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Messaggi del 27/04/2020

Ultime notizie sulle rane.

Post n°2827 pubblicato il 27 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

21 gennaio 2020

Alle origini della comunicazione acustica

di Giulia Assogna

Le rane discendono da animali prevalentemente notturni

ma hanno conservato la capacità di comunicare acusticamente

anche dopo il passaggio alla vita diurna (© Peter Trimming

/Creative Commons)

 La capacità di comunicare attraverso suoni prodotti dall'apparato

respiratorio, come i gracidii delle rane o i cinguettii degli uccelli,

si è evoluta circa 200 milioni di anni fa.

Lo ha stabilito uno studio che ha scoperto inoltre che era associata a

stili di vita notturni ma si è conservata come tratto stabile

Il cinguettio degli uccelli, l'ululato dei lupi, il barrito degli elefanti,

il gracidio delle rane.

Sono solo alcuni dei suoni usati dagli animali per comunicare tra loro,

richiami ancestrali le cui origini risalgono indietro nel tempo di centinaia

di milioni di anni.

Ma a quando esattamente? E perché si sono sviluppati in alcune specie

e non in altre?

Uno studio guidato da John J. Wiens, dell'Università dell'Arizona, e colleghi,

 pubblicato su "Nature Communications", risponde ora a queste domande,

rivelando per la prima volta che la comunicazione acustica tra i vertebrati

si è evoluta tra i 200 e i 100 milioni di anni fa, che si è conservata come

tratto stabile nelle diverse linee evolutive e che era inizialmente associata a

uno stile di vita notturno.

Per comunicazione acustica si intende quel tipo di comunicazione - condiviso

da animali ed esseri umani - che utilizza suoni prodotti solo dal sistema

respiratorio e non da altre parti del corpo, per esempio lo sbattimento delle ali.

È stata studiata a lungo, ma non si avevano informazioni certe sulle ragioni

della sua comparsa.

La ricerca è stata condotta con un approccio filogenetico, cioè ricostruendo un

albero di parentela evolutiva tra i gruppi animali, in particolare mammiferi,

uccelli, anfibi e rettili.

I ricercatori hanno raccolto i dati disponibili in letteratura sulla presenza di

comunicazione acustica in 1800 specie di vertebrati vissuti negli ultimi 350

milioni di anni, registrandone anche le abitudini comportamentali e l'ambiente

in cui vivevano.

Le analisi statistiche dei dati hanno quindi dimostrato che questo genere di

comunicazione si è affermato nei gruppi animali con abitudini notturne.

In assenza di luce, infatti, era impossibile allontanare i predatori o attrarre

i partner utilizzando caratteristiche fisiche visibili, come i colori o le dimensioni

del corpo: trasmettere segnali sonori ha dunque fornito un notevole vantaggio per

la sopravvivenza della specie.

Oggi, la comunicazione acustica è presente nel 95 per cento dei vertebrati terrestri,

ed è rimasta come carattere evolutivo stabile anche in quei gruppi animali che nel

tempo hanno modificato il loro stile di vita acquisendo abitudini diurne.

"Sembra che la comunicazione acustica sia stata un vantaggio durante le attività

notturne, ma che non abbia costituito mai uno svantaggio nel passaggio alle attività

diurne" spiega Wiens. "Abbiamo degli esempi in alcuni gruppi di rane e mammiferi

che ora sono attivi di giorno, ma che hanno mantenuto la comunicazione acustica

per 200 o 100 milioni di anni, a seconda del gruppo di appartenenza, cioè da

quando avevano ancora abitudini notturne".

Un indizio interessante dell'antico comportamento notturno è che la maggior parte

degli uccelli è attiva nel canto soprattutto all'alba.

I risultati della ricerca confermano inoltre che la capacità di vocalizzare non è uno

stimolo per la diversificazione del gruppo e la nascita di nuove specie, come invece

si pensava precedentemente.

"Se si guarda a una scala ridotta, pochi milioni di anni, e all'interno di certi gruppi

specifici, per esempio le rane e gli uccelli, l'idea sembra funzionare.

Ma se si guarda a una scala più ampia, come 350 milioni di anni di evoluzione, ci

accorgiamo che la comunicazione acustica non può spiegare tutta la diversità di

specie che conosciamo oggi" conclude Wiens.

 
 
 

L a gestione dei rifiuti oggi.

Post n°2826 pubblicato il 27 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Ormai da diverso tempo la città di Palermo vive una situazione

difficile per quanto riguardo il sistema di gestione dei rifiuti.

Il Comune del capoluogo siciliano e la RAP, azienda di raccolta e

igiene ambientale, con notevoli sforzi stanno cercando di aumentare

la percentuale di raccolta differenziata (ancora sotto il 20%),

combattendo contro lo scarso senso civico di molti cittadini e l'eredità

di una pessima gestione del servizio da parte delle amministrazioni

passate.

Una città dunque lontana dagli standard europei dove però, come nel più

classico dei contrasti siciliani, batte un cuore "green".

Il riciclo parte dal centro storico

Nel dedalo di viuzze del centro storico esiste infatti un mosaico composto

da piccoli negozi e laboratori artigianali che promuovono il riuso ed

il riciclo di oggetti e materiali.

Una città nella città, questa volta molto più vicina ad altri contesti

virtuosi del nostro Paese, dove le politiche del riciclo, del riutilizzo e

della prevenzione suggerite dalla direttiva europea 2008/98 trovano

spontanea applicazione.

Legno, vele, cestelli per lavatrice, caffettiere, pneumatici, vinili, polistirolo,

plastica: dalle mani di questi artigiani del riciclo tutto torna a nuova vita.

Materiali ed oggetti sono spesso merce di scambio tra i laboratori, mentre

in molti casi sono i cittadini stessi a rifornire le botteghe.

È il caso di Moon It's (che foneticamente ricorda la parola "munnizza" =

immondizia in siciliano), laboratorio in Via Alloro gestito da Fabrizio D'Ancona

e William Giocoso, dove i contenitori per uova e vecchi vasi di terracotta

portati dai clienti si fanno lampade, mentre le candele usate vengono sciolte

per crearne di nuove. A breve distanza l'Officina dei Giusti di Gwena Cipolla

 recupera tessuti in cuoio e jeans usati per abbellire lavorazioni in ceramica,

ma il vero pezzo forte del laboratorio è "la lampadrice": una lampada

realizzata con i cestelli delle lavatrici.

In Piazza Aragona, piccolo vero e proprio "green district", si trova la 

Piccola Fabbrica di Ilaria Sposito, un laboratorio dove le vele di optimist,

laser e barche d'altura, diventano astucci, borse, sedute e marsupi colorati;

stessa sorte per i ritagli in pvc. «Le vele dismesse arrivano dalla Toscana

e dalla Liguria- spiega Ilaria -.

La maggior parte sono regalate; per le velerie infatti i costi di smaltimento

del materiale inutilizzabile sono molto alti».

Dalle barche alle automibili, basta andare dai dirimpettai del laboratorio

 Ciatu di Elena Gambino e Fabrizio Lisciandrello per vedere tornare a

nuova vita pneumatici, camere d'aria e cinture di sicurezza sotto forma

di zaini, gioielli e marsupi.

La sinergia dei lab creativi

Un orgasmo di creatività che coinvolge anche il laboratorio Azyzo di

Giada Giametta e Giovanni Casu, dove le confezioni dei formaggini si

trasformano in incredibili scatole portaoggetti, le cialde del caffè in

originali ciondoli, mentre la pallina del deodorante roll-on 

(si, avete capito bene) diventa un comodo portachiavi.

C'è poi chi ha lavorato anche sul concetto di prevenzione del rifiuto,

fattore che sta molto a cuore alla Comunità Europea: presso il Clab Arte

 i pennelli di Maria Diliberto trasformano tagli, strappi e macchie di

borse rovinate in splendide opere pittoriche.

A breve distanza da Piazza Pretoria, Basura (che in spagnolo significa

"immondizia") di Valeria Leonardi è il luogo dove strappare gli oggetti

alla via certa dello smaltimento: vecchie caffettiere bruciate, lampade,

RAEE e dischi, rinascono dopo un meticoloso restauro o una originale

trasformazione.

C'è poi chi sta lavorando per creare a Palermo un vero e proprio punto

di riferimento del riuso: è il caso di Madlab, di Antonella Cataldo.

B&b e laboratorio creativo, a Madlab tutto è riutilizzato o riciclato,

persino gli arredi.

I turisti dunque possono così dormire tra abat-jour create con vecchie

tastiere di pc e portapenne realizzati con i floppy disc.

Ma non solo: la presenza del laboratorio permette anche dei piccoli

momenti di mini-workshop del riuso. 

«Chiediamo al visitatore di venire con una vecchia camicia -  spiega

Antonella Cataldo -. Se è estate, per esempio, questa può facilmente

diventare una borsa da mare pronta all'uso ed è il turista stesso a

lavorare i material».
E i residui di lavorazione? I laboratori riescono a minimizzare o persino

azzerare gli scarti di produzione mettendo in moto un vero e proprio

scambio di sfridi e scarti; così piccoli pezzi di cuoio diventano intarsi

per qualcuno o pezzi di legno e polistirolo espositori per qualcun altro.

Tutti i laboratori appartengono alla rete Alab, l'Associazione Liberi

Artisti ed Artigiani di Palermo, un gruppo di persone che senza clamori

sta promuovendo l'arte e l'artigianato, riqualificando il centro storico

del capoluogo siciliano secondo i più alti standard di sostenibilità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
RIPRODUZIONE CONSENTITA CON LINK A ORIGINALE E

CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM 

 
 
 

Un omaggio a K.Lorenz.

Post n°2825 pubblicato il 27 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

PICCOLE STORIE DI GRANDI NATURALISTI

Konrad Lorenz e l'oca Martina

Konrad Lorenz e l'oca Martina

L'imprinting è forse l'esempio di comportamento animale

più noto al grande pubblico.

Spiegato in due parole, si tratta di un tipo di apprendimento tipico

dei piccoli di uccelli e mammiferi che, nell'arco di pochissime ore

dopo la nascita, stabiliscono in base all'osservazione diretta chi è il

loro genitore.

Se i pulcini di anatra appena nati si trovano a stretto contatto con un

essere umano per un determinato periodo di tempo (di solito poche ore),

è molto probabile che lo identifichino come la loro mamma e lo se

guano ovunque vada.

Lo scienziato austriaco Konrad Lorenz è colui che per primo ha

descritto nel dettaglio questo fenomeno e, nondimeno, lo ha fatto

conoscere al grande pubblico: le fotografie del biologo premio

Nobel che passeggia nelle strade di campagna o nuota nelle acque del

Danubio inseguito da una serie di ochette in fila indiana sono ormai

un'icona, un'immagine che appartiene all'immaginario collettivo.

Lorenz ha studiato questo fenomeno (tradotto dall'originale tedesco

tedesco Prägung) principalmente nelle oche selvatiche, e lui stesso è

stato più volte "mamma" di varie famiglie di oche.

L'animale che più degli altri è legato a questi studi è l'oca Martina, le

cui vicissitudini sono raccontate da Lorenz nel suo libro più celebre,

 "L'anello di re Salomone".

Lorenz racconta di quando Martina sbucò fuori dall'uovo e fu lui il

primo essere vivente che vide.

Da quel momento la sua "mamma" fu costretta a portare Martina

ovunque andasse, a dormire insieme a lei, rassicurandola costantemente

rispondendo ai suoi continui richiami, a nuotare insieme a lei e così via.

Fu così per lunghi mesi, fino a quando Martina non divenne un uccell

o adulto e fu pronta a vivere la sua vita in maniera indipendente.

"L'anello di re Salomone", pubblicato nel 1949, fu un successo

planetario che rese il suo autore una celebrità in campo sia scientifico

sia letterario.

Ma non bisogna farsi ingannare dalla natura di questo libro che racconta

aneddoti di taccole e cani, pesci di acquario e, appunto, oche selvatiche,

poiché tra le righe di un libro apparentemente "leggero" si nascondono

tutte le basi del pensiero di Lorenz, che andarono a porre le fondamenta

della nuova etologia, insieme al lavoro di altri grandi scienziati

(in particolare il suo amico e collega olandese Nikolaas Tinbergen e

l'austriaco Karl von Frisch, che con lui vinsero il Nobel per la Medicina

nel 1973).

Tra questi elementi, è fondamentale nel Lorenz-pensiero il rimarcare

l'esistenza della componente "innata" del comportamento degli animali

di cui l'imprinting è un esempio significativo.

Per Lorenz, infatti, è basilare comprendere che il comportamento degli

animali è frutto di due componenti imprescindibili, la parte innata e

quella appresa, che contribuiscono in ugual modo a plasmare il

carattere.

Dopo la lettura de "L'anello del re Salomone", però, viene voglia di

saperne molto di più. Tra i tanti testi che permettono di approfondire

la conoscenza delle idee del grande etologo austriaco ci sono, tra gli

altri, l'importante saggio "Evoluzione e modificazione del comportamento",

in cui viene difesa la componente innata nel comportamento animale,

 "L'altra faccia dello specchio", dedicato all'etologia della specie umana,

 "L'aggressività", dedicato, come da titolo, all'etologia dei comportamenti

aggressivi e "E l'uomo incontrò il cane", dedicato ai nostri amici a quattro

zampe.

Per chi invece volesse approfondire le vicende di Martina e dei suoi

conspecifici c'è "Io sono qui, tu dove sei?", dedicato all'etologia

dell'oca selvatica.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
RIPRODUZIONE CONSENTITA CON LINK A ORIGINALE E

CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM

 
 
 

L'inquinamento è un fattore del Covid19

Post n°2824 pubblicato il 27 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

DA UNO STUDIO DELLA HARVARD UNIVERSITY

Il PM2.5 nell'aria aumenterebbe la mortalità da COVID-19

Il PM2.5 nell'aria aumenterebbe la mortalità da COVID-19


Da oltreoceano giunge una notizia inquietante: la presenza di PM2.5

nell'aria aumenterebbe la mortalità da COVID-19.

In queste ore l'epidemia del virus Sars-CoV-2 sta colpendo duramente

gli Stati Uniti d'America. Fonti del Governo stimano un numero

piuttosto elevato di potenziali vittime compreso tra le 100mila e le

240mila unità.

Secondo i risultati di uno studio appena sottoposto alla revisione della

comunità scientifica internazionale e redatto da un team di ricerca di

Harvard University, il tasso di mortalità associato al suddetto Coronavirus

sarebbe fortemente dipendente dal livello di inquinamento atmosferico

 e in particolar modo dalla quantità di PM2.5 presenti in atmosfera.

Le polveri sottili: altro nemico invisibile

Il particolato atmosferico è composto da particelle solide e liquide sospese

in aria di dimensioni microscopiche.

In particolare sotto il nome di "PM2.5" vanno tutte quelle polveri con

diametro aerodinamico inferiore o uguale a 2.5µm.

È il cosiddetto "particolato fine" di cui sorgenti sono un po' tutti i tipi di

combustione.

Sono inclusi i motori di auto e motoveicoli, gli impianti di produzione

di energia elettrica, a legna per il riscaldamento domestico.

Ma anche gli incendi boschivi e molti altri processi industriali.

 Queste minuscole particelle possono essere inalate e respirate, spingendosi

nella parte più profonda dell'apparato respiratorio umano e raggiungendo

i bronchi.

La frazione più fine, inoltre, si sospetta che possa filtrare ancora più in

profondità nel nostro organismo entrando nel sangue e raggiungendo le

cellule.

Gli effetti dell'assorbimento del PM2.5 sono legati al periodo di esposizione

e alla concentrazione di metalli presenti.

Possono bastare pochi giorni ad alte concentrazioni per avere infiammazione

delle vie respiratorie, crisi di asma o malfunzionamento del sistema

cardiocircolatorio.

Un'esposizione prolungata può, invece, generare effetti di tipo cronico con

sintomi come la tosse, il catarro, una diminuzione della capacità polmonare

o cardiaca, asma ed altre forme infiammatorie con conseguenze anche fatali.

Il Global Burden Disease Study ha identificato già da parecchio tempo

l'inquinamento atmosferico come un fattore di rischio per le malattie cardio-

vascolari, oltre a provocare almeno 5.5 milioni di morti premature l'anno

in tutto il mondo.

I risultati dello studio

L'obiettivo era studiare l'influenza dell'esposizione al PM2.5 sul tasso di

mortalità del Coronavirus.

I ricercatori americani hanno così raccolto dati in oltre 3.000 contee degli

Stati Uniti relativamente alle vittime di COVID-19 e all'esposizione a lungo

termine della popolazione alle PM2.5.

I risultati hanno dimostrato che un aumento di appena 1 μg/m3 di PM2.5 nell'aria

corrisponderebbe a aumento del 15% del tasso di mortalità da COVID-19.

I pazienti dunque che sono stati esposti per lungo tempo ad aria inquinata

rischierebbero maggiormente la morte per complicazioni legate al Coronavirus

rispetto ad altri che hanno vissuto in zone con aria più pulita.

Il PM2.5 dunque può aggravare fortemente i sintomi di infezione da COVID-19,

aumentando enormemente il rischio di mortalità nei pazienti vittima del virus.

I risultati di questo studio dovrebbero sottolineare l'importanza di continuare ad

implementare una normativa stringente sulla qualità dell'aria. 

Non solo durante l'attuale pandemia ma anche per l'immediato futuro.

Soltanto migliorando la qualità dell'aria che respiriamo potremo prevenire l'insorgere

di malattie respiratorie e dunque mitigare il rischio di mortalità associato ad

eventuali virus.

Il dibattito all'interno della comunità scientifica

Nei giorni scorsi, proprio in Italia, il dibattito all'interno della comunità scientifica

si era orientato su eventuali evidenze tra la concentrazione di polveri sottili in aria

(PM10) e la diffusione dell'epidemia.

Da un lato si erano schierati alcuni studiosi (ad esempio i ricercatori della 

Società Italiana di Medicina Ambientale e delle università di Bari e Bologna)

che sostenevano, dati e studi precedenti alla mano, la forte correlazione tra

presenza di particolato in atmosfera e diffusione del Coronavirus.

Dall'altro lato "gli scettici", in primis la Società Italiana di Aerosol e i 70 firmatari

di una nota nella quale si asserisce come «ad oggi non sia stato dimostrato alcun

effetto di maggiore suscettibilità al contagio al Covid-19 dovuto all'esposizione

alle polveri atmosferiche» e per cui «si ritiene che la proposta di misure restrittive

di contenimento dell'inquinamento sia, allo stato attuale delle conoscenze,

ingiustificata».

Il position paper pubblicato dai ricercatori della Società Italiana di Medicina

Ambientale si sofferma però principalmente sull'effetto-carrier del particolato

atmosferico più grossolano (PM10) nei confronti del Coronavirus e dunque

della diffusione dell'epidemia. Sarebbe ora interessante applicare la metodologia

dello studio americano al caso Italia per, eventualmente, confermarne i risultati e

agire di conseguenza per ridurre il rischio di ulteriori vittime nell'immediato futuro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

RIPRODUZIONE CONSENTITA CON LINK A ORIGINALE E

CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM

 
 
 

Benvenuto Covid: i fumatori aprono le porte al virus

Post n°2823 pubblicato il 27 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

Uno studio conferma: il fumo è correlato alle forme più gravi

di CoronavirusI fumatori presentano livelli più alti di una molecola

chiamata "enzima di conversione dell'angiotensina II" (ACE-2) che

consente al Covid-19 di entrare nelle cellule polmonari e causare

l'infezione

Di Antonio Scali

Pubblicato il 9 Apr. 2020 alle 12:05Aggiornato il 9 Apr. 2020 alle 12:09

Il fumo è correlato alle forme più gravi di Coronavirus: la conferma

in uno studio

C'è una correlazione tra il fumo di sigaretta e le forme più aggressive di

 Coronavirus

. A confermarlo un prestigioso studio condotto alla British Columbia

University e al St. Paul's Hospital di Vancouver, in Canada, che dimostra

come i fumatori e coloro che soffrono di broncopneumopatia cronica

ostruttiva (BPCO) hanno generalmente livelli elevati di una molecola chiamata

"enzima di conversione dell'angiotensina II" (ACE-2), già riconosciuta

come un punto d'accesso che consente al Covid-19 di entrare nelle cellule

polmonari e causare l'infezione.

Questo nuovo studio rafforza quindi l'ipotesi che ci sia un forte legame tra

il vizio di fumare e le conseguenze più gravi legate al contagio da Coronavirus.

Il lavoro è stato pubblicato sull'European Respiratory Journal. 

Anche se molto difficile da fare, un valido modo per proteggersi dalle forme

di Covid-19 più pericolose è quello di smettere di fumare.

 Lo studio inoltre sembra proprio andare in tal senso: i livelli di ACE-2

negli ex fumatori sono infatti decisamente più bassi rispetto a quelli

presenti negli attuali fumatori.

La broncopneumopatia cronica ostruttiva è infatti legata a doppio filo

al fumo di sigaretta: causa un danno irreversibile delle vie aeree, associato

a uno stato di infiammazione del tessuto polmonare.

Le conseguenze sono difficoltà respiratorie più o meno gravi.

I test sono stati condotti studiando campioni prelevati dai polmoni di 21

pazienti con BPCO e altrettante persone sane, e misurando il livello di ACE-2.

Le conclusioni hanno confermato che i livelli di ACE-2 sono particolarmente

alti nei fumatori, più bassi in chi non ne ha mai fatto uso o ha smesso.

"I dati che osserviamo dalla Cina suggeriscono che i pazienti con BPCO

hanno un rischio maggiore di esiti peggiori da Covid-19.

Abbiamo ipotizzato che ciò sia dovuto ai livelli elevati di ACE-2 nelle vie

aeree, che potrebbero forse rendere più facile l'ingresso del virus e lo

sviluppo dell'infezione", conferma l'autrice dello studio, Janice Leung.

"I pazienti con BPCO dovrebbero attenersi rigorosamente al distanziamento

sociale e all'igiene delle mani consigliata per prevenire l'infezione - conclude

Leung -.

Abbiamo però scoperto che gli ex fumatori hanno livelli di ACE-2 simili rispetto

a chi non ha mai acceso una sigaretta.

Questo dato suggerisce che non c'è mai stato un momento migliore per smettere

di fumare, anche per proteggersi da Covid-19".

 
 
 

Il perchèdei tratti gentili della razza europoide.

Post n°2822 pubblicato il 27 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet
06 dicembre 2019

Il gene dei nostri tratti gentili

di Emily Willingham/Scientific American
© Cultura / AGF

 Un cambiamento genetico potrebbe essere all'origine dei tratti

facciali degli esseri umani moderni, meno marcati rispetto a quelli

dei nostri antichi cugini Neanderthal

EVOLUZIONE NEANDERTHAL GENETICA

Le rappresentazioni di Neanderthal, i nostri antichi partner occasionali

di accoppiamento, di solito mostrano tratti del viso che sono più grandi

e marcati dei nostri, una fronte sfuggente e bassa, e sopracciglia folte.

In confronto, i nostri occhi, naso e bocca sono più piccoli e occupano

meno spazio nel viso.

Sebbene molti primati inizino la vita con questo aspetto più delicato, noi

siamo gli unici a mantenerlo nell'età adulta.

Un'ipotesi su come gli esseri umani siano passati dallo sviluppo, nella

maturità, di un robusto volto neanderthaliano al mantenimento di tratti più

gentili per tutta la vita si basa sull'idea di un'"auto-domesticazione" del

nostro viso.

L'idea suggerisce che, mentre gli esseri umani si affidavano sempre di più

alle interazioni sociali pacifiche, i nostri antenati abbiano iniziato a selezionare

compagni con caratteristiche meno aggressive, nell'aspetto del viso così

come in altri tratti.

Ma finora le prove genetiche che collegano le caratteristiche facciali a questo

processo di auto-domesticazione sono state scarse.

Un nuovo studio pubblicato su "Science Advances" fornisce il collegamento

mancante.

I risultati mostrano che i cambiamenti del DNA sottostanti allo svilupp

o facciale differiscono nettamente tra gli esseri umani di oggi e i nostri

parenti estinti più vicini, Neanderthaliani e Denisoviani, un altro antico

ramo dell'albero genealogico umano.

Sono le differenze che ci si aspetterebbe se gli umani moderni fossero

una specie auto-addomesticata, afferma Richard Wrangham, professore di

antropologia biologica alla Harvard University, non coinvolto nel lavoro.

Studi precedenti avevano considerato geni potenzialmente legati alla

domesticazione negli esseri umani, spiega Wrangham, ma il "progresso

cruciale" del nuovo articolo sta nell'individuare un candidato gene importante

correlandolo a un risultato previsto della domesticazione: caratteristiche

facciali più fini.

Per scoprire questo collegamento, gli autori hanno usato cellule di persone

con un disturbo genetico ben definito, chiamato sindrome di Williams-

Beuren. Caratteristiche facciali e comportamenti delle persone con questa

sindrome tendono fortemente verso l'estremo più amichevole dello spettro

umano.

I ricercatori hanno ipotizzato che i cambiamenti del DNA alla base di questi

tratti potrebbero aiutare a spiegare la genetica dell'evoluzione facciale umana

. I geni correlati alla Williams-Beuren su cui si sono concentrati gli scienziati

guidano migrazione e azione delle cellule della cresta neurale, che hanno

diversi compiti nel primo sviluppo embrionale: uno è contribuire a costruire

le ossa del viso.

Per questo lavoro, Matteo Zanella, dell'Università degli Studi di Milano, e i

suoi colleghi si sono focalizzati su BAZ1B, un gene associato alla Williams-Beuren,

che regola la migrazione delle cellule della cresta neurale.

Utilizzando cellule prelevate da persone con e senza sindrome di Williams-Beuren,

i ricercatori hanno valutato l'impatto di diverse "dosi" di questo gene.

Hanno così scoperto che BAZ1B è un "sistema di controllo principale" delle

cellule della cresta neurale, con effetti diversi a basse o alte dosi.

I ricercatori hanno quindi confrontato le sequenze di DNA che interagiscono

con BAZ1B negli esseri umani moderni con le stesse regioni nel DNA di antichi

esseri umani.

Tra le due c'erano differenze, affermano gli autori: quelle degli esseri umani moderni

hanno una lieve alterazione dell'attività della cresta neurale rispetto alla piena

potenza dei suoi effetti, non gravata da alcuna alterazione, nei Neanderthaliani

e nei Denisoviani.

Il risultato del leggero scostamento negli esseri umani moderni è nei nostri tratti

facciali più contenuti.

I ricercatori suggeriscono che la versione più delicata delle caratteristiche facciali

si diffuse ampiamente tra gli esseri umani mentre si avviavano verso uno stile di

vita più sociale e meno aggressivo.

Faccia da Denisovadi Giovanni SabatoUsare un disturbo genetico ben caratterizzato

come la Williams-Beuren è un buon modo per studiare i geni coinvolti in processi di

sviluppo come quello del viso, afferma Marcelo Sánchez-Villagra, professore di

paleobiologia all'Università di Zurigo, non coinvolto nel lavoro.

Simili strumenti aprono la strada alla comprensione di quello che è accaduto durante

una fase critica dell'evoluzione umana, afferma lo scienziato.

L'autore senior dello studio, Giuseppe Testa, professore di biologia molecolare

all'Università degli Studi di Milano, sottolinea il contributo dei soggetti con

sindrome di Williams-Beuren al lavoro.

"È entusiasmante ma anche molto bello dal punto di vista scientifico pensare alla

diversità genetica alla base di queste sindromi come a un mosaico che, adeguatamente

indagato, può far luce sul nostro passato", afferma.

Il gruppo di Testa ha anche identificato altri geni con possibili collegamenti a

comportamenti sociali associati all'auto-domesticazione.

Uno di questi, FOXP2, è coinvolto nella nostra capacità di parlare. Wrangham

afferma che sarà importante esaminare i geni collegati a una riduzione delle

dimensioni del cervello, in cui le cellule della cresta neurale non svolgono

un ruolo: i Neanderthal avevano un cervello più grande degli esseri umani

moderni.

Testa considera gli studi che confrontano il DNA umano moderno e antico

come un'enorme opportunità.

"Abbiamo davvero iniziato ad aprire un campo di ricerca che poggia sulle spalle

di molti giganti e che speriamo possa attirarne molti altri", conclude.

(L'originale di questo articolo è stato pubblicato su "Scientific American"

il 4 dicembre 2019. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione

autorizzata, tutti i diritti riservati.) 

 
 
 

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