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Allora, riassumendo i temi...vediamo se non mi dimentico qualcosa.
Parti con l'analizzare l'abitudine umana di identificarsi e definirsi attraverso ruoli sociali, professioni o cariche, sottolineando - a ragione - che queste sono soltanto manifestazioni esterne e temporanee dell'essere umano e ricordi che l'identità individuale dovrebbe essere separata dalle costruzioni sociali e culturali, invitando a guardare oltre le etichette imposte dalla società.
Ed io ti rispondo che noi non siamo la nostra età e non siamo necessariamente il nostro genere sessuale. Non siamo identificabili nemmeno con le nostre relazioni. Non siamo nemmeno la nostra professione e certamente non siamo che abbiamo. E non siamo il nostro status sociale. Noi siamo in quello che resta al di là di tutto questo.
Poi esplori la relazione dell'essere umano con l'universo, sottolineando che siamo parte di una rete interconnessa e che tutto è in costante trasformazione ed inviti ad una visione più ampia della vita e della morte, considerando il ciclo eterno della materia e dell'energia nell'universo e rifletti sulla temporalità della vita umana, sottolineando che la forma corporea è transitoria e destinata a mutare nel ciclo eterno dell'universo e sottolinei l'esigenza di superare la paura della morte e abbracciare la transitorietà della forma fisica, comprendendo che la vita è parte di un ciclo più ampio. Rifletti sulla temporalità della vita umana, sottolineando che la forma corporea è transitoria e destinata a mutare nel ciclo eterno dell'universo e sottolinei l'esigenza di superare la paura della morte e abbracciare la transitorietà della forma fisica, comprendendo che la vita è parte di un ciclo più ampio.
A livello biologico, siamo fatti degli stessi elementi chimici presenti nell'universo, gli atomi che compongono il nostro corpo sono gli stessi atomi che costituiscono le stelle e i pianeti e già questa connessione a livello atomico evidenzia la nostra profonda relazione con il cosmo, a livello ecologico, anche. Siamo parte integrante di ecosistemi nei quali ogni forma di vita è interconnessa e dipende dall'equilibrio del sistema. E poi c’è la risonanza energetica, tutto nell'universo è composto dalla stessa energia fondamentale. Questa energia si manifesta in modi diversi, creando la varietà di forme di vita. La connessione tra tutti gli esseri risiede nella condivisione di questa energia primordiale e da un punto di vista metafisico, c’è tutto un pensiero filosofico e spirituale che considera ogni forma di vita esistente come diversa espressione di un’unica essenza universale o coscienza primordiale. La percezione di separazione e individualità diventa un'illusione creata dalla nostra mente. Le coscienze sono interconnesse, parte di un'unica coscienza e l’idea di individualità è vista come un velo temporaneo. Nell’ottica di una coscienza collettiva, ogni individualità contribuisce a formare un tessuto più ampio di coscienza. In questa prospettiva, ogni esperienza di vita, pensiero e azione va a contribuire alla sua creazione ed evoluzione. La vita e la morte sono fasi di un ciclo eterno di rinascita. La morte non è vista come la fine, ma come passaggio a una nuova forma di esistenza. La costante trasformazione è una caratteristica intrinseca dell'universo, espressa attraverso cicli di vita, morte e rinascita a tutti i livelli. A livello biologico, le cellule del nostro corpo si rigenerano continuamente, a livello cosmico le stelle nascono, evolvono e alla fine esplodono, diffondendo elementi che formeranno nuove strutture celesti. Il ciclo eterno della materia e dell'energia nell'universo può essere affrontato anche attraverso la lente della spiritualità o della filosofia.
Inoltre, prendi in esame la tendenza delle società umane a divinizzare figure di autorità. Siano essi governanti, legislatori o gli eroi, sottolineando - di nuovo, giustamente - che nessun individuo dovrebbe essere al di sopra degli altri in modo intrinseco, rimarcando una visione più
egalitaria che vada a superare le strutture di potere ingiuste presenti nella società e ricordi l'importanza della cooperazione tra gli esseri umani per migliorare le condizioni di vita collettive e globali, contrastando la competizione e promuovendo la partecipazione, respingendo le guerre e gli scontri inutili e suggerendo che la collaborazione è essenziale per affrontare le sfide globali. Ed infine inviti a liberarsi dalle catene culturali, sociali, religiose e giuridiche per raggiungere la "Verità" e promuovi la necessità di svuotare la mente dalle costruzioni istituzionali per essere in armonia con l'universo. In generale, suggerisci una visione di mondo che abbracci l'uguaglianza nella diversità, la connessione con l'universo e la ricerca di una verità più profonda al di là delle costruzioni sociali e inviti gli individui a liberarsi dalle limitazioni imposte dalla società e ad abbracciare una prospettiva più ampia sulla vita e sull'esistenza...
Che dirti? Personalmente, sono contraria ad ogni forma di idolatria e - come già “Qualcun altro” spiegò perfettamente - “Non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro Maestro” ed aggiungiamo anche “Il più grande tra voi sia vostro servo”. Il punto è che ci sono da sempre gli stessi ostacoli a rendere difficile implementare modelli di dirigenza più collaborativi e distribuiti nelle società. In molte società le strutture di potere e di élite esistenti sono consolidate e fortemente radicate e coloro che detengono il potere resistono con ogni forza e mezzo ai cambiamenti che potrebbero minacciare la loro posizione. In più, in alcune culture, c'è una profonda radicazione della tradizione autoritaria e le persone sono abituate a seguire figure di autorità senza metterne in discussione le decisioni. Cambiare questa mentalità richiede tempo e sforzi rieducativi. Ed è un circolo vizioso, rteo. Perché le stesse disuguaglianze socio-economiche esistenti vanno ad alimentare e sostenere le strutture di potere consolidate. L’ignoranza e la mancanza di educazione – civica, nella fattispecie – fa il resto e contribuisce alla divinizzazione delle figure di autorità. La mancanza di consapevolezza è il primo elemento che va a facilitare il mantenimento dello status quo. E poi, senza girarci intorno, va anche considerato che le persone, in generale, tendono ad essere resistenti al cambiamento e, paradossalmente, anche quando potrebbe essere un cambiamento positivo e favorevole a loro stesse, perché in ogni caso minaccia la stabilità percorsa. Introdurre modelli direttivi più collaborativi potrebbe anche incontrare la resistenza di tutti coloro che temono l'incertezza e sono disillusi dalle autorità, non avendo più fiducia nei cambiamenti, oltre a quelli che, naturalmente, hanno un interesse personale nel mantenere lo status quo.
Riguardo poi alla tua dichiarazione che respinge le guerre e gli scontri inutili, ti posso dire che riflette un'aspirazione ideale, tuttavia, la realtà è variegata in modo più complesso e l'eliminazione totale delle guerre è un obiettivo difficile da raggiungere persino riducendo e regolamentando in modo rigoroso il commercio di armi a livello globale. A di là delle differenze di interessi - nazionali, economici e politici divergenti che portano ai conflitti e al di là anche delle storie di guerre radicate nelle tradizioni e nella cultura di alcuni popoli che richiederebbero un cambiamento radicale nelle percezioni collettive e nelle strutture di potere ed oltre, ovviamente, alle disuguaglianze socioeconomiche, le guerre non credo possano essere respinte totalmente nell'ordine delle cose di questo modo. Anche se, ipoteticamente – ed utopisticamente - si riuscisse a mettere in atto un approccio globale che affronti concretamente e in modo concludente le radici dei conflitti attraverso tutte le possibili strade (dalla mediazione internazionale alla garanzia dei diritti umani fondamentali, alla collaborazione tra le nazioni e al disarmo etc.) esistono contrapposizioni complementari che vedono ogni elemento con un suo ruolo preciso nell'equilibrio complessivo dell'esistenza. Non sto dicendo – si chiaro e messo agli atti! - che è inutile o sbagliato attivarsi per avere un mondo in cui la cooperazione e la comprensione reciproca superano la necessità della guerra come strumento di risoluzione dei conflitti; ma sto dicendo che, al di là del nostro compito che ci vede protagonisti attivi nel limitare gli effetti negativi e nel promuovere l'esistenza, il rispetto e la messa in pratica di garanzie fondamentali, va anche considerato che il mondo è intrinsecamente strutturato per stare in equilibrio tra opposizioni e divergenze. E' tutto un equilibrio sopra il caos e la follia, parafrasando Vasco, ed un centro di gravità permanente - citando Battiato - non può esistere, qui ed ora. Come si può pensare, anche se utopisticamente e ipoteticamente si cancellassero le guerre, che l'uomo non troverebbe comunque il modo per uccidere? O come credere che, anche se si arrestasse l'invecchiamento, si impedirebbe la morte? Penso sia una contraddizione (logica ed esistenziale) in termini, quella di chi cerca di immaginare un mondo in cui non esistono più il dolore, la morte, la necessità della guerra, i brutti sentimenti, il mal tempo...Se vuoi, possiamo semplificare ancora con il concetto di yin e yang nella filosofia cinese, in cui forze opposte sono interconnesse e complementari, contribuendo all'armonia complessiva dell'universo. La nostra ricerca di avvicinamento ad un mondo ideale deve esistere, ma sempre guidata dalla consapevolezza della complessità e sottigliezza dell'esistenza umana e universale e dalla comprensione che ogni azione può avere conseguenze impreviste.
Riguardo alla questione della competizione, infine, io credo che vada fatta una scrematura. L'agonismo e la spinta emulativa non sono necessariamente negative di per sé. Nel contesto storico della Grecia antica, come esempio su tutte, la competizione atletica ed intellettuale era una parte essenziale della società, contribuendo a sviluppare le capacità individuali e collettive. Può motivare le persone a migliorarsi, a cercare l'eccellenza e a raggiungere risultati notevoli ed inimmaginati. Il concetto di agonismo nella cultura greca rappresentava proprio quella forma di competizione focalizzata sulla ricerca della virtù e della ricerca di “perfezione” personale. E questa prospettiva può essere riallacciata al concetto di meritocrazia, dove il potere è attribuito a coloro che dimostrano abilità, virtù e dedizione. In sostanza l’aristocrazia nella sua etimologia greca – άριστος e κράτος – il potere ai migliori e non certo considerata nell’accezione moderna di “potere detenuto da una cerchia ristretta ed elitaria di nobili natali o di discendenze caratterizzate da condizioni privilegiate ed esclusive”. Naturalmente, però, neppure a dirlo, è importante considerare il contesto in cui si manifesta la competizione e valutare il suo impatto sulla società. La competizione non è dannosa in sé. E’ dannosa o può diventare dannosa quando porta a comportamenti scorretti, disuguaglianze estreme o danni ambientali ma non per questo va demonizzata ed eliminata. Come non va demonizzata e precauzionalmente eliminata nessuna cosa che potrebbe avere anche ottimi risvolti e conseguenze positive. La gestione equilibrata e responsabile della competizione – come di ogni aspetto di questa realtà, inutile dirlo – contribuisce a coltivare l'innovazione ed il perfezionamento senza compromettere il benessere generale.
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Inviato da: rteo1
il 11/01/2024 alle 21:40
Inviato da: ElettrikaPsike
il 11/01/2024 alle 20:09
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il 11/01/2024 alle 20:06
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il 05/12/2023 alle 19:18
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