I compañeros

4 amici in cerca di avventure

 

LA VERITÀ!!!

Non progrediamo dall’errore alla verità, ma dalla verità alla verità. Ecco perché dobbiamo renderci conto che nessuno può essere incolpato per quello che fa, perché, in quel momento, sta facendo il meglio che può. Impariamo solo dall’esperienza. (Svami Vivekananda)

Il rifiuto assurdo della verità è naturale nell’uomo. L’uomo non vuole essere, ma apparire. Non vuole vedere ciò che è, cerca solo di prendersi per il personaggio che gli altri vedono in lui. (Svami Prajnanapada) 

 


 

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QUANDO LA NATURA LA FA DA PROTAGONISTA!










 

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IMBECILLI IN TERRA STRANIERA


 

TRAMONTO A MONT SAINT MICHEL


...quando il cielo ci ricorda che il Paradiso è terreno!!!
 

 

Qualcuno era comunista...

Ciao ragazzi, sono Fabio e oggi non faccio il solito lavoro "taglia e incolla" ma voglio lasciarvi un pensierino che mi è sorto in queste ore...
Ieri sera, a un bar della zona, ho incontrato un nostro caro amico... Giorgio (CIAO GIO!!) il quale mi ha rinfacciato... in maniera abbastanza scherzosa (però me l'ha cacciata!!) che il nostro si tratta di un blog comunista!!!! Alché io non ho avuto parole da dire, mi ha colto impreparato e così su due piedi non ho potuto rispondergli!!! Vi dirò, e indirettamente dirò in questo blog a lui, che questo blog non è comunista in quanto io non sono iscritto a nessun partito...e perdipiù non ho mai letto il Capitale di Marx... il fatto di manifestare determinate idee, riguardo magari il fatto di schierarsi nell'una se non in un'altra direzione.. il fatto di essere contro le guerre, il razzismo, la discriminazione, le violenze in generale... questo è un altro discorso... se poi tutto questo vuole dire essere comunista, anti.Bush, anti americano o contro il nostro caro Premier... ripeto questo è un altro discorso... e vi dirò che se ESSERE CONTRO LA GUERRA VUOL DIRE ESSER COMUNISTI ALLORA IO VI DIRO', E DICO AL CARO GIO, CHE SONO MILLE VOLTE COMUNISTA!!!! Poi a dire il vero Giorgio mi rinfacciava il fatto di aver scritto su un precedente post che mai più avrei parlato di politica... beh, ha ragione.. ma vi lascio con due cose: 1.di fronte a determinate notizie anche i muti parlerebbero e 2.credo non sia gravissimo ritornare sui passi fatti.. solo i cretini non cambiano opinione... libertà di stampa, libertà di blog!!!
Poi, come avrete notato.. il blog non è MIO ma appartiene a "I COMPANEROS" che in teoria sarebbero 4 anche se ultimamente rimasti a scrivere siamo io e il Clare... e volevo così dirvi che mi assumo tutte le responsabilità di quello che scrivo, non per niente metto sempre la firma in ogni cosa che dico.
Un'ultimissima precisazione/domanda. Qui spesso e volentieri ho trattato argomenti di guerra, pace e di America Latina. Mantenendoci nel continente Sudamericano... come si fa a non stare dalla parte di SALVADOR ALLENDE, stareste voi con il dittatore Pinochet??? Io mi schiero al fianco del SubComandanteMarcos, state voi se volete col criminale Calderon!! Con Chavez, Evo Morales, Kirchner e dalla parte di tutti che si battono per un mondo migliore!!! TENETEVELO VOI IL SIGNOR BUSH, fatevi avanti... dalla parte del terrorismo ci sta lui, le sue multinazionali e tutte quelle nazioni che stanno ri-diventanto il cortile di casa degli americani!!! La bomba atomica non l'ho tirata mica giù IO!!!! Scusate se mi permetto: IO STO CON FIDEL, IN GALERA CI ANDRA' FULGENCIO BATISTA!!!! Voi da che parte stareste??
Scusate lo sfogo, ma ci voleva...ciao Giorgio, a presto!!!



Fabio

 
 
 

Mille di questi anni, SUA SANTITA'!!!!



Oggi è il compleanno di Tenzin Gyatso, il XIII° Dalai Lama; l’occasione per fare gli auguri e per ricordare il Tibet, il Darfur, la Birmania… e tutto la gente del mondo in guerra!!!! La guerra la vergogna più grande del genere umano...

Tra l'altro oggi è anche il compleanno del nostro papà!!!! Beh, auguri anche a te... il nostro DALAI LAMA...
Fabio

 
 
 

Tropa de Elite. Gli squadroni della morte

 

Il film brasiliano sulla guerra nelle favelas di Rio de Janeiro. Da non perdere
       
Tropa de Elite. Gli squadroni della morte è un film brasiliano del 2007, diretto da José Padilha, Orso d'oro al Festival del cinema di Berlino. Con un taglio crudo e realistico, racconta la storia del Bope, il battaglione per le operazioni speciali della Polizia militare dello Stato di Rio de Janeiro, specializzato nella cruenta lotta contro i narcotrafficanti arroccati nella miriade di favelas carioca. Il film non fa sconti e non salva nessuno.
I poliziotti, a cominciare dai più graduati per arrivare agli ultimi arrivati, sono un branco di corrotti, troppo mal pagati per rischiare la morte in nome della giustizia e attirati dal denaro facile sborsato dai signori dell'illecito. I narcos, assetati di potere e voglia di riscatto, controllano intere aree schiavizzando minorenni e imponendosi con cieca violenza. La Tropa de elite, si rivela sì incorruttibile, ma dopo la dura selezione al limite dell'umana sopportazione imposta ai suoi adepti diventa assetata di sangue e seminatrice di morte. La spietata violenza è l'unico linguaggio possibile in quella giungla. Uniche vittime, gli abitanti delle favelas, le madri disperate dei giovani narcos, incastrate in una logica assurda e inumana.
Padilha, nella sua dura critica al sistema, infatti, ce ne ha una per tutti, persino per le Ong, che per aiutare i bambini poveri scendono a compromessi con i narcotrafficanti. Ma la condanna più campale è riservata a quei “borghesucci bianchi” della Rio bene, consumatori per noia di coca e marijuana, dipinti dunque quali veri responsabili della crescita del traffico di droga nei sobborghi poverissimi. È questo l'aspetto più coraggioso e controverso che ha posto il film brasiliano più visto degli ultimi tempi  al centro di un dibattito senza fine durato mesi sui mass media di tutto il Paese. Anche se a stupire i milioni di brasiliani che lo hanno visto - chi nelle sale chi scaricandoselo da internet (11milioni lo hanno visto così) - è stato anche veder rappresentate senza sconti né censure le pratiche di tortura con cui abitualmente il Bope porta avanti ogni singolo blitz, senza cenni di pietà. Una cruda realtà che ha posto interrogativi roventi nell'opinione pubblica che da sempre considera quegli agenti veri e propri eroi. Un film veloce e scorrevole, specie nella sua seconda parte, che incolla allo schermo e lascia senza parole. Eppure, non è che uno spaccato di vita quotidiana di una città che conta una media di morti ammazzati impressionante, che in alcuni periodi ha superato quella delle vittime giornaliere della guerra in Iraq. E di cui nessuno, o quasi, parla mai. 
Da non perdere, dunque, preparandosi a musiche sparate, urla sparate e tiroteos senza fine.



Forse questo è uno dei primi film che ho consigliato attraverso il blog, addirittura forse il primo... ma credetemi, merita!!! Ciao
Fabio

 
 
 

La sesta vita di Ingrid

Tratto da qui!!!



Il primo pensiero è di allegria, allegria per Ingrid Betancourt e per gli altri 14 sequestrati liberati, tra i quali tre mercenari statunitensi, che in qualunque altro conflitto al mondo sarebbero stati da tempo passati per le armi.

Il secondo pensiero è perchè non si spenga la luce sulle centinaia di ostaggi che restano nella selva nelle mani delle FARC. Si vedrà se l’interesse dei benpensanti europei per la selva colombiana era genuino o era solo figlio del colonialismo mentale e razzista con il quale l’Europa guarda ai drammi del Sud del mondo. Se le luci sulla selva si spegneranno dovremo amaramente concludere una volta di più che è così, che la benpensante Europa si mobilita solo se qualcuno buca lo schermo. Altrimenti se ne frega.

Il terzo pensiero è per Álvaro Uribe, apparente trionfatore della giornata di oggi. La giornata per lui si era aperta nel peggiore dei modi, come si era aperta la settimana, il mese, l’anno. La Corte Suprema, con parole insolitamente dure, aveva preteso il rispetto delle proprie decisioni da parte del Presidente che non accetta che la sua stessa rielezione, nel 2006, sia stata viziata dalla corruzione nella forma e nella sostanza e che potrebbe perfino essere annullata.

Se è presumibile che l’azione sia stata preparata nel tempo, è evidente che la stessa sia stata giocata alla disperata ricerca di un successo personale. Per fortuna è andata bene, ma ciò non sposta i termini della questione, anzi se è possibile, se è dovuto ricorrere a giocarsi tutto con la liberazione di Ingrid, avendo fatto sempre di tutto per evitarla in passato, la vittoria di Uribe potrebbe essere la vittoria di un Pirro disperato.

Il quarto pensiero è per le FARC. E’ difficile non pensarle indebolite politicamente e militarmente. E’ difficile pensare alle FARC come chi tiene alta la bandiera di milioni di esclusi colombiani. E’ difficile non pensare che le FARC da anni sono oramai la scusa per i paramilitari per appropriarsi delle terre e consegnarle alle multinazionali. Ma allo stesso tempo è difficile pensare alla liquidazione delle FARC come un processo indolore e possibile, in una Colombia dove l’ingiustizia è causa della guerriglia e non viceversa.

L’interesse per Ingrid Betancourt da parte dei media e dell’opinione pubblica europea è stata in questi anni una cartina tornasole del colonialismo mentale con il quale l’Europa guarda alle cose del Sud del mondo. Ingrid è giovane, Ingrid è bella, aristocratica, elegante. Ingrid è francese, una di noi quindi. Ingrid è progressista. Ingrid buca lo schermo. Ingrid, lungi dall’esserne colpevole, ha occupato in questi sei anni completamente lo schermo, oscurando milioni di altre donne vittime di una guerra, quella colombiana, che conta più profughi, 4 milioni, che Iraq, Afghanistan e Darfur insieme.

Lungi dall’esserne colpevole, lungi dal giustificare la sua orribile e imperdonabile prigionia, Ingrid è stata soprattutto una foglia di fico servita a distorcere il conflitto colombiano in maniera manichea fino a renderlo incomprensibile. Visto dall’Europa e per chi nulla sa di Colombia, in piena logica post-11 settembre di “guerra al terrorismo”, le FARC che hanno tenuta sequestrata Ingrid rappresentano tutto il male in Colombia, laddove chi l’ha liberata, il governo paramilitare di Álvaro Uribe rappresenterebbe tutto il bene. E’ una visione manichea ed infondata del conflitto colombiano.

Lo testimonia ancora l’uccisione di uno dei capi delle FARC, Raúl Reyes, lo scorso primo marzo quando stava per incontrare gli emissari di Nicolas Sarkozy e la liberazione era ad un passo. Reyes fu ammazzato in pieno territorio ecuadoriano, con un’azione militare tanto illegale quanto chirurgica, orchestrata dagli eserciti colombiano e statunitense: Ingrid, per i governi di Washington e Bogotà, non doveva essere liberata anche al prezzo di una crisi internazionale.

Adesso le cose sono cambiate, in due mesi ancora molti scandali hanno pesato sull’uomo di Washington tanto da farlo decidere di legare la sua immagine alla liberazione della sua più acerrima nemica che bucava e chissà se bucherà ancora lo schermo rompendo il silenzio sulla Colombia. Una Colombia facile da digerire e dimenticare per gli stomaci delicati dell’opinione pubblica europea, che non vuol sapere dei contadini fatti a pezzi con la motosega dai paramilitari, di fumigazioni velenose come in Vietnam e di una guerra con la quale il paramilitarismo, solo negli anni di Uribe, si è già appropriato di sei milioni di ettari di terra fertile, strappandoli ai piccoli produttori indigeni e afrodiscendenti e girandoli alle multinazionali.

La sesta vita di Ingrid Betancourt

Ingrid viene dal mondo delle oligarchie, quello della Colombia bene che chiude un occhio da sempre sulle ingiustizie e se ne fa complice, del narcotraffico, della corruzione, dello sfruttamento, delle voci critiche sistematicamente silenziate. È figlia di Gabriel Betancourt, che fu Ministro dell’Educazione al tempo di Gustavo Rojas Pinilla. È figlia di Yolanda Pulecio, già Miss Colombia e poi politica e diplomatica, che in questi anni ha girato il mondo accusando con coraggio Álvaro Uribe di essere il primo responsabile della cattività della figlia.

Nacque nel 1961 a Bogotà Ingrid, lo stesso anno di Zapatero e forse non è un caso, quando il suo paese era già desolato da più di un decennio dalla Violencia, che dura tuttora. Con i natali giusti, non poteva non fare le scuole giuste, il Liceo francese e poi il salto a Parigi con il padre Ambasciatore colombiano all’UNESCO. Lì comincia rapidamente una seconda vita, dorata come la prima. A vent’anni è già sposata con un diplomatico francese e prende quella cittadinanza comunitaria così preziosa che l’ha sottratta all’oscurità. Si laurea in Scienze politiche, e sarà madre per due volte. Ha fretta di vivere Ingrid e archivia quella vita per una nuova, la terza, di nuovo in America.

Torna in Colombia, divorzia, e si impegna in politica con il Partito Liberale. Collabora con César Gaviria, allora presidente e nel 1994, ad appena 33 anni, diventa deputata. È pienamente integrata nel sistema e l’aspetta una radiosa carriera, ma è lì che scatta qualcosa. E’ la corruzione che comincia a risultarle insopportabile. Quella corruzione con la quale il Cartello di Cali, uno dei più importanti nel paese, sta finanziando il presidente liberale Ernesto Samper che lei stessa appoggia. Resta nel Partito Liberale ma ne diventa una spina nel fianco. In pieno parlamento a Bogotà si mette in sciopero della fame contro la sentenza aggiustata che aveva assolto Samper per aver preso soldi dal narcotraffico.

Denuncia dagli stessi scranni del Partito Liberale in parlamento come questo fosse viziato da interessi mafiosi. La fischiano e la spingono giù con la forza. E’ il segno che il suo mondo, che alla corruzione e all’ingiustizia deve il proprio benessere, la sta espellendo e le dichiara guerra. Da quel momento saranno continue le minacce di morte e gli attentati, dai quali esce viva per miracolo. I sicari sono i paramilitari, i mandanti la parapolitica, la narcopolitica, lo stesso Álvaro Uribe, al quale contenderà la presidenza, che gliel’ha giurata.

Comincia così una nuova vita ancora, la quarta, al di fuori delle sicurezze del mondo dorato nel quale è nata, cresciuta, educata. Nel 1998 ottiene un buon successo personale con una nuova forza politica, il partito Verde Oxígeno, che unisce alle tematiche ambientali quelle della corruzione. È eletta senatrice, appoggia il predecessore di Uribe, Andrés Pastrana, ma poi se ne dichiarerà tradita. E’ protagonista di azioni clamorose per la società colombiana, distribuisce preservativi e perfino il Viagra, sempre in polemica con la corruzione. Ha un linguaggio diretto che piace alla gente, ma è sempre più isolata dal sistema politico. Nel 2002 si candida alle presidenziali. Dalla Francia, dall’Europa, c’è interesse per lei, ma in Colombia c’è il vuoto e il silenzio intorno alla sua candidatura. Attacca duramente Álvaro Uribe. Lo accusa carte alla mano di essere un paramilitare, complice di paramilitari e di considerare l’assassinio come una normale arma politica. Aveva ragione e da quando è stato eletto una media di 600 oppositori politici sono stati ammazzati ogni anno in Colombia. È troppo scomoda Ingrid per il candidato di Washington che si propone di spazzar via le FARC con una guerra senza quartiere. È scomoda ma è un grillo parlante che molti temono ma pochi ascoltano. Quando viene rapita non arriva all’1% nei sondaggi.

Comincia così la quinta vita di Ingrid, prigioniera delle FARC dal 23 febbraio del 2002. È la più angustiosa, quella che lei stessa definirà in una lettera alla madre “una non vita”. Era andata a San Vicente del Caguán, la località al centro della zona di distensione tra governo e guerriglia, che con la fine del governo Pastrana veniva smobilitata. Voleva testimoniare l’appoggio a quella comunità (una delle poche che il suo partito amministrava) e continuare a puntare sul dialogo con la guerriglia come soluzione alla guerra. Il governo se ne lavò le mani. “E’ colpa sua se è stata rapita” dichiarò il Ministro degli Interni.

Da allora sono passati sei anni, quattro mesi e una settimana. Ingrid è stata la più pregiata di un migliaio di disgraziati prigionieri delle FARC nella selva. Lei è l’unica che per i media occidentali conti qualcosa e le dirette di queste ore nelle quali la selva colombiana diviene boliviana e lei viene definita Premio Nobel lo testimoniano. Il contesto non conta nulla e neanche la bella francese serve per parlare della Colombia e della sua guerra dimenticata. Oggi parlano tutti di lei, i politici, le grandi firme del giornalismo, ma la Colombia sembra non esistere e dalle loro parole Ingrid sembra sia stata in questi anni sequestrata dagli extraterrestri.

Ingrid adesso è libera, salvata paradossalmente da Uribe che l’ha voluta e forse la vuole ancora morta. Lo hanno testimoniato i precedenti, le minacce, gli attentati, l’odio che il parapresidente della Colombia ha per lei. Un Uribe travolto da uno scandalo alla settimana al quale la liberazione di Ingrid dà respiro. Qualcuno in Europa fantastica di una Ingrid restituita alla vita politica e addirittura futura presidente della Repubblica. Per adesso lasciamole cominciare la sua sesta vita, abbracciare i suoi cari e ricominciare a vivere. E’ solo la sua sesta vita e speriamo, ma siamo pessimisti, che la luce non si spenga sul dramma colombiano.

CHE SIA LA LIBERTA' DI VOLARE, O SOLO PER SENTIRTI VIVO... CORRI PER QUALCOSA, CORRI PER UN MOTIVO...


 
 
 

FINALMENTE LIBERA!!!!!

Post n°294 pubblicato il 02 Luglio 2008 da i_companeros



INGRID BETANCOURT...
É STATA LIBERATA!!!!!!!!

Fabio

 
 
 

AFGHANISTAN, UNA SQUARCIO DI VERITA'!!!

UN REPORTAGE ANOMALO. Qualche settimana fa un reportage di Giulietto Chiesa pubblicato da La Stampa sull'Afghanistan ha cercato di trovare le tracce di una guerra che non si vince e che alimenta nel paese una rabbia crescente. L'articolo che non cita i bombardamenti sui villaggi che provocano sempre più vittime civili (civili che da morti divengono miracolosamente talebani....).

Kabul è una città blindata. Le ambasciate sono blindate, i luoghi di potere sono blindati. Perchè la potenza americana nettamente superiore a quella talebana non riesce a conquistare il paese?. E neppure Kabul?. La spiegazione si riassume così: le ricette utilizzate non sono quelle giuste e la gente dei villaggi, quelli sottoposti a bombardamenti non accolgono l'Isaf con spirito di amicizia.

I numerosi finanziamenti raccolti per l'Afghanistan non giungono a destinazione. Per ogni dollaro inviato quindici centesimi giungono direttamente o indirettamente alla popolazione. Il resto finisce nelle maglie della corruzione: quella dei signori della guerra che fuori Kabul fanno il bello ed il cattivo tempo. In alcune zone non esistono nè democrazia nè legge se non la legge dei potenti. Come durante la guerra post abbandono dei russi. La corruzione dei governatori delle province, anche quelli dediti al traffico di droga. Stiamo parlando di gente messa al potere dagli occidentali. Si è preferito accettare il passato dei signori della guerra, si pensava che una volta ripulita la fedina....

L'ottanta per cento del paese non ha elettricità. Il vanto di Washington sono le televisioni ed i giornali (sinonimo di democrazia): la prima viene vista da un'infima parte della popolazione, i secondi sono letti dall'elite.

Il malcontento cresce, non solo per le bombe. La gente sa e misura la corruzione. L'obiettivo di occidentalizzare in modo coercitivo un paese che non ne vuole sapere è fallito. Qualcuno sostiene: siamo passati dal male al peggio. La democrazia è una parvenza di democrazia, ma questa democrazia non ha nessun consenso popolare.

Argomentazioni interessanti per spiegare come la guerra con cotanta superiorità di mezzi e tecnologia non sia ancora stata vinta. Portare la pace a Kabul?. Possiamo, bastano trenta anni è il titolo dell'articolo. Con le ricette di oggi, che ignorano i bisogni della popolazione e mirano solo a lanciare bombe ed alimentare i corrotti signori della guerra, ne occorreranno persin di più.



Fabio, grazie al post di bruno14

 
 
 

Viva Villa!

Vorrei consigliarvi questo... un po' lunghino e abbastanza impegnativo ma merita per conoscere al meglio una FIGURA LEGGENDARIA del nostro tempo passato!!!
Viva Villa!!! Villa è vivo!!!






In sintesi
La biografia di Pancho Villa, il rivoluzionario messicano entrato nella leggenda, scritta nello stile di Paco Taibo, che in tanti anni di ricerche ha dipanato un groviglio di aneddoti, dicerie, falsità o mitizzazioni. Un affresco della più complessa rivoluzione - la prima del XX secolo - seguendo la vita avventurosa, temeraria e tormentata dell'uomo che si chiamava in realtà Doroteo Arango, bandito per ribellione ai soprusi dei latifondisti divenuto generale della División del Norte, un esercito talmente disciplinato e ben organizzato da suscitare all'epoca l'interesse di osservatori militari europei e statunitensi. Questo libro ricostruisce le peripezie, dai particolari più stravaganti alle imprese memorabili, di un uomo sagace e imprevedibile, illetterato che fondò scuole in tutti i territori conquistati, astemio in un ambiente di forti bevitori, dallo sguardo magnetico.

VEDI: Qui si narra la vita di un uomo che era solito svegliarsi in un luogo quasi sempre diverso da quello che aveva inizialmente scelto per addormentarsi. Aveva questa singolare abitudine perché per una buona metà della sua vita, ben oltre la metà della sua vita adulta, diciassette anni dei trenta vissuti prima di partecipare a una rivoluzione, era stato un fuorilegge: ricercato dalla giustizia, bandolero, ladro di bestiame, brigante. E aveva paura che quella debolezza di concedersi qualche ora di sonno potesse sancire la sua rovina.” PIT II

La “biografia definitiva” di Pancho Villa, il rivoluzionario messicano entrato nella leggenda, scritta nello stile vibrante e intenso di Paco Taibo II, che in tanti anni di ricerche ha dipanato un groviglio di aneddoti, dicerie, falsità o mitizzazioni. Un affresco della più complessa rivoluzione – la prima del XX secolo - seguendo la vita avventurosa, temeraria e tormentata dell’uomo che si chiamava in realtà Doroteo Arango, bandito per ribellione ai soprusi dei latifondisti divenuto generale dell’invincibile División del Norte, un esercito talmente disciplinato e ben organizzato da suscitare all’epoca l’interesse di osservatori militari europei e statunitensi. Questo libro monumentale e dettagliatissimo ricostruisce le peripezie, dai particolari più stravaganti alle imprese memorabili, di un uomo sagace e imprevedibile, illetterato che fondò scuole in tutti i territori conquistati, astemio in un ambiente di forti bevitori, dallo sguardo magnetico che rimase impresso in chiunque lo avvicinò, generoso quanto spietato. Come Paco Taibo II scrive, questa biografia narrata è fedele allo spirito villista: “Si usa prima questa – diceva Pancho indicando la testa – e poi questi – prendendosi i testicoli”. Una vita all’attacco e in fuga perenne, quella del “Centauro del Nord”, anche dopo la morte, che ha lasciato il mistero di dove sia sepolto in realtà e chi si sia impossessato della sua testa.

ANCHE QUI... 
Pancho Villa. Una biografia narrativa

L'intervista a Paco Ignacio Taibo II


“Il governo promise un’inchiesta. Ma non sarebbe mai stata fatta. Il cadavere di Román Guerra, uno dei sicari, fu tranquillamente ritirato da Ricaud, uno dei cospiratori, che pagò i funerali. Il morto venne spacciato per un malcapitato passante. Nessuno si chiese chi fosse in realtà e cosa ci facesse lì. Una seppur minima indagine avrebbe condotto a suo fratello, membro del gruppo, e al suo villaggio, e da lì ai collegamenti con Lozoya. Ma non ebbe seguito.”

Quattro anni di ricerche, molti di più di riflessione: questa ampia e completa biografia narrativa di Pancho Villa segna un punto fermo da un punto di vista storiografico.
Paco Ignacio Taibo II ha abituato i suoi lettori a una modalità viva e appassionante del raccontare la vita di personaggi ormai entrati quasi nel mito. Senza perdere la tenerezza, in cui Che Guevara viene raccontato in tutta la sua complessità e in tutta la sua ricchezza di uomo, oltre che di rivoluzionario, è infatti così piacevole da leggere che ha venduto un numero di copie altissimo, tante quante un romanzo di successo.

Le prime pagine delle oltre 800 che compongono il volume, raccontano il “prima”, cioè gli anni in cui Doroteo Arango, questo è il vero nome di Pancho Villa, è un bandolero, un bandito da quattro soldi. E poi introduce le narrazioni di fantasia che lo hanno accompagnato per tutta la vita e dopo la morte, cioè le varie e curiose leggende che sono state create intorno alla figura del rivoluzionario e le curiosità più estreme e contraddittorie della sua personalità.
Ma non ha alcun senso raccontare questa biografia storica, nella sua complessità e nei suoi vari capitoli, quello che penso possa servire è invece sottolineare la ricchezza delle informazioni fornite, tante assolutamente inedite (come alcune immagini inserite nel volume) e la correttezza nel segnalare ciò che è solo “voce” “fama diffusa” o “falsità giornalistica”. Insomma di questo libro ci si può fidare e di questo autore, di cui conosciamo così bene anche l’abilità narrativa di romanziere, possiamo solo confermare un giudizio. Docente universitario, ma mai accademico nel senso deteriore del termine, personaggio pubblico e giornalista, i cui libri hanno ottenuto massimi riconoscimenti in ambito ispanico e sono stati tradotti in oltre venti lingue, Paco Taibo sembra volere, con questa biografia, fissare un punto fermo e definitivo a una ricerca che gli ha occupato tanti anni di vita. E questo perché Pancho Villa, pur così attuale e vivo nella testa della popolazione messicana, è morto da così tanti anni da far parte della storia, e non della cronaca, ed è quella che all’autore interessa di più, perché meno legata alla soggettività e già sottoposta al giudizio di diverse generazioni.  

Un altro aspetto che viene sottolineato è la naturale capacità strategica, una specie di dono che ha fatto sì che, con uomini poco addestrati e armi non certo perfette, Pancho Villa abbia affrontato e superato addirittura l’esercito degli Stati Uniti, sapendo utilizzare al meglio la conoscenza del territorio e della psicologia dell’avversario, tanto da essere modello di importanti generali degli eserciti regolari europei.
Personaggio dalle tante contraddizioni, affascinante forse per questo: astemio in un Paese di grandi bevitori, ha combattuto l’alcolismo dilagante vedendolo come una vera piaga nazionale. Quasi analfabeta, ha posto l’istruzione tra i suoi obiettivi primari tanto da fondare 50 scuole ancora in piena rivoluzione. Capace di gesti di grande generosità e di spietata crudeltà, amante delle donne, ma poi responsabile nei loro confronti (le sposa tutte!) e nei confronti dei figli che nascono da quelle relazioni.
Figura lontana dall’universo culturale dell’autore e nello stesso tempo molto vicina proprio perché è il Messico la terra in cui Paco Taibo vive fin da quando era bambino, terra che sente profondamente sua, e che lo ha circondato di storie leggendarie su quel liberatore ancora così presente nella mente di tutti: “Villa è vivo”: con queste parole infatti l’autore ha concluso l’intervista che ci ha concesso. “Villa è vivo”: e grazie anche a questo libro lo sarà ancora a lungo.



Fabio

 
 
 

AL NOSTRO CARO PIANETA MALATO


La fiaba ecologica di Nemo finita nell´acquario del consumismo
di Umberto Mazzantini

   


Qualche tempo fa riportavamo su greenreport le nostre impressioni sul libro "The Idea of Nature in Disney Animation" scritto da David Whitley, nel quale si legge che i cartoni animati di Walt Disney come Bambi, il Libro della jungla e Pocahontas, avrebbero svolto un ruolo importante nell´educazione ambientale dell´opinione pubblica, aprendo addirittura la strada al ´68.

La tesi di Whitley, che definivamo preoccupante, è che i personaggi animati di Biancaneve e del pesce pagliaccio Nemo abbiano costruito invece «la consapevolezza critica del contesto delle problematiche ambientali». Ma proprio il secondo tempo del film alla ricerca di Nemo, uscito dalla finzione ed approdato alla realtà, ha un finale non proprio disneyano. Il padre del pesce pagliaccio Marlin invece di liberare little Nemo dall´acquario del dentista australiano ci sarebbe invece finito dentro anche lui, e questo proprio per colpa della notorietà ricevuta dal cartoon che, invece di stimolare la protezione di pesci pagliaccio in natura, li ha trasformati in "giocattoli" per i futuri ecologisti disneyani di Whitley, che hanno trasformato la lacrimevole storia di libertà ed amore paterno in una moltiplicazioni di piccole galere liquide.

A svelarci l´arcano di questo nuovo consumismo amorevolmente "animalista", che divora la biodiversità riproducendo quadri viventi che ci rammentano sogni di libertà, è oggi su Repubblica Billy Sinclair, docente alla University of Cumbria, che studia proprio i pesci pagliaccio delle barriere coralline australiane e che, dall´uscita dei Finding Nemo nel 2003, ha rilevato in alcune aree un calo di pesci pagliaccio del 75%. Secondo il ricercatore ormai Little Nemo per essere salvato dall´estinzione dovrebbe essere classificato nella lista rossa degli animali a rischio e non essere più pescato dai rifornitori di pesci esotici.

Il gadget disneyano che invase i giochi dei nostri estasiati bambini 5 anni fa si è trasformato in un coloratissimo giocattolo vivente, e chissà quanti dentisti di Sidney hanno davvero oggi tanti piccoli pesci pagliaccio ormai orfani di padre. L´amore disneyano per la natura "carina" e "simpatica" si è trasformato in amorevoli cure che precludono la libertà che era al centro del cartoon ed erodono biodiversità e bellezza che è prima di tutto equilibrio, ben incarnato in un pesce inoffensivo ed indifeso che vive immune in simbiosi con le anemoni urticanti.

Un equilibrio di cui non c´è quasi traccia nella fiaba consolatoria di Nemo, dove i predatori cattivi sono sullo sfondo o diventano buoni ed umanizzati aiutanti. Il piccolo pesce pagliaccio padre ha traversato gli oceani e cavalcato le autostrade delle grandi correnti, superato muraglie di meduse, solo per portare i suoi innumerevoli figli in una miriade di acquari dai quali nemmeno un esercito di padri-pesci potrebbe liberarli.

La fiaba ecologica si è ribaltata in una triste novella di prigioni e scomparsa. Solo il più terribile di predatori, l´uomo, è capace di fare questo, di ribaltare con finta innocenza i buoni sentimenti dei suoi cuccioli, trasformando l´umanizzazione del vivente in cose e la fragilità in mercato. Possiamo forse consolarci con la speranza che i nostri pronipoti, vedendo fra cento anni gli ologrammi degli "ecologici" cartoons della Disney, scopriranno che dei pesci colorati vivevano in cose scomparse chiamate barriere coralline e sfidavano gli uomini riconquistando una libertà negata. Poi correranno a comprare per pochi crediti il pesce androide parlante, da mettere nel loro acquario sterile con posidonia sintetica ed anemoni killer.

Proprio una bella fiaba ecologica...



Cambiamenti climatici e coperte corte
   


Oggi a Tokyo il ministro degli esteri giapponese, Masahiko Komura ha incontrato il segretario generale dell´Onu Ban Ki-moon per discutere della cooperazione tra Giappone e Nazioni Unite per quanto riguarda cambiamento climatico, sviluppo dell´Africa ed aumento dei costi dei generi alimentari.

Komura ha assicurato Ban che «mentre tutta la comunità internazionale si trova di fronte alle sfide proposte dal riscaldamento della terra, dello sviluppo africano e del rialzo dei prezzi alimentari, il Giappone vuole collaborare con l´Onu per rimediare a questi problemi».

Il segretario dell´Onu ha da parte sua «espresso la sua gioia nel vedere che il Giappone ha messo all´ordine del giorno del prossimo summit del G8 i dossier del cambiamento climatico, della crisi alimentare mondiale e degli Obiettivi di sviluppo del millennio in otto punti, che costituiscono ugualmente le priorità della più grande istituzione internazionale».

Il summit Onu-Giappone è stato preceduto da un forum di un centinaio di parlamentari del G8 e di altri 11 Paesi in preparazione del G8 di Hokkaido, che ha chiesto l´adozione di misure tangibili per contrastare il riscaldamento planetario.

L´ex primo ministro della Gran Bretagna, Tony Blair, ha detto che «il riscaldamento globale è un problema che sfida l´umanità intera e la fase per prendere coscienza del problema è terminata». L´ex leader laburista si è rivolto ai capi del mondo (di cui faceva parte fino a poco tempo fa) «perché lavorino a contromisure per risolvere questo problema mondiale, per quel che è possibile».

Blair riconosce le enormi difficoltà poste dal global warming, ma sottolinea che «E´ tempo per le nazioni in via di sviluppo di occuparsi contemporaneamente della prosperità e della protezione ambientale».

Blair non si è dimenticato certo di chiedere un maggior sviluppo dell´energia nucleare (costosa e irrealizzabile proprio per i Paesi in via di sviluppo), ma ha anche detto che è necessario puntare sul risparmio energetico e le tecnologie di stoccaggio e "solidificazione" della CO2, così come sull´importanza di proteggere le foreste.

Al forum ha partecipato anche il primo ministro giapponese Fukuda che ha detto che «la riduzione delle emissioni di gas serra non potrà esserci che con la partecipazione di tutte le nazioni, e non solo di alcune tra esse». Un chiaro richiamo ai Paesi in via di sviluppo che accusano i ricchi di essere la causa principale del climate change e chiedano che si assumano la responsabilità e l´onere economico e tcnologico di porvi imedio.

Intanto Ban Ki-moon continuerà il suo viaggio in Asia, proseguendo per Cina e Crea dl sud, per poi tornare in Giappone per il G8.

A Pechino lo attende il presidente cinse Hu Jintao che ha appena chiesto al suo Paese di impegnarsi di più nella lotta contro il riscaldamento climatico.

L´occasione è stata la riunione del potentissimo ufficio politico del partito comunista cinese, durante la quale è stato presentato uno studio del Comitato centrale dl Pcc sui cambiamenti climatici e la capacità della Cina di affrontarli.

Hu ha detto ai dirigenti comunisti che «la maniera in cui facciamo fronte al cambiamento climatico è legata allo sviluppo economico del Paese così come ai vantaggi di ordine pratico che il popolo ne trae. La Cina, in quanto Paese in via di sviluppo, deve rispettare i principi contenuti nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ed il protocollo di Kyoto. Occorre che i Paesi sviluppati facciano più sforzi in materia di riduzione di emissioni ed apportino un aiuto finanziario e tecnico ai Paesi in via di sviluppo.

L´agenzia Xinhua riporta che «Hu ha ordinato alle organizzazioni ed alle imprese interessate di sforzarsi a per ridurre i gas serra ottimizzando la gestione dell´energia in maniera scientifica».

Un´assunzione di responsabilità ma anche il riposizionamento dei paletti internazionali e del Protocollo di Kyoto che diversi Paesi dl G8, ad iniziare dagli Usa, vorrebbe spostare

Mettendo insieme i discorsi di Blair, Fukuda ed Hu, quel che pare prospettarsi al G8 e dopo è un nuovo scontro tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, con i primi che intendono usare l´energia atomica come "rimedio" parziale e temporaneo, quasi un costosissimo specchietto per le allodole, e intanto addossare ai secondi il compito gravoso di porre rimedio, con le loro forze e qualche quota di emissione da vendere, al cambiamento climatico, provocato dalla crescita della quale molti di loro non beneficiano, ma che li colpisce più duramente.

Dietro le buone intenzioni e il conclamato internazionalismo della buona volontà di Blair sembra di scorgere una strada molto in salita per arrivare a Copenaghen ed al post-Kyoto, una strada resa ancor più impervia dalle crisi economica che sgonfia le ruote della crescita mondiale. E ognuno torna a tirare dalla sua parte la coperta troppo corta delle risorse del pianeta.
   


L´Africa ci salverà dalla fine del petrolio? (ma chi salverà l´Africa?)
di Lucia Venturi
   


A Milano, nell’ambito della conferenza Euro-mediterranea, si torna a parlare nei prossimi giorni della possibilità di sviluppare le energie rinnovabili sulla sponda sud del Mediterraneo: dall´Africa, uno dei continenti più colpiti dai cambiamenti climatici e che meno ha contribuito alla loro evoluzione potrebbe quindi arrivare la risposta concreta per fronteggiare l´emergenza.
Stesso argomento sarà trattato anche dal Crea (Centre de recherche et de formation su l´ etat en Afrique) sempre a Milano, dove si è attivata una sessione del Comitato scientifico che tra ottobre e novembre prossimi organizzerà una conferenza di tutti i paesi dell´Africa occidentale ad Abidjan, con l’obiettivo di studiare l´impatto dei cambiamenti climatici sull´ economia e sulle società dei paesi dell´Africa occidentale e quale contributo potranno dare per fronteggiarlo, a partire proprio dalle fonti energetiche rinnovabili.
Una prospettiva cui, nell’ambito della cooperazione internazionale, si sta lavorando da anni, per la precisione dal 2004, con la nascita a Tunisi del centro per la promozione delle energie rinnovabili, noto come Medrec. E che è stata anche recentemente discussa in una conferenza internazionale sulle energie rinnovabili a Dakar, in Senegal, organizzata dall´agenzia dell´Onu per lo sviluppo industriale (Unido) insieme al governo senegalese e al ministero tedesco per la cooperazione economica.
Insomma l’attenzione verso questi paesi è altissima sia da parte dei governi occidentali che da parte delle varie multinazionali che lavorano nel settore e altrettanto è l’interesse da parte dei paesi della sponda sahariana.

Una opportunità per tutti: oltre a soddisfare il crescente fabbisogno energetico dei paesi europei, la proliferazione di centrali fotovoltaiche ed eoliche nelle aree desertiche potrebbe infatti contribuire a migliorare la situazione socio-economica di ampie zone del continente.
Sole e vento non mancano, l’energia serve anche a loro e se si sviluppa una sana cooperazione il guadagno è per tutti.

Lo aveva sottolineato anche il commissario dell´Unione africana alle infrastrutture e all´energia alla conferenza di Dakar: «oltre 600 milioni gli africani non hanno accesso all´elettricità e ben 35 paesi sui 53 del continente rischiano continue interruzioni nella fornitura di corrente. In simili condizioni le energie rinnovabili sono una soluzione reale per le aree più isolate del continente».

Il sistema di generazione diffusa su cui si basano di fondo le energie rinnovabili è infatti quello che meglio si presta a fornire il fabbisogno di energia in aree dove non esistono reti elettriche e, per il 70% della popolazione africana, che ancora oggi ancora non ha eccesso all’energia elettrica, significherebbe cominciare ad abbattere la barriera tecnologica che divide il nord dal sud del mondo e garantire forme di sviluppo economico locale incentrate sulle reali potenzialità di quei paesi.

Il rischio, ancora una volta, è che l’interesse del mondo occidentale nei confronti dello sviluppo di tecnologie legate alle fonti energetiche rinnovabili, sia quello di un approccio colonialista e di tornaconto delle aziende che vi investono. Senza apportare reali benefici alle popolazioni africane. Un film già visto (purtroppo) tante volte e che si dovrebbe evitare che si potesse protrarre all’infinito.

Per le aziende occidentali, infatti, investire in energie rinnovabili e in impianti a tale scopo, rappresenta la possibilità di una diversificazione del mercato energetico e di una riduzione delle emissioni di gas serra e dell’inquinamento atmosferico, e la possibilità di acquisire i certificati di credito delle emissioni, sfruttando la possibilità prevista dal protocollo di Kyoto di acquisire certificati verdi e crediti di riduzione delle emissioni attraverso progetti promossi con i Clean development mechanisms (Cdm).

Ovvero anziché intervenire a casa propria con tagli alle emissioni, si avvalgono del fatto che gli impianti costruiti in paesi in via di sviluppo valgono crediti di emissioni, per bilanciare i debiti accumulati. E’ evidente che al contempo per i paesi in via di sviluppo avere la possibilità di accedere all’energia elettrica e di farlo in maniera alternativa alle fonti fossili costituisce una concreta opportunità di sviluppo, oltretutto sostenibile. Ma i costi ancora elevati delle tecnologie rinnovabili rappresentano per questi paesi un ostacolo e impongono la necessità di avvalersi di una cooperazione internazionale. Niente di male in questo, purchè appunto rimanga nell’alveo della cooperazione e non degradi in mero opportunismo economico.
Fabio

 
 
 

L'INFERNO DELLE GUERRE



Afghanistan, sempre più vittime civili

Oltre 250 civili afgani uccisi dalla Nato dall’inizio dell’anno
        
       
       
Durante una conferenza stampa tenutasi domenica a Kabul, il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, Sir John Holmes, ha denunciato che nella prima metà del 2008 il numero delle vittime civili della guerra in Afghanistan è cresciuto del 62 percento rispetto allo stesso periodo del 2007: settecento morti – contro i 430 della prima metà dell’anno scorso – di cui oltre 250 vittime dei bombardamenti aerei e delle truppe Nato. Un dato, quest’ultimo, in linea con quello del 2007, che vide circa cinquecento civili afgani morire sotto le bombe alleate.
 
La Nato nega ma non spiega. I comandi Nato hanno reagito con fastidio. “Già lo scorso maggio l’Onu ci ha accusato di aver ucciso duecento civili, e già in quell’occasione avevo detto che questi numeri sono di molto superiori ai dati in nostro possesso”, ha dichiarato Mark Laity, portavoce dell’alleanza a Kabul, concludendo che “vale lo stesso questa volta”. Peccato che la Nato non abbia mai fornito numeri alternativi dei civili uccisi nelle proprie operazioni, limitandosi a ripetere il solito ritornello sulla estrema difficoltà di evitare ‘danni collaterali’ a causa del fatto che i talebani si nascondo nei villaggi tra i civili e sparano dalle case.
 
I caccia della Nato effettuano in Afghanistan una media di cinquanta missioni di bombardamento ogni giorno. Secondo le squadre militari di verifica a terra della Nato (le Jtac, joint terminal attack controller), le vittime dei raid aerei sono sempre ‘insorti’, e se non lo sono ce li fanno diventare. Le morti civili vengono alla luce solo quando quando le autorità locali afgane hanno il coraggio di contestare la versione ufficiale della Nato. Quindi I dati ufficiali, come quelli diffusi dall’Onu, sono solo la punta dell’iceberg: la maggior parte delle vittime civili non vengono riportate perché, in base alle direttive alla stampa diramate il 12 giugno 2006 dal governo Karzai, I giornalisti afgani – gli unici ad avere accesso alle informazioni sul campo – non possono scrivere articoli che mettano in cattiva luce le forze militari straniere.

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Gli iraniani fanno il conto dei costi della guerra
I veterani disabili non sentono riconosciuto il loro ruolo durante il conflitto Iran-Iraq
       
       
       
Ventidue anni fa Keyvan perse entrambe le gambe, sotto il ginocchio, durante un attacco degli iracheni con i mortai vicino alla città di Abadan, nell'Iraq meridionale. Era minorenne quando si arruolò per combattere nella guerra Iran-Iraq, ed oggi ripete che combatterebbe ancora per il suo Paese in caso di necessità.

Keyvan è solo uno dei 300mila iraniani rimasti disabili dopo la guerra combattuta fra il 1980 e il 1988, che ha causato quasi 200mila vittime. I dati ufficiali sostengono che circa 36mila delle vittime erano minorenni. Keyvan, oggi quarantenne, ricorda come si arruolò volontario e partì per il fronte dalla sua città natale di Esfahan solo pochi mesi dopo che suo fratello Mehran, allora sedicenne, era stato ucciso in uno scontro sull'isola di Majnoun. “Non ero abbastanza grande per poter prendere parte al conflitto, così fui costretto a falsificare i miei documenti per dimostrare che avevo più di 15 anni”, dice Keyvan. Malgrado la sua mutilazione, dice, “non rimpiango di essere stato in guerra. Se un'altra nazione attaccasse l'Iran nelle stesse circostanze, senza dubbio io sarei fra i difensori della nostro Paese.” Eppure Keyvan non è contento della mancanza di riconoscimento dato alle persone che, come lui, hanno messo la loro vita in gioco al fronte per la patria. “Di questi tempi la gente crede che era nostro dovere prendere parte al conflitto e che, come ricompensa, otteniamo denaro e privilegi, ma le cose non stanno così”, racconta. “Naturalmente non hanno torto sul fatto che alcuni ufficiali e funzionari della classe dirigente abbiano strumentalizzato la guerra e i suoi combattenti, e questo ha avuto un impatto negativo sulla visione della gente riguardo alla guerra”. Keyvan è particolarmente scontento del modo in cui le organizzazioni si prendono cura dei veterani di guerra. “Molti dei mutilati, ed in modo particolare le vittime di attacchi chimici, oggi non vivono secondo uno standard di vita decente”, dice. “La Fondazione per le Vittime e i Mutilati di Guerra oggi non si prende cura di loro come dovrebbe, ed è in gran parte interessata solo ai propri programmi”.
La sedia a rotelle di Keyvan non è di quelle moderne, e deve far girare le ruote a mano. “Non avrei mai pensato che le mie mani potessero essere così potenti. Le mie mani devono servirmi anche da gambe”, dice con un sorriso.

Anche un altro intervistato, Ebrahim, ha servito come volontario da minorenne. Aveva 14 anni quando entrò nell'esercito con suo padre e il fratello più grande. Ora ha 38 anni ed ha perso quasi completamente l'udito a causa della guerra.
Oggi studia per una specializzazione post-laurea nel campo delle comunicazioni e dice che in una società che sta affrontando prezzi in continua crescita ed altre pressioni di tipo economico c'è poco posto per la compassione verso gli eroi dei giorni passati. “Le difficoltà economiche sono tali che ognuno sta lottando per superarle, così i veterani di guerra non trovano tempo né opportunità per narrare le loro memorie”, dice. Ebrahim è scosso dalla rabbia alla percezione popolare che i veterani e i mutilati di guerra beneficino di sussidi e privilegi. “Nessuna delle grandi organizzazioni e fondazioni che sono state create in nome dei combattenti e dei veterani di guerra si sta di fatto occupando di queste persone”, inveisce. “Sono talmente preoccupate ed aggrovigliate nei propri problemi economici interni che si sono completamente dimenticate la ragione per cui sono state costituite. Non riescono neppure a ricordarsi se un certo mutilato di guerra sia ancora vivo oppure no”. Guardando la capitale dalla sua finestra dice: “La gente immagina che a casa nostra dai rubinetti scorra olio [abbondanza], ma la realtà è che i veterani di guerra sono vittima degli slogan degli uomini di stato. Ogniqualvolta un politico cerca di mostrare che il proprio governo pensa al popolo, cita i veterani e i mutilati di guerra, ma le parole e le azioni non coincidono”. Ebrahim ricorda una predizione fatta da Mahdi Bakeri, un rinomato comandante militare ucciso in guerra, circa l'effetto della fine del conflitto sugli ex-combattenti. Secondo lui si sarebbero divisi in tre gruppi: quelli dominati dal rimorso, coloro che dimenticano il passato ma non riescono a gestire la loro nuova vita e quelli che rimangono ancorati al passato e continuano lottare con il trauma della guerra. Come molti altri iraniani che considerano di lasciare l'Iran per continuare gli studi, Ebrahim dice: “Forse dovrei andarmene per prendere un dottorato all'estero, chi lo sa?”. Eppure come Keyvan, Ebrahim conclude: “Malgrado tutte le ingiustizie nei nostri confronti, se l'integrità territoriale della mia nazione fosse ancora in pericolo io sarei pronto a difenderla in ogni istante”.

Morteza è un ufficiale in pensione dell'esercito iraniano, 55 anni, che soffre di numerose malattie, fra cui il morbo di Parkinson, insorte in seguito ad un attacco chimico iracheno subito durante la guerra. Entrò nell'esercito ancora sotto lo Scià, negli anni Settanta, e seguì un corso di addestramento negli Stati Uniti. Dopo la rivoluzione iraniana nel 1978 si arruolò nelle nuove forze armate e servì nel corso degli otto anni di guerra contro l'Iraq. “La guerra è un male per qualsiasi nazione ed il risultato finale è sempre costituito da perdite e distruzioni”, dice. “Ma questa guerra ci fu dichiarata nel settembre 1980 e non ci fu altra scelta che difendere il nostro paese”. Nel 1986, durante l'operazione Valfair nella penisola di Al-Faw, Morteza fu avvelenato da un attacco chimico che lui ritiene responsabile dei sintomi che sono apparsi negli ultimi otto anni. “Dopo che fui ferito dagli agenti chimici fui trasportato all'ospedale e le ferite si rimarginarono in poco tempo”, ricorda. “Ma pochi anni dopo la fine della guerra, all'età di 47 anni, ho iniziato a soffrire di morbo di Parkinson. Secondo tutti gli esperti e specialisti ciò è stato causato dalle armi chimiche, ma gli ufficiali incaricati di occuparsi dei mutilati di guerra in Iran non hanno mai accettato questo come un fatto”. Le mani e le gambe di Morteza tremano, così come la sua voce, a causa del morbo di Parkinson che progressivamente peggiora. Sebbene sia un membro dell'associazione Parkinsoniani in Canada, che gli invia alcuni dei medicinali necessari, dice: “Negli ultimi anni ho avuto problemi per ottenere i miei medicinali a causa delle tensioni nelle relazioni fra Iran e Canada ed anche per le sanzioni imposte all'Iran”. Parlando del modo con cui le altre persone si relazionano a lui dice: “La gente mi tratta bene ed a volte mostra particolare rispetto, ma io cerco sempre di sfuggire i loro sguardi di pietà; è una cosa che odio”. Malgrado i suoi problemi Morteza è d'accordo con gli altri combattenti intervistati, nel dire che se l'Iran venisse attaccato lui vorrebbe difenderlo. “Io sono stato un membro delle forze armate ed era mio dovere partecipare alla guerra, ma in ogni caso io non sarei mai in grado di tollerare un'aggressione da parte di un'altra nazione contro la mia patria”, dice.

Molti di coloro che non sopravvissero al conflitto riposano nel cimitero di Beheshte Zahra, in una sezione speciale riservata alle vittime di guerra. Una tomba appartiene ad un giovane di nome Morteza, e la data testimonia che fu ucciso all'inizio della guerra, nel 1981, a Chazzabeh, nell'Iran sud-occidentale.
Alcune donne siedono accanto alla tomba. “Che cosa dovrei dire? Si dicono molte cose eppure non c'è segno di azione”, dice una donna che ha perso due figli nel conflitto. “Noi siamo state in silenzio per lungo tempo. Il silenzio è più forte di qualunque grido”. Vicino alla tomba di Morteza ce n'è un'altra di un giovane chiamato Abbas. “Venga qui che le racconto!”, grida un vecchio, basso e incurvato, che risulta essere il padre di Abbas, Mashhadi Mahdi. “Il mio Abbas era un esperto di telecomunicazioni. Il mio Abbas, la cosa migliore della mia vita, se n'è andata”, dice. “Perché nessuno si occupa delle persone? Quando passo vicino ai parchi sono sconvolto dall'odore delle droghe che vengono assunte dai giovani. Il mio Abbas era il capo del centro telefonico di Qolhak. Si era appena sposato”. Quando chiedo dove sia ora la vedova di Abbas, Mahdi replica: “Oh signora, si è risposata ed è andata in Italia”. Il vecchio mette una mano in tasca e cerca di mostrarmi qualcosa nel suo portafogli di plastica, dicendo: “Sono un pensionato della compagnia telefonica”. La sua pensione di 120mila toman sguscia fuori dal portafogli e rimango sconvolta dal ricordo del funzionario governativo che mi ha detto come il limite di povertà sia al di sotto dei 600mila toman al mese. Dopo aver detto queste cose il vecchio si calma, come se avesse solo voluto parlare con qualcuno. Si mette a pulire lo specchio e i porta candele sulla tomba di suo figlio con un pezzo di giornale, come ha fatto ormai per molti anni.
Molte altre nazioni hanno grandi monumenti commemorativi dei propri morti e la gente mostra rispetto per esse e per le loro famiglie. Ma in Iran l'attitudine sembra un po' differente, anche se la guerra è stata imposta all'Iran da un attacco iracheno supportato da molte nazioni occidentali ed arabe ed ha lasciato ferite profonde sia nella società nel suo complesso che nelle città direttamente coinvolte nel conflitto.

Secondo le parole di Keyvan: “In tutto il mondo la gente si leva il cappello in segno di rispetto per coloro che hanno difeso la propria patria – o anche attaccato altre nazioni – e come risultato hanno perso gli arti o la vita stessa... Eppure la società iraniana oggi ci è ostile”. Il popolo iraniano oggi combatte con molti problemi interni, accresciuti dalle difficoltà economiche create dalle sanzioni internazionali.
Malgrado ciò vi è un senso di appartenenza alla nazione, di essere iraniani che ancora appare essere una forza unificante del paese. Le interviste che ho effettuato per questo articolo suggeriscono che quasi tutti quelli che hanno combattuto per la loro terra durante la guerra Iran-Iraq sarebbero pronti a combattere un aggressore nell'eventualità di un attacco futuro. Quel che è meno chiaro è se lo stesso valga per le generazioni di giovani più recenti, quelli nati dopo la rivoluzione. Sembra che ci sia una linea di divisione fra le nuove generazioni ed i veterani, non ultimo a causa del solco profondo che esiste fra i giovani e i leader politici attuali. Questo rende più difficile dire con certezza che gli iraniani più giovani mostrerebbero la stessa risolutezza dei veterani a resistere ad un aggressore esterno.

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Date un'occhiata anche qui per favore... Lettera da un carcere del Mozambico


Fabio

 

 
 
 

Mascalzone latino




Pubblico la lettera che mi ha inviato Antonio Di Pietro:


“Caro Beppe,
ci sono momenti nella vita delle nazioni in cui i cittadini devono fare delle scelte. Momenti in cui non si può più fare finta di niente e continuare a credere che, in fondo, nulla veramente cambierà. Le leggi che continuamente vengono proposte dal nuovo Governo sono un attentato alla democrazia. Se passano, vincerà il regime e perderà, per un tempo indefinito, la democrazia. Non c’è bisogno dell’esercito per togliere la libertà ai cittadini. E’ sufficiente manipolare l’informazione e, grazie a questa, farsi eleggere in Parlamento. Quindi legiferare contro la Costituzione, contro l’indipendenza della magistratura, contro la sicurezza dei cittadini, contro la libera informazione. Una legge dopo l’altra.
Cosa distingue un primo ministro di una democrazia da un dittatore? Il vero tratto distintivo è l’impunità assoluta del dittatore. Quando Silvio Berlusconi l’avrà ottenuta l’Italia sarà, a tutti gli effetti, una dittatura. Sorprende come opinionisti autorevoli abbiano potuto accreditare Silvio Berlusconi di qualità di statista e come una parte della stessa opposizione abbia creduto di poter avviare con lui le riforme istituzionali. La storia di Berlusconi parla per lui. I suoi innumerevoli processi, la condanna per corruzione giudiziaria del suo avvocato Cesare Previti per la Mondadori, la sua appartenenza alla P2, l’occupazione abusiva delle frequenze di Rete4. L’elenco è interminabile come i danni subiti a causa sua dal nostro Paese. Mi riferisco soprattutto allo spegnersi della coscienza civica, della morale, dell’etica. All’esempio devastante che Berlusconi ha offerto alla nazione e alle giovani generazioni in quasi venti anni, un esempio aggravato dalla sua impunità. Una situazione simile a quella dei ragazzi nei paesi del Sud che ammirano il camorrista o il mafioso locale.
Il Consiglio dei ministri di oggi, 27 giugno 2008, ha approvato il DDL per garantire l’impunità alle prime cariche dello Stato durante l’esercizio del loro mandato, che diventano quindi più uguali degli altri cittadini di fronte alla legge. Nelle scorse settimane sono state presentate dal Governo leggi che definire vergogna è insufficiente. E’ più corretto chiamarle eversive e criminali in quanto minano le basi dello Stato e favoriscono i delinquenti.
La sospensione dei processi per un anno serve a evitare la possibile condanna di Berlusconi al processo Mills di Milano. Altri centomila processi saranno bloccati per reati che vanno dallo stupro, alla truffa, al rapimento di minore. La sicurezza dei cittadini, tanto sbandierata in campagna elettorale da Berlusconi e dalla Lega, è sacrificata all’interesse del presidente del Consiglio. Il divieto di pubblicare le intercettazioni una volta depositate in tribunale a disposizione delle parti, e quindi di fatto già pubbliche, impedirebbe di venire a sapere di Parmalat o dei furbetti del quartierino. Il giornalista che pubblicasse le intercettazioni finirebbe in carcere, il suo editore chiuderebbe e chi ha compiuto il crimine non dovrebbe rispondere all’opinione pubblica. Con questa legge, negli Stati Uniti non ci sarebbe stato il Watergate e Nixon non avrebbe rassegnato le dimissioni. L’Italia dei Valori proporrà un grappolo di referendum per l’abrogazione di queste leggi contro la democrazia, se necessario promuoverà azioni di disobbedienza civile come la pubblicazione degli atti giudiziari. Nessuno può più rimanere a guardare.
L’otto luglio a Roma dalle ore 18:00 in Piazza Navona, in contemporanea con l’iter di approvazione della legge sulle intercettazioni, l’Italia dei Valori insieme a esponenti della società civile ha indetto una manifestazione per la libertà di espressione e per la giustizia.” Antonio Di Pietro
Fabio

 
 
 

“SPRING ALIVE”


I giovani vogliono conoscere la natura e utilizzare le tecnologie per contribuire alla sua salvaguardia. Successo per l’edizione 2008 di Spring Alive, il progetto europeo di BirdLIfe International volto a sviluppare l’interesse dei giovani verso la natura e la sua tutela anche grazie all’ausilio di Internet.

A fornire i dati è la LIPU-BirdLife Italia, che ha curato la parte italiana del progetto: tra l’inizio di febbraio e il 21 giugno, il nostro Paese si è piazzato al primo posto in Europa per numero di osservazioni (oltre 15mila) davanti a Polonia (oltre 9mila osservazioni), lrlanda (oltre 8mila osservazioni), Russia (oltre 6mila) e Bielorussia (oltre 2mila).

Al pubblico, rappresentato in Italia per l’80% da giovani, Spring Alive chiedeva di segnalare in un apposito sito web (www.springalive.net), progettato per le esigenze soprattutto di studenti e insegnanti, il loro primo avvistamento di Cicogna bianca, Cuculo, Rondine e Rondone, le quattro specie simbolo della primavera. In base ai dati ricevuti dai 30 Paesi europei partecipanti, il sito web ha disegnato così una mappa in tempo reale della primavera, annunciata dall’arrivo degli uccelli migratori. Una mappa virtuale che via via, da febbraio fino a giugno, si formava tutti i giorni sullo schermo del computer.

Un risultato molto positivo, quello raggiunto in Italia, reso possibile grazie al coinvolgimento di migliaia di studenti delle scuole, cui la LIPU ha fornito un supporto per tutta la durata del progetto. “Siamo molto soddisfatti – commenta Chiara Manghetti, responsabile Educazione Ambientale LIPU e di Spring Alive in Italia – i giovani nel nostro paese si dimostrano interessati a conoscere la natura che li circonda, sia che si tratti di ambiente urbano che rurale, e vogliono dare un contributo alla sua tutela fornendo dati utili per combattere la distruzione dell’habitat e i cambiamenti climatici, una delle più pericolose insidie per il pianeta e la biodiversità”.

I dati, accumulati su più anni (quest’anno si è giunti alla Seconda edizione) serviranno anche per capire in che modo le condizioni meteo e i cambiamenti climatici influiscono sulla migrazione di questi uccelli. Un’esigenza cui Spring Alive 2008 ha fornito un contributo ben preciso: “A fronte di un inverno che si è prolungato più del solito – spiega Manghetti - attraverso una primavera fredda e piovosa, si è verificato sia un ritardo nell’arrivo degli uccelli che un rallentamento della migrazione in generale: in Irlanda il Cuculo e la Rondine sono arrivati con un ritardo compreso tra i tre e i cinque giorni, mentre in Polonia la Cicogna si è fatta aspettare sette giorni in più rispetto a quanto previsto e in Russia il ritardo è stato pari a dieci giorni”.

Nel complesso la specie più vista è stata la Rondine (oltre 19mila esemplari), seguita dalla Cicogna bianca (oltre 12mila), dal Rondone (11.500) e dal Cuculo (quasi 9mila). Numeri che testimoniano la crescita di interesse verso un progetto innovativo e in grado di attirare l’attenzione anche dei più piccoli.

“Dai test effettuati prima e dopo il coinvolgimento dei ragazzi nel progetto – conclude Manghetti – abbiamo constatato un forte aumento nella capacità di capire l’importanza di tutelare l’habitat e inoltre nell’abilità di riconoscere le diverse specie, a testimonianza che le azioni concrete di educazione ambientale possono produrre, con l’ausilio delle tecnologie moderne, a esiti molto interessanti”.
Fabio

 
 
 

Per non dimenticare...

Bedeschi Giulio - Centomila gavette di ghiaccio

« La visibilità divenne nulla, come ciechi i marciatori continuarono a camminare affondando fino al ginocchio, piangendo, bestemmiando, con estrema fatica avanzando di trecento metri in mezz'ora. Come ad ogni notte ciascuno credeva di morire di sfinimento sulla neve, qualcuno veramente s'abbatteva e veniva ingoiato dalla mostruosa nemica, ma la colonna proseguì nel nero cuore della notte. »



Centomila gavette di ghiaccio tratta dell'esperienza bellica del sottotenente medico Italo Serri (pseudonimo dietro il quale si cela Bedeschi stesso) durante il secondo conflitto mondiale.

Inizialmente assegnato presso un reparto di fanteria, Serri viene impiegato sul fronte greco-albanese nel 1941. Successivamente viene trasferito al corpo degli Alpini, presso una batteria di artiglieria da montagna appartenente alla divisione alpina Julia.

Con questa unità Serri viene inviato al fronte russo dove partecipa alle operazioni dell'Armata Italiana in Russia. Nel dicembre 1942, una controffensiva russa sviluppatasi per liberare la città assediata di Stalingrado spezza il fronte italiano ed il Corpo d'Armata Alpino (formato dalle divisioni alpine Cuneense, Julia e Tridentina) viene sacrificato per bloccare l'avanzata sovietica per permettere la ritirata e la riorganizzazione delle unità italiane e tedesche coinvolte nello sfondamento. Dopo un mese di accanita resistenza gli alpini, il 17 gennaio 1943, privi di viveri e di munizoni, sono obbligati a ritirarsi, ormai accerchiati dalle forze russe.

Inizia così per Serri ed i suoi compagni una tragica ritirata con una temperatura di -40°, nel terribile inverno ucraino, senza cibo e con costanti combattimenti per svincolarsi dalla stretta delle forze russe.

Il 31 gennaio 1943 finalmente le truppe alpine raggiungono la zona controllata dall'alleato tedesco: dei 60.000 uomini partiti se ne salvano meno di 20.000, tra i quali Serri e pochi compagni della sua batteria d'artiglieria.



RAGAZZI UN SOLO CONSIGLIO: LEGGETELO!!!!!!!!!!!!!!!

Fabio


 
 
 

E intanto il mondo se ne va...

    
Dopo che su molti quotidiani si erano esercitati fino agli ultimi giorni della appena passata primavera, fredda e piovosa, a decretare la fine ingloriosa della “eco-bufala” del global warming, sono bastati due giorni di normale caldo afoso di inizio estate per resuscitare con clamore lo scioglimento dei ghiacciai artici e il destino irreparabile degli orsi bianchi vittima dello stesso global warming ridiventato minaccia planetaria. L’occasione l’hanno data un gruppo di ricercatori che da un rompighiaccio canadese stanno seguendo per il National Geographic la situazione dei ghiacci marini del Polo e preconizzano che saranno scomparsi completamente durante quest’estate.

La notizia è rilanciata con un clamore che non si riserva di solito a ricerche scientifiche sostenute da un giornale a grande impatto mediatico mondiale come il National Geographic, è come se l’informazione italiana avesse costantemente bisogno di specchiarsi solo in notizie clamorose che vengono da altri media, risparmiandosi troppo spesso la fatica di ricorrere a fonti scientifiche “difficili”, magari agli scienziati italiani che lavorano da anni in Antartide (malpagati ed insicuri del loro futuro), con brillanti risultati, a ricerche sul clima globale, ed ai quali si da un po’ di spazio solo quando le finanziarie dei vari governi tagliano i soldi per la ricerca.

Lo scenario di drammatica accelerazione dello scioglimento della banchisa polare è infatti noto da tempo, ma a volte ci si dimentica anche delle prove empiriche, anche di quelle di “colore” e pittoresche che vengono da chi il cambiamento climatico lo vede con i propri occhi e lo tasta con la propria esperienza ancestrale: già nel 2007 le comunità inuit avvertivano che stavano sparendo gli orsi mentre aumentavano le orche in mari prima perennemente occupati dai ghiacci e che, negli ultimi tre anni, l´estati erano state più lunghe e gli inverni più corti di qualche settimana, mentre la percorribilità invernale dei ghiacci per viaggi e trasporti era diminuita da 100 chilometri intorno ai 30 per il ritirarsi della banchisa.

E nel 2006 la National science foundation, in una ricerca sponsorizzata dalla Nasa, avvertiva che, mantenendo questo livello di riscaldamento climatico e di emissioni climalteranti, entro il 2040 il polo nord sarà libero dai ghiacci, potrebbe sopravvivere solo una piccola regione di ghiacci perenni lungo le coste della Groenlandia e del Canada: «Abbiamo già riportato le maggiori perdite nel mare ghiacciato, ma la nostra ricerca suggerisce che la diminuzione entro pochi decenni potrebbe essere più drammatica di qualunque cosa successa finora. Questi cambiamenti sono sorprendentemente rapidi». L’accelerazione e la crisi verticale erano dunque già negli scenari degli scienziati che troppe volte vengono trattati come opinioni politiche da usare per sfidarsi sui giornali o per irridere gli ambientalisti. Infatti, secondo quello studio Usa, «mentre il ghiaccio si ritira l’oceano trasporta più calore verso l’Artico e le acque libere assorbono più luce solare, accelerando il grado di riscaldamento e portando ad una ulteriore perdita di ghiaccio. Questo un ciclo infinito ha implicazioni drammatiche per l’intera regione artica».

La Nasa aveva già rilevato nell’inverno 2005/2006, che la superficie del ghiaccio invernale era diminuita del 6% rispetto alla media degli ultimi 26 anni, con una diminuzione prevista del 1,5-2 per cento della copertura invernale per i prossimi 10 anni, il tutto in seguito alla maggiore fusione estiva dei ghiacci mai registrata, «una diminuzione così imponente dei ghiacci che non può essere recuperata nemmeno durante il lunghissimo inverno artico».

Dal 2005 l’Unione Europea studia l’Oceano glaciale artico con il progetto Developing arctic modelling and observing capabilities for long-term environmental studies e comportement (Damocles), per capire le dinamiche di uno scioglimento della banchisa che ha portato ad una perdita di ghiacci marini perenni di 37 mila km2 in una ventina di anni e di un calo dello spessore medio della banchisa 3,1 a 1,8 metri «con un ritmo che porterebbe alla loro sparizione entro questo secolo, con conseguenze incalcolabili sulla circolazione oceanica mondiale». Le prove empiriche di Damocles non mancano: il veliero francese Tara lasciato alla deriva invernale sui ghiacci artici ne è uscito tre volte più velocemente di quanto previsto.

Lo scorso autunno, i ricercatori russi a bordo della nave-laboratorio Akademik Fedorov, che ha preso parte alla spedizione Arktika-2007, hanno detto che «Nell’oceano Artico abbiamo constatato seri cambiamenti climatici aventi carattere globale. Una “pulizia energica” dei ghiacci alla deriva nell’Artico. Questo fenomeno si è prodotto per la prima volta da decenni di osservazione dell’Artico All’inizio di ottobre il mar Artico, ad eccezione del mar di Kara e di una parte del mare di Ciukotka, si ricoprono sempre di ghiaccio».

Secondo gli scienziati russi lo spessore del ghiaccio, si sta riducendo anche là dove si è conservato, con un un rialzo delle temperature nello strato superficiale dell’oceano: «I loro valori vanno da 5 a 7 gradi. Mai abbiamo osservato un tale fenomeno. L’acqua oceanica non è stata mai così calda. Ma la scienza non può ancora prevedere le conseguenze di questi fenomeni. Tutto quello che sappiamo in generale dei processi climatici non ci permette di prevedere con sicurezza la loro evoluzione, anche a breve termine. Se i processi osservati sono irreversibili, le conseguenze possono essere drammatiche».

E’ proprio il caso di dire che purtroppo nell’Artico non c’è niente di nuovo sotto il sole, o forse è proprio il sole estivo a far diventare sui giornali italiani una clamorosa notizia da ombrellone quella che è la conferma di un trend del quale gli scienziati ci avvertono da anni? Per quanto discuteremo ancora dei poveri orsi bianchi esiliati dal ghiaccio per poi tornare in città a prendersela con gli scienziati e gli ambientalisti che vogliono frenare la crescita infinita? Come diciamo spesso a greenreport, nessun pasto è gratis, soprattutto se era congelato nella banchisa polare.
SENZA PAROLE...

Fabio
 

 
 
 

Il miracolo nucleare e la lenta e difficile realtà

TRATTO DA QUI!!!

Secondo l’ultimo rapporto “Vital Signs Update” del Worldwatch institute, nel 2007 in tutto il mondo la potenza installata nelle centrali nucleari è cresciuta di 2.000 megawatt, una cifra equivalente ad un decimo della crescita dell’energia eolica. Il global nuclear capacity stands ha raggiunto i 372.000 megawatt, ma è il tipo di energia a crescita più lenta, solo lo 0,5% in più rispetto al più 27% dell’eolico.

Alla fine del 2007 erano in costruzione in tutto il mondo 34 reattori nucleari, dei quali 12 sono in via di realizzazione da più di 20 anni. Il continente dove si costruiscono più impianti nucleari è l’Asia: 20 reattori, India e Cina stanno costruendo 6 nuovi reattori ciascuna, per circa 8.130 megawatt, cioè un quarto della capacità nucleare in costruzione nel pianeta. Invece, dal 1964 ad oggi, sono stati dismessi ben 124 reattori nucleari, per una produzione energetica di 36.800 megawatt.
Il nucleare civile è afflitto ovunque da costi in aumento e ritardi nella costruzione degli impianti. Secondo il rapporto del Worldwatch institute «I costi stimati dalla Westinghouse per progetti di impianti è più sono più che raddoppiati nel 2007, a 12 – 18 milioni di dollari, sollevando interrogativi riguardo alla fattibilità ed all’efficacia economico-finanziaria degli impianti e per quel che riguarda anche le electric utilities, visto che si potrebbero produrre passività di scala per i bilanci».

Il Worldwatch sottolinea anche l’incidente accorso nel 2007 alla più grande centrale nucleare del mondo, quella di Kashiwazaki-Kariwa, in Giappone, dove un terremoto di 6,8 gradi ha costretto a fermare 7 reattori che producono 8.000 megawatt. Un sisma che «è stato due volte e mezzo superiore a quello per i quale i reattori sono stati progettati a resistere, sollevando interrogative sul fatto se dovessero essere rimessi in servizio». Un episodio dunque ben più grave della semplice fuga di un po’ di acqua radioattiva di cui aveva parlato subito il governo di Tokyo, immediatamente supportato dall’Iaea.

Secondo “Vital Signs Update”, negli Usa non si costruisce nessuna centrale nucleare da 29 anni, anche se un reattore nucleare è stato riavviato dopo 22 anni di fermo e sta per riprendere la costruzione di un reattore fermo dal 1988. Le compagnie elettriche vorrebbero proporre sette nuovi reattori nucleari, ma sono alla ricerca disperata di finanziamenti pubblici federali, condizione sine qua non per avviare la costruzione di nuove centrali. Ma la nota agenzia di rating Moody´s ha avvertito gli investitori pubblici che i costi degli impianti nucleari sono sottovalutati e che questi investimenti potrebbero danneggiare i loro credit rating. In sud America, molti annunci, ma dal 1980 ad oggi solo l’Argentina ha costruito un reattore. In Europa occidentale solo due nuovi impianti nucleari in via di realizzazione: in Francia e Finlandia, mentre in quella orientale si stanno costruendo nuovi reattori in Bulgaria, Ucraina e Slovacchia (due ciascuno) e in Romania.

La Russia sta invece realizzando 7 reattori per 4.585 4.585 megawatts, ma 4 di questi sono in via di realizzazione da una ventina di anni. La Russia sta completando un a fast-breeder reactor, che produce più combustibile nucleare di quel che consuma e che usa plutonio o una miscela di ossidi al posto del combustibile tradizionale. Inoltre è iniziata la costruzione di impianti nucleari galleggiante da 30 megawatt, su navi per rifornire altri Paesi.
Anche la Gran Bretagna prevede di costruire nuove centrali, ma prima dovrà rimpiazzare quelle obsolete che deve dismettere. Ovunque i ritardi e gli aumenti dei costi sono fortissimi, anche nella velocissima Cina, dove i ritardi sulla tabella di marcia sugli impianti che avrebbero dovuto entrare in funzione nel 2007 sono già di due anni a causa della violazione delle misure di sicurezza nucleare nella costruzione dell’impianto. A Taiwan i ritardi arrivano a 5 anni a causa di materiali di scarsa qualità usati da un subappaltatore e dell’aumento del costo di acciaio e cemento.
In Africa non c’è alcun impianto in costruzione, mentre in Medio Oriente costruisce una centrale solo l’Iran, ma il nucleare persiano e sciita non s’ha da fare per gli Usa e i loro alleati. Invece i progetti per costruire nuove centrali in una dozzina di Stati arabi e sunniti della regione è appoggiato apertamente.
MA DOVE ANDREMO A FINIRE????
Fabio

 
 
 
 
 
 
 

GRAZIE COMPANEROS!!!!!!!!!!!!!

Post n°282 pubblicato il 20 Giugno 2008 da i_companeros

6.000 VISITE...
PER MOLTI UN TRAGUARDO IRRISORIO...
...PER NOI UN TRAGUARDO IMPORTANTE!!!
a presto... cercheremo di esser più presenti... visto che ultimamente non lo siamo stati come in altre occasioni passate!!!!
CIAO E GRAZIE A TUTTI...

Fabio

 
 
 

Movimento Sem Terra    

Invasione rossa
L'Mst alza il tiro della protesta per la terra e contro l'inquinamento ecologico
             


Nuova ondata di occupazioni in Brasile. L'agguerrito Movimento Sem Terra ha occupato campi, imprese e centrali idroelettriche in 13 Stati. L'intento: sfidare Luis Inacio Lula da Silva nell'eterno braccio di ferro sulla cocente questione terra, dato che la riforma agraria pare lontana anni luce.

Ampio raggio. Martedì hanno mirato a invadere centrali ed edifici di aziende pubbliche e private, mentre mercoledì è toccato a due piantagioni di eucalipto. Per evitare atti vandalici contro la sede dell'azienda Votorantim di san Paolo, è persino intervenuta la polizia.
Una tattica, quella adottata ultimamente dal più grande movimento contadino di sinistra dell'America latina che si discosta molto da quanto fatto in passato. Inizialmente, ad essere occupate erano solamente le terre incolte, quei terreni che questi coltivatori consideravano il simbolo dell'ingiustizia per eccellenza: enormi quantità di ettari concentrati nelle mani di pochi, spesso costretti a lasciarne grandi parti incolte data l'immane estensione. Col tempo, però, la loro visione si è ampliata e con essa il raggio della protesta: nel loro mirino sono entrati tutti i soggetti considerati poco ecologici e causa del cambiamento climatico.

L'unione. Da qualche tempo, l'Mst ha scelto di non correre più da solo, unendosi ad altri due grandi movimenti americani: Via Campesina e Asemblea Popular, i cui militanti sono soliti dunque ormai appoggiare direttamente ogni loro iniziativa. E così è stato anche in questa occasione.
Questa settimana, il fine è stato “denunciare i problemi causati dalle grandi imprese operanti in Brasile, specialmente da quelle straniere, che stanno traendo enormi benefici dalla politica economica neoliberale perseguita dal governo”.
Dal canto suo, il presidente Lula, che da sempre mantiene una relazione ambigua con gli amici storici dell'Mst, fra i quali è cresciuto come uomo e come leader politico per poi agire in maniera discordante una volta salito al Planalto, si è nuovamente appellato all'applicazione integerrima della legge contro le azioni di violenza perpetrate dal Movimento Sem Terra.

Senza scrupoli. Ma questo non ha certo spaventato i militanti rossi. In pochi giorni, a migliaia si sono mobilitati in ben tredici Stati, interrompendo il traffico ferroviario nel Minas Gerais, paralizzando il trasporto della impresa Vale do Rio Doce, occupando la sala dei comandi della idroelettrica di San Francisco, in Sobradinho, Bahia. Contemporaneamente erano nel Pernambuco, dove nell'Università federale hanno distrutto un laboratorio, e duecento militanti di Via Campesina hanno invaso la Estacion Experimental di canna da zucchero di Carpina, distruggendo parte del laboratorio scentifico.

Armati e arrabbiati. Nel Ceará, sono state interrotte le attività del porto di Pacém, in segno di protesta contro la costruzione di cinque centrali termoelettriche, di una raffineria e di un centro siderurgico. Ma non è finita qua. Nel Rio Grande do Sul, sette manifestanti dell'Mst sono rimasti feriti negli scontri con la polizia, che ha reagito all'invasione di una industria di alimenti e di due piantagioni di eucalipto controllate dalla Votorantim, la medesima occupata a San Paolo, dove sono intervenuti 300 agenti con gas irritanti e proiettili di gomma per liberarela dai circa cinquecento occupanti.
Fabio

 
 
 

I sogni non bastano mai



scritto da
Irma Marano
 
Nel sud di Quito, capitale ecuadoriana di un paese latino americano ricco di problemi e contraddizioni, ma anche di risorse naturali e una vegetazione spettacolare, c’è la realtà disastrata dei quartieri più poveri, dove un padre di famiglia può guadagnare anche solo 50 dollari al mese, dove l’anemia può interessare fino al 30 percento della popolazione infantile, dove ci sono tassi di abbandono scolastico del 40 percento.
In questo contesto difficile c’è un uomo che sogna, e sogna in grande e il suo sogno si concretizza ogni giorno!
 
Trenta anni fa. Il sogno di un uomo che partito più di trent’anni fa dalla lontanissima Italia è approdato sulle coste di uno dei paesi più bio-diversi del pianeta: l’Ecuador.
Come la maggior parte dei bambini e dei ragazzi di tutto il mondo il reverendo padre in età adolescenziale ha vissuto all’insegna del motto: prima il “piacere” e poi il dovere! Il sacerdozio in questo non lo ha di certo cambiato.
Sereno Colza è arrivato in Ecuador nel 1971 mettendo il suo impegno e la sua passione nell’aiuto e nel sostegno dei più deboli, guadagnandosi così il rispetto della popolazione locale.
A partire dal 31 gennaio del 1995 Padre Sereno comincia a occuparsi di bambini. E così su 33 ettari di terreno, messi a disposizione da un privato, sorgerà Fundeporte un immenso parco pronto ad ospitare giovani a “rischio” dei vari distretti di Quito e delle province intorno. Il progetto parte come scuola di calcio, ma presto si introdurranno altri sport, tra cui il ciclismo, grande passione del Padre.
Il progetto si è evoluto negli anni divenendo un vero centro educativo destinato ad accogliere bambini tra i 10 e 18 anni.
 
L'unione. Il centro, gestito dai Padri Giuseppini del Murialdo della Congregazione di San José, con la collaborazione delle Suore dell’Angelo Custode, sopravvive anche grazie, e soprattutto, ai tanti laici ecuadoriani che costituiscono la maggior parte del personale operativo all’interno del progetto e a volontari sia autoctoni che stranieri.
L’obiettivo del progetto è quello di dare un’alternativa  ai ragazzi più disagiati di Quito che, non essendo inseriti in nessun ambito educativo né pubblico né privato, si trovano a vivere e lavorare per strada e sono quindi a forte rischio di esclusione sociale nonché esposti a ogni tipo di violenza (psicologica e fisica).
 


I primi passi. Inizialmente il centro poteva accogliere solo 40 ragazzi, oggi ha 500 allievi e le domande di ammissione sono di gran lunga maggiori. Il progetto è rivolto a ragazzi che provengono da realtà disagiate e passano la maggior parte della loro giornata in strada. Los niños de la calle o calleros, come si suole chiamare, non possono avere accesso a nessuna struttura scolastica alternativa, sia essa pubblica o privata, e molto spesso hanno problemi di abuso di sostanze stupefacenti.
La Fondazione affida il loro recupero alla sport-terapia: il riscatto social di questi giovani si compie, dunque, attraverso lo svolgimento di un’attività sportiva.
In omaggio al principio "prima il piacere e poi il dovere". Lo sport lo si pratica il mattino mentre le attività formative hanno luogo il pomeriggio. In realtà questa è anche una necessità per stancare e contenere l’esuberanza di bimbi ed adolescenti super attivi, e ottenere l’ attenzione delle loro menti. Insomma, si cerca di diffondere la consapevolezza che imparare oltre che utile può essere davvero divertente. Ma disciplina è un principio a cui a cui non si “derogare”, quando hai tra le mani 500 ragazzini ciascuno dei quali con una storia al limite del inverosimile, una debolezza potrebbe compromettere il loro futuro. Per accedere alla scuola devo impegnarsi ad abbandonare le banderas, le bande adolescenziali di cui non pochi fanno parte, ma ciò significa uscire dal mercato del traffico di stupefacenti o addirittura armi. Ecco perché rigore e controlli devono essere una costante.
 
Cambio. A differenza di una normale scuola qui non sono previsti periodi di vacanza veri e propri che comportino la chiusura del centro. Nei mesi di agosto e settembre la scuola è sospesa, ma si organizzano una serie di attività ricreative e professionali che hanno finalità di tenerli lontani dalla strada. Istruttori professionisti seguono i ragazzi nella pratica di calcio, ciclismo, judo/lotta, atletica, pattinaggio, tennis e nuoto.
Nel corso dell’anno il programma è sviluppato in modo tale che agli allievi è assicurata oltre alla possibilità di studiare e alle attività sportive ed educative anche un sostegno che riguardi i vari aspetti della vita del minore accolto; psicologi, assistenti sociali e volontari seguono il loro sviluppo nell’età evolutiva, nelle piccole e grandi cose come, assicurasi, ad esempio, che facciano la doccia dopo l’attività agonistica ma anche l’assistenza medica e perché no due pasti al giorno … e in un Paese in cui il 20,2% della popolazione (dati del periodo 1991/2001) vive con meno di un dollaro al giorno si tratta di un’impresa non facile.
Ma il progetto offre tanto altro ancora! La scuola offre la possibilità di completare il ciclo di studi primario, e di continuare poi ai livelli superiori. Inoltre, grazie a strutture e macchinari forniti da sponsor ed aziende straniere, sono attivati laboratori che permettono di specializzarsi in meccanica, falegnameria, taglio e cucito, orticultura, ristorazione e produzione di pasta. Grazie a una serie di adozioni e sostegni a distanza che supportano le spese scolastiche e mediche, si provvede anche ai bisogni private di base come l’abbigliamento e le calzature.
Proprio perché per realizzare grandi sogni bastano anche solo piccoli gesti di buon senso quotidiano, il progetto si chiama “Su cambio por el Cambio.”
Cambio in spagnolo indica non solo il cambio monetario ma anche il cambiamento. Il nome del progetto si riferisce, infatti, agli spiccioli di resto (il cambio in spagnolo) che vengono lasciati ai negozi/supermercati ecuadoriani, aderenti all’iniziativa, al momento del pagamento al fine di dare un’opportunità di cambiamento ai giovani. Questo piccolo gesto sembra insignificante… ma ogni giorno, in ogni supermercato può fare tanto per il prossimo.
È il caso di dire l’unione fa la forza! Ecco perché è bene non smettere mai di sognare.
Fabio

 
 
 

Poteri dei media!!!

Gogna mediatica
In Bahrein un fatto di cronaca scatena l'odio versi gli immigrati del Bangladesh
        
              
Il potere enorme dei mezzi d'informazione di massa sull'opinione pubblica è cosa nota. In questi giorni, in Italia, si discute sul fatto che (almeno leggendo certi giornali e guardando certe televisioni) i Rom siano la causa di tutti i mali dell'ex Belpaese. A volte, insomma, i media creano dei 'nemici'.

La teoria del nemico. La validità della teoria è dimostrata dal fatto che il fenomeno si ripete, sempre uguale a se stesso, a tutte le latitudini. In Bahrein, per esempio. Con le stesse modalità. Un fatto di cronaca deprecabile, sia ben chiaro, scatena pulsioni incontrollate nei media, che morbosamente srotolano e riavvolgono il nastro dell'episodio criminoso, stando sempre ben attenti a sottolineare che l'autore del gesto è 'un rom', 'un extracomunitario' e così via. L'omicidio di Francesca Reggiani, il 1 novembre 2007, a Roma, da parte di Romulus Nicolaer Mailat, in un attimo è diventato l'omicidio del 'rumeno', come a trovare una chiave di lettura degna delle teorie del Lombroso, studioso che riteneva di prevedere la propensione al crimine di un soggetto dall'analisi dei suoi tratti somatici. Ecco che un'intera comunità, un intero popolo vengono tacciati di 'criminalità endemica'.
In Bahrein, da tempo, sembra che tutti i cittadini del Bangladesh siano un problema.
L'episodio di cronaca nera, anche in questo caso, non manca. Un immigrato bengalese, che vive e lavora ad Hamad, a sud di Manama, dove gestisce un'autofficina, ha decapitato un cliente del luogo perché non voleva pagare. Precisazione: in nessuno dei media del Bahrein è stato possibile trovare il nome dell'assassino. Era solo uno 'del Bangladesh'.

Dalla cronaca al razzismo. Fin qui un terribile fatto di sangue, un atto scellerato commesso da uno squilibrato che deve pagare il suo gesto. E invece no, perché i media e i politici incendiari (quelli sono l'ultimo ingrediente di questo cocktail esplosivo) cavalcano la vicenda. ''Chiedo che gli sia comminata una pena esemplare, che è la condanna a morte, e che sia giudicato in tempi rapidi dalla magistratura'', ha tuonato in Parlamento il deputato islamico Abdel Halim Murad, uno dei più accaniti sostenitori della 'pericolosità sociale' degli immigrati del Bangladesh, al punto da chiederne l'espulsione di massa dal Bahrein. Rashid bin Abdullah al-Khalifa, ministro degli Interni, ha deliberato la sospensione di concessione di visti d'ingresso a cittadini provenienti dal Bangladesh.
''Per ora abbiamo solo fermato i visti, non si è mai parlato di espulsioni di massa'', ha replicato il ministro alle accuse di violare i diritti umani dei bengalesi piovute sul Bahrein dalle ong di mezzo mondo, quando il quotidiano panarabo al-Sharq al-Awsat ha annunciato che la ricca monarchia del Golfo Persico si preparava a espellere i circa 90mila lavoratori immigrati dal Bangladesh residenti in Bahrein. Una comunità immensa che, negli ultimi anni, è stata protagonista di alcuni gravi fatti di cronaca. Da qui a colpevolizzare tutto un gruppo di persone la distanza è notevole.
Ma la teoria del 'nemico', purtroppo, funziona sempre. Se da una parte c'è chi cavalca i sentimenti più biechi della collettività, dall'altra c'è una collettività che si lascia cavalcare.
Fabio

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: i_companeros
Data di creazione: 22/07/2007
 

CAMMINA, CAMMINA...



Bello è ritornare... ma andare forse è meglio!!!
 

CAMMINA NEL SOLE...

Splendida canzone, maestoso duetto...


 

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