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Messaggi del 15/04/2020
Post n°2765 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
EDILIZIA DEL RICICLO Le bottiglie di plastica ora diventano case MARTA FRIGERIO29 SET 2016 Lo smaltimento delle bottiglie di plastica rappresenta, nei paesi in via di sviluppo ma non solo, uno dei maggiori problemi legati alla gestione dei rifiuti. Al contempo, in alcune aree rurali di Paesi meno sviluppati la solidità di una casa con delle mura stabili e isolanti sembra essere un miraggio. Per ovviare a questi due problemi e trovare una soluzione, l'edilizia sostenibile sta provando a percorrere una nuova strada: case realizzate con le bottiglie. Il primo esempio di villaggio costruito interamente con bottiglie di plastica è sorto a Isla Colon, nello stato di Panama: 120 unità abitative realizzate con bottiglie di plastica che altrimenti sarebbero finite in discarica o, peggio ancora, abbandonate nell'ambiente. I vantaggi delle case fatte con le bottiglie Oltre all'aspetto ecologico, la scelta di costruire abitazioni con questo materiale riciclato ha diversi vantaggi pratici. Si tratta, innanzitutto, di costruzioni leggere e adatte anche a luoghi con elevata attività sismica ma per garantire un maggiore isolamento termico è anche possibile rivestire le bottiglie di cemento. Un altro dei vantaggi di questo tipo di costruzione è la facilità con la quale si può reperire la materia prima che, in caso di necessità o di calamità naturale, consente di realizzare case nel giro di pochi giorni. Ma non solo: queste costruzioni possono essere adibite anche a ricovero per gli animali o ad attività commerciali. L'idea della Heineken Negli anni '60 il colosso della birra Heineken aveva già avuto un'intuizione in questo senso. Speciali bottiglie dalla forma rettangolare erano state lanciate sul mercato con l'obiettivo, una volta consumata la birra, di incastrarle le une con le altre e alzare muri. Le 100mila bottiglie rettangolari prodotte sarebbero dovute servire poi a costruire un centinaio di piccole abitazioni. Un'idea ingegnosa, che tuttavia non trovò quasi alcuna applicazione pratica anche a causa della effettiva difficoltà a far combaciare in maniera stabile questi "mattoncini" tra di loro. |
Post n°2764 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da Focus. abbiamo vinto perché eravamo troppi. L'uomo moderno ha provocato l'estinzione dei Neanderthal non perché fosse necessariamente più intelligente o bravo a controllare cibo e territorio, ma perché ne ha invaso le terre e occupato la stessa nicchia ecologica. POPOLI E CULTURE 2 NOVEMBRE 2017 10:43 di Andrea Centini dell'uomo moderno non perché quest'ultimo fosse più intelligente o avesse chissà quali vantaggi evolutivi, ma semplicemente perché i nostri cugini si sono trovati al posto giusto nel momento sbagliato, non riuscendo a contenere il costante flusso di Homo sapiens proveniente dall'Africa. A determinarlo un team di paleoantropologi e biologi evolutivi della prestigiosa Università di Stanford (Stati Uniti) attraverso una simulazione al computer, nella quale hanno inserito tutti i dati noti sui contatti e sugli spostamenti conosciuti delle due specie. Kolodny, non è escluso a priori che l'Homo neanderthalensis possa non essersi adattato ai cambiamenti climatici o più semplicemente che avesse "geni cattivi" inidonei ad affrontare le nuove condizioni e malattie, tuttavia la simulazione suggerisce che anche a parità di intelligenza e opportunità con l'uomo moderno sarebbe comunque estinto. Questo per un semplice principio biologico: due specie non possono occupare la stessa nicchia ecologica, di conseguenza o ci si specializza oppure si soccombe. I ricercatori hanno fatto l'esempio di due topi israeliani, dove una specie si è adattata a diventare diurna (erano entrambe notturne) per evitare la competizione dell'altra. Gli esseri umani tuttavia non sono "specialisti", ma generalisti, e dunque soltanto una delle due specie avrebbe potuto sopravvivere, indipendentemente dall'intelligenza. Del resto è la stessa ragione che in passato ha portato alla scomparsa di una moltitudine di ominini nostri antenati. In base alle teorie più accreditate i Neanderthal emersero in Europa 400mila anni fa, e si incontrarono con l'Homo sapiens su questo territorio tra i 50mila e i 40mila anni fa. Le due specie sicuramente si accoppiarono fra loro - le varianti genetiche della pancetta e della schizofrenia, giusto per citarne due, sono proprio un 'regalo' dei nostri cugini estinti - e probabilmente combatterono per il controllo del territorio e la conquista del cibo. Simulando gli spostamenti delle "bande" di Neanderthal e il flusso costante di sapiens, il risultato al computer nella maggior parte dei casi è sfociato nell'estinzione dei primi entro 12mila anni. "Non significa che i Neanderthal fossero una sorta di scimmie avanzate e brutali - ha sottolineato Kolodny - fino a quando non siamo arrivati noi e li abbiamo sconfitti, ma è molto probabile che essi fossero simili a noi". Ad esempio è stato recentemente scoperto che utilizzavano le proprietà antiinfiammatorie e antidolorifiche delle piante officinali per curarsi. I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Nature Communications. |
Post n°2763 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da Focus Pianeti acquatici adatti ad ospitare vita? Sì, se ruotano almeno tre volte più velocemente della Terra 29 Giugno 2018 Spazio e astronomiaEsopianeta acquatico (credito: NASA/JPL-Caltech) Quando si pensa ai pianeti extrasolari che possono ospitare la vita, nella quasi totalità dei casi il pensiero va ai pianeti rocciosi, magari con distese di acqua proprio come gli oceani che ci troviamo sulla Terra. Ma cosa succede quando ci si trova di fronte a pianeti definibili come "acquatici"? Possono ospitare la vita anche si trovano nella zona abitabile della propria stella? Innanzitutto bisogna specificare cosa si intende con pianeti acquatici o con "mondi d'acqua". Un esopianeta è definibile come "mondo d'acqua" quando il 10% della sua massa totale è fatta di acqua e quando manca un'atmosfera con idrogeno o elio. Secondo gli scienziati è molto improbabile che questi mondi possano far nascere e possano ospitare la vita in quanto mancherebbe una quantità sufficiente di superficie terrestre dura o rocciosa che guidi il ciclo del silicato di carbonio. Questo processo è essenziale per far sì che le temperature superficiali risultino ospitali per la vita come la conosciamo in quanto bilancia l'anidride carbonica tra l'atmosfera all'interno del pianeta. Una nuova ricerca ha analizzato proprio i meccanismi fisici e geologici in questi mondi acquatici. Secondo il nuovo studio, una volta che la pressione del biossido di carbonio atmosferico risulta sufficientemente elevata, il ghiaccio marino fa partire varie reazioni chimiche, arricchendosi di determinate sostanze, cosa che riequilibra la pressione del gas in una maniera abbastanza simile al ciclo del carbonato-silicato. Tuttavia per far sì che quest'effetto sia reale, il pianeta deve ruotare più velocemente della Terra, di almeno tre volte. Solo in questo modo, infatti, può svilupparsi una calotta polare in modo che si possa arrivare ad una temperatura oceanica per sostenere il suddetto meccanismo. Gli scienziati hanno calcolato anche una nuova "zona abitabile" per mondi d'acqua atti ad ospitare la vita e hanno concluso che essa potrebbe rientrare nella normale fascia abitabile che già conosciamo. |
Post n°2762 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
La struttura del pianeta Mercurio: nuove ipotesiUn nuovo studio sui dati della sonda MESSENGER conferma che Mercurio ha un nucleo interno solido, come la Terra, ma rivela anche che è molto grande rispetto al pianeta: grande quasi quanto quello della Terra. Il pianeta Mercurio ripreso in falsi colori dalla sonda MESSENGER. | NASA Da un nuovo studio dei dati raccolti tra il 2011 e il 2015 dalla sonda MESSENGER arriva la conferma che Mercurio ha un nucleo interno solido. Lo studio è stato condotto rielaborando i dati all'interno di un nuovo e complesso modello geofisico: grazie a questa ricerca della NASA, oggi conosciamo meglio il piccolo pianeta, che risulta essere più simile alla Terra di quanto si pensasse (e, a sorpresa, qualche volta anche il pianeta più vicino).
Illustrazione: la sonda Messenger e, sullo sfondo, Mercurio. Nelle fasi finali della missione la sonda è arrivata a sfiorare il pianeta lungo orbite basse, a soli 100 km dalla superficie. Vedi anche: 5 cose su Mercurio scoperte dalla sonda Messenger. | SCAVARE IN PROFONDITÀ. Dall'inserimento della sonda in orbita ermeocentrica (ossia in orbita attorno a Mercurio), nel 2011, il piccolo pianeta ha cominciato a rivelare una complessità geologica inaspettata e stranezze nel debole campo magnetico.
La MESSENGER è stata condotta a fine missione facendola precipitare su Mercurio, nel 2015, ma i dati raccolti continuano a essere una ricca miniera di informazioni. Il ricercatore italiano Antonio Genova ha coordinato un team di planetologi della NASA per analizzare con nuovi metodi alcuni set di informazioni.
Uno spaccato di Mercurio, il cui diametro è di 4.880 km (contro i 12.000 km circa della Terra): lo studio coordinato da Antonio Genova mette in evidenza il rapporto tra la dimensione del pianeta e quelle del nucleo interno solido (solid inner core) e del nucleo esterno liquido (outer molten core) per spiegare la bassa intensità del campo magnetico del pianeta. Per approfondire: il paradosso del nucleo della Terra. | ANTONIO GENOVA «Uno degli aspetti più interessanti di Mercurio è il rapporto tra la densità (5.500 kg/m3) e il raggio (2.440 km)», ha dichiarato Genova: «in genere i pianeti rocciosi hanno proprietà lineari tra raggio e densità. Mercurio, invece, ha una densità molto più elevata rispetto al suo raggio: una caratteristica dovuta al fatto che il suo nucleo è probabilmente molto grande, forse l'85 per cento del pianeta, e parte di esso ha subito un processo di solidificazione più accelerato.»
CUORE DI PIETRA. Lo studio coordinato da Genova suggerisce che il nucleo solido di Mercurio ha un raggio di circa 1.000 km, ovvero più di 1/3 del raggio del pianeta (2.440 km), a cui si aggiunge un più modesto nucleo esterno liquido: secondo il ricercatore, la "taglia ridotta" della regione esterna liquida del nucleo è la causa del campo magnetico così debole.
Il lavoro si basa sul modello geofisico (condiviso) per cui il nucleo liquido di un pianeta agisce da gigantesca dinamo, attivata dai moti del mantello: «la Terra», aggiunge Genova, «ha un nucleo fluido più grande, e il campo magnetico è più intenso», di circa un centinaio di volte.
Mercurio e la Terra: due pianeti tanto diversi hanno nuclei interni quasi della stessa dimensione. Lo studio che ha portato a questa ipotesi sulla struttura interna di Mercurio è stata condotta sui dati della MESSENGER, acronimo di MErcury Surface, Space ENvironment, GEochemistry and Ranging, missione della Nasa conclusa nel 2015. | IN FONDO SIAMO SIMILI. Per quanto sia sproporzionato rispetto alle dimensioni del pianeta, il nucleo solido di Mercurio ha dimensioni assolute simili a quello della Terra (circa 1.220 km). Da questo punto di vista Mercurio sembra «il fratello minore della Terra», commenta Genova, «e in quanto tale potrebbe darci informazioni preziose sull'evoluzione del nucleo del nostro pianeta e del suo campo magnetico».
«Ad esempio,» continua il ricercatore, «conoscere il motivo per il quale il campo magnetico di Mercurio è diventato così debole e si sia evoluto in questo modo potrebbe fornirci degli indizi per predire come il campo magnetico terrestre possa evolvere nel futuro.»
GIOCHI ORBITALI. Molto interessante è anche il modo in cui questi risultati sono stati elaborati dai dati della MESSENGER: Genova e il suo team hanno analizzato le leggere variazioni delle orbite della sonda e le hanno messe in relazione alla regione del pianeta che stava sorvolando. Sappiamo, dalle leggi della meccanica celeste, che un cambiamento della velocità orbitale corrisponde a un cambiamento nella massa del suolo sottostante, e quindi della sua densità e composizione.
La sonda BepiColombo è partita nell'ottobre 2018. Il primo passaggio vicino a Mercurio sarà nell'ottobre del 2021. | ESA «Per descrivere la struttura interna di Mercurio», sottolinea il planetologo Erwan Mazarico, «abbiamo dovuto raccogliere informazioni da molti campi: geodesia, geochimica, meccanica orbitale e gravità»: è dunque uno studio multidisciplinare che verrà probabilmente preso a modello quando arriveranno, a partire dall'ottobre del 2021, i primi dati da BepiColombo: la complessa missione europea (col nome di un astronomo italiano) che si sta dirigendo verso Mercurio. |
Post n°2761 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Ecco perché 'Homo sapiens' (cioè noi) è sopravvissuto mentre Neanderthal si è estinto
Perché l'uomo moderno (Homo sapiens) è riuscito a sopravvivere fino ad oggi, mentre altre specie di ominidi sono scomparse nel corso della storia? Secondo uno studio condotto da Oren Kolodny e Marcus Feldman, due biologi evoluzionisti dell'Università di Stanford, la risposta a questo enigma è nei movimenti migratori dei nostri antenati diretti. L'Homo sapiens si è evoluto, formando grandi popolazioni in Africa . Verso la fine del Paleolitico medio, cominciò a migrare verso l'Eurasia, una regione abitata in quel momento da un'altra specie di ominidi, i Neanderthal. Entrambi i gruppi sono coesistiti nel corso di un arco temporale compreso tra i 10.000 e i 15.000 anni, scambiandosi materiale genetico durante le relazioni interspecie che si sono verificate occasionalmente. Tuttavia, verso l'anno 36.000 a.C., solo l'uomo moderno sembra essere stato l'unico abitante di quel territorio, mentre i neandertaliani si erano estinti. Leggi anche: Una tribù perduta di Homo sapiens ricompare nel DNA di un Neanderthal La spiegazione scientifica finora accettata attribuisce la sostituzione definitiva della popolazione dei Neanderthal da parte degli esseri umani moderni a fattori esterni, quali il cambiamento climatico e le epidemie, ma anche la concorrenza tra le due specie e le rispettive risorse. In tal modo, il vantaggio dell'Homo sapiens sarebbe stato assicurato da una dieta più ampia, uno stile di vita più efficiente e, soprattutto, la sua superiorità cognitiva. Tuttavia, molti di questi studi si basano sul presupposto che l'uomo moderno abbia avuto necessariamente un vantaggio evolutivo dal punto di vista della selezione naturale delle specie. Quindi, l'obiettivo dello studio di Stanford è stato quello di provare ad identificar e tale vantaggio.
La spiegazione proposta da Kolodny e Feldman non nega il possibile effetto di fattori esterni, ma non li accetta a priori. Questi sostengono che la costante migrazione dell'Homo sapiens dall'Africa all'Europa sia stato sufficiente a provocare la sostituzione dell'uomo di Neanderthal a beneficio degli esseri umani moderni, senza che la prima avesse un vantaggio evolutivo. I ricercatori di Stanford hanno modellato statisticamente i cambiamenti di popolazione di entrambi i gruppi nel tempo. Per questo, lo scenario simulato è iniziato da due popolazioni (gli uomini moderni e i neandertaliani, appunto) situati in due diverse aree (Africa e Europa). Nella simulazione, le due specie non si mescolano né hanno vantaggi evolutivi l'uno sull'altro. Gli scienziati hanno scoperto che i neandertaliani restarono circoscritti allo stesso territorio, mentre l'Homo Sapiens migrò in un flusso costante di piccoli gruppi dall'Africa vero il territorio europeo. Leggi anche: L'uomo preistorico esplorava, la donna stava a casa. Sbagliato: era la donna a viaggiare, diffondendo cultura e tecnologia Ogni volta che un piccolo gruppo si estingueva in Europa, indipendentemente dalla specie a cui apparteneva, quella zona era poi occupata da un altro gruppo. Questo processo si è ripetuto continuamente finché, in Europa, non sono rimasti solo rappresentanti di una singola specie. Tutte le simulazioni eseguite da Kolodny e Feldman, ripetute migliaia di volte, hanno dato come "vincitore" l'Homo sapiens. Così, gli scienziati sono giunti alla conclusione che il semplice processo migratorio degli uomini moderni abbia garantito, in termini probabilistici, un'eventuale sostituzione della popolazione neandertaliana. |
Post n°2760 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da NOTIZIE SCIENTIFICHE Neon che "mangia" elettroni nel nucleo delle stelle può provocare collasso e supernova 4 Aprile 2020 Spazio e astronomia(a) Un nucleo stellare contiene ossigeno, neon e magnesio. Una volta che la densità del nucleo diventa abbastanza alta, (b) il magnesio e il neon iniziano a mangiare elettroni e indurre un collasso. (c) Quindi la combustione dell'ossigeno viene innescata e produce nuclei del gruppo ferro e protoni liberi, che mangiano sempre più elettroni per promuovere un ulteriore collasso del nucleo. (d) Infine, il nucleo collassante diventa una stella di neutroni al centro e lo strato esterno esplode per produrre una supernova (credito: Cercando di capire come le stelle con una massa compresa tra 8 e 10 masse solari collassano, nella fase finale della propria esistenza, su loro stesse trasformandosi in stelle di neutroni e producendo una supernova, un team di ricercatori internazionale è giunto alla conclu- sione che il processo può avvenire grazie ad un particolare fenomeno che coinvolge il neon. Questo gas, all'interno di una stella, può infatti arrivare a consumare gli elettroni nel nucleo, un processo denominato "cattura elettronica". Questo fenomeno fa collassare la stella facendola diventare più piccola in dimensioni e trasformandola sostanzialmente in una stella di neutroni, fenomeno che poi produce l'intensa esplosione che conosciamo come "supernova". La gamma delle stelle con una massa compresa tra 8 e 10 volte la massa del Sole è una gamma importante perché fa da "confine" tra le stelle che collassano trasformandosi in stelle di neutroni producendo una supernova e stelle (quelle con una massa più piccola di tale limite) che collassano diventando però solo nane bianche e senza produrre alcun esplosione. Quando una stella comincia ad avere una massa tra 8 e 10 volte quella del Sole, comincia a formarsi nel nucleo un composto di ossigeno, magnesio e neon. Lo stesso nucleo è di solito ricco di elettroni degeneri, sostanzialmente un'enorme massa di elettroni in uno spazio denso con un alto livello energetico che sostengono il nucleo contro la forza di gravità che tende a far collassare la stella. Quando la densità del nucleo, però, supera un certo livello, un limite denominato di Chandrasekhar, gli elettroni cominciano ad essere consumati dal magnesio e poi dal neon, un processo denominato cattura degli elettroni". Il team di ricercatori ha studiato questo processo in dettaglio in una stella con una massa solare di 8,4 eseguendo soprattutto simulazioni al computer. Hanno simulato l'evoluzione del nucleo di questa stella la cui gravità può restare per un certo periodo in "equilibrio" grazie alla pressione degli elettroni degeneri che agiscono contro la gravità della stella che tende a collassare. Tuttavia la stessa simulazione mostra che quando il magnesio e soprattutto il neon cominciano a catturare gli elettroni, questi ultimi diminuiscono e il nucleo tende a restringersi rapidamente. Il collasso forma una stella di neutroni e provoca l'esplosione di una supernova. degli elettroni", può tra l'altro spiegare le caratteristiche della supernova registrata nel lontano anno 1054 che poi formò la Nebulosa del Granchio. |
Post n°2759 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da Focus DeeDee: un nuovo pianeta nano ai confini del Sistema SolareA 92 volte la distanza tra il Sole e la Terra, completa un'orbita ogni 1.100 anni. Illustrazione: DeeDee e, sullo sfondo, il Sole. | ALEXANDRA ANGELICH (NRAO / AUI / NSF) Grazie al radiotelescopio ALMA un gruppo di astronomi è riuscito a mettere in risalto le caratteristiche di un oggetto, recentemente scoperto, che si trova ben oltre Plutone ed è tra i più lontani mai osservati. Si tratta di 2014 UZ224, chiamato anche DeeDee - dalle iniziali di Distant Dwarf (nano lontano) - 3 volte più distante di Plutone dal Sole: al momento, è il secondo più distante oggetto trans- nettuniano (oltre l'orbita di Nettuno) noto, dopo il pianeta nano Eris. Gli astronomi stimano che dovrebbero esserci decine di migliaia di corpi ghiacciati di questo genere, oltre l'orbita di Nettuno, dei quali Plutone è il più vicino. DeeDee ripreso dal radiotelescopio ALMA (in Cile). | (NRAO / AUI / NSF) SARÀ UN PIANETA NANO? I dati di ALMA rivelano che DeeDee ha un diametro di soli 635 km, ossia due terzi del diametro di Cerere, che è il più grande tra i corpi della stessa classe nella fascia degli asteroidi (un insieme che invece è relativamente vicino, tra Marte e Giove). Sulla base del diametro i ricercatori ritengono che DeeDee possa avere una massa sufficiente ad avergli dato forma sferica: se così fosse, rientrerebbe a pieno titolo nella categoria dei pianeti nani - cosa che tuttavia non è ancora stata confermata. Stati Uniti, Luna, Plutone e DeeDee: misure a confronto. | (NRAO / AUI / NSF) Sottolinea David Gerdes, ricercatore dell'università del Michigan e primo autore dello studio pubblicato su Astrophysical Journal Letters: «Nello spazio, oltre Plutone devono esserci molti corpi planetari simili a DeeDee, alcuni piccoli, ma altri con dimensioni tali da competere con quelle di Plutone, e potrebbero essercene anche di più grandi. Sono però oggetti molto lontani e la luce che riflettono è debolissima, perciò è molto difficile rilevarli e poi studiarli . ALMA tuttavia ha capacità uniche, che ci permettono di conoscere dettagli molto interessanti anche di mondi così lontani». Distanze a confronto: "AU" sta per Unità Astronomica, che per convenzione è la distanza Terra-Sole. | (NRAO / AUI / NSF) SUPER FREDDO. DeeDee si trova a circa 92 unità astronomiche dal Sole (1 UA corrisponde a 150 milioni di chilometri): a quella distanza DeeDee impiega circa 1.100 anni per compiere un orbita attorno al Sole e la sua luce riflessa impiega quasi 13 ore per raggiungere la Terra. La scoperta di DeeDee (2014) è stata confermata nel 2016, ma dalla prima serie di dati i ricercatori avevano dedotto solamente distanza e caratteristiche orbitali, non le dimensioni o altre caratteristiche. Adesso è stata rilevata anche la temperatura superficiale, che è attorno a 30 gradi Kelvin (-243 °C), ossia poco più dello zero assoluto (-273,15 °C). ELEMENTI PRIMORDIALI. Gli oggetti come DeeDee sono "avanzi" della formazione del Sistema Solare: le loro orbite e proprietà fisiche rivelano dettagli importanti sulla nascita dei pianeti e sulla loro distribuzione attorno al Sole. Con le stesse tecniche messe in campo con ALMA i ricercatori potrebbero probabilmente scoprire anche qualcosa di più sul Pianeta Nove, un ipotetico pianeta gigante che si suppone possa orbitare attorno al Sole ancora più lontano di DeeDee ed Eris. |
Post n°2758 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da Focus L'accoppiamento tra due mosche congelato nell'ambra Un atto che continua da 41 milioni di anni: è un tesoro trovato nell'ambra in Australia, con più antichi fossili del supercontinente Gondwana. Colte sul fatto, 41 o 40 milioni di anni fa: queste due mosche non si sono accorte della fine inevitabile. | JEFFREY STILWELL Incuranti della morte, e fino all'ultimo: due mosche intente ad accoppiarsi da qualche parte nell'emisfero sud del nostro Pianeta, 41 o 40 milioni di anni fa, hanno fatto una brutta fine, ma almeno ci sono andate incontro insieme. I due insetti, due ditteri della famiglia dei Dolicopodidi, sono uno dei reperti più interessanti di un vasto assorti- mento di fossili d'ambra ritrovato in Australia e descritto in un recente articolo su Scientific Reports. Per qualche ragione, i frammenti d'ambra sono più rari, nell'emisfero australe. Ecco perché la scoperta di questi tesori, che risale al 2011 ma è stata descritta solo ora, è di particolare importanza: oltre ai due amanti alati, vi sono alcuni fossili più antichi, un'istantanea della fauna del supercontinente Gondwana.
FOTOGRAFIE DALLA PREISTORIA. Un gruppo internazionale di paleontologi della Monash University di Melbourne ha riportato alla luce e studiato, in Australia e Nuova Zelanda, 5.800 frammenti formatisi tra 40 e 230 milioni di anni fa. Imprigionati nella resina, oltre alla coppia di mosche, sono stati trovati alcuni ragni di specie non ancora identificate, le più antiche formiche mai rinvenute in Australia (42-40 milioni di anni), acari e collemboli (minuscoli artropodi). Le mosche in amore sono di particolare interesse perché rappresentano una sorta di "comportamento congelato": come gli abitanti di Pompei e Ercolano, non ebbero il tempo di accorgersi del pericolo e furono sorprese in una posa molto... naturale. Secondo gli scienziati è possibile che una delle due fosse già incastrata nella resina e che un'altra, evidentemente eccitata, abbia provato ad accoppiarsi, decretando la propria fine. Gli strati di roccia dove le mosche e altri reperti giacevano sono fatti di carbone, il residuo pressurizzato delle antiche piante dove gli insetti vivevano. MACCHINA DEL TEMPO. Il frammento più antico tra quelli studiati risale al periodo Triassico, tra 252 e 201 milioni di anni fa. È la testimonianza di un luogo che non esiste più: all'epoca le terre emerse erano unite nel supercontinente Pangea, di cui Australia e Antartide, incollati tra loro e situati molto più a sud rispetto a oggi, costituivano i recessi meridionali: la Gondwana. I fossili nell'ambra forniscono uno scorcio su questi antichi ecosistemi. |
Post n°2757 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte:articolo riportato da: Vita possibile anche su pianeti che non orbitano intorno a stelle grazie a decadimento radioattivo 7 Aprile 2020 Spazio e astronomia, Top news Un pianeta che può ospitare la vita senza dover per forza orbitare intorno ad una stella? Sembra impossibile ma secondo un nuovo studio un pianeta potrebbe essere riscaldato sulla sua superficie dal naturale decadimento radioattivo, come spiegato in un articolo pubblicato sul sito di Science. Si tratta di una teoria che ampia il ventaglio di possibili esopianeti che potrebbero ospitare la vita, finora ritenuta possibile solo con la presenza di una stella (o, come qualcuno ha teorizzato, anche di un buco nero). Secondo i ricercatori esistono isotopi radioattivi, come uranio-238, torio-232 e potassio-40 che, man mano che decadono, generano una quantità di energia, sebbene piccolissima. Tuttavia potrebbero esistere pianeti che, a differenza della Terra, potrebbero possedere moltissimi di questi isotopi radioattivi tanto da generare un livello di calore che possa essere sufficiente per impedire un congelamento dell'eventuale acqua presente sulla superficie. È una sorta di liberazione: dover per forza fare riferimento ad una stelle e quindi alla distanza minima o massima di un pianeta orbitante per risultare "abitabile" è da sempre considerato come un paradigma per la ricerca di vita extraterrestre ma anche un innegabile grande limitazione. "Questo ti dà la libertà di essere ovunque", riferisce Avi Loeb, astrofisico dell'Università di Harvard, uno degli autori dello studio insieme a Manasvi Lingam, astrobiologo del Florida Institute of Technology. "Non devi essere vicino a una stella." I modelli eseguiti dai due ricercatori mostrano che, per riscaldare un pianeta in modo da poter rendere possibile l'esistenza di acqua liquida sulla superficie, ci vorrebbe circa 1000 volte la quantità di isotopi radioat- tivi presenti sulla terra. Hanno anche calcolato che un pianeta con la massa della terra ma con un'abbondanza di radionuclidi solo 100 volte superiore a quella della Terra vanterebbe un livello di calore sufficiente per mantenere il liquido l'etano per un periodo di centinaia di milioni di anni. L'etano, anche se non in maniera così efficiente come l'acqua, potrebbe essere un liquido utile per la sussistenza della vita semplice. Naturalmente in un ambiente del genere i livelli di radiazione sarebbero comunque altissimi e la vita multicellulare risulterebbe improbabile. Tuttavia la vita microbica e unicellulare, come diversi microbi hanno dimostrato qui sulla Terra, potrebbe essere ancora possibile. Altro fattore negativo sarebbe rappresentato dal fatto che trovare un pianeta del genere risulterebbe molto più difficile rispetto ai pianeti "classici": non orbitando intorno ad una stella non sarebbe facilmente intercettabile, probabilmente neanche all'infrarosso e quindi neanche dal futuro telescopio spaziale James Webb. |
Post n°2756 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet Intercettato buco nero di massa intermedia, un oggetto difficile da individuare 4 Aprile 2020 Spazio e astronomia, Top newsRappresentazione artistica di un buco nero che attrae materiale di una stella (credito: ESA/Hubble, M. Kornmesser) Un ulteriore prova dell'esistenza dei cosiddetti "buchi neri di massa intermedia" è stata trovata dal telescopio spaziale Hubble all'interno di un ammasso stellare in un'altra galassia. I buchi neri di massa intermedia (IMBH) che rappresentano un po' "l'anello mancante" dell'evoluzione dei buchi neri stessi. Alcuni di essi possono essere relativamente piccoli, altri sono così grandi che vengono denominati "super massicci" (e sono quelli che di solito si trovano al centro delle galassie). Il buco nero intercettato dal telescopio spaziale sembra essere di almeno 50.000 volte la massa del nostro Sole, una massa che lo colloca "di diritto" all'interno della categoria dei buchi neri intermedi. Secondo quanto spiega Dacheng Lin, ricercatore dell'Università del New Hampshire, questa tipologia di buco nero è molto difficile da individuare in quanto essi sono sfuggenti: sono più piccoli dei buchi neri supermassicci e di solito non si trovano in situazioni in cui divorano continuamente materiale in quanto la loro forza gravitazionale non è sufficiente. L'unico modo per individuarli, tenendo sempre bene in mente che un buco nero sostanzialmente è un oggetto invisibile perché non emette alcuna luce, è andare per esclusione. È proprio quello che hanno fatto i ricercatori col telescopio spaziale Hubble dando seguito ai dati già raccolti dall'osservatorio a raggi X Chandra e dall'altro osservatorio spaziale XMM-Newton dell'ESA. Le osservazioni ai raggi X hanno permesso ricercatori di capire la produzione totale di energia da parte di questo buco nero, come spiega Natalie Webb, ricercatrice dell'Università di Tolosa, Francia, ed altra autrice dello studio. Ed è proprio grazie ai raggi X provenienti dalla distruzione di una stella provocata dalla sua forza gravitazionale che i ricercatori si sono accorti che ci si trovava di fronte ad un oggetto molto potente a livello gravitazionale e compatto, sostanzialmente un buco nero. Inoltre dato che questa sorgente di raggi X non proveniva dal centro di una galassia rappresentava un altro indizio del fatto che non ci si trovava di fronte ad un buco nero supermassiccio. Grazie ad Hubble, i ricercatori sono riusciti a risolvere la posizione precisa del buco nero. Quest'ultimo sembra trovarsi all'interno di un ammasso stellare situato alla periferia di un'altra galassia. Secondo i ricercatori questo ammasso stellare potrebbe essere quello che resta di una galassia nana, di massa inferiore, poi inglobata all'interno della galassia più grande dove attualmente si trova. |
Post n°2755 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da: Astronomi iraniani analizzano stella variabile lontana 700 anni luce 23 Marzo 2020 Spazio e astronomia Nuove osservazioni fotometriche della stella variabile V2455 Cyg sono state effettuate da un team di astronomi iraniani. Gli astronomi confermano che si tratta di una variabile Delta Scuti, ossia una tipologia di stella variabile che cambia il proprio livello di luminosità emettendo delle pulsazioni. Anche le stelle variabile di tipo Delta Scuti possono essere considerate importanti candele standard, ossia stelle utili per effettuare misurazioni sulla lunga distanza, non solo all'interno della via Lattea ma anche fuori. Nello studio, pubblicato per ora su arXiv, gli astronomi pubblicano varie informazioni su questa stella, scoperta per la prima volta nel 1991: si trova a 700 anni luce di distanza da noi ed è classificabile come variabile SX Phoenicis (SX Phe), a sua volta una sottoclasse delle stelle variabili di tipo Delta Scuti. È caratterizzata da un periodo abbastanza breve di 0,09 giorni ed è una stella di tipo spettrale F2. più lungo di 0,0000002 giorni all'anno. Il ricercatore hanno inoltre scoperto che ha una temperatura di 7490° kelvin, un raggio di 2,52 raggi solari e una massa di 1,92 masse solari. |
Post n°2754 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da Internet Analizzata cometa extrasolare C/2019 Q4: è molto simile alle comete del sistema solare 16 Settembre 2019 Spazio e astronomia, Top news Abbiamo parlato la settimana scorsa dell'incredibile scoperta, da parte di un astronomo amatoriale russo, di C/2019 Q4 (Borisov), quello che potrebbe essere considerato come il secondo corpo, tra quelli individuati, presente nel sistema solare proveniente dall'esterno di quest'ultimo, dopo l'ormai famoso Oumuamua. Subito sono partite le analisi di astronomi professionisti e una delle prime è quella effettuata da un gruppo di ricercatori dell'Istituto di Astrofisica delle le isole Canarie (IAC ) in collaborazione con Carlos Raúl de la Fuente Marcos, dell'Università Complutense di Madrid. I ricercatori hanno ottenuto nuove immagini ad alta risoluzione della cometa C/2019 Q4. Osservazioni non facili dato che questo oggetto poteva essere localizzato solo a bassa quota sull'orizzonte e con una bassa separazione angolare dal Sole. In ogni caso, grazie anche alle eccellenti condizioni atmosferiche presenti all'osservatorio delle Canarie che hanno utilizzato, i ricercatori sono riusciti ad acquisire sui dati. Secondo Miquel Serra Ricart si tratta di "un oggetto cometario, con coma e coda ben definiti". Inoltre, analizzando lo spettro dell'oggetto, hanno compreso che deve essere fatto con gli stessi materiali con i quali sono fatte le comete del sistema solare e ciò suggerisce che la composizione di oggetti cometari provenienti dall'esterno del sistema solare devono essere simili alle comete che sono nate e che circolano nel nostro sistema. Sono sostanzialmente fatte anch'esse con ghiaccio e polvere. La cometa C/2019 Q4 dovrebbe avvicinarsi maggiormente al Sole all'inizio di dicembre per poi allontanarsi e inoltrarsi nello spazio interstellare per non tornare più ne sistema solare. Secondo gli astronomi si è formata intorno a qualche stella vicino al Sole ed ha acquisito un'orbita con la quale ha raggiunto una particolare velocità di fuga che l'ha proiettata fuori dal suo sistema e che le ha permesso di cadere nella trappola gravitazionale del Sole da cui, molto probabilmente proprio per la stessa velocità di fuga, riuscirà ad allontanarsi sfuggendo definitivamente. E proprio la velocità è una delle caratteristiche di questo oggetto che hanno fatto pensare alla sua natura extrasolare quando è stato individuato. Orbita della cometa interstellare C/2019 Q4 (credito: JPL) |
Post n°2753 pubblicato il 15 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet SCIENZE APPLICATEINGEGNERIA DEI MATERIALI Nuovo materiale tessile riciclabile al 100% economico da fabbricare 14 Febbraio 2020 Ingegneria dei materialiSolvente in poliammide viene applicato su un pezzo di tessuto in poliammide (credito: Università di Borås) Un materiale tessile definito come "completamente nuovo" che risulta anche più leggero, resistente, anche al calore e alle intemperie, e più economico da realizzare a livello industriale è stato inventato da uno studente di dottorato dell'Università di Borås, Svezia. Mostafa Jabbari spiega che, almeno inizialmente, ha dovuto affrontare due grandi ostacoli: uno era il livello di adesione degli strati del tessuto non sufficiente e l'altro era la riciclabilità del tessuto stesso, una caratteristica evidentemente primaria per lo stesso ricercatore. Il ricercatore ha utilizzato la poliammide, una macromolecola che può essere trovata sia in natura che realizzata in laboratorio. Con questa macromolecola ha realizzato un nuovo tipo di materiale tessile molto più efficiente che può essere riciclato più volte. Il nuovo materiale, denominato dallo stesso scienziato APCT (all-polyamide composite coated textile), è pressoché fatto intera- mente di poliammide. Il procedimento? Lo spiega lo stesso Jabbari nel comunicato stampa apparso sul sito dell'istituto svedese: "Ho sciolto la poliammide con un solvente costituito da acido formico e l'ho applicato come una pellicola sottile sul tessuto di poliammide. La soluzione provoca la formazione di strisce di polimeri nel tessuto. Quando il solvente evapora, completamente senza calore o altri prodotti chimici, i fili di poliammide nella soluzione e il tessuto si intrecciano l'uno nell'altro e il risultato è un materiale tessile completamente nuovo che è impermeabile". |
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