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Messaggi del 08/04/2020
Post n°2730 pubblicato il 08 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da Focus.. La grafite di Mercurio è ciò che resta della crosta del pianetaUna nuova ipotesi per spiegare le macchie sulla superficie di Mercurio: è grafite nativa del pianeta, non portata dalle comete. Il cratere Degas, 52 chilometri di diametro: attorno e all'interno, una grande quantità di grafite. | NASA/JOHNS HOPKINS UNIVERSITY APPLIED PHYSICS LABORATORY/CARNEGIE INSTITUTION OF WASHINGTON Quando la sonda della Nasa Messenger entrò in orbita attorno a Mercurio, nel 2011, si videro subito particolari macchie scure che attirarono immediatamente l'attenzione dei ricercatori. Qualcosa di simile era già stato osservato durante il sorvolo della Mariner 10, nel 1974, ma la bassa risoluzione delle fotografie non permisero di approfondire il problema.
Adesso, grazie alla spettrografia ad alta risoluzione, ossia al sistema che permette di studiare i componenti chimici presenti su un corpo celeste, i planetologi hanno capito che il materiale scuro è grafite, proprio quello che si usa per le matite, uno stato allotropico del carbonio.
Mercurio in "falsi colori" ripreso dalla sonda Messenger. Con questo sistema si possono mettere in luce le principali componenti chimiche del pianeta. | NASA Il materiale è pochissimo riflettente e si trova soprattutto vicino a bocche vulcaniche o a crateri da impatto. In un primo tempo si pensò che il carbonio fosse stato depositato dalle comete (di cui sono ricche) che, in grandi quantità, devono aver bombardato il pianeta ai primordi della storia del Sistema Solare. È "ORIGINALE". Questa ipotesi per spiegare la grafite è stata però affiancata da un'altra idea: è possibile che il minerale venga dall'interno del pianeta. Secondo questa ipotesi, Mercurio, quando era ancora in gran parte fuso, aveva una crosta composta per lo più proprio da grafite. «Partendo dal materiale di cui è composto il pianeta, i modelli e una serie di esperimenti ci hanno suggerito l'ipotesi che quando Mercurio, da fuso, iniziò a solidificarsi, la maggior parte dei minerali sprofondò, a eccezione del carbonio che formò invece una crosta di grafite», spiega Rachel Klima, del Johns Hopkins University Applied Physic Laboratory. Secondo il ricercatore quelle macchie sono ciò che resta della crosta primordiale e «studiandole abbiamo la possibilità di capire com'era Mercurio 4,5 miliardi di anni fa». ANCORA ENIGMI. Questa nuova interpretazione rinforza l'idea che Mercurio, pur essendo in apparenza simile ad altri pianeti e alla nostra Luna, per via del gran numero di crateri, potrebbe avere avuto un'evoluzione diversa, forse unica.
Un'area molto scura in prossimità del polo nord di Mercurio. | NASA/JOHNS HOPKINS UNIVERSITY APPLIED PHYSICS LABORATORY/CARNEGIE INSTITUTION OF WASHINGTON La presenza di grafite in grandi quantità è infatti solamente l'ultima delle scoperta che raccontano la differenza tra quel pianeta e gli altri del Sistema Solare. Sottolinea Larry Nittler, coautore della ricerca: «Il ritrovamento di vaste aree ricche di carbonio ci dice che oggi vediamo pezzi della crosta antica di Mercurio misti a crateri e aree vulcaniche che si formarono in momenti successivi della sua storia». La scoperta non spiega perché la grafite sia così abbondante, e neppure perché il pianeta abbia avuto una simile evoluzione: per saperne di più dovremo probabilmente aspettare BepiColombo, la missione Esa/Jaxa prevista per l'inizio del 2017. |
Post n°2729 pubblicato il 08 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da Focus Mercurio, Venere, Terra, Marte: come sono nati? Come si sono formati i pianeti rocciosi alla giusta distanza dal Sole? Una nuova ipotesi sembra rispondere meglio di altre alla domanda, e spiega anche perché Marte è più piccolo di quanto dovrebbe. Il Sistema Solare potrebbe essere nato per aggregazione di corpuscoli sempre più grandi, ma il meccanismo all'origine non è chiaro: una nuova ipotesi aiuta a risolvere alcuni Sulla nascita del Sistema Solare vi sono molte ipotesi e ancor più problemi irrisolti, alcuni dei quali riguardano anche la formazione dei pianeti rocciosi, come la Terra. Una nuova idea, che prende forma da uno studio pubblicato su Astrophysycal Journal Letters, se troverà conferma, sposta l'attenzione sulle prime fasi di vita del Sole, quando la sua iperattività avrebbe innescato e permesso i processi che hanno poi portato alla formazione del Sistema Solare. Secondo l'ipotesi più accreditata per spiegare la nascita dei pianeti, il tutto prese avvio da una nebulosa ricca di gas e granelli di polvere che si aggregarono tra loro per originare piccoli corpuscoli. Con il trascorrere del tempo questi si unirono tra loro fino a dare vita a corpi sempre più grandi e poi a planetesimi, che infine, unendosi, diventarono pianeti.
FU Orionis e la nebulosa da cui ha preso forma. | ESO «Ma questa narrazione della nascita del Sistema Solare ha dei punti deboli, in particolare per ciò che riguarda la forma- zione dei pianeti terrestri», spiega Alexander Hubbard, planetologo, autore dello studio. I pianeti terrestri sono quelli più vicini al Sole: nell'ordine, Mercurio, Venere, Terra e Marte, che sono composti da rocce silicatiche e ferro, le cui particelle non si aggregano facilmente fra loro. FU ORIONIS. Si sarebbero potute unire tra loro se avessero avuto un rivestimento di ghiaccio e sostanze organiche, ma nonostante gli oceani e la vita basata sul carbonio, il nostro pianeta, ad esempio, ha troppo poca acqua e carbonio perché ciò sia stato possibile. Hubbard avrebbe trovato la soluzione al problema avanzando una intrigante ipotesi. Il tutto inizia nel 1937, quando una stella giovane inizia a brillare via via sempre più intensamente, fino a 100 volte la luminosità iniziale: è FU Orionis, a 1.600 anni luce da noi, che da allora non ha mostrato altre variazioni. Ma FU Orionis non è stata l'unica giovane stella a comportarsi in quel modo: una seconda fu vista nel 1970 (V1057 Cygni), e poi altre ancora - al punto che venne infine ufficializzata una nuova classe di stelle, denominata variabili FU Orionis (FUor).
Il sistema Kepler-11: è composto da almeno 6 pianeti di tipo terrestre che ruotano molto vicino alla stella madre. | NASA Qui arriva l'idea di Hubbard riguardo al Sole: se anche la nostra stella si fosse comportata allo stesso modo nelle fasi iniziali della sua vita, l'energia prodotta sarebbe stata sufficiente per fondere parzialmente i primi granuli di polvere, che in quelle condizioni avrebbero potuto più facilmente unirsi fino a diventare semi dei pianeti terrestri. PERCHÉ MARTE È PICCOLO. Nei sistemi stellari con stelle che non hanno sperimentato questo potente accrescimento di energia iniziale, i grani di polvere si sarebbero fusi solo in prossimità dell'astro, dando origine a sistemi planetari simili a Kepler-11, dove i pianeti di tipo terrestre sono appunto molto vicini alla stella madre.
La nuova ipotesi spiega anche perché Marte è molto più piccolo rispetto alla Terra e a Venere. | NASA L'idea di Hubbard sembra però ancora più potente, perché risponde anche a un altro dilemma, una questione mai del tutto chiarita che riguarda la dimensione di Marte. Il Pianeta Rosso ha un raggio che è poco più della metà di quello della Terra: si ritiene che non crebbe ulteriormente a causa dell'interferenza gravitazionale di Giove. Il gigante gassoso potrebbe però non aver avuto influenza su Marte che, a quella distanza dal Sole, avrebbe potuto giovarsi solo in parte del surplus di energia messo in campo dalla nostra stella. Se diamo credito all'ipotesi di Hubbard, le temperature nella zona di Marte non erano abbastanza alte da favorire in modo adeguato quella parziale fusione delle polveri, col risultato che vediamo oggi: il nostro affascinante vicino ha una massa che è di circa l'11% della nostra. |
Post n°2728 pubblicato il 08 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da Focus Indizi di vita su Encelado, altri geyser su Europa Nell'oceano della luna di Saturno ci sono tutti gli elementi indispensabili a sostenere la vita: non si può dire se ci sia per davvero oppure no, ma adesso tutti guardano a quel mondo (quasi) così vicino. Intanto, sul satellite di Giove Europa, si conferma il fenomeno dei geyser. Geyser al polo sud di Encelado: nei vapori sono stati rilevati elementi chimici che possono essere associati IN SINTESIDopo gli annunci e le anticipazioni di questa settimana, la NASA ha svelato in una conferenza stampa un'importante scoperta scientifica che riguarda Encelado, sesta luna di Saturno in ordine di grandezza. La sonda Cassini ha confermato che nell'oceano sotter- raneo di Encelado ci sono ci sono tutti gli elementi chimici e le fonti energetiche necessarie per ospitare forme di vita, almeno batteriche. Con gli stessi elementi e ragionamenti, però, si può anche affermare il contrario.Dunque, non resta che andare a vedere...Una seconda scoperta è la conferma del fenomeno dei geyser di vapore acqueo su Europa, satellite di Giove. I pennacchi fuoriescono da una frattura della crosta ghiacciata e corrispondono a un'anomalia termica sulla superficie Oggetti planetari con grandi oceani: questi sono gli obiettivi della ricerca della vita fuori dalla Terra, proprio perché l'acqua è l'elemento primo necessario alla vita, per come la conosciamo. L'acqua da sola però non basta: servono carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo, zolfo... E soprattutto serve una fonte di energia che - in presenza di tutti gli elementi indispensabili - permetta agli elementi stessi di reagire tra loro. Ci sono prove convincenti della presenza di acqua su altri corpi del Sistema Solare, per esempio su alcuni satelliti di Giove e Saturno, ma finora nessuna evidenza di un "motore" per la vita, ossia una fonte di energia.
La struttura di Encealdo: sotto la crosta ghiacciata si nasconde un oceano che circonda interamente un nucleo caldo di silicati. | NASA L'ANNUNCIO. È proprio di oggi, però, la pubblicazione su Science del lavoro del team coordinato da J. Hunter Waite (Southwest Research Institute, Texas), che in diretta tv dalla Nasa ha illustrato nuove scoperte che fanno pensare che all'interno di almeno di uno dei satelliti di Saturno, Encelado, vi sia l'energia che serve. Spiega Waite che «i potenti geyser espulsi dall'oceano di acqua liquida attraverso le fenditure dell'armatura di ghiaccio che ricopre interamente il satellite contengono idrogeno molecolare (H2), ossia molecole di idrogeno composto da due atomi dello stesso elemento, che insieme a molecole di carbonato, rilevate in precedenti studi, stanno a indicare uno stato di squilibrio chimico nell'oceano di Encelado». Se c'è squilibrio... sono in corso reazioni chimiche e c'è energia in gioco! Energia sufficiente anche a sostenere le reazioni chimiche di organismi viventi. LE SOMIGLIANZE. Encelado è un satellite di medie dimensioni, con un diametro di 504 chilometri (meno di un terzo della Luna), e possiede un nucleo roccioso composto da silicati, ossia da (minerali) composti da silicio, ossigeno e altri elementi chimici. Il nucleo è interamente circondato da uno strato di acqua di spessore variabile, da 2 a 60 chilometri. L'acqua di questo oceano planetario è protetta dallo spazio esterno da uno strato di ghiaccio ed è mantenuta allo stato liquido dal calore dal nucleo - calore prodotto dalle forze di marea cui è sottoposto il satellite nella sua orbita attorno a Saturno.
Bocche idrotermali sottomarine (fumarole) sul fondo di un oceano terrestre: potrebbero esserci anche su Encelado e, come sulla Terra, essere habitat di organismi viventi. | NASA Nonostante le temperature estremamente basse che caratteriz- zano la superficie e il fatto che nelle profondità dell'oceano non arriva luce (e quindi non sono possibili processi di fototosintesi), si ritiene che sia possibile la vita (o quantomeno non si esclud e questa possibilità). Sulla Terra, nelle profondità degli oceani (dove la luce non arriva) vi sono ecosistemi la cui sostenibilità è garantita dall'energia chimica disponibile nei fluidi che risalgono dall'interno del pianeta e che fuoriescono sul fondo marino (vulcani di fango, bocche idrotermali sottomarine, fumarole). Alcuni degli organismi microbici che vivono in questi ambienti, e persino sotto il fondale oceanico, ricavano l'energia di cui hanno bisogno trasformando l'anidride carbonica e l'idrogeno molecolare in metano (metanogenesi). SPERANZA E PRUDENZA. Ed è proprio qui che sta il collegamento tra la Terra ed Encelado. Durante il sorvolo della sonda Cassini del 2015, gli strumenti rilevarono la presenza, nel vapore emesso dai geyser, di un contenuto tra lo 0,4 e l'1,4 per cento in volume di idrogeno molecolare, e di un contenuto compreso tra 0,3 e 0,8 per cento in volume di anidride carbonica, ossia degli ingredienti fondamentali per la metanogenesi. Da ciò si deduce che nell'oceano di Encelado ci sono gli elementi che permettono l'esistenza di forme di vita simili a quelle che si ritrovano sui fondali oceanici del nostro pianeta: l'acqua allo stato liquido, il calore (cioè l'energia necessaria per le reazioni chimiche), gli elementi chimici che possono sostenere semplici forme di vita.
Un'elaborazione 3D della superficie ghiacciata di Encelado. | NASA Waite ha tuttavia fatto notare che per chiudere il cerchio è necessario trovare risposte ad alcune domande importanti. Per esempio... da dove arrivano i fluidi caldi sul fondo dell'oceano di Encelado? Sulla Terra si formano come conseguenza della tettonica delle zolle, fenomeno assente su Encelado. Non è da escludere che possano derivare direttamente dal nucleo del satellite. Ma, fa notare lo scienziato, la presenza di quantità notevoli di idrogeno molecolare potrebbe anche significare esattamente l'opposto di ciò che speriamo: può infatti anche essere un indizio della totale mancanza di vita. Sui fondali oceanici della Terra tale sostanza viene elaborata in metano dai batteri metanogeni: su Encelado risale l'oceano e sfugge nello spazio... Al momento attuale non è dunque da escludere neppure questa ipotesi: in quel lontano mondo non c'è alcuna forma di vita capace di compiere la trasformazione. DI NUOVO GEYSER SU EUROPA. (Aggiornamento alle 20:28 del 13/04/2017): una seconda scoperta pubblicata sul The Astrophysical Journal Letter riguarda le osservazioni compiute da Hubble sulla luna di Giove Europa nel 2016. Il telescopio spaziale ha individuato un pennacchio di vapore acqueo nella stessa area in cui il fenomeno era stato osservato nel 2014, la prova che l'attività eruttiva sul satellite è reale e non un caso isolato. Il nuovo getto di materiale è stato visto innalzarsi per 100 km dalla superficie (contro i 50 di quello di tre anni fa). Entrambi sono stati generati in una regione insolitamente calda, che mostra spaccature nella crosta ghiacciata della luna, così come erano state documentate dalla sonda Galileo alla fine degli anni Novanta. Come per Encelado, i pennacchi di acqua sono associati a regioni più calde: può essere che il materiale eruttivo riscaldi l'area circostante o che ricada sulla superficie di Europa come una nebbia sottile che modifica il materiale della crosta, rendendolo capace di trattenere il calore più a lungo. La missione della Nasa Europa Clipper, programmata per il decennio 2020, dovrebbe contribuire a spiegare meglio il fenomeno. 13 APRILE 2017 | LUIGI BIGNAMI |
Post n°2727 pubblicato il 08 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Wonderchicken, il pollo di 66 milioni di anni faIl pollo meraviglia: il cranio fossile di un piccolo uccello vissuto insieme ai dinosauri potà fare luce su aspetti ancora incerti dell'evoluzione degli uccelli. Fossili: cranio di Asteriornis mastrichtensis (Wonderchicken), il pollo di 66 milioni di anni fa. | UNIVERSITY OF CAMBRIDGE Wonderchicken, pollo meraviglia, così lo hanno chiamato i paleontologi, e c'è davvero di che meravigliarsi: è il più antico fossile mai scoperto di un uccello del tutto simile a quelli dei nostri giorni, vissuto 66,7 milioni di anni fa, quando i dinosauri ancora popolavano la Terra. Wonderchicken, non solo perché aiuta a ricostruire la storia degli uccelli, ma anche perché potrebbe rivelare come gli uccelli siano riusciti a scampare alla catastrofe planetaria che 66 milioni di anni fa portò all'estinzione dei dinosauri e del 70 per cento delle specie viventi.
Wonderchicken: la dimensione del cranio fossile di Asteriornis mastrichtensis, un uccello di 66 milioni di anni fa. Illustrazione: scene di vita quotidiana del Wonderchicken, il pollo meraviglia. | UNIVERSITY OF CAMBRIDGE Il fossile è stato rinvenuto in Belgio, estratto da un pezzo di roccia raccolto in una cava di calcaredi cui si conosce con precisione l'età. Nella cava, l'attenzione dei paleontologi si era fissata su di un masso dal quale spuntavano quelle che sembravano essere frammenti di zampe di un uccello: raccolto con grande attenzione, perché i reperti di uccelli di quel periodo sono preziosissimi, è stato sottoposto a una particolare TAC. L'esame ha rivelato all'interno della roccia il cranio integro di un uccello, «uno dei reperti fossili di uccello meglio conservati al mondo», afferma Daniel Field, del dipartimento di scienze della Terra di Cambridge (UK), primo autore dello Nel nome scientifico attribuito all'animale, Asteriornis mastrichtensis, c'è un riferimento ad Asteria, la dea che per sfuggire alle prepotenti attenzioni di Zeus si trasformò in una quaglia e si gettò nell'Egeo, dove diede forma all'isola di Ortigia (isola delle quaglie). Le analisi del cranio fossile rivelano caratteristiche che avvicinano molto l'Asteriornis agli uccelli moderni, con tratti che per alcuni versi lo rendono del simile alle anatre e per altri ai galliformi di oggi, quali il pollo, il tacchino e altri uccelli da selvaggina. Secondo lo studio l'Asteriornis pesava circa 4 etti, aveva zampe lunghe e, complessivamente, poteva avere le dimensioni di un piccolo gabbiano. Il suo habitat era la terraferma in prossimità delle coste.
«Un reperto di grande importanza paleontologica», , uno dei ricercatori, «perché sull'origine della diversità degli uccelli viventi ci sono ancora molti aspetti da chiarire. Ci è noto che gli uccelli moderni si svilupparono a un certo punto verso la fine dell'era dei dinosauri, ma sono pochissimi i Questo fossile permette di gettare uno sguardo sull'evoluzione degli uccelli nelle fasi iniziali della loro evoluzione.» 31 MARZO 2020 | LUIGI BIGNAMI |
Post n°2726 pubblicato il 08 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da Focus La scoperta del mini dinosauro (che forse non lo era) Tesori nell'ambra: una testa fossile ben conservata, lungo appena 7 cm becco compreso, è stato classificato come mini dinosauro, suscitando però molti dubbi nella comunità scientifica. Il fossile di Oculudentavis khaungraae conservato Era il 2016 quando in una miniera del Myanmar (l'ex Birmania) un gruppo di minatori trovò un pezzo di ambra con incastonato quello che sembrava il cranio di un piccolo uccello. Ora siamo nel 2020 e quel fossile straordinario è stato descritto e battezzato in uno studio pubblicato su Nature, condotto dall'università di Pechino: si chiama Oculudentavis khaungraae ed era, secondo gli autori, un mini dinosauro vissuto 99 milioni di anni fa, in pieno Cretaceo. Lungo appena 7 cm, l'animale sarebbe quindi il dinosauro più piccolo mai scoperto. Non tutto il mondo della paleontologia, però, è d'accordo con queste conclusioni. EVOLUZIONE ESTREMA. In realtà, su un dettaglio sono tutti d'accordo: il fossile è straordinario, perché minuscolo (ciò che l'ambra ha presevato è lungo meno di 1 cm, becco escluso) e conservato alla perfezione, qualcosa di molto raro quando si parla di strutture così piccole e fragili. «È più piccolo del cranio di un colibrì», commenta uno degli autori dello studio, Lars Schmitz, e secondo la collega Jingmai O'Connor «l'animale è minuscolo perché con ogni probabilità viveva su di un'isola»: gli ambienti isolati, in particolare quelli insulari, sono infatti favorevoli a processi di "evoluzione estrema", proprio come la miniaturizzazione a cui sarebbe andato incontro l'Oculudentavis. DINOSAURO, O ANCHE NO. Se nessuno mette in discussione l'eccezionalità del fossile, ci sono però dei dubbi sulla sua attribuzione: molti paleontologi (tra cui l'italiano Andrea Cau), dopo aver letto lo studio, hanno scritto che secondo loro non si tratta di un dinosauro o di un uccello, ma di una "lucertola", o meglio di un rettile non-dinosauriano. Anche la stessa O'Connor appare indecisa: in un'intervista a Yahoo uscita il giorno della pubblicazione, spiegava che «quella forma del cranio si vede solo negli uccelli e in qualche dinosauro, ma non esistono vere e proprie caratteristiche del cranio che definiscono gli uccelli, quindi potrebbe essere un dinosauro... o anche qualcosa d'altro». 19 MARZO 2020 | GABRIELE FERRARI |
Post n°2725 pubblicato il 08 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato da Focus Il dinosauro con le ali di pipistrelloUn nuovo fossile conferma l'esistenza di piccoli dinosauri con arti e ali simili a quelli dei pipistrelli: un'ipotesi a lungo considerata bizzarra. Illustrazione: il dinosauro pipistrello. | Se pensate a un dinosauro probabilmente vi immaginate un T. rex, o magari un velociraptor, un brachiosauro (i giganteschi erbivori di Jurassic Park), forse anche un Suskityrannus hazelae (il nuovo, piccolo parente dei T. rex)... Pensereste mai a un pipistrello? Adesso avete anche questa scelta: un gruppo di paleontologi cinesi ha annunciato la scoperta delle tracce fossili di un piccolo sauro, battezzato Ambopteryx longibrachium, vissuto 163 milioni di anni fa: un dinosauro che, in vita, sfoggiava caratteristiche simili ai pipistrelli. IL DINOSAURO-PIPISTRELLO. «Quando abbiamo visto il fossile nelle rocce del Giurassico a Liaoning pensavamo fosse un uccello», afferma il paleontologo Min Wang (Chinese Academy of Sciences, Pechino), coordinatore dello studio pubblicato su Nature, per via degli arti anteriori relativamente lunghi rispetto al corpo, come gli uccelli moderni. Lo studio del fossile ha però portato alla luce una verità differente, a partire dalle "dita" lunghe, una caratteristica assente negli uccelli e alle tracce di tessuti molli attorno agli arti anteriori e al tronco dell'animale, interpretati come lembi di pelle che probabilmente assomigliavano alle ali di pipistrello.
Il fossile rinvenuto in uno strato di rocce datate a circa 163 milioni di anni fa e, a fianco, una ricostruzione schematica dell'animale basata sullo studio del fossile. | CHINESE ACADEMY OF SCIENCES IL VOLO DEL DINOSAURO. Il fossile si aggiunge all'unico altro reperto che aveva fatto pensare all'esistenza di sauri pipistrelli, chiamato Yi qi, entrato in possesso del Museum of Nature di Shandong (Cina), nel 2007. Lo studio su quel fossile fu pubblicato su Nature nel 2015, ma la comunità scientifica giudicò "bizzarri" il reperto e le conclusioni dello studio. «Se chiedessi a un paleontologo di disegnare un dinosauro molto particolare, non ne verrebbe mai fuori qualcosa di simile a quanto si era ipotizzato per Yi qi», ammette il paleontologo Stephen Brusatte (Università di Edimburgo): «questo è il motivo dello scetticismo. Ma l'ambopteryx cambia tutto: un tempo davvero vivevano anche dinosauri-pipistrello.»
Illustrazione: il dinosauro pipistrello. | CHINESE ACADEMY OF SCIENCES Sulla questione delle "ali" Jingmai O'Connor, co-autrice della scoperta recente e dello studio, afferma che «al momento è molto difficile fare ipotesi sul come e sul se l'ambopteryx potesse volare. Un'idea su cui stiamo lavorando è che il volo dell'animale potesse essere qualcosa a metà tra il "volo" di uno scoiattolo volante e quello di un pipistrello». Difficilmente se ne verrà a capo senza trovare altri fossili di Ambopteryx longibrachium, ma una cosa adesso è certa: con questa scoperta l'albero genealogico dei dinosauri è diventato più ricco e affascinante. |
Post n°2724 pubblicato il 08 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Fonte: articolo riportato dall'Internet La gravità si può modificare?Un campo gravitazionale è prodotto dalla presenza di masse di qualunque tipo, da una stella fino a un granello di sabbia: la gravità è una proprietà della materia. | ZASTOLSKIY VICTOR / SHUTTERSTOCK Un campo gravitazionale è il prodotto della presenza di una o più masse di qualunque tipo, da un'intera galassia di stelle al più piccolo granello di sabbia: basta spostare una di queste masse, aggiungerne una al sistema che stiamo considerando o farne svanire una per modificare il campo gravitazionale. È anche possibile vincere l'attrazione gravitazionale, per un po': quando lanciamo un razzo, per esempio, contrastiamo la gravità del nostro pianeta con una energia (quella potenziale del combustibile) che ci permette di allontanarci - finché abbiamo carburante o non siamo abbastanza lontani nello Spazio e ci siamo liberati dal guinzaglio gravitazionale del pianeta, enormemente superiore al nostro. Quello che invece purtroppo non si può fare è agire sulla gravità con altri mezzi, per esempio con un congegno che annulli il nostro peso (che è l'effetto della gravità sulla nostra massa) e ci permetta di galleggiare, come astronauti nello Spazio: tutti i sistemi di "levitazione" oggi allo studio fanno uso di un campo magnetico in grado di contrastare quello gravitazionale, ma non lo modificano. |
Post n°2723 pubblicato il 08 Aprile 2020 da blogtecaolivelli
Homo sapiens e Neanderthal: quando si sono separate le due specie?L'ultimo antenato comune tra le due specie potrebbe essere molto più antico del previsto: è l'ipotesi elaborata dallo studio sui denti di Neanderthal vissuti in Spagna. Una riproduzione dell'Uomo di Neanderthal esposta al MUSE di Trento. | SHUTTERSTOCK Quello con i Neanderthal fu un rapporto così intimo da lasciare tracce indelebili nel nostro DNA. Tuttavia, se gli incroci con questa specie di ominini risalgono a un'epoca relativamente recente (fino a poco prima della scomparsa definitiva dei "cugini", avvenuta circa 40 mila anni fa), c'è stata un'epoca in cui condividevamo un antenato comune. A quando risale la separazione? La maggior parte delle stime basate su studi genetici indicava, finora, un periodo compreso tra i 500 mila e i 300 mila anni fa. Ma secondo uno studio pubblicato su Science Advances, le strade di Sapiens e Neanderthal si sarebbero divise almeno 800.000 anni fa, molto prima di quanto credessimo. EVOLUZIONE A MORSI. La ricerca di Aida Gomez-Robles, antropologa dell'University College London, si basa sull'analisi di denti fossili di Neanderthal e altri ominini: in particolare, si concentra sulla rapidità di differenziazione della dentatura tra individui della stessa specie, caratteristica che rimane piuttosto costante, nella storia evolutiva dei proto-umani.
UN DATO CHE NON TORNA. Lo studio è partito da un'incongruenza nota agli archeologi, che riguarda alcuni denti fossili ritrovati nella Sima de los Huesos, una grotta delle montagne di Atapuerca, in Spagna, abitata circa 430.000 anni fa. Al suo interno sono emersi i fossili di una trentina di individui, che per le caratteristiche genetiche e anatomiche sembrerebbero essere Neanderthal della prima ora. GIÀ DIFFERENZIATI. Le loro mascelle presentano infatti molari e premolari molto piccoli, simili a quelli dei Neanderthal successivi, e molto diversi dai denti più larghi e primitivi che si attribuiscono all'ultimo antenato comune con i Sapiens. La forma dei denti evolve in modo simile in tutte le specie di ominini, incluse quelle con denti molto piccoli o molto grandi. Analizzando i denti rinvenuti nella grotta spagnola e quelli di altre sette specie di ominini (inclusi un Australopithecus afarensis e un Paranthropus robustus), Gomez-Robles ha cercato di capire quando avremmo dovuto separarci dai Neanderthal, per dare tempo alla loro dentatura di assumere caratteristiche così specifiche, molto diverse da quelle di partenza. I denti fossili delle varie specie analizzate, a confronto. | AIDA GOMEZ-ROBLES, ANA MUELA AND JOSE MARIA BERMUDEZ DE CASTRO TROPPO IN FRETTA. Se questa separazione fosse avvenuta 500-300 mila anni fa, come creduto finora, la dentatura Neanderthal non avrebbe avuto tempo a sufficienza per assumere le caratteristiche che mostrano i reperti della Sima de los Huesos. La spiegazione più probabile è, pertanto, che il più recente antenato in comune con i Sapiens risalga ad almeno 800.000 anni fa: solo considerando questa distanza temporale il ritmo dell'evoluzione dei denti rinvenuti nella grotta è coerente col ritmo evolutivo riscontrato con altre specie di ominini. Se l'ipotesi si rivelasse corretta, potremmo escludere dall'album di famiglia condiviso con i Neanderthal tutte le specie di ominini vissute prima di 800 mila anni fa. |
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