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Messaggi di Aprile 2020

L'origine preistorica dell'agricoltura mesoamericana

Post n°2847 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Trovata una nuova "culla" dell'agricoltura

Nell'Amazzonia boliviana trovate le prove di un'agricoltura

praticata dall'uomo 10mila anni fa: manioca, zucca e altri

prodotti commestibili erano coltivati in orti.

Piante di maniocaPiante di manioca, molto diffuse in Sud America: la loro

radice tuberizzata, commestibile e ricca in amido, è la

terza più importante fonte di carboidrati nell'alimentazione

umana mondiale. | SHUTTERSTOCK  

Un gruppo internazionale di ricercatori ha scoperto una nuova

area del Pianeta dove l'uomo riuscì ad "addomesticare la

vegetazione" o, in altre parole, avviò un tipo di agricoltura.

Si tratta di una zona dell'Amazzonia sudoccidentale dove

(secondo lo studio) 10mila anni fa manioca, zucca e altri

prodotti commestibili sono diventate piante coltivate in orti.

QUINTA CLASSIFICATA! 

È il quinto "tipo di agricoltura" a noi nota.

Si aggiunge a quella che, partita dal Medio Oriente, è stata

poi trasmessa in Europa e in Italia, e alle altre tre sorgenti

di agricoltura che nacquero più o meno nello stesso periodo,

ossia circa 10.000 anni fa: le colture del riso in Cina, quella

del mais in Mesoamerica (per errore era scritto

"Mesopotamia", NdR) e quelle delle patate e della

quinoa sulle Ande.

 

I risultati della ricerca - pubblicata su Nature - dimostrano

come Llanos de Moxos (questo il nome dell'area in cui è

avvenuta la scoperta) sia un luogo dove le coltivazioni

praticate da gruppi di persone, giunte fin lì durante l'Olocene,

abbiano causato una profonda alterazione dei paesaggi

amazzonici.

Parliamo di una savana di circa 125.000 chilometri quadrati,

situata nel Dipartimento di Beni in Bolivia, il cui paesaggio è

caratterizzato da sterri (ossia di scavi del suolo), campi rialzati,

tumuli, canali e aree forestali. Proprio all'interno di queste ultime

Josè Capriles, antropologo della Penn State è andato alla ricerca

di segni di giardinaggio precoce.

LE ISOLE ARTIFICIALI.

 «Abbiamo mappato le aree utilizzando il telerilevamento

(ossia studiando l'area dall'alto utilizzando foto satellitari

ad alta risoluzione)», spiega l'antropologo, «partendo

dall'idea che le isole forestali di forma regolare avessero

origine antropica».

In quell'immensa area infatti, vi sono più di 4.700 isole

forestali artificiali: 30 sono state studiate dai ricercatori,

che hanno individuato aree di residenza umana.

«Purtroppo vi sono pochissime prove dell'addomesticamento

delle piante da parte dell'uomo, perché il clima è tale da

distruggere ogni tipo di materiale organico e perché,

trattandosi di un'area alluvionale, risulta difficile anche

trovare le prove dei primi cacciatori-raccoglitori», ha

spiegato Capriles.

Come hanno fatto allora a determinare la presenza di

un'agricoltura "creata" dall'uomo? «Abbiamo studiato e

analizzato le "fitoliti", ossia minuscole particelle di minerali

che si formano all'interno delle piante che sono state trovate

nei pochissimi reperti archeologici a disposizione», spiega

Heinz Vei dell'Università di Berna.

Poiché le fitoliti prendono una forma particolare, diversa a

seconda delle piante in cui si formano, è stato possibile risalire

alle prove che, nelle isole forestali, vi erano già circa 10.350

anni fa piantagioni di manioca, yuca; da 10.250 anni si trovano

piantagioni di zucca, mentre il mais compare solo 6.850 anni fa.

ECCO COSA MANGIAVANO.

 Dunque si può dedurre che manioca, zucca, mais e altri

alimenti ricchi di carboidrati, come le patate dolci e le

arachidi, probabilmente costituivano la maggior parte della

dieta di coloro che abitavano a Llanos de Moxos: una dieta

che veniva integrata da pesci e grandi erbivori.

È possibile inoltre che i gruppi che diedero vita a questa

agricoltura siano giunti qui avendo già le conoscenze di

base necessaria a condurre una vita a base di agricoltura

e di caccia.

Nel passato molti archeologi e biologi avevano ipotizzato

che l'Amazzonia sudoccidentale potesse essere un centro

di propagazione di varie piante come manioca, zucca e

arachidi, oltre che di alcune varietà di peperoncini e di

fagioli, ma fino ad oggi non c'erano prove della loro

possibile provenienza.

 
 
 

Ancora sul Covid19

Post n°2846 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

COVID-19 e mucca pazza: così diversi eppure così uguali

CoViD-19 e mucca pazza, due malattie che più diverse di

così non possono essere, richiedono la messa in atto di

procedure per la gestione dell'epidemia molto simili.

Combattere la COVID-19Vi sono strategie ricorrenti nelle più efficaci strategie

di contenimento delle epidemie. | SHUTTERSTOCK  

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Cristina Casalone,

Dirigente Veterinario dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale

del Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta, e Giovanni Di Guardo,

Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria

all'Università di Teramo, che mette a confronto due epidemie

di origine zoonotica: la COVID-19 e l'Encefalopatia spongiforme

bovina - il "morbo della mucca pazza", una malattia neurologica

cronica causata da un prione (una proteina anomala) tipica dei

bovini ma trasmissibile all'uomo attraverso carne contaminata.

L'allarme su una possibile correlazione tra morbo della mucca

pazza e malattia di Creutzfeldt-Jakob (una forma grave di

demenza con decorso molto rapido) in soggetti giovani arrivò

in Gran Bretagna nel 1996. Oggi l'epidemia legata al consumo

di carni infette è stata praticamente eradicata. 

Proprio in un momento come questo, in cui il mondo intero sta

combattendo il virus SARS-CoV-2, responsabile della più grande

emergenza sanitaria globale, è quanto mai importante fare

memoria delle lezioni apprese nel corso di emergenze sanitarie

passate.

Una di queste è senz'altro rappresentata dall'encefalopatia

spongiforme bovina (BSE), popolarmente nota come "morbo della

mucca pazza". CoViD-19 e BSE infatti, pur nelle colossali differenze

che caratterizzano le due malattie, la prima causata da un virus

a tropismo respiratorio, l'altra di origine alimentare e causata da

un prione, un agente "sui generis" di natura proteica, presentano

tuttavia una serie di analogie gestionali estremamente

interessanti.

AGIRE PER SALVARE VITE. 

La prima di esse riguarda il principio di precauzione, un

"minimo comune denominatore" applicato alla gestione di

qualsivoglia emergenza, non meramente sanitaria e dalle

conseguenze imprevedibili in quanto se ne hanno conoscenze

imprecise e frammentarie se non largamente deficitarie.

Ove l'agente di malattia risultasse trasmissibile all'uomo, come

nel caso di quello responsabile della BSE, oppure fosse dotato

di una contagiosità quanto mai elevata a fronte della mancata

disponibilità di farmaci e/o di vaccini specifici, come nel caso del

coronavirus che provoca la CoViD-19, ecco che al principio di

precauzione viene ad affiancarsi il concetto di worst case scenario.

Tradotto in italiano, il peggiore scenario che si possa immaginare,

sulla cui scia verranno predisposte e adottate tutta una serie

di misure finalizzate a ridurre al minimo l'esposizione umana.

Nella gestione sanitaria e nella conseguente massima mitigazione

del rischio di trasmissione della BSE all'uomo tali misure hanno

comportato l'esclusione, dal consumo alimentare, di numerose

matrici biologiche a livello delle quali è stata documentata la

presenza d'infettività. Analogamente, nel caso della drammatica

"emergenza da coronavirus" sono state adottate una serie di

misure draconiane che, a partire dalla città di Wuhan e dalla

provincia cinese di Hubei (epicentro della pandemia da SARS-CoV-2),

sono state successivamente applicate in maniera progressiva da vari

Paesi, primo fra tutti l'Italia, il cui esempio è stato seguito a ruota da

molti altri Paesi europei ed extraeuropei.

UNA LACUNA DA COLMARE.

Il principale gap relativo all'adozione del principio di precauzione è

rappresentato dalla mancanza di conoscenze adeguate sul "nemico"

che ci si trova a combattere, un agente patogeno di dimensioni

submicroscopiche e come tale percepito come una minaccia ancor

più incombente sulle nostre vite.

La comunità scientifica non soltanto è chiamata a dare un nome e

un cognome a questo nemico, ma anche ad individuare i tessuti e

le cellule in grado di consentirne la replicazione, unitamente ai

meccanismi e alle risposte attuate dall'organismo per limitarne

la diffusione.

Queste fondamentali quanto imprescindibili conoscenze potranno

esser desunte dalle indagini "post mortem", come hanno

chiaramente documentato anche i numerosi studi finora condotti

sulle specie naturalmente (bovino, gatto, uomo, etc.) o

sperimentalmente infettate con l'agente della BSE.

Non vi è dubbio alcuno, in proposito, che le attuali conoscenze

sulla patogenesi dell'infezione da SARS-CoV-2, da ritenersi allo

stato attuale oltremodo lacunose e frammentarie, potranno

grandemente beneficiare dallo studio dei pazienti deceduti.

Nonostante le numerose interviste concesse dai pur autorevoli

colleghi e scienziati quotidianamente intervistati dai media

(virologi, infettivologi, epidemiologi, esperti di sanità pubblica

ed altre figure che si avvicendano nell'arena mediatica),

nell'inquadramento nosologico e nosografico oltre che nella

classificazione dell'infezione da SARS-CoV-2 e della malattia

da esso sostenuta, la CoViD-19, non si è visto fino a questo

momento un solo patologo esprimere la propria opinione

nel merito.

È infatti grazie alla fondamentale opera svolta dai patologi che

potremo ottenere una fotografia della dimensione post-mortem

della malattia, con specifico riferimento alla sequenza evolutivo-

patogenetica dell'infezione da SARS-CoV-2.

E, come dimostrato per i ceppi responsabili di malattie prioniche

"atipiche" con caratteristiche diverse dal ceppo originario, sia

nell'uomo che negli animali, potrebbero esistere ceppi del virus

SARS-CoV-2 dotati di differenti livelli di patogenicità nei confronti

del nostro organismo.

Ribadiamo, ancora una volta, la cruciale rilevanza delle indagini

post-mortem per chiarire questi fondamentali aspetti attinenti

alla biologia dell'agente virale e, nondimeno, alle sue dinamiche

d'interazione con l'ospite.

 

INDAGINI PIÙ CAPILLARI.

 Nel corso dell'epidemia di BSE l'introduzione dei cosiddetti

"test rapidi" a scopo diagnostico ha permesso di esaminare

tutti i bovini adulti che non presentavano sintomatologia clinica

ed eliminarli dal consumo umano riducendo così l'esposizione

della popolazione all'agente infettivo.

L'attuazione di questa sorveglianza definita attiva, in quanto

si cerca attivamente la malattia ha richiesto uno straordinario

sforzo tecnico ed organizzativo da parte di tutti coloro che si

occupavano del settore.

Si trattò, infatti, di allestire nuovi laboratori che permettessero

di esaminare dai 1500 ai 2500 campioni al giorno.

Analogamente, nel caso di SARS-CoV-2, recenti indagini

condotte sui macachi dimostrano come sia possibile rilevare

precocemente la presenza del virus in animali infettati

sperimentalmente e asintomatici.

Pertanto, in base a quanto sopra descritto si può affermare

che l'utilizzo dei test mediante effettuazione di tamponi sulla

popolazione adulta permetterebbe di ridurre in maniera

considerevole il numero dei contagi applicando conseguentemente

le misure di isolamento sui casi risultati positivi.

REALTÀ INTERCONNESSE.
 Mai come in questo momento si rende evidente il concetto di
"One Health", che riconosce quanto la salute dell'uomo sia legata
indissolubilmente alla salute degli animali e dell'ambiente.
Ne deriva il legame, parimenti indissolubile, attraverso il quale
medicina umana, medicina veterinaria e tutela dell'ambiente sono
reciprocamente interconnesse, un concetto che i nostri antichi padri
traducevano efficacemente con l'espressione "universal medicina".
Diviene pertanto cruciale la collaborazione interdisciplinare, nel cui
ambito il ruolo degli esperti in grado di modellare l'evoluzione delle
epidemie e l'impatto dei cambiamenti climatici sulle caratteristiche
eco-epidemiologiche dei relativi agenti causali sta acquisendo
un'importanza via via crescente.

Tanto più alla luce di quanto recentemente sottolineato dall'Organiz-

zazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo cui il 75% delle

malattie infettive emergenti sarebbero sostenute da agenti di

dimostrata o sospetta capacità zoonosica (vale a dire in grado

di trasmettersi dagli animali all'uomo).

A 35 anni di distanza dalla scoperta del primo caso di BSE in

Inghilterra, oggi possiamo affermare che la malattia è stata

definitivamente sconfitta grazie all'applicazione di misure che,

nella loro drammaticità e nella parziale deprivazione di alcune

libertà individuali dalle stesse prodotta, hanno grandemente

penalizzato dal punto di vista economico alcuni settori più

direttamente coinvolti

26 APRILE 2020 

 
 
 

Detox da Corona virus

Post n°2845 pubblicato il 29 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Negli articoli di seguito si parla di posti stupendi

che sembrano fatti apposta per disintossicarsi dal

periodo di quarantena da Corona virus e sembra

che rispondano perfettamente alle indicazioni del

premier Conte: vacanze all'insegna del contatto con

la natura, con se stessi, senza gente intorno,

(che felicità), vacanze ad hoc per il detox da

Covid19, una compagnia quanto mai pesante e

indesiderata.

 
 
 

In Sardegna...

Post n°2844 pubblicato il 29 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Le dune di Piscinas, in Sardegna, il "Piccolo Sahara italiano"

Anche in Italia abbiamo il deserto e si trova nella Sardegna

occidentale, in una meravigliosa località della Costa Verde e in

cui godere di dune spettacolari

28 aprile 2020 Condividi su Facebook+

Sembra strano a dirlo, ma anche in Italia abbiamo un vero e proprio

 deserto.

Meravigliose dune dorate, alte fino a 100 metri, e che penetrano

nell'entroterra per poi tuffarsi in un mare cristallino e sconfinato.

Tutto questo accade nella paradisiaca regione Sardegna, più precisa-

mente nella straordinaria Costa Verde, e nella località che prende

il nome di Spiaggia Le Dune di Piscinas.

Queste stupefacenti "montagne sabbiose" sono caratteristiche di tutta

la zona, ma in questo particolare tratto della Sardegna occidentale 

sono avvenuti dei fenomeni unici che hanno creato un vero e proprio

ambiente sahariano.

L'opera si è originata grazie all'arduo lavoro del Maestrale che, con la sua

incessante azione, ha spinto verso l'interno la sabbia che si è accumulata

formando delle incantevoli colline.

mare e dune piscinas

Il mare e le dune di Piscinas, Fonte: iStock

Si estende per circa 5 chilometri quadrati ed è un deserto in miniatura,

anche se è quello naturale più grande di tutta Europa.

Un paesaggio di incredibile bellezza che prende vita in una delle zone più

suggestive di tutta la Sardegna: un territorio spoglio, in alcuni punti quasi

montano, e dove un tempo erano attive le miniere più importanti del nostro Paese.

Le alture sabbiose sono facilmente raggiungibili dalla vicina Arbus, e sono

definite "vive" a causa della costante opera dei venti che le modellano

continuamente.

Ma ciò che colpisce particolarmente il visitatore è la vegetazione che, seppure

in condizioni apparentemente ostili, riesce comunque a trovare il suo spazio:

crescono, infatti, ginepri, lentischi, gigli marittimi e papaveri della sabbia.

Questo "Piccolo Sahara italiano" degrada fino al mare, favolosamente limpido

e dai colori accesi grazie anche ai riflessi giallo ocra e bianchi della sabbia,

vantando anche fondali piuttosto profondi.

Ma il flusso del vento rende la spiaggia una delle mete preferite dai surfisti

che, soprattutto durante il periodo invernale, possono praticare questo sport

grazie alle onde lunghe ed alte. Inoltre, da queste parti è interessante anche

fare immersioni.

Le dune di Piscinas sono, dunque, uno dei posti più selvaggi e autentici

della Sardegna, un territorio ancora isolato e integro nella sua bellezza.

Una zona in cui il soffiare del vento modella continuamente il paesaggio

regalando al visitatore scenari di rara bellezza.

Del resto, non capita tutti i giorni di trovare deserti di sabbia lambiti da

un mare eccezionale e circondati da florida e verdissima vegetazione.

dune di piscinas

Dune della Sardegna, Fonte: iStock

 
 
 

In Croazia...

Post n°2843 pubblicato il 29 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Premuda, il piccolo gioiello croato

tra storia e natura

L'isola di Premuda è poco più di uno scoglio, ma è anche una

meta assolutamente da non perdere

23 marzo 2020 Condividi su Facebook+

Ancora fuori dalle principali rotte croate battute dai turisti, che

sono però in aumento, l'isola di Premuda è la destinazione perfetta

per chi ama il mare e la natura, e in particolare per chi si diletta in

sport quali la vela e le immersioni subacquee.

Nonostante le dimensioni davvero ridotte di questa splendida località,

sono tante le sorprese che vi attendono.

Premuda è una delle oltre 300 tra isole e piccoli scogli che formano

l'Arcipelago zaratino, al largo delle coste della Croazia.

Nell'affascinante panorama del mare Adriatico, questo fazzoletto di

terra misura appena 9 km quadrati e accoglie meno di 100 abitanti.

Eppure, d'estate le strette viuzze del suo villaggio principale 

(nonché unico insediamento abitato) si affollano di turisti alla ricerca

di un posto isolato dal mondo dove godere di un po' di relax.

Spesso Premuda è solo una tappa del tour che porta alla scoperta di 

alcune delle più belle isole dell'arcipelago: in effetti, sorge a poca

distanza da altre perle della Dalmazia quali Lussino e Pago.

La prima cosa che possiamo notare di Premuda è la sua natura inconta-

minata: spiagge bellissime si affacciano sulle acque cristalline

dell'Adriatico, e alle loro spalle il verde la fa da padrone.

È il luogo perfetto per chi vuole soltanto trascorrere qualche giornata

al sole, intervallando lunghe sedute d'abbronzatura a qualche tuffo in

mare.

Ma è anche una splendida destinazione per gli amanti degli sport acquatici.

Le sue coste sono punto d'approdo per chi desidera esplorare i dintorni

in barca a vela, o per chi pratica la pesca sportiva.

premuda

L'isola di Premuda - Foto: iStock

La vera bellezza di questa isola sono però i suoi fondali, dove si cela un

paradiso per gli amanti delle immersioni.

Nell'insenatura di valle Siroka esiste un sistema sottomarino di grotte

chiamato Cattedrale, ricco di caverne e tunnel meravigliosi che attirano

sub da tutto il mondo.

A qualche chilometro di distanza si trova invece il relitto della corazzata

SMS Szent István: fu un vascello da guerra austro-ungarico, che venne

affondato da una torpediniera italiana durante la Prima Guerra Mondiale.

Solo i più esperti potranno ammirare questa attrazione, che tra l'altro

 non è accessibile al suo interno.

Rimanendo più vicini alle coste, il fondale è perfetto per fare un po' di

 snorkeling.

Spugne, coralli e pesci variopinti vi aspettano per regalarvi tante emozioni.

Dopo aver trascorso la giornata a fare sport, non c'è niente di meglio di una

passeggiata nel centro abitato, tra pittoresche casette di pietra e sentieri

acciottolati.

Tutt'intorno, ricche foreste si alternano ad uliveti che rappresentano una delle

attività principali dei residenti. L'olio d'oliva di Premuda è molto pregiato

e davvero buonissimo.

premuda

Uno scorcio della natura di Premuda - Foto: Wikimedia (ph. nikola_pu)

 
 
 

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