è ben presto ridotta a poche possibilità: Citroen C1, Toyota Aygo, Hyuday I10, Cinquecento o Panda.
Operazione n°2 : andare nelle concessionarie a vedere gli oggetti del desiderio. Dandomi il contegno di quella che non solo vuole cambiare macchina, ma che sa anche che differenza c'è tra diesel e benzina, entrai nella concessionaria della Citroen.
"Buongiorno... vorrei vedere una C1!" dissi con atteggiamento sicuro.
"Ce n'è una lì fuori..." mi sentii rispondere con una certa noia e in due secondi capii che non era una gran giornata per quel signore a cui probabilmente era morto il gatto oppure aveva buttato nella spazzatura un Gratta e vinci da 500.000 euro.
Decisa a non farmi influenzare nella mia scelta da venditori poco o per nulla motivati, me ne andai a vedere la macchina e poi tornai dentro per chiedere un preventivo. Con maggiore vivacità il tipo mi parlò dei consumi, mi fece i conti e mi stampò i prezzi... forse il gatto era solo in coma.
La C1 non è male a dire il vero, anche se ha un contagiri che spunta dal quadro di controllo come un'antenna di una lumaca. Ora direte se mi faccio influenzare nella scelta di una macchina dalla posizione del contagiri?! Eccome! Mi dà fastidio lì!
Continuai comunque il mio giro e andai alla Fiat per vedere la Cinquecento. Questa è ormai l'auto trendy per eccellenza, quella più cool, più fashion... più italiana. La Cinquecento mi ha colpito subito, al di là della moda, è pandorina ( ndr: tondeggiante ) quel che basta per piacermi, ma come tutti ben sanno ha due enormi difetti: il costo esagerato e... i suoi venditori!
In confronto al tizio della Fiat che mi mostrò l'auto, quello della Citroen poteva essere eletto Mr. Simpatia 2008! L'atteggiamento del Fiatman fu subito della serie "Chi sei tu o comune mortale che vorresti comprare una Cinquecento? Ti rendi conto vero di quale immenso favore ti sto facendo?!" .
Infatti appena entrata, dopo il buongiorno, mi disse subito che per una Cinquecento si doveva aspettare cinque o sei mesi.
Alla faccia della crisi dico io! E subito dopo per completare il knock down spara un prezzo superiore ai 13000 euro. La cosa divertente del prezzo della Cinquecento è il costo della vernice: la Fiat dà come standard solo tre colori... orrendi! Credo siano un blu, un verde e un arancione. Tutti gli altri colori si pagano a parte 400 euro! E se osi chiedere di un particolare bianco perlato che avevo visto... 1000 euro in più!
Gli ho riso in faccia perchè pensavo scherzasse, ma i Fiatman non scherzano mai... ai confini della realtà!
Ennesima prova della sua simpatia il Fiatman me la diede nella valutazione della mia vecchia carretta... una Seicento.... del 2001.... si possono scontare 1000 euro. Tanto per essere venali, alla Citroen me la valutavano 2000 euro e qui dove cambio una Fiat con una Fiat solo 1000?! Mah!
Sostanzialmente con queste due prime esperienze mi sono demoralizzata e mi sono fermata lì.
Chissà se qualcuno di voi conosce un bravo meccanico e carrozziere?!
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Non so come mai, sarà l'età che avanza, ma ultimamente nel mio blog non faccio che parlare di acciacchi e di salute! Almeno se le mie traversie mi facessero conoscere qualche bel medico tipo il famoso Dottor Kildare oppure mi andrebbe bene anche uno meno bello ma ironico e intelligente come il Dottor House e invece mi ritrovo nelle grinfie di un Pinco Pallino qualsiasi che magari ha preso la laurea al Cepu.
Allora la storia incominciò ben 39 anni fa, cioè quando sono nata... essendo io nata anemica. E' così, sono anemica da sempre, anzi probabilmente sono nata anemica, è ed è assolutamente inutile che quando vado dal medico a portargli i referti degli esami del sangue mi guardi e mi dica:" Lei è anemica. Ma come mai è anemica?"
Ma accidenti dico io... sei tu il dottore, me lo devi dire tu perchè sono anemica, cosa vuoi che ne sappia io! Fatto sta che da tempo immemorabile la scena si ripete ciclicamente:
"Dottore mi sento stanca"
"Facciamo un po' due esami del sangue" (chissà perchè poi sono sempre due e riempiono almeno 4 provette!)
e poi "Ah è normale che lei sia stanca, è anemica : ha l'emoglobina a 10,6 e la ferritina a 6! Ma come mai è così anemica! (vedi sopra)"
"Ehm... non saprei dottore, e allora che devo fare?"
"Le do del ferro da prendere per bocca"
"No, lo sa dottore che non lo digerisco e ho dei problemi"
"Be' allora deve andare in ospedale a fare delle flebo"
"Ah va bene. Grazie." ...e figuriamoci se mi vado a far bucare in ospedale e rischiare di avere uno choc anafilattico per reazione al ferro o magari mi dà degli effetti collaterali o si sbagliano e mi fanno un'altra medicina o.... una infermiera inciampa e mi buca con l'ago infetto di un altro malato!!
Mh... si sono un poco pessimista e ipocondriaca è vero.
Ma venne il giorno che l'emoglobina scese a 10 e la ferritina a 4 e allora... ahimè...
"Prego si accomodi lì su quella poltrona... allora vediamo gli esami... si ci vuole del ferro.... facendo un rapido calcolo almeno una settimana di flebo... dobbiamo riportare l'emoglobina a 14. "
Risi in faccia al povero dottore.
"Guardi dottore che io l'emoglobina così alta non l'ho mai avuta in vita mia, al massimo sono arrivata a 12 a dir tanto"
"Ma una donna adulta deve avere almeno l'emoglobina a 14!" rispose lui risoluto e punto sulla professionalità.
Uhmmm.... donna adulta...?!
Comunque mi presero contro la mia volontà (io detesto gli ospedali), mi fecero sedere sulla poltrona dei donatori e zacchete... il primo ago bucò il mio braccino bianco e smunto.... be' smunto non proprio.
L'operazione non fu così rapida a dire il vero, anche perchè ci fu una breve dissertazione su quale braccio infilzare.
Ora io dico: ho due braccia due, in uno c'è una vena grande come un'autostrada e nell'altro non si vede nemmeno. Che c'è da discutere?! Comunque alla fine l'autostrada fu imboccata e il ferro procedeva a tutta velocità, anzi era fuori dei limiti mi sa perchè ben presto io mi sentii come una specie di ottundimento, la testa pesante e una sorta di tachicardia.... insomma le mie cellule che di ferro non vedevano l'ombra da almeno cinque anni all'improvviso sono impazzite, praticamente come un alcolizzato all'October Fest!
"Scusi dottore, mi sento la testa un po' strana.... forse c'è qualcosa che non va."
Tra l'altro io ero memore di un'esperienza toccata ad una mia amica che ha subito davvero uno choc anafilattico a causa di una reazione allergica al ferro e un po' di fifetta l'avevo sul serio.
Rallentò la flebo con una smorfia e poi lo sentii parlare di me con l'infermiera definendomi "suggestionabile".
Suggestionabile un corno! La flebo era troppo veloce davvero. Vabbe' che lì in quella sala del reparto trasfusionale ci sono cinque posti-poltrona dove altrettanti tapini, in bella vista l'uno con l'altro con la loro flebo o sacca di sangue attaccata, non possono far altro che tirare ad indovinare chi finirà per primo, nel qual caso però non è che ti danno una coppa come al Gran Premio di Montecarlo!
Il tutto alla fine durò circa due ore e mezza... un'agonia!
E quando alla fine della terapia ti rialzi e te ne vai con il braccio ormai ridotto ad un colabrodo, al primo "Arrivederci" che ti dicono... tocchi ferro!
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E' passato tanto tempo dall'ultima volta che ho scritto in questo blog...
Vorrei avere del tempo per ricominciare a scrivere... a scrivere cose allegre, cose divertenti, cose sciocche e cose serie...
Vorrei avere del tempo per ricominciare a sognare...a sognare una favola, una storia, una persona e un lieto fine...
Vorrei avere del tempo per ricominciare a guardarmi... dentro, fuori e intorno...
Vorrei avere del tempo per poter dimenticare il dolore che ho sentito, le parole che mi sono state dette, la fatica che ho fatto...
Vorrei avere del tempo per giocare.
Vorrei avere del tempo per ragionare.
Vorrei avere del tempo per amare.
Vorrei avere del tempo per ascoltare la musica...
Vorrei avere del tempo per non far niente...
Vorrei avere del tempo per dedicarmi con passione al mio lavoro...
Voglio avere ancora tempo da passare con mio padre. Più tempo possibile.
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Un'esperienza metafisica
Per decidermi a ritornare a scrivere nel blog in effetti ci voleva qualcosa di forte, anzi di fortissimo: un'esperienza metafisica.
Tutto è iniziato un paio di settimane fa, quando costretta da fatti poco simpatici ho mio malgrado dovuto tirar fuori la testa dalla sabbia, salutare i miei amici struzzi che stavano lì vicino, e decidermi a ricoverarmi per fare "un piccolo intervento, cosa da nulla, che va quasi sempre bene e che generalmente non dà conseguenze nè problemi ma anzi forse si sta molto meglio dopo".
Ora chi tra i pochi lettori rimasti mi conosce un pochetto sa che la sottoscritta ci naviga nei forse, ma un "forse" legato ad un intervento chirurgico non mi andava giù.
Eppure sembrava proprio che la cosa avesse da farsi e anche al più presto. Da brava bambina quale sono seguii il consiglio del medico e il giorno stabilito mi recai in clinica per operarmi. Non vi starò ora ad annoiare sul tipo di intervento e su quali pezzi del mio corpicino sono stati mutilati, smembrati, fatti a pezzi... vi basti sapere che ho ancora tutto l'essenziale e per chi se ne preoccupasse dico subito: "Ora sto benone grazie". La cosa che invece mi preme di raccontare è l'esperienza metafisica in sè, qualora qualcuno non l'avesse mai provata...
Arrivai puntuale alle 8 del mattino, come prima cosa mi fecero accomodare in accettazione. Bisogna premettere che l'ingresso in una clinica è un'esperienza che esula completamente dall'ospedale: ti accolgono gentili signorine vestite in blu che ti fanno compilare e firmare moduli, che tu rigorosamente non leggi e solo dopo saprai che servivano a dirti: "Ehi guarda che se ci lasci le penne non è colpa nostra!". Poi ti assegnano il numero di camera e ti regalano addirittura una bella cartellina di plastica blu, con la zip e dentro un block notes, il libretto con le informazioni utili (tipo dov'è il ristorante) e una penna.
Una penna... tu sei lì che pensi che stai per morire sotto i ferri e loro ti regalano una penna... che pensiero carino!
Insomma l'accoglienza è stata degna della migliore nave da crociera, mancavano solo i giubbotti di salvataggio e il buffet di benvenuto.
Già... ero a digiuno dalla sera prima e avrei regalato qualsiasi cosa, anche la famigerata penna, per un caffè ma l'infermiere mi disse: "Ora fa la visita cardiologica e il prelievo di sangue".
Va bene, penso io, incominciamo con i buchi.
E' statisticamente provato che i medici in genere sono persone alquanto arroganti ed insensibili, è vero che ogni tanto ne trovi uno gentile, ma fa presto poi anche questo ad adeguarsi all'andazzo generale. Ovviamente il cardiologo che mi ha visitato non apparteneva alla seconda categoria: aveva la faccia di uno che aveva dormito male, anzi non aveva dormito affatto.
Mi fa l'elettrocardiogramma, mi visita e poi e mi fa la solita sequenza di domande: malattie importanti? diabete in famiglia? malattie cardiache? allergie? Io non capirò mai perchè i medici quando a queest'ultima domanda rispondi "non saprei, non ho mai preso nulla" scrivono direttamente NO sulla cartellina.
Come fai dico io a dire che non sono allergica? Magari sono allergica a qualche farmaco e non lo so, no?!
Quando glielo feci notare mi guardò con compatimento e mi disse: "Ha paura eh?!" . Io, che già da dieci minuti avrei voluto infilargli lo stetoscopio su per il naso (perchè sono una signora) gli risposi sorridendo: "No, non ho paura, è che cerco emozioni forti potevo andare a Gardaland a provare il Time Vojager ma mi era più comodo venire qui! "
Un altro guaio dei dottori è che non hanno senso dell'ironia.
A prelievi ed esame cardiologico fatti mi rivolsi ad un'infermiera chiedendo che si faceva ora e lì mi accorsi della differenza tra la nave da crociera e la clinica: nella prima ti tengono impegnata tutta la giornata, mentre nella seconda mi dissero che dovevo solo aspettare che mi venissero a prendere per portarmi in sala operatoria.
Solo aspettare? E quanto tempo?? ...Quattro ora circa.
Quattro ora circa.... significava che sarei stata operata all'una se andava bene. Fino all'una in una squallida cameretta. Niente partita di minigolf, nè Karaoke, nè buffet di mezza mattina... si decisamente non ero su una nave da crociera.
"Stia tranquilla e si rilassi... guardi la tv". Guardare la tv alle nove del mattino? Mi volevano dare il colpo di grazia?!
Furono le quattro ora più lunghe della mia vita. E non vi dico altro.
Verso le 12 e 30 il panico, che mi stava tenendo compagnia già da un bel po', prese il sopravvento e, senza accorgermene, mi ritrovai con la maniglia del trolley in mano pronta per imboccare la porta.
"Buongiorno signora... ma dove sta andando?". Beccata.
"Salve.... no.... be'... io ecco... oh è dalle otto che sono qui!"
"Lo so, dovevamo aspetttare il risultato del prelievo. Tutto a posto. Io sono l'anestesista. "
"Ed io sono..... terrorizzata."
"E perchè? Di cosa ha paura?"
"Dell'anestesia principalmente. Non mi sveglierò più."
"Ma guardi signora che è la paura di tutti... stia tranquilla l'anestesia è un'esperienza metafisica, la cosa più simile alla morte perchè c'è la totale perdita di coscienza, e quindi è normale che tutti ne abbiamo paura".
Devo capire ancora oggi se quelle parole mi agitarono ancora di più o se mi tranquillizzarono, certo è però che dire ad uno che ha una fifa matta di morire che l'anestesia è la cosa più simile alla morte forse non è esattamente una grande idea.... ma non so come funzionò ed io mi misi camiciotto e cuffiettina per entrare in sala (come dicono loro).
In fondo pensai è come andare dall'estetista... forse.
Nella cosiddetta sala c'era un via vai tremendo, una confusione tale che mi chiesi subito come avrebbero fatto a trovare il bisturi in quel casino. Vagamente vidi da lontano il mio chirurgo che mi urlò: "Ehilà come va?"
"Bene, bene, non vedo più nulla... mi hanno tolto gli occhiali".
"Anch'io sono senza occhiali e non vedo niente" rispose.
"Ehm... no scusi ma lei è meglio che se li rimetta!"
Risata. Che c'avrà avuto poi da ridere.
La preparazione preoperatoria essenzialmente si articola in tre fasi:
Prima fase: l'anestesista prova a prendere una vena e la sbaglia.
Nei casi sfigati a questo primo momento segue una fase uno-bis che consiste nel cercare per 3-4 minuti di fermare l'emorragia di sangue che scorre a fiotti lungo il tuo braccio, attraverso due nerboruti infermieri che si accaniscono sul tuo arto per fermarlo.
Non potevo non provare la uno-bis... già che c'ero!
Seconda fase: ti legano. Si, proprio così... in sala operatoria ti legano e non dipende dalle abitudini sadomasochiste dei medici, ma sembra proprio che sia di protocollo.
Terza fase: l'anestesista sbaglia la seconda vena perchè mette l'ago storto che da lì a quattro cinque ore ti farà venire una flebite, ma sul momento non se ne accorge nessuno, l'ago c'è e siamo a posto... può partire la festa!
"Signora sente un po' di stordimento?"
"No dottore sono sveglia"
Due minuti dopo.
"Ed ora si sente stordita?"
"No dottore sono sveglia davvero"
"Ma come? Me lo può giurare?"
Allora, a parte che giurare non sta bene, ma dico io dov'è finito il vecchio conto alla rovescia ...dieci ... nove ...otto....andata.
"Glielo giuro dottore" (ma non s'arrabbi pensavo)
Credo che giurandoglielo l'abbia punto sull'orgoglio vista la dose da cavalli che mi ha dato successivamente. Mi sono addormentata in un sonno così lungo e profondo che in confronto la Bella Addormentata era una che soffriva d'insonnia.
E l'esperienza metafisica? Il tunnel di luce? Gli ufo? I misteri delle piramidi?.... Boh! Non ricordo nulla se non il viso di mia madre che mi chiamava e una allegra fase lacrimogena al risveglio del tipo: "Sono viva...sono viva....!! ".
Be' d'accordo forse ho esagerato ma un'esperienza metafisica mica capita tutti i giorni... per fortuna!
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Un amore a quattro zampe Appena l’ho visto ho capito che eravamo fatti l’uno per l’altra.
Al primo sguardo, al primo contatto, al primo…miao.
Ci sono tre categorie di gatti secondo me: i gatti da salotto, che corredati da pedigree kilometrici hanno un destino fortunato, fatto di pappe di lusso e concorsi di bellezza; i gatti da cuccia, allevati in casa o in giardino in modo più spartano, sono i tipici gatti di famiglia che ti rubano la bistecca lasciata sul tavolo della cucina e si fanno le unghie sulla poltrona buona; ed infine ci sono i gatti da cassonetto. Questi sono gatti che di solito hanno un destino segnato, perché appena nati vincono una vacanza gratuita e senza ritorno in una delle discariche di zona, chiusi in un bel sacchetto nero o in una scatola di cartone.
Guarda caso a me è capitato un incontro con un gatto del terzo tipo!
Era una notte buia e tempestosa… be’ non esageriamo, forse erano solo le otto di sera, quando mi accingevo a fare un’operazione utilissima ma sgradita ai più: andare a buttare la spazzatura. Mentre mi accingo ad aprire il primo deposito, che di norma è strapieno mentre gli altri tre o quattro sono di solito semivuoti (…e qui ci sarebbe da aprire un dibattito sul perché tutti buttano i sacchetti dell’immondizia nel primo bidone, comprimendolo e facendolo strabordare, piuttosto che indirizzarsi verso gli altri… ma questa è un’altra storia), odo un flebile suono, proveniente da una scatoletta di cartone lasciata lì fuori. Mi fermo, mi metto in ascolto e distinguo un più netto "miao".
Ci voleva poco intuito a capire che dentro la scatola c’era un gatto, magari si trattava di indovinare quanto potesse essere grosso il felino, o meglio quanto potesse essere piccolo!
Era davvero piccolo infatti, non avrà avuto più di dieci giorni di vita. Con gli occhi semichiusi e la bocca spalancata mi osservò per una frazione di secondo e incominciò a miagolare incessantemente.
Chiamatelo "imprinting" o in qualsiasi altro modo, ma in quel momento ho capito di essere tra le finaliste del concorso "Mamma gatta 2006" !
Allevare un gattino di dieci giorni senza la mamma vi garantisco che è un’impresa. Prende il biberon ogni tre ore, fa i bisognini solo se stimolato, miagola, vomita, ha le pulci…insomma ti scombussola la vita, esattamente come un neonato umano.
Ora la mamme umane insorgeranno: certamente un bimbo è ancora molto più impegnativo, ma tenete conto che io non avevo nessun allenamento e quindi ho rischiato davvero di cadere in depressione …ehm…"post-partum".
Per fortuna il felino cresceva in fretta e nel giro di un mesetto, dopo una ventina di visite dal veterinario durante una delle quali scoprii che in realtà il mio leone era una leonessa, poteva dirsi fuori pericolo.
Vaccino e svezzamento. Era ora di mangiare… le pappe da gattino.
Ho scoperto che c’è un business incredibile sul cibo per animali. Di solito le persone che non hanno amici a quattro zampe in casa conoscono quelle tre o quattro marche che notano al supermercato, di cui si vede la pubblicità in giro. Invece no, c’è una miriade di prodotti e di marche specializzate.
Bustine, scatolette, croccantini, bocconcini, stick…per gatti giovani, adulti, senior, gatte in gravidanza…gatti che stanno in casa, all’aperto….prodotti olistici (…non chiedetemelo, non l’ho ancora capito), BIO, Cruelty Free, OGM free…
Non parliamo di gusti e sapori! C’è davvero di tutto: dal tonno e gamberetti, al formaggio olandese. Ci sono marche che hanno almeno quaranta gusti diversi di scatolette per gatti.
Ma la cosa che mi ha lasciata più a bocca aperta è stato trovare due scatolette, della stessa ditta, rispettivamente al "Tonno del Pacifico" e al "Tonno dell’Atlantico"!
Ora, sono passati quattro mesi da quel giorno in cui mi sono portata a casa quel residuo di cassonetto e le voglio un bene dell’anima, mi rallegra le giornate mentre mi distrugge la casa e credo di averla viziata come pochi altri felini su questo pianeta, ma….ma se c’è qualcuno qui che mi sa spiegare che differenza possa esserci per un gatto tra il tonno dell’Atlantico e quello del Pacifico e soprattutto mi sappia dare una motivazione seria per cui io debba comprare uno piuttosto che l’altro….che mi scriva.
Lo prego con tutto il cuore di scrivermi rispondendo a queste mie domande, perché sinceramente non sono riuscita a sentirmi una "mamma" degenere quando ho cambiato marca!
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A volte ritorna… A volte ritorna l’ispirazione, la voglia di scrivere. Non sai bene come mai se n’era andata. Non le avevi fatto nulla, ma un giorno aveva preso armi e bagagli e via, sbattendo la porta.
Tu eri rimasta lì impietrita a logorarti, chiedendoti il perché e il percome, domandandoti dove avevi sbagliato e soprattutto chiedendoti se mai sarebbe ritornata.
Ma si sarebbe ritornata, perché in fondo non le avevi mai fatto mancare nulla: le penne migliori per scrivere, i lettori più attenti nel leggere, le avevi persino regalato un blog, che aveva dato eco al suo egocentrismo….
Però ora se n’era andata e i giorni passavano inesorabilmente e lentamente, senza che lei ti svegliasse al mattino con una di quelle strane idee che spesso ti facevano sorridere: "Ma dai…come potrei mai scrivere una cosa simile?!" .
"Devi scriverla!" ti diceva. E tu ti convincevi che aveva ragione e accendevi il computer. Erano passati i mesi e di lei nessuna traccia. Nemmeno due righe, come si è soliti fare tanto per dare notizie…niente, il silenzio, il vuoto.
Ma come spesso accade quando si sono ormai abbandonate le speranze, un giorno ricomparve.
Mesta, un po’ scalcinata me la ritrovai lì dove l’avevo lasciata l’ultima volta.
"Che ci fai qui?"
"Sono tornata"
"Lo vedo…e allora?!"
"Voglio scrivere"
Io risi sardonicamente, tanto per darmi un contegno.
"Che vuoi tu?! Credi che ora io abbia ancora il tempo da dedicare a te?! Scrivere?! Ma figuriamoci…io in questi mesi ho riposto la penna, ho perso i miei lettori ed ora tu torni e mi dici che sei qui perché vuoi scrivere?! E scrivere di cosa poi…povera illusa!".
"Non so di cosa, ma non ha importanza non l’ha mai avuta, ma so che voglio scrivere, ho bisogno di scrivere ancora e solo tu mi puoi aiutare".
Forte del vantaggio che mi aveva rivelato, risposi: " E tu credi sia facile ritornare qui dopo tre mesi e rimettersi a scrivere?! Chi mai ci leggerà di nuovo? E poi non ne ho più voglia!".
Ebbe a quelle parole un momento di ribellione.
"Eh no eh! Puoi dirmi tutto ma non che non ne hai più voglia! So benissimo che ti sono mancata e che mi hai cercata, aspettata, pensata. Tu hai tanta voglia di scrivere quanta ne ho io, solo che non vuoi farlo per dispetto…però ne hai voglia… e tanta".
Forse aveva ragione. Così accesi il computer.
Tra parentesi ne avevo voglia…e tanta.
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Esaminando Ieri sera al telegiornale hanno trasmesso il solito servizio sugli esami di Stato: il termine delle prove scritte, le statistiche, i commenti dei ragazzi… tutto come da copione. Credo che a molti adulti in questi giorni torni in mente la propria "notte prima degli esami".
Quando ho fatto io l’esame di Stato si chiamava ancora con l’altisonante nome di Maturità. Preferivo quel termine, perché innanzitutto ti riempiva la bocca "MATURITA’" e poi dava proprio l’impressione che fosse un passaggio obbligato per crescere, per diventare grandi ed entrare a pieno diritto nel mondo degli adulti, insomma tra quelli che fanno colazione al bar e non prendono il caffellatte coi biscotti a casa, quelli che guidano la macchina e non il motorino, quelli che se sbagliano qualcosa è perché le circostanze non erano favorevoli…forse.
Ogni generazione sostiene che la sua Maturità "sì che era una cosa seria", sottintendendo che tutte le altre forme successive d’esame sono state solo delle banalità. Questo era quanto mi incominciò a ripetere mia madre a ottobre del mio V° anno di liceo, subdolamente insinuando che quindi avrei dovuto superare benissimo e senza drammi quella "bagatella" che mi aspettava a giugno.
Ma la Maturità dei miei tempi era una cosa seria.
Innanzitutto c’era una Commissione completamente esterna, ad esclusione di un membro interno scelto dal Consiglio di classe, poi si veniva interrogati in due materie di cui la prima era scelta del Candidato e la seconda dai professori in un ventaglio di altre tre.
Praticamente il Membro interno doveva essere un po’ l’avvocato difensore dell’alunno, colui o colei che con le unghie e con i denti avrebbe tirato fuori quel povero cristo da quell’inferno, insomma noi in Liguria diciamo un professore con la faccia di "tolla" che fosse in grado di mentire, spergiurare, barare, arrampicarsi sugli specchi per i suoi alunni.
Nel caso della mia classe non fu esattamente così. Ricordo che il membro interno assegnatoci fu una simpatica professoressa di storia e filosofia, modello Mary Poppins, che a tratti soffriva di amnesie sui nostri nomi e qualche volta diciamo confondeva anche i nostri voti, ma giusto per movimentare la monotonia della vita scolastica.
Sorridente e spensierata, non si preoccupò di darci una dritta né per il tema d’italiano né per il compito di matematica… ma che cosa volete che ne sappia una filosofa di algebra e trigonometria. Comunque pensammo subito che ci sarebbe stata utile se il Ministero tra le quattro materie scelte per l’orale avesse inserito storia o filosofia: uscirono quell’anno scienze e fisica!
Il mio liceo era un’istituzione, una scuola seria, insomma una di quelle dove i professori cominciano a terrorizzarti da settembre del terzo anno per l’esame di maturità, quindi non si poteva certo arrivare tranquilli a quell’appuntamento e se niente niente uno riusciva a mantenere un certo equilibrio psicofisico fino a maggio, gli ultimi giorni lì dentro avrebbero fatto venire un herpes da stress persino a Giobbe.
Nell’ultimo mese ricordo che le notizie più convulse si accavallavano: sui professori esterni che avrebbero dovuto venire a giudicarci, sulle materie che avrebbero richiesto in orale ad ognuno di noi, sulle prove scritte ministeriali. Si organizzavano mega-ripassi pomeridiani, serali e talvolta notturni, individuali o di gruppo; si cercavano alleanze per eventuali scopiazzature ed informazioni; si setacciavano le librerie in cerca di bignami e sunti ed infine si progettavano astuti nascondigli per bigliettini e affini.
La guerra era cominciata. Ricordo che tutto sommato il giorno prima degli esami fui fino a mezzogiorno abbastanza calma e serena; mentre nel pomeriggio stavo accuratamente leggendomi quei due-trecento temi fatti su quei tre-quattrocento argomenti che avrebbero potuto uscire, sentii mia madre che mi chiamava perché alla porta c’era un mio compagno di classe. Pensai che il tipo fosse venuto per stringere una delle suddette alleanze o magari per qualche informazione dell’ultimo minuto, invece notai subito che non aveva intenzione di parlar di scuola e che stava tergiversando sul motivo della sua visita.
Cercando di stringere la conversazione, scoprii che il tizio era venuto praticamente per dichiararsi alla sottoscritta, con tanto di regalino affettuoso, ma sul momento la cosa mi sembrò talmente assurda e inconcepibile, che la cosa più gentile che gli riuscii a dire prima di spingerlo fuori dalla porta fu: "Ma lo sai che domani c’è l’esame di Maturità?!"
Ora, premesso che oggi a distanza di quasi vent’anni mi dispiace ancora per quel poveraccio, mi chiedo come si può essere così idioti da dichiararsi ad una ragazza proprio il giorno prima dell’esame! Statisticamente quante possibilità di successo poteva avere un simile tentativo?! Nessuna!
Ero brava nei temi d’italiano e svolsi un lavoro decente alla Maturità, forse caddi nella banalità e nella retorica ma tutto sommato era quello che volevano. D’altronde l’esame era ed è un terno al lotto, nessuno può sapere che passa per la mente di coloro che scelgono i titoli delle prove.
Se potessi esprimere un desiderio ( be’ se ne avessi un bel po’ da esprimere diciamo…) vorrei per una volta vedere la faccia di uno di quelli che scelgono le prove dell’esame di Stato… solo uno! Io non so come ve li immaginate voi, alcuni dicono che sono professoroni topi da biblioteca (…per questo riescono a proporre titoli così astrusi), altri invece pensano a psico-socio-pedagogisti esperti dei traumi e delle ansie giovanili (…per questo riescono a proporre titoli così ansiogeni), io ho una mia teoria invece: secondo me chi progetta la prima prova di italiano, dai tempi dei tempi, è una mente geniale e scientifica che adotta un metodo infallibile per la scelta dell’argomento, una sorta di sudoku dell’esame, che chiamerei "Metodo fiori-frutta-qualità-panorama di città".
Lo riconoscete? Chi non ci ha giocato da bambini! Si tracciano tre, quattro o più colonnine poi si estrae la letterina e….in un minuto bisogna scrivere la prima parola che ti viene in mente che inizi con quella lettera.
Stessa cosa fa il team dei Cervelloni del Ministero: nella prima colonnina mettono gli autori della letteratura, nella seconda l’argomento storico, nella terza quello scientifico e così via…
Tutti pronti? Letteraaaaa….F !…Fenoglio, Fascismo, Fecondazione assistita….fatto!
D’altronde nella vita bisogna avere metodo!
La seconda prova che mi toccò fu matematica. Non ero Einstein, ma me la cavicchiavo benino di solito, tuttavia quando vidi il testo pensai che avrei avuto dei seri problemi… e li ebbi. Dagli sguardi allucinati dei miei compagni capii che non era il caso di mettere in atto la politica delle alleanze ma era meglio combattere da soli la propria battaglia e così feci.
Fui fatta prigioniera di un sei politico ma sopravvissi…. mica bisogna vincerle tutte le battaglie per vincere una guerra , no?!
L’orale si avvicinava e, nonostante cercassi di contenere l’ansia, ad ogni angolo di strada, ad ogni bancone di negozio incontravo persone "gentili" disposte a darmi consigli.
Credo di aver imparato tutto in quei giorni sulle tisane rilassanti e sui cibi iperenergetici!
Ma il mio principale problema non era né l’ansia né lo studio…l’ansia c’era da praticamente sempre, essendo io una timida ed ansiosa di natura, lo studio anche quello c’era perché ero un’alunna abbastanza affidabile e diligente… il vero problema che attanagliava me e tante altre mie amiche era come vestirsi il giorno degli orali!
Anche su questo argomento i professori ci avevano fatto il lavaggio del cervello sin da ottobre: "Vestitevi bene, ordinatamente, non siate vistosi ma non siate nemmeno sciatti, proponetevi con eleganza ma senza eccedere, siate classici e sobri ma giovanili, ecc." Come si poteva non farsi prendere dall’ansia?!
Dopo varie consultazioni tra mamme, nonne, zie, cugine più grandi, medici di famiglia, ecc. optai per il seguente look: camicetta rosa con fantasia di stelline azzurre, modello hollywood pigiama party, gonnellona blu a mezzo polpaccio, modello Suore della neve, e scarpe rigorosamente basse, modello bibliotecaria cozza.
Mi vergogno ancora oggi di come mi sono presentata agli orali della mia Maturità e spesso mi chiedo se quel 52/60 che mi hanno dato sia stato per la mia accurata preparazione, la mia diligenza, il mio costante impegno in cinque anni di scuola oppure se perché qualcuno dei Commissari guardandomi così conciata ha pensato a voce alta: "…E diamoglielo in fondo non avrà molto altro nella vita!"
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Stupida mente Questa mia riflessione vorrebbe essere una continuazione di ciò che ho scritto in precedenza, ma in effetti pensandoci bene questo post può anche essere letto e interpretato a prescindere.
Quante cose stupide facciamo ogni giorno? Tante. Poche cose nella vita sono certe, ma questa è una di quelle.
Solo oggi io ne ho fatte almeno tre.
Stamattina ho avuto una discussione col mio datore di lavoro e mi sono arrabbiata molto; non ho fatto altro che ripensarci per tutto il pomeriggio, guastandomi completamente la giornata. Parlare con lui in un momento non adatto per chiedergli qualcosa è stata una cosa stupida e l’ho fatta sapendo di farla, questo è il bello.
La seconda cosa stupida l’ho fatta oggi pomeriggio. Mi sono comprata per un’occasione speciale, spendendo un bel po’ di euro, dei pantaloni marroni esattamente identici a quelli che poteva prestarmi mia madre gratis.
La terza cosa stupida infine l’ho fatta stasera, ma non la racconterò perchè in fondo non sono poi così certa che fosse tanto stupida.
Qual è il contrario della stupidità? L’intelligenza?! E come si misura veramente l’intelligenza di una persona? Non di certo con quegli stupidi test sul Q.I. alla Sharon Stone ( …che per chi non lo sapesse sembra avere un Q.I. altissimo). Difficile a definirsi la stupidità quanto l’intelligenza, quest’ultima sembrerebbe determinata dalla capacità di comprendere, di rielaborare, di interpretare la realtà… ma non sono sicura che sia così semplice essere intelligenti. Forse ci vuole anche una buona dose di ironia, una manciata di sogni, un po’ di intuito e tanta fantasia… forse.
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Complicata mente Da quando ero piccola ho sempre avuto la tendenza a complicarmi la vita ed ancora oggi non ci sono limiti spazio–temporali che frenano la mia tendenza a complicare le cose apparentemente semplici. Ho notato però nel corso degli anni che è un atteggiamento diffuso, soprattutto nell’universo femminile: insomma le donne amano i sistemi complessi e hanno menti complesse.
Una donna che va a comprare un regalo per qualcuno ha una vera e propria crisi esistenziale se il nastrino del pacchetto non è in tono con la carta che lo avvolge, questo quando un uomo, alla richiesta di una gentile commessa che gli chiede se deve incartarglielo, risponde:" Ma no, va bene così, mi dia solo un sacchetto per mettercelo dentro".
Se un uomo è capace di farsi trovare dalla suocera stravaccato sul divano in canottiera e mutande, una donna può alzarsi alle 5 per farsi la messa in piega sapendo che avrà ospiti in mattinata… e questo attenzione non è perfezionismo secondo me, è semplicemente la tendenza a complicarsi la vita.
Non parliamo delle relazioni umane. Una donna non è mai soddisfatta se non ha un "perché", una spiegazione, a ciò che gli altri fanno in special modo a ciò che gli uomini le fanno, senza contare che il più delle volte l’uomo in questione dall’alto della sua beatitudine di fronte alla spasmodica e ansiogena richiesta: "Perché mi ha fatto questo? Perché ti sei comportato così? Perché non hai pensato a che cosa potevo pensare io? Perché?" risponde con un semplice, istintivo, sincero (forse) :"Non lo so".
Da madre a figlia, da sistema complesso a sistema complesso, generazione dopo generazione le donne amano complicarsi la vita, scegliendo sempre la relazione più stramba e difficile, ponendosi domande a cui non riusciranno mai a dare risposta, martirizzandosi in tentativi di omologazione a modelli irragiungibili, nell’estrema quanto vana speranza di essere qualche volta soddisfatte di se stesse.
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Il leone e la gazzella
La gazzella alzò il capo, si girò e lo guardò incuriosita, poi tornò a bere. Il re della foresta non poteva crederci: non si era spaventata?! Cos’era sorda e cieca?!
"Ehi tu" disse il leone "Non mi hai sentito?!"
"Certo che ti ho sentito" rispose la gazzella.
"Io sono un leone!" non poteva credere che la gazzella non fosse scappata.
"E allora?!" rispose tranquilla lei.
"Come allora?…non ti faccio paura?! Non vuoi provare a scappare?! Lo sai che ti farò del male"
"Vuoi farmi del male?!E perché? "
"E’ ovvio, io ti devo mangiare".
La gazzella lo guardò nuovamente con grandi occhi curiosi e si avvicinò a lui. "Hai fame leone?"
Perplesso lui le rispose "Be’…veramente ora no, ma…". Mentre lo diceva non poteva credere a quello che vedeva: lei si stava avvicinando sempre di più e gli girava intorno, osservandolo con attenzione.
Doveva essere una pazza suicida quella gazzella…quante ne aveva rincorso, quante ne aveva sbranato! Certo, a volte gli era anche dispiaciuto ma…era il suo istinto, non poteva cambiare la natura.
Ed ora c’era quella piccola cosa che non aveva paura di lui, anzi sembrava piacerle…in effetti osservandola bene anche a lui piaceva abbastanza, aveva uno sguardo dolce e vivace, sembrava diversa da tutte le altre.
"Che brutte ferite hai sul dorso leone" disse la gazzella inclinando un po’ il muso.
"Si, sono vecchie cicatrici…molto profonde, me le sono fatte cacciando"
"Ti fanno male?"
"A volte, ancora un pochino…" rispose triste il leone.
Ma poi si scosse "Io sono un leone comunque, non sento il dolore!"
"Ah no?! Peccato…" rispose la gazzella.
"Come peccato?"
"Come puoi conoscere la felicità se non conosci il dolore leone?!".
Era sempre più perplesso di fronte a quello strano animale, lo confondeva, decise quindi di tagliar corto:"Adesso basta gazzella, tu sei la mia preda quindi…". La gazzella sorrise e si accucciò sull’erba.
"Che cosa vuoi fare?" disse stupito il leone.
"Parliamo" rispose lei guardandolo negli occhi.
"Parliamo?!" incredulo disse" Ma che dici?! Un leone non parla con una gazzella!" .
"E chi lo dice?! Secondo me hai tante cose da dirmi stanco leone".
Il piccolo animale continuava a fissarlo serenamente negli occhi e gli trasmetteva una composta dolcezza, così il leone senza accorgersene si sedette e nella frescura incominciarono a parlare.
Parlarono del sole e della luna, del vento e dell’erba, risero delle banalità e condivisero i propri sbagli.
Il sole stava per tramontare e da lì a poco sarebbe giunta la sera.
La gazzella si alzò "Devo andare". Il leone annuì. "Va bene".
Mentre lei si allontanava il leone pensava a quanto era stato strano quell’incontro e quanto era stata tranquilla quella giornata. Ad un tratto la gazzella si voltò e gli gridò:"Se mi rincontrerai, mi vorrai ancora mangiare leone?"
Lui le rispose:" Non so…forse non avrò fame".
La gazzella sorrise, il leone fiero ruggì sparendo nella vegetazione. Era tardi, il suo cucciolo probabilmente lo stava aspettando.
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Il sole era al tramonto e lui beveva lentamente, increspando l’acqua color delle nuvole, mentre il vento leggero odorava di erba. Alle sue spalle un fruscio lo fece sobbalzare e il leone si girò disturbato, ruggendo con forza verso i cespugli, caso mai ci fosse un nemico da spaventare. La riconobbe appena la guardò negli occhi, ma veniva avanti zoppicando e dal fianco destro gocciolava del sangue da una ferita. "Che ti è successo?" disse il leone. "Un cacciatore…mi ha ferita, ho corso tanto per scappare", rispose affannata la gazzella.
Il leone la osservò con attenzione e la trovò affranta.
"Sei stata veloce però, non ti ha preso"
"Non voleva prendermi, voleva solo ferirmi…ma ora non ho più fiato leone, non potrò più parlare del sole e della luna, del vento e dell’erba".
Il leone scosse la testa" Sei solo stanca….riposati ora, la ferita guarirà". Il piccolo animale rispose triste inclinando il capo.
Andandole incontro, il leone appoggiò il muso sulle sue spalle, spingendola ad accucciarsi sull’erba.
Quel contatto fresco e umido le dava sollievo, guardò negli occhi il leone e gli disse "Ora potresti mangiarmi leone…"; lui osservò di nuovo la ferita che continuava a sanguinare e le rispose " Non ho fame…sei stanca, riposati". Il dolore era forte ma faceva più male il sapere che forse non avrebbe più corso; la gazzella sospirò, era così stanca che doveva chiudere gli occhi almeno per un momento.
Il leone annuì vedendola dormire, le si sdraiò accanto ed alzando il muso verso il cielo ormai scuro, pensò che forse quella notte sarebbero stati il sole e la luna, il vento e l’erba a parlare di loro.
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Non riusciva a dormire. C’era qualcosa che lo faceva pensare…il caldo, che si era fatto sempre più intenso negli ultimi giorni e l’acqua dello stagno cominciava a diventare torbida e fangosa; il cucciolo, che stava crescendo e nell’ultima caccia non si era mosso al momento giusto, se non fosse diventato più veloce non avrebbe potuto procurarsi del cibo: doveva imparare. Ma non era quello il suo pensiero. Si girò e la vide che dormiva, nell’ombra…
Che diavolo aveva quella bestia? Che stava facendo lui lì accanto a lei? Proprio perché la caccia era andata male avrebbe dovuto cogliere quell’occasione, bastava così poco. Le si avvicinò, con passo lento, senza far rumore il suo muso si accostò al suo collo…
Poteva sentire il suo respiro caldo su di lei, e quel roco rantolio che proveniva dalla sua gola. Stava immobile, ferma, pensò che era l’unica cosa da fare in quel momento. Con gli occhi chiusi, impaurita si chiedeva quale sarebbe stato il suo destino nei prossimi minuti. Il rantolio si faceva più intenso, come un ruggito soffocato, e il respiro del leone le scorreva sulla schiena e sul collo e lei si sentiva sempre più agitata, sempre più in pericolo.
Voleva farlo allora? Aveva dunque cambiato idea? Perché….o forse perché no….? La osservava, guardava quegli occhi grandi chiusi, con ciglia lunghissime, e si chiedeva che cosa sognasse in quel momento.
Quando si era svegliata e lo aveva visto osservare il cielo aveva pensato che forse qualcosa era cambiato, ma non aveva voluto parlargli, poi il suo muoversi repentino l’aveva spaventata e fingersi addormentata era l’unica cosa che poteva fare, non ce l’avrebbe fatta a correre via, a scappare, non ora, non di nuovo.
Continuava ad osservarla, quel curioso fragile animale che con forza aveva trovato il coraggio di stare in piedi accanto a lui senza avere paura. Lo rendeva inquieto, ma forse lui era sempre inquieto e l’apparente tranquillità di quella gazzella lo faceva star bene.
Non sapeva cosa doveva fare, sembrava che l’osservasse, anzi che osservasse il suo respiro, che respirasse con lei. Alzarsi e scappare…restare e guardare negli occhi il leone per dirgli "Ora!". Ma intanto li teneva chiusi, stretti stretti e ascoltava il battito del suo cuore che si faceva sempre più veloce.
Si chiedeva perché il cuore gli battesse così forte, perché quell’emozione di fronte a una preda …una facile preda. Gli bastava un secondo per affondare i suoi denti in quel collo sottile. Le nuvole scoprirono la luna che si fece di un bianco luminoso e un rumore lo fece voltare. Domani forse….la notte era quasi finita. Tornò accanto allo stagno e si distese nuovamente sull’erba.
Domani sarebbe stata più forte e pensò che avrebbe potuto correre via forse….domani.
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Era l’alba quando si svegliò, il sole appena sorto colorava l’erba di rosa. Sapeva che non lo avrebbe trovato accanto a sé, ma si girò ugualmente intorno a cercarlo. Ovviamente non c’era. Se n’era andato. Socchiudendo gli occhi sorrise….come poteva pensare che quel leone sarebbe rimasto accanto a lei, era già molto se non l’aveva sbranata la sera prima. Però…quando parlavano insieme del sole e della luna, del vento e dell’erba tutto sembrava così semplice, e l’aria diventava più facile da respirare, e l’acqua più buona da bere e il dolore più facile da sopportare.
Se n’era andato, chissà dove, forse era tornato dal suo cucciolo come la prima volta, o forse si era solo allontanato per un momento ed era diventato preda dei cacciatori. L’idea le fece salire un nodo alla gola… soprattutto il pensiero che in quel caso non l’avrebbe mai saputo. Facendo forza sulle gambe provò a rialzarsi, la ferita faceva ancora molto male ma per fortuna non sanguinava più. Provò a camminare. Difficile….il dolore era acuto, ma aveva sete doveva almeno arrivare all’acqua per bere. Piano piano si muoveva….a piccoli passi, accompagnata dai raggi del sole che la sorreggevano scaldandola, perché aveva freddo, molto freddo. Bevendo alla sorgente pensò di nuovo al leone, alla prima volta che si erano incontrati lì; non si udiva nessun fruscio tra l’erba, nessun rumore che potesse darle la speranza che il suo amico fosse tornato. Alzò la testa e guardò il sole, splendido nel primo mattino.
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Quando il gioco si fa duro
...i duri incominciano a giocare! Non ho idea di chi l'abbia detta per primo 'sta cavolo di frase (forse un Vialli dei tempi migliori?! mah...), di sicuro non mi è mai piaciuta.
In primo luogo se si accettasse questa premessa a pochi verrebbe voglia di incominciare un gioco che "only the braves" sanno concludere. In secondo luogo ci si ponga la seguente domanda: quando un gioco si fa duro, è ancora un gioco?!
Ho parlato qui centinaia di volte del mondo virtuale e altrettante ne ho discusso con persone svariate, che mi hanno più o meno seguita nei miei (spesso astrusi) ragionamenti sulle distanze ravvicnate che si creano qui dentro tra le persone. Distanze ravvicinate fantastiche e... terribili a volte.
Quante persone ci sono dentro questa scatola? E quante di loro continuano a giocare pur sapendo di non reggere il gioco?! Attenzione perchè "reggere il gioco" non è poi così facile, praticamente è come reggere il mare: c'è chi ha lo stomaco di ferro e chi no. Hai voglia mangiare crackers e sardine!! (dicono che ci vuole roba asciutta e salata) Se soffri il mal di mare soffri, c'è poco da fare. E allora qualcuno dirà "che non si mettano a navigare" ovvero "chi glielo fa fare" oppure "chi è causa del suo mal pianga se stesso"... e potremmo continuare con detti e motti fino alla "Cavallina storna", ma fondamentalmente la risposta non c'è o meglio è solo nelle persone che, pur patendo a volte, magari se c'è un po' di vento forte, provano un profondo senso di dolcezza e di sollievo nel guardare le onde del mare che luccicano sotto il sole.
Reggere il gioco non è facile, significa rimanere estranei, non farsi coinvolgere dalle emozioni, attutire i colpi e prevenirli. Teniamone conto. Ma anche capire "il gioco" non è facile, anzi forse è più difficile ancora, chi pensa di esserci riuscito alzi la mano.
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Post-it
Credo di essere una Post-it dipendente o, se volete buttarla più sull'economico, una delle maggiori azioniste dell'azienda Post-it.
Non so spiegarmi per quale inconscio meccanismo mentale adoro questi bigliettini colorati, di tutte le fogge e misure. Il fatto è che mi piacciono piccoli, grandi, medi, quadrati, rettangolari, dal tradizionale colore giallo ai più fluorescenti. Eh si perchè "tu dimmi che Post-it scegli e ti dirò chi sei" recita il detto... forse.
L'impiegata comunale secondo me opterà per quelli consueti giallognoli, anche perchè quelli passa il convento, mentre la casalinga indaffarata forse sceglierà quelli arancioni e il libero professionista?! Che ne dite? Verdi o azzurri, secondo me... rilassanti... praticamente degli antistress.
Che dire poi di quelli fatti a forma di freccina, di cuoricino e magari anche di telefono... troppo carini e assolutamente inutili perchè ci scrivi sopra niente, ma deliziosi.
In effetti lo scopo del Post-it è quello appunto di fornire un memorandum, suscitare un ricordo "spostabile" a seconda delle esigenze, quindi è insito nel loro essere.... essere scritti.
Però che peccato ricoprire di parole quei foglietti, anche se vuoi mettere l'ebbrezza di staccarli dal blocchetto che ti dà un brivido di potere! ...Strap!
Ovviamente devono essere gli originali, perchè non so se avete mai notato che i finti Post-it, ovvero le sottomarche concorrenti, non si riescono mai a scrivere sul bordo alto, cioè dietro alla parte incollata. Insomma le imitazioni non mi piacciono.
Di solito sono per i tradizionali gialli, anche se a volte in rari momenti di entusiasmo ne ho comprati di violetti, di fucsia e persino di un improbabile verdone, che credo abbia avuto un effimero successo sul mercato.
Cosa ci scrivo? Mah a dire il vero un po' di tutto, dal "Chiamare il tecnico della lavastoviglie" al più quotidiano "Pomodori, acqua e ammorbidente", dal numero di telefono dello specialista che ha curato l'unghia incarnita della vicina di casa alle espressioni esistenziali tipo "Da fare domani!!!"...che talvolta risultano ermetiche anche alla sottoscritta che nel frattempo si è dimenticata il complemento oggetto e quindi l'indomani si strugge chiedendosi: "Ma che cosa dovevo fare?".
Di sicuro l'efficacia del Post-it dipende al 90% dal posto in cui lo si appiccica. Premesso che un Post-it che si rispetti deve incollarsi ovunque, e con ovunque intendo dallo sportello del frigo al ritratto della suocera o ancora nella tazza della prima colazione. Stupiti? E' un ottimo strumento di memoria, di sicura efficacia, anzi i migliori posti sono due: lo specchio del bagno o la tazza della prima colazione. Garantisco che solo raramente mi è capitato di tirar su insieme al galletto del Mulino Bianco anche il suddetto bigliettino giallo. E comunque me ne sono accorta subito... non l'ho mangiato!Piccoli incidenti di percorso.
I Post-it comunque fanno allegramente parte della mia vita, rispondono alla mia esigenza di razionalità, organizzando le mie giornate e colorando un poco la mia realtà di rosa, di azzurro, di arancione o di verde mela.
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Dove osano... gli aquiloni
Soffrire di vertigini non è una cosa poi così grave, ma incominciare a soffrirne a trent' anni secondo me è indicativo.
Credo che sia un istinto primario dell'uomo rimanere ben saldamente attaccato coi piedi per terra e quindi, quando qualcuno manifesta la paura in senso lato dell'altezza o addirttura del volo, potrebbe essere generalmente giustificato.
Stare coi piedi per terra a volte è faticoso, molto faticoso, soprattutto quando questo ti limita la prospettiva, la visuale, il panorama.
Stare coi piedi per terra credo che ti costringa a vedere le cose da un unico punto di vista, che peraltro può essere anche quello giusto, ma non sempre è il migliore per te. Teniamo poi conto che a volte la terra non è poi così salda come sembra: quando meno te l'aspetti ti trema sotto i piedi e quindi tutti i bei castelli che ci hai costruito sopra vanno in frantumi. Ma se uno soffre di vertigini non ha molte alternative.
Io ho sempre i piedi ben piantati a terra, anche quando credo di averli sollevati un pochino. Le mie due zavorre a volte sono davvero pesanti e ho notato che non sono così solo le mie perchè le persone trovano sempre più difficoltà a staccarsi da terra, dalle incerte sicurezze quotidiane.
Personalmente so di non poter arrivare dove osano le aquile, ma chissà...dove osano gli aquiloni... forse.
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Quasi come in un film… Riprendere a scrivere e a pubblicare qualcosa nel blog dopo tanto tempo, dopo una pausa così lunga, meriterebbe che il "qualcosa" in oggetto avesse il sapore che ne so di una riflessione esistenziale, oppure di una confessione sentimentale o anche di una rivelazione confidenziale. Ma siccome qui impera la legge del "faccio e scrivo ciò che mi pare" vi racconterò di quando ho vissuto un pomeriggio quasi come in un film… quasi.
Ti viene difficile dire "Capperi" mentre hai un male bestia ad una mano perché hai appena ricevuto una pallonata da dei ragazzini che, indifferentemente, da lontano ti gridano "Scusiiii"; più che altro ti viene in mente tutta quella serie di parolacce ed imprecazioni che sin da piccola ti hanno insegnato a non dire (e che quindi hai imparato subito). Una cosa che non ho mai capito è come mai si parla di "soglia del dolore" per definirne il livello di sopportazione: "soglia"…. chissà chi ha inventato questa definizione!
Per farla breve la mia soglia del dolore è bassissima, contrariamente a quello che si dice cioè che le donne hanno una soglia del dolore elevata naturalmente perché in questo modo sono preparate ai dolori del parto. Frottole! Il male è male e a questo pensavo mentre con una mano dolorante e un dito gonfio, entrai quel pomeriggio nel Pronto Soccorso.
Lo so, qualcuno potrà pensare che sia eccessivo ricorrere all’ospedale per così poco ed io mi rendevo ben conto di non aver certo un codice rosso, però se il dito era rotto un qualcosa dovevo pur farlo.
Di solito mi mette ansia l’aria dell’ospedale e cerco di frequentarlo il meno possibile, tuttavia quel Pronto Soccorso molto ordinato e semivuoto mi tranquillizzò. Pensai che ero stata fortunata perché non avrei dovuto aspettare molto, visto che prima di me c’era solo una persona che era caduta da una scala e nessun altro.
Una cortese infermiera prese i miei dati e, osservando il dito a palloncino, mi disse che in effetti avevo fatto bene ad andare perché poteva esserci una frattura. Mi disse di aspettare in corridoio che di lì a poco mi avrebbe chiamato il medico di guardia.
Ora da questo punto della storia se fosse stato un film le cose sarebbero andate più o meno così…
Dalla porta socchiusa dello studio del medico usciva una voce maschile che stava scherzando con qualcuno al telefono. Ad un certo punto mi sentii chiamare e fui invitata ad entrare. Dietro alla scrivania c’era un giovane dottore, sui 38 massimo 40 anni, molto carino. Capelli scuri con qualche filo già bianco, bei lineamenti, naso sottile e dietro agli occhiali dalla montatura leggera due occhi verdi intensi. Nell’attimo in cui il nostro sguardo s’incrociò mi sembrò di conoscerlo da sempre, quasi fosse un vecchio amico ritrovato, ed infatti gli offri il mio più bel sorriso.
Lui allungandomi la sedia lo ricambiò chiedendomi se alla mia età giocavo ancora a pallone. Ridemmo insieme e da quella risata in un attimo l’imbarazzo fu vinto e davvero fummo due vecchi amici che sembravano avere tante cose da dirsi. Incominciammo a chiacchierare e, mentre mi prese la mano per osservare il colpo, sentii come una scossa elettrica. Quasi l’avesse sentita anche lui, improvvisamente, ci ritrovammo a guardarci negli occhi per un lunghissimo attimo. Il suo bellissimo sorriso interruppe la magia quando l’infermiera entrò nello studio per dirgli che era pronto il tecnico radiologo, così lui lasciò la mia mano e mi mandò a fare la lastra. Per fortuna il dito non era rotto ma solo distorto. Quando me lo disse sorrisi, precisando che avrei d’ora in poi giocato solo a golf e ridemmo nuovamente insieme. Scrisse il referto e infilò il tutto dentro la busta della lastra. Stava per salutarmi quando entrò l’infermiera per un caso molto urgente che richiedeva subito la sua presenza e così, frettolosamente, mi strinse la mano con un "Ciao". Io, un po’ delusa, rimasi ancora qualche secondo nello studio. Solo mentre mi avviavo verso l’uscita mi venne in mente di leggere il referto e aprii la busta: " …Distorsione interfalangea…ghiaccio…cauta mobilizzazione….347695….. 347695…??! "
Quella signora che mi vide uscire dal Pronto Soccorso con quel bel sorriso stampato sulla faccia avrà pensato che lì c’erano dei medici molto bravi! THE END
Ma siccome la realtà è QUASI come un film, le cose sono andate più o meno così…
Dalla porta socchiusa dello studio del medico usciva una voce maschile che stava scherzando con qualcuno al telefono. Un idiota che invece di mettersi subito a visitare dei pazienti bisognosi stava a perdere del tempo al telefono, ridendo e scherzando… "incominciamo bene" pensai. Ad un certo punto la voce annoiata mi chiamò e mi invitò ad entrare. Rimasi stupita di vedere dietro alla scrivania un giovane dottore, sui 38 massimo 40 anni, molto carino. Aveva i capelli scuri con qualche filo già bianco, dei bei lineamenti, il naso sottile e dietro agli occhiali dalla montatura leggera due occhi verdi intensi.
Abbozzai un sorriso ma notai che il medico non sollevava quasi mai lo sguardo dal pc; sbadigliando mi indicò una sedia e fece la domanda di rito su che cosa mi era successo.
Notai un momento di attenzione quando capì che era stata una pallonata a ridurmi così il dito, in quel momento accennò un sorriso ironico e mi chiese se alla mia età giocavo ancora a pallone. Io imbarazzata cercai di spiegare che non era andata così, ma nel frattempo mi aveva già afferrato la mano e triturato il dito comprimendolo di qui e di là mentre io cercavo di urlare in modo contenuto che mi faceva male! Al che gli chiesi se era rotto, ma mi sentii rispondere che i medici non sono onnipotenti e che ci voleva una lastra per dirlo.
Accompagnata dall’infermiera andai a fare la lastra. Per fortuna il dito non era rotto ma solo distorto. Quando me lo disse sorrisi, precisando che avrei d’ora in poi giocato solo a golf, ma il tipo era troppo intento a scrivere il referto per comprendere la battuta, infilò tutto dentro la busta della lastra e via.
Arrivò l’infermiera e mi fece una specie di bendaggio rigido; grazie e arrivederci. Mentre mi avviavo verso l’uscita mi venne in mente di leggere il referto ed aprii la busta: " …Distorsione interfalangea… ghiaccio… cauta mobilizzazione…. 15 giorni….15 giorni??!"
Ma figuriamoci se stavo con quel coso per 15 giorni! …!
Quella signora che mi vide uscire dal Pronto Soccorso mentre mi toglievo il bendaggio, avrà pensato che lì non c’erano dei medici molto bravi.
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Una rondine non fa primavera
Riflessione sull'arrivo della primavera. Ci può stare? Ma si, io dico che ci sta.
L'arrivo di questa stagione di mezzo, in un mondo come quello di oggi dove non esistono più le mezze stagioni, è segnato per me da segnali infausti. Subito ci sarà qualcuno che inorridisce pensando:"Ma come non le piace la primavera?!". In effetti com'è possibile che non piaccia il risveglio della vita, la rinascita di fiori e colori, l'espandersi di nuovi freschi profumi nell' "aere". Per non parlare del fatto che la primavera è la stagione dell'amore, dell'emergere degli istinti sopiti e del compimento del ciclo della natura. Già...come...?!
Semplicemente ricordandosi che il risveglio della natura fa piovere quasi tutti i giorni, il diffondersi del freschi profumi provoca crisi allegiche, l'emerge degli istinti sopiti fa andare in calore i gatti che miagolano tutta la notte e così via.
Si, lo so, è un po' cinico ma che ci volete fare a me la primavera deprime.
Sarà il cambiamento di stagione, sarà che sono anemica e metereopatica, sarà che non ho un gatto... fatto sta che l'avvicinarsi di aprile incombe sul mio umore come una spada di Damocle.
Mi sono posta in effetti il problema del perchè mi sono tanto antipatici i mesi primaverili, ma a dire il vero ho solo trovato risposte banali, tipo perchè non so cosa mettermi. Be' tanto da poco il problema non è pensandoci bene. Dicono "il jeans è il capo d'abbigliamento della primavera" ma io odio i jeans, pantaloni che ti fasciano impietosamente in due pezzi di stoffa rigida che paghi un occhio della testa pur sapendo che un tempo quel tipo di roba se la metteva solo il tuo idraulico e, con tutto il rispetto per la categoria, non credo possa egli essere definito uomo di ottimo gusto.
Poi il jeans è perfido e ingannatore. Già per indossarlo ti trovi a far cose che nemmeno al Circo di Mosca alcuni vedrebbero. Le tecniche sono varie e variabili ma sostanzialmente la sequenza è questa:
1) tiri fuori i jeans dall'armadio, li guardi con aria di sfida e pensi "in fondo se mi andavano bene l'anno scorso..."
2) infili la prima gamba e constati che tu dall'anno scorso sei un pochetto ingrassata, quindi passi alla seconda gamba e ti fermi lì perchè il jeans oltre metà coscia non sale.
3) ma siccome non sei una pusillanime che si scoraggia subito, lo tiri su con tutta la forza che hai finchè non ci sei entrata.
Entrare dentro i jeans è una fatica ma chiuderli è un'impresa eroica. D'altronde lo sanno tutti come si fa ad entrare in dei jeans un po' strettini... ci si sdraia sul letto.
Lo neghi chi non l'ha mai fatto! Ti sdrai, inizi una respirazione zen detta "la pancia non c'è più" e con un colpo deciso... zac su la cerniera. Fatto... forse.
Be' in effetti il colpo non è sempre abbastanza deciso e ci vuole talvolta qualche minuto e qualche contorsione in più per la chiusura, ma alla fine riesce sempre, è matematico. Il problema semmai viene dopo nel rialzarsi e nel sedersi, ma questa è un'altra storia.
Comunque io non amo i jeans, ma sembra proprio che siano l'unico capo indossabile in questa stagione di mezzo, anche perchè diciamocelo la moda vuole così. Magari fa ancora un freddo cane, tanto freddo che tu ancora ti tieni il piumino nel letto e accendi la stufetta appena rientri a casa, ma per uscire cosa indossi?! Una giacchina di jeans oppure uno spolverino di cotone verde acqua ovvero una giacchina di renna beige leggera leggera o ancora uno sbarazzino maglioncino di cotone, buttato là sulle spalle tanto per dire "E' il 4 aprile e so benissimo che non ce ne sarebbe bisogno di mettere ancora il maglioncino ma visto che ce l'ho....".
Insomma la primavera è deprimente. Certo voi direte che dipende anche dalle zone in cui si vive, ovviamente io vivo in liguria e quindi ho una visione un po' diversa rispetto alla primavera trentina, però secondo me certi canoni valgono ovunque.
L'altro giorno ho seguito un servizio in tv che si premurava di informare la cittadinanza di non far del male alle rondini che stanno per arrivare a "portare" la primavera perchè sono teneri uccellini che non trasmettono l'aviaria. Personalmente ho pensato: ..."forse!".
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Olè – Parte seconda
Una cosa che assolutamente non preoccupa noi italiani quando andiamo in vacanza in Spagna è la lingua. Si perché 99 italiani su 100 pensano che in fondo i due idiomi si assomiglino molto e che quindi non sia affatto un problema comunicare, al massimo ci si sforzerà di mettere qualche S qui e là, in fondo chi non ha mai visto "Il ciclone"?!
Ma ben presto quando ti trovi in loco ti accorgi che ti serve qualche conoscenza lessicale in più oltre a "adios amigos" e che per quanto gli spagnoli non siano come noi alti, biondi e con gli occhi azzurri, cosa strana da credere, ma possiedono una loro lingua. Per cui ti rendi conto che stai facendo una pessima figura quando dici: "Avemos dos bigliettos" e l’interlocutore ti risponde :"Usted tiene dos targetas?"
Lo spagnolo insomma è una fregatura, mi ha ricordato quelle materie che a scuola si prendevano sotto gamba oppure quegli argomenti che "figurati se il prof ce lo chiede all’esame" e poi invece non solo te li chiedevano ma ti facevano a pezzettini.
Io comunque in Spagna me la sono cavata benino, insomma mi sono fatta capire almeno quanto basta per ottenere acqua, cibo e uno spettacolo di flamenco.
Eh già, perché vuoi andare in Spagna e non vedere uno di quei tragici, deprimenti, ripetitivi ma estremamente folkloristici spettacoli di flamenco?!
Dovete sapere che in città come Siviglia, ad usum turisticorum, giornalmente si svolgono tutto l’anno spettacoli di flamenco in locali o teatrini appositi chiamati "tablao". I biglietti sono in vendita un po’ dappertutto, dalle edicole alle macellerie, e alla fine anche se tu ti sei riproposta che mai e poi mai cederai a tale tentazione turistica, ne compri inevitabilmente uno.
Spettacolo delle 19. Già spettacolo da sfigati perché considerando che in Spagna si cena verso le 22 uno show alle 19 potrebbe essere paragonato a un nostro mattineè. Entrai nella sala, piuttosto grande a dire la verità, sul fondo della quale si ergeva un piccolo palcoscenico decorato sullo sfondo da finti tipici balconi andalusi, ventagli e muletas (ndr: mantelline da torero) colorate. Molto kitch.
Subito una tipa prese il mio biglietto e mi fece cenno di seguirla. Attraversai alcune file di tavoli dove vidi seduta una comitiva di giapponesi che stavano incominciando a cenare e mi ricordai che in effetti la signora che mi aveva venduto il biglietto mi aveva appunto chiesto se lo volevo con cena o senza. Io avevo scelto la seconda soluzione, memore di una turistica cena con musica mozartiana, in ambientazione settecentesca, a cui avevo partecipato tanto tempo fa a Salisburgo, dove avevo appunto diviso il tavolo con tre giapponesi!
La senorita si diresse verso le prime file di sedie corredate da un piccolo tavolino, perché oltre allo spettacolo era prevista una "copa" che presumevo fosse una consumazione. Spavaldamente ordinai una sangria mentre si apriva il sipario. I ballerini erano dieci, un bel numero tutto sommato: sei donne e quattro uomini, che si alternarono in esibizioni singole e a gruppi. Dei balletti in sé che dire?! Il flamenco secondo me è come la corrida, può piacere solo agli spagnoli o meglio un’ora e mezza di flamenco può piacere solo agli spagnoli, perché sinceramente dopo mezzora di batter di tacchi sia io che il signore di Kansas City che era accanto a me incominciavamo a guardare l’ora.
In effetti il pubblico era moscetto, applaudiva si ma con poco calore e soprattutto solo dopo ben tre quarti dello spettacolo capì che al termine di particolari passi, quando il chitarrista diceva "Olè", non doveva applaudire ma rispondere in coro OLE’… be’ ditelo dico io! Come facevamo a saperlo? L’idea geniale venne ad una australiana quasi alla fine e in effetti aumentò l’attenzione e il coinvolgimento (forse anche perché molti erano già alla terza sangria). Comunque il momento di maggiore partecipazione si ebbe quando i ballerini danzarono sul ritmo della Carmen di Bizet, insomma sulla musica di "Pulito si, fatica no!" (ricordate la pubblicità dell’Aiax?); gli italiani presenti si sentirono chiamati in causa e scrosciarono gli applausi.
Lo spettacolo quindi terminò ed io mi alzai e me ne andai lasciando metà bicchiere di sangria, poiché presa dall’euforia ispanica avevo dimenticato che sono astemia.
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Bellissima Se c’è una cosa che mi fa arrabbiare è quando gli uomini ti dicono "Bella". All’apparenza complimento confidenziale tale uso lessicale improprio di un aggettivo, peraltro molto piacevole, è quanto mai consueto tra il genere maschile.
Avete mai notato come certe persone sprecano i nomignoli e i vezzeggiativi nelle occasioni più disparate? Un lui qualsiasi entra dal tabaccaio, chiede un pacchetto di Malboro e paga apostrofando l’ignara commessa: "Ciao bella". Altro lui qualsiasi entra in un bar e rivolgendo lo sguardo verso la prima cameriera libera enuncia tranquillo: "Tesoro mi porti un caffè?!".
Non parliamo poi degli animali da chat! Codesti individui di sesso maschile si sprecano a profusione in "Bimba", "Bellissima", "Piccola", e così via. Lo scopo intrinseco e incoscio secondo me è uno solo; nella mente spesso contorta di tale tipologia di maschi germina codesto pensiero: " Se le chiamo tutte allo stesso modo non rischio di confondermi". Ma poi col tempo l’abitudine prende piede e incominciano a chiamare "Bella" anche la moglie, l’amante, la figlia e persino la colf mentre le chiedono in quale cassetto ha riposto i calzini. Una tragedia insomma.
Appello ai signori uomini: a noi piacciono un sacco i vezzeggiativi e i pucci pucci, è universalmente risaputo: non c’è donna che, per quanto granitica, non apprezzi il suo uomo o in generale uno qualsiasi che le fa un complimento, ma santo cielo…. personalizzatelo!
Ecco cosa rivendico io, un'accurata e intelligente personalizzazione!
Troppo difficile per il vostro atrofizzato intelletto?! Lo capisco, ma noi donne possiamo venirvi incontro, darvi degli spunti, che ne so anche qualche piccolo suggerimento se è proprio necessario, ma per carità non chiamatemi "Bellissima", per prima cosa perché mi sentirei privata della mia alquanto caratterizzata e unica personalità e in secondo luogo perché non la sono affatto… forse.
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