…ANCHE L’OPERAIO VUOLE IL FIGLIO DOTTORE…… NON C’E’ PIU MORALE CONTESSA in morte di Paolo Pietrangeli

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…ANCHE L’OPERAIO VUOLE IL FIGLIO DOTTORE…… NON C’E’ PIU MORALE CONTESSA

La morte di Paolo Pietrangeli non lascia indifferenti e fa riflettere su periodi della nostra vita ormai forse un po’ lontani ma che hanno segnato il nostro sentire. Per me è un ricordo di cui rivedo i contorni con molta chiarezza. Era l’anno 1971 ero un ragazzotto acerbo che amava le letture di avventura, i fumetti ma che già allora ascoltava tanta musica in radio e con un vecchio giradischi, un giorno presi in prestito un pacco di dischi dall’allora fidanzato di mia sorella  e tra un Lucio Battisti e un Fabrizio De Andrè mi vennero tra le mani due dischi di quelli che, senza esagerare, ti cambiano la vita, si trattava del Nuovo Canzoniere Italiano  e del “ Nuovo canzoniere Internazionale” pubblicati  per I Dischi del Sole un etichetta allora diretta da  Giovanna Marini Ivan Della Mea, Fausto Amodei, musicisti e cantanti che si erano dedicati alla valorizzazione della canzone popolare  quella che nasceva dalla cultura orale, da quelle  canzoni che prima di essere stampate su un libro, testo e accordi, erano cantate dalla gente nelle piazze. Il gruppo aveva elaborato la forma canzone nello stile delle ballate americane alla Woody Guthrie, si richiamavano alla musica di Leadbelly e di Pete Seeger e ai cantanti folk d’oltreoceano, avevano elaborato un modo diverso di raccontare le storie, suonando la chitarra e cantando tra il parlato e il cantato, mescolando  modi e tecniche: la c.d. narrazione talking blues, progenitrice del rap. Lo stile folk della ballata si fondeva con la cultura nostrana del canto popolare, il risultato era assolutamente originale e inedito nella canzone italiana., sia lo stile che le tematiche erano di  contestazione verso la Chiesa, la critica alla proprietà privata, la canzone diventava così “militante”, coinvolgendo tanti cantautori negli anni della contestazione e dell’impegno politico. Ovunque ci fossero operai, contadini in lotta, ovunque ci fosse una protesta, un presidio c’erano i cantautori e il Canzoniere Italiano che cantava e suonava in solidarietà, Tutte le lotte andavano sostenute, perché serviva a far capire a chi protestava , di non essere soli. Tornando ai due dischi  che ascoltai con gli amici per la prima volta, ricordo che si trattava di canzoni che erano crude e lucide riflessioni sui fatti di cronaca raccontate con forte passione quasi con rabbia, la morte dell’anarchico Pinelli, i morti di Reggio Emilia,  le  amarezze degli emigrati del sud in Svizzera, la repressione, le lotte delle mondine che si sdraiavano sui binari dei treni, tutte canzoni che rappresentavano momenti e episodi che hanno segnato emotivamente e politicamente e hanno raccontato con piglio popolare pezzi della storia d’Italia. Ma la canzone che più di tutte ha segnato noi ragazzi è senz’altro “ Contessa “,  un brano scritto quasi di getto da un giovane Paolo Pietrangeli ascoltando i commenti di due nobildonne romane su fatti di cronaca mentre erano sedute, sorseggiando un tè, in un noto bar della Capitale.  Un testo decisamente rivoluzionario e poco in linea con la strategia riformista caratterizzato dal pieno rispetto delle regole democratiche del Partito Comunista di allora guidato da Luigi Longo e poi da Berlinguer. Un partito che rivedeva il pensiero e la strategia leninista e per questo contestato con forza dai gruppi della sinistra”extra-parlamentari” che proliferavano in pieno ’68. E’ stata  la canzone che ha accompagnato più di tutte le altre il movimento del ’68 in Italia. Contava di un testo diretto ed efficace che riuniva la lotta per i diritti con la lotta per la liberazione dei costumi nell’Italia ancora clericale, nelle forme e nelle leggi. E contava anche la musica particolarmente efficace, epica suonata con forte passione politica che ti portava ad alzare al cielo il pugno chiuso come segno di appartenenza collettiva agli ideali di giustizia e di riscatto.

Proviamo ad analizzare il testo, si parte dalla protesta degli operai dell’industria di Aldo, dalle manganellate della polizia al servizio del padrone, il sangue sui muri e l’esortazione ai compagni a prendere la falce, il martello e a scendere in piazza e picchiare fino ad affossare il sistema. Sembra una chiamata alle armi ma si tratta solo di un incitamento alla rottura, alla fine del perbenismo, alla necessità di avere una radicalizzazione delle lotte, i colpi di martello, l’affossare il sistema  sono solo simboli di questa rottura. Il sessantotto ha rappresentato questo: una generazione che ha avuto la forza e di rompere e liberarsi dalle tradizioni, del concetto di famiglia ribellandosi contro tutto e tutti, contro la scuola, la Chiesa e contro quella sonnolente borghesia che si stava godendo il miracolo economico. Il testo di “Contessa” a rileggerlo oggi  mette quasi i brividi, risulta estremamente violento ed aggressivo ma rappresenta il manifesto delle ragioni del sessantotto.

Paolo Pietrangeli era un grande artista e credo che la sua arte è stata espressa meglio nelle canzoni che scrisse da giovane, dopo “Contessa” scrisse una canzone ancora più cruda , che si intitolava “Caropadrone, stasera di sparo”, che sembra una apologia della lotta armata, ma di fatto ero un appello alla lotta e alla denuncia. Con le parole che allora servivano a rompere vent’anni di sottomissione della gioventù, di militarizzazione dello Stato contro ogni forma di lotta.. “Caro Padrone” è del 69, e dello stesso anno è la più dolce, la più struggente e la meno conosciuta delle canzoni di Pietrangeli. “Il vestito di Rossini”. Credo che parli dei morti di Reggio Emilia (cinque militanti del Pci, tra i quali due ragazzi, falciati dai mitra della polizia, durante uno sciopero: il capo dei carabinieri, quando vide quello scempio, ritirò i suoi uomini, e fu punito; i capi della polizia, responsabili della carneficina, furono tutti processati ma assolti). La canzone racconta di un operaio, di nome Rossini, che viene catturato e sottoposto a un interrogatorio durissimo dal commissario, che vuole una confessione che non avrà mai.

Quel giorno aveva indossato il vestito della festa, il più bello che aveva, l’unico, perché così fanno gli operai. E la mattina presto aveva salutato la sua compagna, Giovanna, dicendole che doveva andare a difendere la democrazia, che sarebbe tornato a sera. Il commissario gli disse che c’erano i testimoni del suo delitto. “L’hanno visto con un sasso in mano / che difendeva un ragazzo già morto,/ ma quel che conta è che a uno di loro / un sampietrino la testa sfasciò. / Ed ha scontato vent’anni in prigione / perché un gendarme s’è rotto la testa; / ormai Giovanna ha tre figli, è in pensione,/ chissà se ha visto il vestito da festa…”.

Con Paolo Pietrangeli scompare il cantore di quella “rivoluzione impossibile” in cui molti, di generazioni anche diverse, credettero convintamente e per la quale si impegnarono attivamente.

Le sue liriche, talvolta caratterizzate anche dai toni forti di quei tempi, restano indimenticabili. Le sue canzoni, i suoi scritti hanno sempre ricordato i diritti individuali e collettivi e quei principi di eguaglianza che hanno visto l’impegno di tante generazioni diverse, comprese le più giovani che ancora ascoltano e cantano le sue canzoni.

Ma Paolo non è stato solo un autore musicale; già nel 1974 con “Bianco e Nero” denunciò il neofascismo che ancora ci affligge e, pochi anni dopo, con il cinema, a raccontare il mondo dei sentimenti e della sessualità degli adolescenti con “Porci con le Ali”.

Superata quella stagione, parallelamente al suo lavoro di regista televisivo, non mancò mai negli anni e in tante occasioni di testimoniare il suo impegno per un mondo più giusto, perché le idee di rivolta non sono mai morte ….    JANKADJSTRUMMER

CONTESSA

Che roba contessa, all’industria di Aldo
Han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti
Volevano avere i salari aumentati
Gridavano, pensi, di esser sfruttati
E quando è arrivata la polizia
Quei pazzi straccioni han gridato più forte
Di sangue han sporcato il cortile e le porte
Chissa quanto tempo ci vorrà per pulire
Compagni, dai campi e dalle officine
Prendete la falce, portate il martello
Scendete giù in piazza, picchiate con quello
Scendete giù in piazza, affossate il sistema
Voi gente per bene che pace cercate
La pace per far quello che voi volete
Ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra
Vogliamo vedervi finir sotto terra
Ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato
Nessuno piu al mondo dev’essere sfruttato
Sapesse, mia cara che cosa mi ha detto
Un caro parente, dell’occupazione
Che quella gentaglia rinchiusa lì dentro
Di libero amore facea professione
Del resto, mia cara, di che si stupisce?
Anche l’operaio vuole il figlio dottore
E pensi che ambiente che può venir fuori
Non c’è più morale, contessa
Se il vento fischiava ora fischia più forte
Le idee di rivolta non sono mai morte
Se c’è chi lo afferma non state a sentire
E’ uno che vuole soltanto tradire
Se c’è chi lo afferma sputategli addosso
La bandiera rossa ha gettato in un fosso
Voi gente per bene che pace cercate
La pace per far quello che voi volete
Ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra
Vogliamo vedervi finir sotto terra
Ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato
Nessuno piu al mondo dev’essere sfruttato
Ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato
Nessuno piu al mondo dev’essere sfruttato

RICORDI INDIMENTICABILI – I DUCHI DI LANCASTER quando la band di S.Pietro in Amantea imperversava nel basso cosentino. by Jankadjstrummer

 

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I DUCHI DI LANCASTER  quando la band di S.Pietro in Amantea imperversava nel basso cosentino.

Il ricordo dei Duchi di Lancaster mi riporta indietro di oltre 40 anni alla prima volta, in assoluto, che  ho visto Giacomo, era probabilmente l’anno 1969 entrambi adolescenti ma con qualcosa che ci accomunava, la grande passione per la musica. Vivevamo in un paesetto della provincia calabrese, si sentiva solo l’eco del rock , della musica beat e del soul, nel paese poche erano le occasioni per ascoltare o fare  musica, nascevano gruppi beat che scimmiottavano i vari Equipe 84, Nomadi o i Camaleonti che non hanno mai lasciato nessun segno del loro passaggio, band che si costituivano ma che duravano una sola stagione e qualche cantante con velleità di diventare Massimo Ranieri, Claudio Villa o Gianni Morandi.

Ho ricordi nitidi di un Festival delle voci nuove al Cinema Bruni di Amantea, concorso che decretava i big musicali della zona, manifestazione seguitissima, con appassionate rivalità, e poi tanti gruppi e cantanti in erba che si cimentavano solo per il gusto di suonare insieme e divertirsi.

Ad un certo punto della serata, il presentatore chiama sul palco, per l’esibizione, i Duchi di Lancaster, provenienti da S.Pietro in Amantea, un gruppo credo alla loro prima apparizione in pubblico, assestano gli strumenti e partono con un pezzo rock velocissimo e tiratissimo con voce, chitarra e batteria in grande evidenza, suono pulito che denotava l’affiatamento del “complesso vocale e strumentale” come venivano definiti all’epoca.

Dietro la batteria, che batteva forte sul pedale e dava colpi di bacchette su tamburi e piatti, un adolescente, un ragazzino come me. Fu sorprendente  vedere un mio coetaneo dodicenne già a suo agio dietro uno strumento così complicato come la batteria, era lui, Giacomino, capelli lunghi nerissimi con frangetta, carnagione olivastra, in mezzo al suo gruppo formato da ragazzi molto più maturi di lui e alle prese con un assolo di batteria da fare invidia ad un consumato musicista. Fu uno spettacolo, mi ricordo che furono accolti con simpatia ed ebbero un discreto successo ma chiaramente non vinsero, erano troppo avanti per quella platea. Questo gruppo mi colpì molto, sarà stato il nome che avevano scelto che mi ricordava storie medievali di cavalieri inglesi, la guerra delle due rose, storie di cappe e spade che stuzzicavano la mia fantasia, oppure il loro suono rock molto diverso dal resto degli “ artisti” che si erano avvicendati sul palco, oppure l’esordio di Giacomino alla batteria che suscitava in me, ancora ragazzino, un pizzico di invidia, un groviglio di sensazioni positive che mi hanno accompagnato anche dopo qualche anno quando il primo giorno del 1° liceo, con Giacomo, siamo capitati nella stessa classe e dopo lo scambio di solo due parole ci siamo trovati seduti nello stesso banco per tutti i 5 anni. Abbandoniamo, però, questi sentimentalismi e veniamo al percorso artistico dei Duchi di Lancaster, che poi ho seguito con interesse nel prosieguo degli anni, musicisti seri e tutti di un pezzo, il cantante, un grande sentimentale, che ricordo eternamente innamorato, quello che si può definire un poeta romantico degli anni 70. Pezzi autocostruiti, testi che prendevano vita dalla penna dello “scienziato”come lo definivano tutti e poche cover ne fecero un gruppo originale, forse troppo legato ad un genere un po’ romantico che ricordavano gli Alunni del Sole, musicisti mai banali , ma onesti ed ispirati. La loro sala prove era diventata un fucina di grande musica, ascoltavo con attenzione il loro repertorio e qualche volta Giacomo mi coinvolgeva come seconda voce, i nostri cavalli di battaglia erano “Child in time” dei Deep Purple, Oye como va dei Santana ma anche “il giudice” di De Andrè. L’acquisto dell’organo “Thomas “ dette grande vitalità al gruppo e alle sonorità dei loro brani. duchi 3

Può sembrare una operazione nostalgia ma vi assicuro che al “ CLUB”, come veniva definita la loro sala prove, c’era sempre molto fermento, si ascoltavano dischi, si ragionava di musica, testi di canzoni ma anche di amori adolescenziali quasi sempre non corrisposti, si facevano feste da ballo con la musica live, era, quello che si dice ora, un ambientino simpatico, molto vivo e frizzante.

Mi sarebbe piaciuto acquisire un po’ di notizie da poter inserire in questo contributo, ricordare le scalette dei loro spettacoli, ma mi basta comunque, tributare ai Duchi questa piccola manifestazione di grande affetto per quello che sono riusciti a trasmettere a me e a tanti  ragazzi che magari emigrati al nord ricordano con nostalgia ma anche con molta passione quegli anni. L’orgoglio e il senso di appartenenza ad una comunità come quella sanpietrese  molto coesa e genuina. Una celebrazione di un gruppo affiatato che con alti e bassi si è mantenuto e non si è ossidato negli anni. Massimo rispetto per i Grandi Duchi di Lancaster, forever!    jankadjstrummer

 

 

I MIGLIORI DISCHI DEL 2020. by JANKADJSTRUMMER

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COME OGNI ANNO VI SEGNALO I 15 DISCHI CHE PIU’ ASCOLTATO E CHE , A MIO INSINDACABILE GIUDIZIO, RAPPRESENTANO IL MEGLIO DELLE USCITE DEL 2020.

  1. RUFUS WAINWRIGHT – UNFOLLOW THE RULES
  2. FLEET FOXES – SHORE
  3. FIONA APPLE – FETCH THE BOIT CUTTERS
  4. SUFJAN STEVENS – THE ASCENSION
  5. ELVIS COSTELLO – HEY CLOCKFACE
  6. BEN HARPER – WINTER IS FOR LOVERS
  7. ANDREW BIRD – HARK!
  8. THE WAR ON DRUGS – LIVE DRUGS
  9. GRETA VAN FLEET – ANTHEM OF THE PEACEFUL ARMY
  10. BRUCE SPRINGSTEEN – LETTER TO YOU
  11. TAME IMPALA – THE SLOW RUSH
  12. KENDRICK LAMAR – DAMN
  13. NINA SIMONE – SPOTLIGHT ON NINA SIMONE ( RACCOLTA)
  14. THE WATERBOYS – GOOD LUCK, SEEKER
  15. PRETENDERS – HATE FOR SALE

 

https://youtu.be/s_iyIXOvwpk

SENTIMENTALE – GLI ALUNNI DEL SOLE – JENNY E LA BAMBOLA – by JANKADJSTRUMMER

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GLI ALUNNI DEL SOLE – JENNY E LA BAMBOLA –

E’ inutile, nessuno può esimersi dalla nostalgia, dal  ricordo dell’adolescenza, dalla visione in bianco e nero delle feste in casa con i compagni di scuola in attesa dei “ lenti” che regalavano i primi turbamenti, i primi approcci con la  ragazza con cui speravi di imbastire una storia sentimentale. Nel rivivere queste immagini, i luoghi della giovinezza bisogna necessariamente essere accompagnati da una colonna sonora che non può non essere Jenny e la Bambola degli Alunni del Sole. L’altra sera parlavo al telefono con il Dr Nac che mi ha ricordato questo disco e tutto quello che rappresentava per dei ragazzi che nel 1974, anno di pubblicazione dell’album,avevano sedici anni. Così sono andato alla ricerca dell’album per riascoltarlo e con estremo stupore mi sono accorto di essere investito da una grande tenerezza, faccio partire la prima traccia intitolata “Un manichino in vetrina” e come per incanto riesco a ricordare la storia di Jenny e dell’incontro con il suo amore estivo, fugace. L’immagine che si coglie è il binario di una stazione e questa bella ragazza in attesa del suo treno con in mano una bambola di cartone. Suoni dolcissimi di chitarra acustica e pianoforte rendono questo quadretto ancora più intenso e tenero. Paolo Morelli ( il cantante) immagina di percorrere con lei le vie del mercato sotto gli sguardi ammirati dei passanti mentre i suoni dei violini e delle mandole sembrano lanciare petali di rose al loro passaggio. Non lo ricordavo cosi suggestivo questo inizio, anche il secondo brano “la bambola di cartone” segue lo stesso clichè, la ragazza alle prese con la sua bambola a cui aveva cucito un vestitino adornato con dei fiori di carta, a cui  truccava il viso e che  teneva stretta al suo petto quando il treno prende la sua corsa, qui l’innamorato gli grida tutto il suo amore ma lei non sembra sentire, un distacco che diventa dolore nel ricordo delle belle serate in riva al mare quando una orchestrina suonava da lontano e i due innamorati erano felici. La musica che fa da tappeto a questi sentimenti espressi con estrema sincerità e dolcezza, è una sorta di progressive che gioca con violini, tastiere e flauti nella descrizione delle luci delle lampare e nelle ombre di gente che balla e si diverte. Una immagine molto raffinata ma tanto malinconica. Il suono del piano e dell’armonica è il preludio al brano “Jenny e la bambola( I° parte ) “, qui è Jenny che parla del suo amore per un giovane più grande di lei, un amore contrastato dai genitori, il dialogo con la sua bambola, regalata probabilmente da questo ragazzo,  a cui rivela le sue fantasie di adolescente e  il desiderio di fuggire via,  il tutto su una musica lenta  con formidabili tocchi di  piano e mandolino. In “Jenny e la Bambola(II parte)” Jenny ormai adulta, ritrova in soffitta la sua bambola e la porta con sé come simbolo della sua adolescenza Qui la musica diventa orchestrale, belli gli arrangiamenti, il pianoforte e gli archi che rendono raffinato e leggero l’accompagnamento. Il brano Jenny chiude il cerchio, finalmente si racconta la storia d’amore estiva tra lui e lei. Promesse scambiate e poi dimenticate in un vortice di chitarra acustica, basso e una voce romantica e lieve. Poi altre due canzoni che non fanno parte della storia di Jenny: “un’altra poesia “ che ebbe un grande successo come 45 giri, una dichiarazione d’amore attraverso la dedica di una poesia, brano delicato, reso ancora più dolce da un bell’arrangiamento;  infine “Canzoni d’amore “ un brano forse riempitivo ma reso suggestivo dalla voce di Paolo Morelli. Il disco termina come termina questo tuffo nel passato alla ricerca forse di immagini di momenti lieti in cui l’unico impegno era un po’ di studio.  Jenny e la bambola è uno dei primi concept-album nel panorama musicale italiano, ebbe un grande successo di pubblico e di critica che consacrò il gruppo nel filone sentimentale pur riconoscendogli una forte maturità stilistica e musicaleBuon ascolto o riascolto da  Jankadjstrummer

https://youtu.be/KBFS7Jr2yE0

JENNY

Jenny sembrava felice/ di correre lungo,il mare di andare, tornare, giocare di farsi perdonare/io le baciavo le ciglia, che meraviglia felici, eravamo felici, ma… l’estate finiva, e,…
dovevo lasciarla jenny era tanto sicura che noi ci saremmo trovati di nuovo di certo anche lei, non sapeva dove
pero’ io le,ho creduto quante promesse scambiate, dimenticate sincera, sembrava, sincera,e poi…davvero era bella
per me la piu’ bella! na, na, na, na, na na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na,
jenny era la mente mia, era dentro le foglie, nel vento dentro l’acqua, nel sole, sui monti anch’io io le dormivo dentro
quante foto con amore che m’avra’ lasciato e quante le notti di mare che… son stato con gli occhi alle stelle a… pensarla na, na, na, na, na na, na, na, na,  na, na, na, na,
ore di allegria e,anche ore di malinconia non ci pensare sei mia, ma… sapeva che finiva poi le baciavo le labbra,
dopo,un po’ le ciglia felici, eravamo felici, ma… l’estate finiva, e,… dovevo lasciarla na, na, na, na, na na, na, na, na,
na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na, na!!!.|

https://youtu.be/S8KVzqMjUPE

ROCK & DRUGS – Un viaggio verso la perdizione 2° puntata by Jankadjstrummer

https://youtu.be/r0Mo4QSedFo
jankadjstrummer
DRUGS & ROCK Un viaggio verso la perdizione 2° puntata
“ IL DOPO “ANNI 70”.
Nella prima puntata abbiamo visto come una lunga sfilza di musicisti rock fa le spese con l’ abuso di stupefacenti, nomi mitici che, a vario titolo e per svariate motivazioni, ci lasciano le penne, tutte queste vittime illustri probabilmente fanno riflettere sulla deriva autodistruttiva collettiva che si muove nella arcipelago della musica giovanile.
Nell’ambito dei musicisti rock e nei tanti milioni di appassionati di musica, la droga non fu più un “must”, ma ritornò ad essere una condizione che attiene alla sfera personale:
l’unica eccezione che ricordo di uso collettivo ed aggregante legato alle droghe è datato fine anni ’70 inizi degli ’80, un vero e proprio boom. Il raggae strettamente collegato all’uso dell’erba giamaicana, la ganja come viene definita nella religione “rasta”, la marjuana e tutti i suoi derivati “ olio, hashish ed in generale in cosiddetto “ Fumo” di cui
facevano e fanno uso i musicisti raggae che avevano in Bob Marley il loro profeta in Occidente (morto anche lui, nell’81, ma per cause indipendenti dall’uso della ganja). Il rito nei concerti raggae era quello del passaggio di mano in mano dello “ spinello “ come ricerca collettiva di una unità e di benessere al ritmo dei suoni caraibici. Per il resto,negli anni 80 e 90 hanno prodotto band che non teorizzavano l’uso delle droghe come i
Police, i Depeche Mode, gli HEAVEN 17, gli HUMAN LEAGUE ma che tuttavia rimasero coinvolte perché a livello soggettivo membri dei gruppi hanno avuto problemi legati all’ uso di sostanze stupefacenti, DAVE GAHAN dei Depeche Mode ha avuto una lunga
dipendenza da eroina, STING dei POLICE legato all’uso dell’alcool , ma le loro bands ne rimasero fuori, al contrario c’erano dei gruppi di hard rock i SAXON e i MANOWAR che,al contrario, diffondevano la filosofia della cultura fisica, muscoli in evidenza e zero
droghe. Basti pensare che DAVID LEE ROTH, storico cantante del gruppo dei VAN HALEN, fu allontanato dalla band perché passava più tempo in palestra che in studio di registrazione a provare), o come i METALLICA e i NIRVANA, troppo impegnati nel portare avanti discorsi socio-politici per annichilirsi con le droghe (il fatto che KURT COBAIN, morto suicida, facesse uso di eroina e psico farmaci è stato da lui ufficialmente
giustificato come lenitivo di fortissimi dolori allo stomaco, ma comunque non coinvolgeva ufficialmente la band). Stesso discorso, ma con l’interesse rivolto più alle filosofie orientali che alle lotte socio-politiche, vale per i DIRE STRAITS band mitica per i consumatori di droghe leggere i loro brani ( Sultan of swings in testa ) sono i sottofondi
più utilizzati insieme a quelli dei PINK FLOYD e C.S.N.&Y., per le “fumate” collettive. I DURAN DURAN e gli SPANDAU BALLET, rivali in tutto, lo erano anche in questo senso: i Duran ammettevano l’uso di droghe mentre gli Spandau le rifiutavano. Resistono comunque le band “pro-drugs”: MOTLEY CRUE e GUNS’N’ROSES (è loro un altro inno
all’eroina, “Mr.Brownstone”)
Mi sveglio attorno alle sette/ Esco dal letto alle nove / E non mi
preoccupo di niente/ Perche’ preoccuparmi e’ sprecare il mio tempo. Di solito lo spettacolo e’ alle sette/ Saliamo sul palco alle nove/ Alle undici siamo sul bus/ A bere e star bene/ Abbiamo danzato/
Con Mr .Brownstone
Ha bussato/ Non mi lascera’ mai/ Mi facevo un po’, ma un po’ non mi bastava/ Cosi’ un po’ e’ diventato sempre di piu’/ Ora cerco di stare un po’ meglio/ Almeno un po’ meglio di prima/ Abbiamo danzato/Con
Mr.Brownstone / Ha bussato/Non mi lascera’ mai/ Ora mi alzo a
qualunque ora/ Prima ero puntuale/ Ma quel vecchio e’ un figlio di puttana/Lo prendero’ a calci fino a farlo morire
sono due tra le band che hanno tenuto duro a lungo sul tema “sex,
drugs e rock’n’roll”, spesso rischiando anche la vita in nome del “mito” (NIKKI SIXX dei Motley Crue ha avuto varie overdosi, SLASH dei Guns è alcolista dichiarato, senza contare i vari problemi fisico-legali che un po’ tutti i componenti delle due bands hanno avuto per causa dell’uso di sostanze proibite). Consola, comunque, la lista dei tanti “rinnegati della
droga”: tra i più illustri MICK JAGGER ha affermato di fare uso, da anni, solo di…palestre, PAUL Mc CARTNEY si “carica”, invece, con lo Yoga e addirittura ALLEN GINSBERG, profeta dell’LSD, ha ritrattato tutto, ammettendo di aver preso “un’enorme cantonata”. Più o meno tutti coloro che, a suo tempo, hanno fatto uso di droghe (CLAPTON, GAHAN, MARTI PELLOW dei Wet Wet Wet) hanno ammesso di stare meglio
senza. Per tutti, ascoltiamo ciò che dice STEVEN TYLER, leader degli AEROSMITH, altra mitica band rock nota per gli abusi di droga: “Da quando ho smesso è una vacanza permanente (“Permanent vacation”, come il titolo di un famoso album della band)! Ogni
mattina ringrazio Dio di darmi un nuovo giorno a tempo di rock!”. Amen!!!
 https://youtu.be/r0Mo4QSedFo
LE DROGHE E IL ROCK.
L’ EROINA:
Fu la casa farmaceutica Bayer a metterla in commercio per la prima volta
verso la fine del 1800 come farmaco capace di combattere alcune patologie dell’apparato respiratorio. Si accorsero un po’ in ritardo della tossicità della sostanza, e la ritirarono dal mercato quasi 20 anni dopo, ma ormai il fenomeno della tossicodipendenza era diffuso e quando, alle soglie degli anni 20, negli Stati Uniti l’eroina fu vietata e quindi se
ne proibì la diffusione, ormai si era già sviluppato un mercato clandestino che si diffuse poi in tutto il mondo e resiste a tutt’oggi. È la droga per eccellenza, ad alto tasso di tossicità ed assuefazione, quella di cui non ti puoi più liberare. Il suo effetto sconvolgente
è stata la prima causa del suo boom nel mondo del rock. Associata ad altre sostanze (coca, alcol ecc.) può dare anche effetto eccitante (ne hanno fatto molto spesso uso anche i componenti dei RED HOT CHILI PEPPERS band nota per i suoi shows devastanti).
Attualmente viene anche “sniffata” (soprattutto dai giovani, terrorizzati dall’AIDS) e, da qualcuno, anche fumata. Nell’ambito del rock gossip per un periodo è stata anche sostituita dalla MORFINA, farmaco con effetti simili, considerato un buon surrogato dell’ERO (“Sister Morphine” dei ROLLING STONES ne decantava le…qualità).
LA COCAINA:
Derivata dalle foglie di Coca, pianta di cui quasi tutto il Sud-America è pieno e le cui foglie vengono masticate da secoli dagli indigeni, venne sintetizzata intorno alla metà del 1800 da un chimico tedesco per cercare di condensarne le proprietà eccitanti.
Nel 1912 venne bandita dalla Società delle Nazioni per gli effetti distruttivi dal punto di vista fisico. Tra le rockstar vittime della coca ricordiamo JEFF PORCARO, batterista dei
TOTO, JERRY GARCIA chitarrista dei GRATEFUL DEAD e MICHAEL HUTCHENCE, cantante degli australiani INXS, morto non direttamente a causa degli effetti della sostanza ma suicida a causa dei debiti conseguiti dall’uso smodato della stessa.
 L’ L.S.D.:
Altra droga nata in laboratorio. Intorno al 1940 la Sandoz, industria farmaceutica svizzera, “grazie” agli studi del chimico Albert Hoffman, scoprì il dietilamidetartrato, meglio conosciuto come LSD, cioè
dextro lisergic acid diethylamide tartrate. Lo stesso ne sperimentò gli effetti su sé stesso e li diffuse in un libro che provocò una vera e propria
rivoluzione intellettuale, grazie anche all’opera solerte dei vari profeti
beat del periodo (ALLEN GINSBERG, TIMOTHY LEARY, JACK KEROUAC ecc.). Gli effetti dell’acido sono devastanti, soprattutto a livello cerebrale. C’è stato anche chi, dopo averne preso solo uno, è uscito fuori di testa per sempre…
LE ANFETAMINE:
Sintetizzate per la prima volta intorno al 1890, inizialmente vennero
usate come cura per l’asma, e dagli anni 30 in poi gli ospedali ne fecero uso abituale per curare i narcolettici. Ma fu durante la seconda guerra mondiale che la sostanza, già da tempo distribuita normalmente nelle farmacie, ebbe larga diffusione; ne facevano uso abituale soldati di vari eserciti, e lo stesso Adolf Hitler ne era un consumatore accanito.
Le anfetamine eliminano la sensazione di fame, così come quella di stanchezza, sostituendole con euforia, loquacità, iperattività. È un fortissimo stimolante nervoso, con tutte le controindicazioni del caso. In Italia per un periodo vennero consumate sotto forma di pasticche (le Plegine) abitualmente prescritte nei casi di obesità, e per questo ad
alto contenuto anfetaminico.
LA MARIJUANA, HASHISH:
Derivati dalla pianta di Canapa, già nel 3000 a.C. ne facevano largo uso i cinesi come erba curativa. Nel corso dei secoli furono innumerevoli le civiltà che ne fecero uso in vari modi, soprattutto a carattere terapeutico, specialmente per ciò che riguarda le foglie di Marijuana. Troviamo invece le prime tracce di Hashish (derivato della resina della pianta di canapa) tra i Cartaginesi, che pare avessero un “filo diretto” con Roma per la vendita della preziosa sostanza.
Che dire sul “fumo”che già non si sappia? Dai “calumet della pace” dei Pellirossa alle “fumate trascendentali” dei saggi indiani, il rito continua ancora oggi, come “socializzante” o… rilassante, in gruppo o anche da soli. Ma per quanto minimi rispetto il tasso di tossicità e la pericolosità delle altre droghe su elencate, anche il “fumo” ha i suoi
effetti negativi (d’altra parte, se non facesse niente, come qualcuno molto ingenuamente si ostina ad affermare, che scopo avrebbe…”farsi le canne”?!?!). Basti pensare che anche le semplici sigarette “nuocciono gravemente alla salute”… Per concludere, è innegabile che la libertà, soprattutto per quanto riguarda le scelte personali, sia un diritto supremo, ma altrettanto importante è informarsi, in modo di essere pienamente consapevoli delle proprie scelte.
JANKADJSTRUMMER

Rock & drugs 1° parte – Gli anni ’60, In viaggio verso la perdizione.

La storia di un viaggio verso la perdizione – gli anni ‘60

“Ho la fortuna di avere dei parenti a Frascati. Ogni anno non vedo l’ora che vengano le feste natalizie per poterli andare a trovare e farmi delle overdose di porchetta e vino dei Castelli Romani”.
(Brian Johnson, cantante degli AC/DC).
“Voglio morire prima di diventare vecchio”, cantavano WHO nel loro hit generazionale “My Generation”.

 Questi sono forse i due estremi, due filosofie di vita che si contrappongono, da una parte le band che ritengono che l’uso di droga sia  uno dei modi migliori per “accelerare i tempi”dell’autodistruzione, un eccesso autolesionista che comunque portava spesso alla morte nella ricerca della felicità . Dall’altra i morigerati artisti che rifiutarono apertamente le droghe, tipo i DEEP PURPLE  che col chitarrista RITCHIE BLACKMORE ebbero a dire “Come si fa a drogarsi per suonare? La musica è già di per sé una droga!” o i LED ZEPPELIN e i BLACK SABBATH, che preferivano dedicarsi a pratiche esoteriche piuttosto che annichilirsi, per non parlare poi dei gruppi rock progressive come i JETHRO TULL, i GENESIS gli YES EMERSON,LAKE & PALMER che non si sono mai lasciati andare preferendo suonare, sperimentare nuove dimensioni sonore da veri professionisti. GENE SIMMONS, leader dei KISS , ha sempre affermato che l’unica cosa che adora sniffare è il profumo di… donna. Molti gruppi rock sul finire degli anni ’60, invece, abbracciarono questo strano modo di condurre la propria vita, alcuni con consapevolezza altri con ingenua disinformazione mossi solo dalla voglia di trasgredire, spesso legata ad una profonda timidezza: JIM MORRISON e JANIS JOPLIN hanno sempre affermato che non sarebbero mai riusciti a salire su di un palco senza darsi un “aiutino”. Hashish, marijuana, amfetamine ma in particolare l’eroina e la cocaina furono il veloce strumento usato dai musicisti che hanno teorizzato l’autodistruzione. “ White Rabbit” dei Jefferson Airplane, “Heroin” dei Velvet Underground di Lou Reed, “Brown Sugar”, Sister morphine” dei Rolling Stones e “Carmelita”di Linda Ronstadt furono dei veri e propri inni dedicati a queste droghe che, forse, contribuirono alla loro capillare diffusione.  Inoltre, bisogna ricordare che spesso erano i mix esplosivi a creare danni irreparabili al sistema nervoso e all’annientamento: alcool e psicofarmaci o i mix di diverse droghe inventate spesso nel mondo del rock, famosa era “la palla di fuoco” inventata Keith Richards dei Rolling Stones e  consigliata a tutti i musicisti, la dose era questa: una sniffata d’eroina poi una di cocaina seguita da un punch di Whisky caldo. A farne le spese di questa filosofia di vita furono non solo musicisti famosi o meno ma anche tanti giovani che vedevano le rock-star come modelli da imitare, il loro punto di riferimento. Si è detto di questo spirito distruttivo dell’uso di droga ma esiste anche quello che molti consideravano addirittura costruttivo, tipo l’ LSD o acido lisergico molto utilizzato nel mondo del rock, una sostanza capace di “dilatare la mente”, di amplificare i sensi aumentando le possibilità percettive fino a distorcere la realtà ma che permette di arrivare a stati di ultra-coscienza. Lo scrittore  ALLEN GINSBERG, padre della beat generation, provocatoriamente lo consigliò ai vari Capi di Stato in modo che potessero trovare soluzioni migliori e più veloci ai problemi mondiali. Pink Floyd, I Cream di Jack Bruce e Eric Clapton e in America i Grateful Dead e gli Experience di Jimi Hendrix furono assidui consumatori sia in fase di composizione dei brani che nelle performance dal vivo. Ma non fu solo l’acido la droga “costruttiva” degli anni ’60, I BEATLES, per esempio, non fecero mistero che per reggere fisicamente e psicologicamente  gli impegni musicali ( concerti,registrazioni,interviste ecc.ecc. ) facevano uso massiccio di eccitanti  e per rilassarsi di “canne di hashish” (“Lucy in the sky with diamonds”) oppure Eric Clapton che in “Cocaine”, cover rock-blues di J.J.CALE, enfatizzò l’utilità della cocaina (“fa bene”, “ti fa stare su”, “con lei fai tutto bene”).
hendrix

 

Lee “Scratch” Perry, Mad Professor & Robotics. Una notte speciale sulla collina del Poggetto a Firenze. ‎Modifica

Lee “Scratch” Perry, Mad Professor & Robotics. Una notte speciale sulla collina del Poggetto a Firenze.

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Lee “Scratch” Perry, Mad Professor & Robotics. Una notte speciale sulla collina del Poggetto a Firenze.

Sulla locandina il concerto è fissato alle 21:30 del venerdì 24 febbraio alla Flog di Firenze, sede storica della rassegna invernale Vibranite, che porta in città il meglio del raggae, del dub e del ruggamaffin sia nostrano che mondiale. Questa sera si esibiscono 2 personaggi incredibili, il maestro e il discepolo del raggae e della Dub-Music , Lee Scratch Perry + Mad Professor & Robotics. Lee “Scratch” Perry, uno dei pochi artisti Reggae arrivati al traguardo del Grammy Award, si deve a lui lo sviluppo e la diffusione di questo genere musicale sia in Giamaica che nel resto del mondo, come si deve a lui la produzione dei maggiori artisti giamaicani da Bob Marley  ai Wailers; la sua attività, spesso, ha  precorso i tempi e le tendenze diventando il punto di riferimento di tanti musicisti Dub pur non disdegnando di tanto in tanto di  esibirsi in concerto a dispetto della sua veneranda età di 76 anni. Dietro il nomignolo di Mad Professor si cela, invece, Neil Fraser, un artista poliedrico della seconda generazione raggae anche lui produttore e collaboratore dei grandi del raggae e dub.  Arriviamo col mio amico Pietro intorno alle 22:15, lui continua a ripetermi che l’orario alla Flog è molto flessibile ed ha ragione, entriamo nella grande sala, non siamo più di 100 persone, molti al bar a bere birra, qualche ragazza che si muove sinuosa e ondeggiante al ritmo sincopato del raggae che proviene dalla Jah Station Sound, un dj set che vede alla consolle il grande jaka Dj molto conosciuto in città come conduttore di una trasmissione radiofonica  “ Bongo Bongo” incentrata sulla musica e sulla cultura raggae. Ci avviciniamo anche noi ad un gruppo di ragazzi che balla e non possiamo non dondolarci al ritmo in levare, chiacchieriamo un po’, il tempo passa, gli artisti si fanno attendere, si è fatta mezzanotte ed è ancora dance hall, ore 0:20 finalmente qualche musicista sale sul palco ad accordare gli strumenti, Mad Professor si posiziona dietro il mixer e finalmente parte la musica, la sezione ritmica è perfetta, il basso disegna un cerchio di suono rallentato che segue il battito del cuore mentre una tastiera birichina batte sui tasti
e dà il tempo di una musica intrisa di spiritualità, non si può fare a meno di chiudere gli occhi e farsi cullare da questi suoni; scema il primo brano di Mad Professor, mi guardo intorno e miracolosamente  vedo la sala stracolma di gente, non capisco da dove sia uscita, qualcuno a dispetto del divieto rolla canne di marijuana incurante del “ proibizionismo” , l’odore acre della ganja è nell’aria, c’è molta gioia, rilassatezza, i tantissimi giovani che si accalcano sotto il palco sembrano scolaretti, nessuna intemperanza ma voglia di condividere uno stato mentale, di godere di momenti di catarsi collettiva magari sognando una spiaggia colorata caraibica. I brani scorrono veloci senza soluzione di continuità, i musicisti sono molto professionali ma anche loro si lasciano andare dimostrando di “ sentire” la musica, di amarla con il cuore e la mente. Siamo in attesa della leggenda del raggae, dello sperimentatore vulcanico, dello scopritore di talenti, si abbassano le luci, un faro colorato viene puntato sul palco, si intravede una figura che arranca verso il centro del palco, che trascina un trolley, sembra uno che si trova li per caso, è lui il grande nome della storia del raggae, Lee “Schratch” Perry, il padre del dub, colui che tra le altre cose ha collaborato con i Clash, con i Beastie Boys, un eterno ragazzo abbigliato di rosso, con una felpa azzurra di acetato con la scritta ricamata “ITALIA”, scarponi argentati con incollati degli  specchietti e con il suo leggendario berretto carico di gadget di ogni genere che guadagna la scena, in sottofondo il raggae, mi soffermo a guardarlo e mi sorprende il suo sguardo rilassato, le sue profonde rughe scolpite da 50 anni di impegno e di musica,è eccezionale vederlo in azione, percorre a passi felpati continuamente il palco muovendosi con estrema leggerezza dispensando strette di mano a tutti, sorrisi, sono stregato da questa atmosfera coinvolgente, gesticolando canta, dirige la musica, catalizza gli sguardi verso di lui chiedendo ed ottenendo grande rispetto delle sue tradizioni, della sua religione e di tutto quello che è riuscito a fare nella sua lunghissima carriera. Non posso fare a meno di immortalare questi momenti, fotografando, registrando spezzoni dello show perché probabilmente non rivedrò più tanta umanità ma anche tanta bizzarra ironia.
A controllare il suono del mixer è rimasto  Mad professor, il maestro dell’elettronica che ha il preciso compito di creare un suono avvolgente che valorizzi la voce imperfetta di Perry. E’ un canto semplice il suo, richiama le radici (roots), quella Mama Africa che attende il ritorno di tutti i suoi fratelli neri. Il pubblico sembra aver rallentato la danza per concentrarsi su questa figura minuta, capace  di comunicare sentimenti universali quali l’uguaglianza tra i popoli, la libertà, il misticismo, un predicatore che gira il mondo per portare anche qui a Firenze la sua bandiera di pace. Il finale è un apoteosi di suoni, lo spettacolo è durato un po’ più di un ora, lui scompare dal palco col suo trolley così come vi è arrivato, veloce come il passaggio di una stella cometa.

Dal vostro Jankadjstrummer


 

“La rivoluzione non sara’ trasmessa in tv” Gil Scott-Heron (Chicago, 1/4/ 1949 – New York, 27 /5/ 2011)

“La rivoluzione non sara’ trasmessa in tv”.

Gil Scott-Heron (Chicago, 1/4/ 1949 – New York, 27 /5/ 2011)

Eravamo all’inizi degli anni ’70  quando Heron incise questo grido di battaglia diventato poi  l’inno dei ghetti neri delle periferie d’America dove era forte la discriminazione e la voglia di riscatto dei giovani, lui diventa, quindi,  la voce, la poesia,  lo spoker word cioè il Dylan dei neri che recitata su basi musicali soul e jazz; l’improvvisazione, per lui, diventa un tratto distintivo, l’impegno civile, la denuncia ma anche la vita di tutti i giorni viene trasposto in musica con molta originalità per quei tempi, tanto che ne  ricava uno stile, un modo di essere che diventerà, poi, il RAP che ora conosciamo. Oltre che per il suo attivismo militante afroamericano  Heron ha avuto il merito di rinnovare la musica nera, con una serie di album che lo portarono al successo e, soprattutto, influenzarono una intera nuova generazione di musicisti che, dalla fine del decennio, iniziarono a percorrere le strade del rap seguendo il suo insegnamento. «Non saremmo qui a fare quello che facciamo e come lo facciamo senza il tuo lavoro», ha commentato Chuck D dei Public Enemy, così come hanno fatto moltissimi altri artisti hip hop ( Eminem,Beatsie Boys) che hanno voluto tributare l’ ultimo omaggio al poeta/musicista. Iniziò a incidere musica nel 1970 con l’album Small Talk at 125th & Lennox con uno stuolo di musicisti jazz. L’album includeva Whitey on the Moon un brano in cui si scagliava  contro i grandi mezzi di comunicazione posseduti dai bianchi e dimostrava l’ignoranza della middle class, tenuta all’oscuro dai reali problemi delle grandi città. Poi Pieces of a Man del 1971 in cui i brani tornano ad essere canzoni con una struttura classica con poche parole in musica e senza sermoni recitati liberamente. Il suo più grande successo fu nel 1978, “The Bottle”, prodotto insieme al suo eterno collaboratore Brian Jackson, che arrivò in vetta alle classifiche R&B. Durante gli anni ottanta Scott-Heron continuò a pubblicare canzoni, attaccando di frequente l’allora presidente Ronald Reagan e la sua politica conservatrice: “L’idea riguarda il fatto che questo paese vuole nostalgia. Essi vogliono tornare indietro quanto possibile – anche se è solo fino alla settimana scorsa. Non per affrontare oggi o domani, ma per affrontare il passato. E ieri era il giorno dei nostri eroi del cinema a cavallo che arrivavano a salvare tutti all’ultimo momento. Il giorno dell’uomo col cappello bianco o dell’uomo sul cavallo bianco – o dell’uomo che arrivava sempre per salvare l’America all’ultimo momento – arrivava sempre qualcuno per salvare l’America all’ultimo momento – specialmente nei film di serie B. E quando l’America si ritrovò in difficoltà ad affrontare il futuro, cercarono persone come John Wayne. Ma dato che John Wayne non era più disponibile, si risolsero per Ronald Reagan – e questo ci ha messo in una situazione che noi possiamo solo guardare – come un film di serie B” (Gil Scott-Heron, “B” Movie) Poi, dal 1985 in poi, è iniziato il declino e la crisi dovuta soprattutto all’uso di droga, che lo ha allontanato dal mondo della musica, portandolo a rescindere il contratto con la sua casa discografica Arista e ad essere dimenticato dai grandi media. Nel 2001 Gil Scott-Heron fu arrestato per droga e per violenza privata, poi la morte della madre, la povertà e la cocaina lo portarono in una spirale negativa. Uscito di prigione nel 2002, Gil Scott-Heron lavorò con i Blackalicious e apparve nel loro album Blazing Arrow. Negli ultimi anni passò molti problemi giudiziari sempre legati all’uso di droga, era tornato, in grande stile, alla musica nel 2007 e poi nel 2010 pubblicò il suo primo album dopo dieci anni di silenzio, “I’ m new here”,  che ho recensito da queste pagine e che la critica e il pubblico accolse favorevolmente. A proposito del suo brano di maggiore successo “The Revolution Will Not  Be Televised” mi piace ricordare che, a distanza di un quarantennio, questo invito a mollare lo schermo e scendere in piazza, si sarebbe trasformato, in “The revolution will be tweeted”, cioè nella capacità dei social network di costruire e rappresentare in piena autonomia la rivolta dei giovani iraniani, tunisini ed egiziani; inoltre The revolution will not be televised, e’ il titolo di un libro dedicato alle potenzialita’ democratiche di Internet, scritto dall’intellettuale Joe Trippi vicino ai democratici americani). “La rivoluzione non sara’ trasmessa in tv/ la rivoluzione non andra’ in replica, fratelli/ la rivoluzione sara’ dal vivo”.

Discografia essenziale

  • Small Talk at 125th & Lenox Ave. 1970 Flying Dutchman Records
  • Pieces of a Man. 1971 Flying Dutchman Records
  • Free Will. 1972 Flying Dutchman Records
  • The first minute of a new day – The Midnight Band. 1975 Arista Records
  • From South Africa to South Carolina. 1975 Arista Records
  • It’s your world – Live. 1976 Arista Records
  • Bridges. 1977 Arista Records
  • Secrets. 1978 Arista Records
  • The Mind of Gil Scott-Heron 1979 Arista Records
  • Real eyes. 1980 Arista Records
  • Reflections. 1981 Arista Records
  • Moving target. 1982 Arista Records
  • Tales of Gil Scott-Heron and his Amnesia Express. 1990 Arista Records
  • Glory – the Gil Scott-Heron collection. 1990 Arista Records
  • Spirits. 1994 TVT Records
  • I’m new here. 2010 XL Recordings

R.I.P.  da Jankadjstrummer gil gil2

IN VIAGGIO CON LA CAROVANA DI SERGIO CAMMERIERE

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IN VIAGGIO CON LA CAROVANA DI  SERGIO CAMMERIERE

Ascolto volentieri chi mi consiglia dei dischi così quando in una e-mail il Dr Nac mi proponeva l’ascolto di questo “Carovane” di Sergio Cammariere e di scrivere un eventuale recensione, mi sono detto “ beh sicuramente non è il mio genere, si tratta di un cantautore da piano bar che è gradevole ascoltare mentre si amoreggia con la propria amata o si sorseggiare un drink, ma niente più, ma proviamo.

Le note di copertina danno conto di un nugolo di musicisti ospiti nel disco di cui la maggior parte di estrazione jazz,  Fabrizio Bosso (tromba e flicorno), Xavier Girotto (sax baritono e soprano), Luca Bulgarelli (contrabbasso), che la dice lunga sul suono che vuole ottenere il cantautore crotonese.

Non mi resta che montare su questa Carovana e sentire dove mi condurrà, spero verso territori musicali inesplorati. Il disco si apre con la title track “Carovane” caratterizzata da un testo poetico che termina con un verso che colpisce “La tesi di cui qui trasformo in canto / il segno che rimane e non consola / la mela da cui Eva staccò il morso / più mi perdo e più mi riconosco” accompagnato da un assolo di sax veramente notevole. Già questo brano allarga gli orizzonti, il testo raffinato affidato al paroliere Roberto Kunstler,( che firma credo tutti i testi del disco), suoni orientali di sitar donano una inconsueta magia al brano. Il secondo pezzo “Insensata ora” apre in maniera superba, percussioni, piano e flicorno che lasciano il posto alla voce di Sergio e al suo consueto modo di cantare che risulta uguale a se stesso. Cosa che non accade nel brano “Senti” anch’esso pregno di percussioni e suggestioni orientali, ma questa volta la voce è intensa, un canto d’amore addolcito da una sezione di archi pregevole. Certo la sua non è una svolta artistica radicale questo lavoro si divide tra brani vecchia maniera e  brani riconducibili a questo nuovo percorso. Con il terzo pezzo si torna alle atmosfere jazzate che ben conosciamo “Senza fermarsi mai”,  di nuovo si concede solo le percussioni in perfetto stile sudamericano, Poi  “I quadri di ieri”, un balletto di piano, sax e gli archi che chiudono il brano, dominato nel testo da una profonda  nostalgia “ Nei quadri della nostra giovinezza c’è un colore dominante / nel cielo che descrivere non so / le fughe verso mondi immaginari / dove fingere non puoi indifferenza” E’ il solo pianoforte di Sergio C. ad introdurre uno dei brani più originali dell’intero lavoro “La mia promessa” in cui la poesia si intreccia perfettamente alle sonorità orientali, del sitar e del tampur, regalandoci un brano davvero pieno di fascino. “Quanti cieli limpidi vedrò / e costellazioni su di noi / questo cielo infinito che brilla per noi / e anche lì dove vivi risplende per te”. Il disco continua con  “Non c’è più limite” un brano dignitoso supportato da un buon ritmo di tromba e chitarra elettrica  ed un testo che affronta il destino dell’uomo in questo mondo privo di regole  “Varanasi”, invece, è un brano solo strumentale, il pianoforte, nelle mani sicure di Cammariere, è reso vibrante, ottime sono le percussioni che lo accompagnano. Poi due brani “Paese di finti” e “Storia di un tale”: la prima è uno  swing, pieno di invettive dove ce n’è per tutti: “finti di calcio o di politica in tv / democristiani e leghisti / ma il sesso rimane tabù, / finché la notizia di quel presidente in mutande / fa il giro del mondo e diventa una cosa che fa / di un’hostess qualunque una diva una celebrità” un brano al limite del qualunquismo contro questo Paese “di destra o di sinistra cosa importa / la storia è come un tunnel senza uscite / ma il palazzo del potere sai che di porte non ne ha”. Poi “Storia di un tale”, malinconico ricordo dell’amicizia di due giovani che sognavano la rivoluzione e correvano dietro alle utopie ambientaliste, la canzone è sicuramente autobiografica parla di Lui e del paroliere  Kunstler che hanno percorso un cammino di amicizia e di collaborazione iniziato tanti anni fa.  Si continua con il brano  “Tre angeli” un brano fuori dagli schemi con un testo in stile medievale  e con gli archi ben in evidenza  è decisamente originale “Tre angeli sulla strada tra nuvole e paradiso / camminano sul tempo ancora non diviso e piangono quando è sera / le vittime della guerra e si alza la bandiera per tutti sulla terra / e il secondo dice è strano / ma nessuno ha la risposta / tutto è falso tutto è vero tutto gira senza sosta / il terzo resta zitto si limita a guardare / la strada che finisce dove comincia il mare” Il disco chiude con “La rosa filosofale” qui  le parole sembrano tratteggiare ampi orizzonti che derivano da una ricerca spirituale che porta verso nuovi interessi, è senzaltro il brano che preferisco quello più caratterizzante, parte con sonorità arabeggianti  eteree  e ci conduce per mano verso un misticismo introspettivo: “L’altro è un concetto infinito / se tu sai che Io è un altro” e poi “Dentro sento il soffio del vento / altre volte mi osservo / altre volte invece mi interrogo / sulle cose che di me poi non so”.“Carovane” è un disco importante, ben suonato, con testi accattivanti è particolarmente elegante, Cammariere con questo suo quarto lavoro si ritaglia un pezzo importante nel panorama dei nuovi cantautori italiani.

Buon ascolto da Jankadjstrummer
Tracklist:

* Carovane
* Insensata ora
* Senti
* Senza fermarsi mai
* I quadri di ieri
* La mia promessa
* Non c’è più limite
* Varanasi
* Paese di finti
* Storia di un tale
* Tre angeli
* La forcella del rabdomante
* La rosa filosofale

RIASCOLTIAMO GLI ANNI ’70  –  FRANCESCO GUCCINI “ RADICI “

 

RISCOLTIAMO GLI ANNI ’70  –  FRANCESCO GUCCINI “ RADICI “

L’album “Radici” di Francesco Guccini vede la luce nel lontano 1972, nel momento di massimo splendore poetico del cantautore emiliano, senza dubbio è uno dei lavori meglio riusciti della sua produzione insieme a “Via Paolo Fabbri 43” del 1976 e  da “Amerigo”. del 1978. Il senso di appartenenza che lega quasi tutti i brani lo fa diventare una sorta di concept-album molto in auge in quel periodo. Il filo conduttore del disco è la consapevolezza che ognuno di noi è un soggetto che fa parte di un gruppo, che perde  la propria individualità in ragione di un bene comune, ma anche l’ appartenenza affettiva a  qualcuno in ragione dei propri sentimenti. Come si diceva un tempo un dualismo, un nodo mai sciolto di “pubblico” e  “privato”. Il disco è una carrellata di grandi ballate che non scade mai nella retorica e nella banalità delle canzoni pop. Questo spirito di appartenenza è palese già nella  title-track in cui Guccini parla della sua famiglia con molta tenerezza ed orgoglio riconoscendo il valore e la saggezza dei propri antenati nel ricordo che se ne fa nella vita di tutti i giorni: bella canzone ma che non emerge nel contesto di una sfilza di classici dell’artista; si parte con il pezzo che è il manifesto della canzone di protesta degli anni settanta: “La locomotiva”,  tuttora il brano che chiude i  concerti in cui si consuma un rito che va avanti da oltre un trentennio: il pugno sinistro levato degli spettatori ne momento topico del brano quando “ la bomba proletaria illuminava l’aria, la fiaccola dell’anarchia “. Il pezzo narra le vicende di un “ macchinista ferroviere” alla fine dell’800 che in un momento di grandi ideali pensa bene di utilizzare la sua locomotiva lanciandola a folle velocità fino al deragliamento e all’esplosione finale. Si tratta chiaramente di una metafora, l’anarchico che lancia la locomotiva  contro il potere borghese diventa un manifesto dei movimenti giovanili degli anni ’70. Mentre “Piccola Città” è una canzone molto nostalgica sul tema della giovinezza, Guccini ricorda il periodo scolastico trascorso a Modena la “piccola citta” che diventa un posto da dove fuggire via, il ricordo della scuola e delle “ vecchie suore nere “ che insegnano i ragazzi i segreti della vita”.  Poi “Incontro” un brano che è il  racconto dell’amica ritrovata dopo tanti anni, di una amicizia rimasta immutata ma le vicende della vita rendono questo incontro amaro, triste, l’amica gli rivela il suicidio del marito “ che si era ucciso per Natale” Un “Incontro “ che diventa tenero e dolce con la penna e la voce di Guccini. Dopo  abbiamo “La canzone dei dodici mesi” una delle canzone che amo di più perché c’è dentro tutta la poesia, i riferimenti e le citazioni dell’arte e del “ dolce stil novo di Cecco Angiolieri. Musicalmente è costruita in maniera tale che ogni mese dell’anno viene accompagnato da uno strumento diverso. E’ un susseguirsi di citazioni colte, la dimostrazione che siamo in presenza di un intellettuale molto ispirato. Le ultime due canzoni affrontano temi molto belli e poetici : “la canzone della bambina portoghese” che non si sa che cosa sia ma l’allusione è chiara, siamo nell’era post sessantottina sono caduti tanti steccati, ottenute tante conquista ma resta l’incertezza del futuro di quello che dovrà avvenire. una sorta di metafora della generazione che esce dal ’68 che è consapevole di ciò di cui si è liberata ma non sa a cosa va incontro. Bella l’immagine della bambina portoghese che dalla spiaggia guarda l’Oceano Atlantico e cerca di immaginare cosa c’è oltre quel mare. La conclusione è un brano cardine dell’opera gucciniana, “Il vecchio e il bambino”, in cui mette a confronto due epoche, due generazioni e lo fa con molto stile. Il messaggio è molto semplice, il passato, le esperienze della vecchia generazioni non devono andare perse dall’incalzare della modernità e devono essere un punto di riferimento, un faro per le generazioni future. Non è possibile costruire nulla senza l’apporto della cultura degli vecchi. Riascoltare questo album e queste canzoni che fanno parte del mio passato è per me un’ occasione di riflessione, rivivere l’emozione delle inquietudini giovanili è un toccasana per affrontare le paure, le lotte quotidiane  e i sentimenti e poi diciamocelo pure, fanno molta tenerezza. Radici è un grande album,  testi importanti ed ispirati, un po’ scarno dal punto di vista musicale, ma al Grande Guccini  gli si perdona tutto.

guccini

Buon ascolto o riascolto per i meno giovani da  JANKADJSTRUMMER

L’album contiene:
1. Radici
2. La locomotiva
3. Piccola città
4. Incontro
5  Canzone dei dodici mesi
6. Canzone della bambina portoghese
7. Il vecchio e il bambino

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