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Metafisica della Terra della Sera

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"Grande mago!"

Post n°144 pubblicato il 05 Marzo 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Laudatis temporis actibus. La tv di una volta sì, che era una cosa seria. Anche quando faceva intrattenimento. Da ragazzetto c’erano un sacco di cose che mi piacevano in tv, e c’erano un sacco di personaggi per i quali stravedevo. Mi sono rimasti “dentro”, come si suol dire.
Uno era Henry Salvador. Un altro, era Mac Rooney, il mago squinternato e surreale. Mi faceva impazzire. A me piaceva la vecchia tv.

E poi una sera guardo Zelig e vedo arrivare un tizio, Martin Scozzese (! “grande mago!”) che rifà le gag di Mac Rooney, pari pari. Che tenerezza. E se Pino Campagna (“ci sei? sei connesso?”) rifà il Lino Banfi pugliese incazzoso (ormai, giustamente, un classico), sempre a Zelig, Rubens rifà Felice Andreasi, e intanto Bonolis rifà Sordi e Totò, e coi suoi siparietti fa sembrare Sanremo il vecchio (e glorioso) Studio Uno. Grande successo popolare. Chissà perché.

Certo, la miglior tv è quella di Arbore, che più che rifare tutte insieme L’Altra Domenica, Cari amici vicini e lontani, Quelli della Notte e Indietro Tutta, fa dichiaratamente modernariato tv. (Magari la stessa mossa non riesce a Cochi e Renato, le cui esibizioni suonano fuori tempo massimo, anche se restano comunque su un altro piano rispetto a Maurizio Costanzo, la cui trasmissione al mattino ha un ritmo per cui potrebbe meglio essere intitolata “Mattinata al Geriatrico”, sottotitolo “Andiamo a trovare nonno”.)

Non si inventa nulla, pare. O forse, la tv ha un suo linguaggio fatto di immediatezza, di leggerezza intelligente, ricalcata sul carattere dei suoi protagonisti – Arbore mette in scena se stesso, dopotutto, come fecero Nanni Loy, Lele Luzzati, e in fondo tutti coloro che fecero la miglior tv del passato. McLuhan sarebbe d’accordo con questa idea.

Così, io non lo so se la tv attuale rappresenti lo Zeitgeist dei giorni nostri: il suo peggio, forse. Perché il meglio, quello sembra essere senza tempo.
 
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Il problema del fondamento

Post n°143 pubblicato il 02 Marzo 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Una volta chiesero ad Aristotele a cosa servisse la filosofia. La risposta, sprezzante ed orgogliosa, è rimasta nella storia: “la filosofia non serve a niente, perché non è una serva.”

Nel suo blog, Lilith ha aperto una riflessione che tocca un nervo scoperto della nostra società, come conciliare – per le donne, e per le famiglie – famiglie, figli e lavoro? Non è un problema semplicemente sociale, o sociologico. È una questione che via via la si affronta, tocca argomenti sempre più profondi, dipanandosi lungo sentieri che portano sempre più lontani, sino a toccare questioni fondamentali e fondanti, in modo persino sorprendente. È come quando, osservando una colata lavica, arriviamo a percorrere la struttura della Terra non solo arrivando a comprenderne la sua struttura intima, costitutiva, ma anche la sua storia, la sua origine, il suo passato, e persino ciò che sarà.
Il ruolo della donna, l’apparente schizofrenia e l’impossibile conciliazione tra mondi antitetici – quello della sfera privata e degli affetti; quello del lavoro e della produzione – ci dice molte cose sulla difficoltà del nostro tempo a dare una risposta univoca, concreta, credibile e praticabile, alla ricerca della realizzazione di sé.

Perché questo accade? Qual è la via per trovare la risposta?

Le buone risposte vengono dalle buone domande, ma le buone domande vanno correttamente istruite. Riflettere sulla risposta di Aristotele, tacere, ascoltando che dice, aiuta a porre la domanda. Dobbiamo cioè porre la domanda non pensando al suo senso utilitaristico, pragmatico, pensando cioè di trovare immediatamente la risposta come soluzione del problema, ma pensare al fondamento che essa richiama. E qual è questo fondamento di cui la domanda ci parla?

Uno dei temi fondamentali dell’intero percorso filosofico di Martin Heidegger – e di tutti coloro che si sono confrontati con lui – è proprio la questione del fondamento, dei concetti fondamentali (Grundbegriffe).

Il fondamento del nostro tempo è la tecnica. Che cos’è la tecnica? Con una buona dose di approssimazione, e facendo una notevole violenza alla ricchezza del termine (e delle analisi che sottende), possiamo intendere la tecnica come un modo di intendere il mondo come separazione tra le cose e ciò che esse significano per noi. Tradotto nel linguaggio dell’esperienza quotidiana, è quel modo di concepire il mondo come “oggettivo”, separato dalle interpretazioni “soggettive” che attengono a ciascuno. La scienza, l’economia, la matematica, sono le sue massime forme di espressione e di conoscenza. Una cosa è “vera” quando è “esattamente definita”, scientificamente dimostrata.

Edmund Husserl descrisse mirabilmente il sentimento di spaesamento che ci coglie di fronte alla “fredda” oggettività della conoscenza scientifica:

“Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto (…) Nella miseria della nostra vita (…) questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso.”

È quel senso straniante che ci coglie di fronte alla struttura del mondo del lavoro, un mondo nel quale non è il lavoro ad essere al servizio della persona, ma viceversa. È la logica dell’impresa, del profitto economico, dell’oggettività della produzione, considerati come misura esatta, oggettiva, ineludibile, imprescindibile, del valore e della “realtà”.

Perché questo accade, è questione lunga, e abbondamente affrontata nel pensiero filosofico del Novecento. Di certo, come diceva lo stesso Heidegger:

“Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona, e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra.”

Hegel postulò che il reale è razionale, e il razionale è reale. Hegel ha vinto, descrivendo ciò che è il nostro atteggiamento fondante. Ma sono passati duecento anni dalle sue affermazioni, e Heidegger sono ormai quattro decenni che ci ha resi avvertiti del fatto che

“Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.”

E ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca è l’assoluta inadeguatezza delle nostre categorie di pensiero, la loro schizofrenica contraddittorietà, di fronte alla vita che viviamo. In un certo senso, è anche ciò di cui parlavo nel (tremendo) post precedente.

Questo è il problema del fondamento. Il fatto che, come dice Galimberti, la tecnica ha cessato di essere uno strumento nelle mani dell’uomo, trasformando l’uomo in uno strumento guidato dalla tecnica. E la condizione femminile, la sua contraddittorietà, è una delle più evidenti manifestazioni di questo fenomeno.

Ripensare il fondamento, dunque. Questo dice la filosofia. Che non dà risposte, perché non è serva. Perché non è uno strumento. Perché non è una tecnica.

Ripensare il fondamento. Ma “i Greci impiegarono tre secoli per scorgere il sentiero dell’essere e noi dovremmo affrontare in un semestre le forme di pensiero all’altezza dell’evento che si sta imponendo.”

Non è di risposte che abbiamo bisogno, ma di saper porre buone domande. E le buone domande originano dal silenzio che sa ascoltare. No, la filosofia non serve a nulla. Non è una serva. Ma mai come ora, non è di servitù che abbiamo bisogno, di qualcuno che faccia il lavoro al posto nostro. È dell’umiltà di chiedere, e di saper ascoltare, ciò di cui abbiamo bisogno.
 
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Lo spazio del divino

Post n°142 pubblicato il 01 Marzo 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Da dove viene la parola? Da dove viene il linguaggio?
La parola, per stare alla sentenza di Eraclito, è la folgore che illumina e tutto governa.
Ma da dove proviene, questa luce?
Essa non è “le cose”, non è il loro senso. Non è la loro origine, e non è il loro fine.
Né tantomeno, essa contiene il significato, l’enunciazione, l’esplicitazione della sua origine.
Nella parola si fa la Verità – come Heidegger ci insegna: la Verità come aletheia, disvelamento – ma essa non è la Verità.
Da dove viene, dunque, la Parola? Quale arcano nasconde? Quale indicibile tace?
È riflettendo su questa semplice ma fondamentale ed eterna domanda, che si indovina lo spazio del divino.

In senso stretto, il divino è ciò che trascende l’uomo. È ciò che lo precede, e che lo sostiene.
Presso tutte le religioni, tutte le culture, l’esperienza del divino si coniuga nell’ascolto e nel silenzio. Solo quando la parola tace, infatti, è possibile udire il silenzio assordante che la circonda. Ponendosi in ascolto nello spazio angusto che sta tra la materia inerte e la parola che la fa diventare cosa – lo spazio in cui la parola si fa appunto poesia, cioè poiesis, produzione – si avverte il silenzio di quel che tutto precede. Il silenzio di ciò che non può esser detto, perché trascende il senso tutto umano del dire. Il silenzio dal quale sorge la parola, senza un perché dicibile, intelligibile, comprensibile.
Ed è un silenzio pieno di religioso rispetto, per ciò che non può esser conosciuto – ma in un senso del tutto diverso e anzi opposto al Dio lontanissimo e trascendente del tomismo e della scolastica.

La parola poetica è la parola autentica: la parola che si istituisce come significato.
La parola non può tutto, ma senza la parola nulla si compie: è per questo che la poesia appare investita dal soffio divino, e si compie come esperienza quasi mistica.
Perché in essa le cose si fanno, si compiono, e si illuminano della luce che ce le rende visibili, e intelligibili.
Nel suo dotare le cose di senso, la parola si rivela nella sua Differenza e ci rivela la nostra finitezza di uomini, il nostro esser finiti.
Essa cioè rende possibile il mondo, senza essere mondo, e tuttavia appartenendo ad esso. In questo, essa non rivela la sua origine: non il suo senso; non il suo fine. La parola si dà, semplicemente, come Dono, come apertura, come Rivelazione.

Ed è il segreto di questa Rivelazione che l’uomo ricerca, da sempre, da che è uomo e in quanto è uomo, in tutte le molteplici forme che gli sono consentite.
La parola illumina in quanto separa la luce dall’ombra, ma l’ombra permane, inesplorata e inesplorabile. Interrogando la parola, ascoltandola, l’uomo ne interroga l’origine nascosta, indicibile alla parola stessa.
Così, ogni volta che la parola ci rivela qualcosa di nuovo di noi, delle cose, del mondo, l’apprendiamo in virtù della meraviglia che ci dispone al suo religioso ascolto. Il senso del divino si manifesta nella meraviglia della conoscenza, che è riconoscimento del nostro limite.
Ed è per questo che l’esperienza del divino si dà ogni volta che il soffio della poesia si placa, e tace, e ci induce a riflettere.
Ed è per questo che l’esperienza del divino non si fa in parola, ma nell’ascolto di essa, alla ricerca del silenzio che la precede.
Ed è per questo che il senso del divino è connaturato al nostro esser uomini.

Ed è per questo che, rovesciando la celebre locuzione di Benedetto Croce per cui “non possiamo non dirci cristiani”, in un senso molto più ampio, profondo, costitutivo, io dico che possiamo dirci non credenti, ma non possiamo dirci atei.

 
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Ordinary people

Post n°141 pubblicato il 26 Febbraio 2005 da john.keating

Quel che non capisco - o che capisco benissimo - è perché una buona parte delle persone che usa il blog per accendere discussioni, poi non le sa reggere.
Immancabilmente, appena si mette alla prova le loro affermazioni, trascendono. E scattano gli insulti: intollerante è quello più usuale, immancabilmente utilizzato; nei casi migliori vengono usate perifrasi per significare "stronzo, testa di cazzo, rompicoglioni". Poi c'è chi passa a insulti più franchi, e chi come variante, urla. Talvolta, le due cose.
Eppure, hai solo provato a mettere alla prova le loro affermazioni, talvolta mettendone in evidenza la genericità; talaltra, l'intima contraddizione; altre ancora l'insostenibilità.

Dio scampi poi quando si prova a contraddire. Tutti questi campioni del libero pensiero (il loro) si dimostrano completamente fasulli come polemisti, visto che la loro vis polemica si limita a tacciare non si sa mai bene chi di vigliaccheria, meschinità, disonestà intellettuale, o peggio. Loro, gli illuminati, i retti, gli onesti, i giusti, i corretti, i superiori, le vittime della disonestà umana. Talvolta, si spingono nei blog altrui a sparger consigli di vita, con un tono tra il rassegnato e di chi la sa lunga su come va il mondo. Povere vittime.

A parole, figuriamoci!, sono la personificazione del rispetto per l'altrui pensare: somma virtù, sommo bene, madre di tutte le virtù.
All'atto pratico, il contraddittorio non lo sanno reggere: talvolta rifugiandosi in clinch con affermazioni talmente generali o fuori tema da risultare persino disarmanti nella loro pochezza. Non di rado, trascendono con allusioni personali, tese solo a squalificare l'avversario (ché tale è, mica un interlocutore...) sul piano personale. Nei casi peggiori, gli insulti arrivano ad essere i più bassi e vergognosi, a volte ripresi a distanza di tempo, in totale assenza del malcapitato e senza alcuna ragione apparente. Nei casi migliori, l'astio si manifesta al solo apparire di quello che è ormai in nemico.

L'arma finale di costoro è immancabilmente "il blog e mio e ci scrivo quel che mi pare". Cosa tengano i commenti aperti a fare allora, non si capisce.  
Quando proprio non si può fare altrimenti, allora abbassano il tono con un tono finto umile francamente irritante: "io che non sono colto come te...", giocando a fare i Bertoldo di turno, ma rivelando il fatto che, semplicemente, non hanno nulla da dire, e lo dicono pure male.
Corollario, naturalmente, il fatto che tu sia "solo" uno snob superbioso, un presuntuoso, un rompicoglioni in cerca di non si sa cosa.
neanche a dire che, per citare i presenti, in un anno di blog non mi è capitato mai nemmeno per sbaglio di usare un qualsivoglia epiteto offensivo nei confronti di nessuno di costoro. Anche quando sarebbe stato proprio sacrosanto.

Mandarli fuori giri sarebbe un gioco da ragazzi, se non fosse che costoro sono la peste dei blog: insozzano con la loro piccineria incazzosa, tolgono l'aria a qualunque confronto, irritano per la loro banalità vestita di supponente alterigia (e poi il presuntuoso sei immancabilmente tu, sempre!) fatta di niente e nutrita di vuoto.

Alla fine, parlare con loro viene a noia: non si conclude nulla, non ci si arricchisce di nessun altro pensare, e resta solo una desolante sensazione di pochezza e di supponenza irriducibile a qualunque confronto e refrattaria a qualunque ragione dialettica...

 
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Don Giussani

Post n°140 pubblicato il 24 Febbraio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Trovo sinceramente stucchevole l'unanime cordoglio che il mondo politico e culturale sta manifestando per la morte di Don Giussani. Tanto per non usare giri di parole.
Ora, che il cordoglio per la scomparsa di qualcuno sia un atto dovuto, l'ho messo persino come sottotitolo del blog. Ma una cosa è la scomparsa di un uomo, di una persona; altra cosa è la beatificazione post mortem dei suoi atti.

Personalmente, questa storia che tutti i morti sono uguali, non mi va giù. Sono uguali in quanto uomini, ma gli uomini sono tali innanzitutto e perlopiù perché producono significati. I loro atti, ciò che gli uomini compiono in vita, sono il senso stesso del loro essere umanità, così che ciò che un uomo ha compiuto in vita non può passare in secondo piano all'atto della sua scomparsa.

Don Giussani non era un santo. Non lo era. Il movimento che ha fondato e guidato ha avuto commistioni col potere politico pesantissime, collusioni con organizzazioni mafiose, ed è stato al centro di scandali economici e finanziari. Era un centro di potere che ha pesantemente condizionato la vita di questo paese, secondo una logica e un'ottica tutt'altro che largamente condivisa.

Ma al di là di questo, l'ideologia di Don Giussani era fermamente antimoderna, conservatrice e per certi tratti persino reazionaria. Esso si è battuto contro la modernizzazione dei costumi, contro le conquiste civili e sociali; era contro l'ideale illuminista e democratico largamente alla base del nostro concetto di "società civile".
Ed ancor più di questo, era per un ideale di religione tutt'altro che maggioritario, con dei tratti aggressivi, intolleranti, certamente e dichiaratamente integralisti. Se gli ideali di Don Giussani avessero preso il sopravvento, la nostra società avrebbe subìto una involuzione oscurantista, proibizionista, reazionaria, che non avrebbe tenuto in nessun conto delle diverse istanze e del diverso sentire e della diversa storia di una larga parte di essa.
Egli rappresenta molto di quello contro cui la parte più illuminata di questo paese si è battuta e si batte.

Mi spiace, non è morto un Santo. Morire è semplicemente una condizione fondamentale dell'Uomo. Ma questo non significa assolvere ciascuno dalla responsabilità delle sue azioni: queste egli è stato. Di queste si deve parlare. Di questo si deve giudicare.

 
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Canzonette

Post n°139 pubblicato il 23 Febbraio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

E poi ci sono le canzoni che sono indissolubilmente legate ad un film, ad una scena, ad una immagine. Canzoni che si sovrappongono al film, e film che te le richiamano immancabilmente, sistematicamente, automaticamente.
Ciascuno ha le sue proprie, s’intende. Le senti, e la gola stupidamente ti si serra, senza un perché; nemmeno il tempo di riportare alla coscienza, alla memoria, il senso del film: la canzone ti ha già preso, alla prima nota, e ti ha riportato in qualche tuo angolo del tutto personale, quantunque tutto appartenga a milioni di altre persone; e senza nemmeno il bisogno che il film racconti qualcosa di tuo, qualcosa di te. È soltanto una emozione, un sentimento che ti appartiene e che ti è caro. Che forse ti appartiene da sempre, o a cui appartieni come individuo, come essere umano, capace di passione.

Così, ti capita di riascoltare casualmente quella canzone, ed eccoti a cantarla a piena voce, in auto, come forma di liberazione, e forse di affermazione di te, di ciò che provi, e di ciò che sei.

Una è naturalmente Ritornerai di Bruno Lauzi, che non riesco a staccare dalla scena de La messa è finita, con cui la famiglia di Michele si ritrova – per un’ultima e definitiva volta – unita, a ballare sul terrazzo di casa: sarà quel senso di straziante e ineluttabile perdita, che pervade tutto il film, la perdita dell’innocenza originaria, riscattata solo nella stupenda scena finale, in cui, di nuovo, sulle note di Ritornerai, tutti gli invitati al matrimonio ballano in chiesa. La perdita, la riconquista della speranza.
Eppure, è solo un ostinato di piano, una melodia semplice e una voce che canta una speranza disperata e rancorosa…

E poi, Can’t Take My Eyes Off You, di Frankie Valli (o Andy Williams, o le Supremes… ma la mia preferita è la versione di Valli), e la scena del matrimonio de Il cacciatore, l’ultimo momento di disperata felicità, di fronte al destino che reclama il suo credito…
… e
« I love you baby
And if it's quite all right
I need you baby to warm a lonely night
I love you baby
Trust in me when I say...
»

Canzonette.

 
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"Childhood Dreams"

Post n°138 pubblicato il 22 Febbraio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

A volte, raramente, capita di essere colto alle spalle da una canzone. La melodia, l'arrangiamento, l'interpretazione, o tutto questo insieme, ti prendono e ti trasportano in qualche luogo del tuo spirito che non conosci, o che ti sembra nuovo, inusuale, inaspettato.
Ogni tanto accade. E la magia sembra ripetersi ogni volta che il brano riparte, quasi che la Grazia si conceda a comando e non più solo secondo i suoi disegni.

Non si tratta necessariamente di Capolavori - anzi solitamente si tratta di canzoni in cui ti imbatti per caso, distrattamente, e forse anche a motivo di questo ti scuotono e ti sorprendono anche di più.
Ma quando accade, sai già che ti accadrà per sempre, al di là del fatto che il brano possa essere legato ad un momento e ad uno stato d'animo temporaneo, o particolare, o sa il Cielo che cosa.

Non accadono spesso illuminazioni del genere. L'ultima volta, m'è successo ieri, con questo brano di Nelly Furtado, posto (significativamente?) in coda al suo secondo album, acquistato più per noia curiosa, e per sfida, che per altro.

Un intro di organo - sembra un inno ecclesiale - che si distende come sottofondo di chitarra arpeggiata, campane e arpe, a punteggiare una melodia urgente, alla Joni Mitchell diresti, cantata con voce purissima, sull'ottava più alta, e forte, e appassionata, e commovente. Un canto d'amore, che riecheggia sogni d'infanzia, niente di più di questo. Ma sei minuti e trentatré secondi di luce vera.

La voce del Divino sa scegliere gli interpreti sempre più inaspettati, per parlarci.

 
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Luoghi

Post n°137 pubblicato il 19 Febbraio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

« A me piace dimenticare, perché quando uno arriva in un posto nuovo osserva i minimi particolari, come il cielo, il colore delle case, il modo di camminare della gente, le maniglie delle porte: tutto insomma. Poi il luogo diventa familiare e non si notano più i particolari.
Perciò, solo dimenticandolo si può apprezzare il posto com’è nella sua realtà.»
David Byrne, True Stories

Sono molto legato a questo passo, riesce ad emozionarmi ogni volta, da anni.
Credo dipenda dalla profonda pietas che esso rivela, che esso racconta. Una pietas nei confronti delle cose, alle quali viene chiesta la loro ragione, il loro significato: accogliendolo, quando offerto; offrendolo, quando apparentemente mancante.
Mi piace questo passo perché racconta l’essenza del prendersi cura, che a sua volta è il segreto del rispetto, dell’ascolto, ed è ricerca di una comunione, di un colloquio, di una identità.

Esso rivela però anche una sorta di paradosso circa la conoscenza e la consapevolezza del significato dei luoghi.
Da una parte, il senso del luogo, cioè la somma dei suoi significati profondi può essere colto, vissuto appieno solo da chi lo vive, appunto; da chi lo abita. Essere straniero significa nient’altro che esserne estraneo, non vivere quell’affettività, quella profonda situazione emotiva (la heideggeriana befindlichkeit) che si coniuga in una appartenenza, in un esser se stessi, nel riconoscere se stessi nel luogo.

Dall’altra, l’esser se stessi in un luogo, l’appartenervi, sembra postulare la dimenticanza, la messa tra parentesi di questi stessi significati, quasi che esser se stessi sia innanzitutto e perlopiù dimenticarsi di se stessi.
Io sono il mio cuore che batte, il mio respiro che si distende, i miei organi di senso che percepiscono e mi raccontano; ma per esser questo, devo dimenticarmi d’essere un cuore che batte, un respiro regolare; per vedere devo dimenticare i miei occhi, e per percepire devo dimenticare la mia pelle.
Dopotutto, la condizione straniante della malattia consiste di questo: del portare alla consapevolezza l’esistenza di ciò che usualmente è dato per scontato, non percepito, non avvertito.
È ciò che sapeva bene Eric Dardel, quando scriveva:

« La realtà geografica esige una adesione così totale del soggetto, attraverso la sua vita affettiva, il suo corpo, le sue abitudini, che gli capita di dimenticarla, come può dimenticare la sua vita organica. Eppure questa vita continua, nascosta e pronta a risvegliarsi. L’allontanamento, l’esilio, l’invasione, fanno uscire l’ambiente dall’oblio e lo fanno apparire come privazione, come sofferenza o come tenerezza. »
L’uomo e la terra

E tuttavia, il paradosso è soltanto apparente. Ed ancora una volta, sono i poeti a dimostrarcelo. Quando un poeta canta la sua terra, la sua casa, racconta con parole nuove – o parole rese nuove – una condizione abituale, scatuisce un senso di intimità, di raccoglimento, che sfocia nella commozione. Ed è ancora, quella dei poeti, e degli artisti, la profonda pietas dell’interrogare ciò che usualmente vien fatto tacere, per raccontarci e renderci consapevoli del prezioso tesoro del nostro stare e di ciò che lo rende possibile.
E nel loro interrogare e rendere importante ciò che solitamente viene trascurato, essi ci insegnano una delle virtù più belle e preziose: la virtù dell’umiltà di fronte alle cose, e la capacità di stupirci ancora davanti ad esse.

 
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Post N° 136

Post n°136 pubblicato il 14 Febbraio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Proviamo ad immaginare un mondo senza fantasia, senza immaginazione. Ci riusciremmo?
Un mondo privo di parole come forse, chissà, magari, tuttavia, nonostante, però
P
roviamo a immaginare un mondo privo di pensiero astratto. Un mondo privo di concetti, in cui le cose si dànno: semplicemente, nella loro materialità e del tutto scevre e al di qua di interpretazioni possibili.

La foto rappresenta la ricostruzione al computer del volto di un piccolo di Neanderthal, realizzata dagli scienziati dell’Università di Zurigo.
Non è poi molto diverso, all’apparenza, da un fanciullo odierno, da uno dei nostri ragazzi.
Può essere che gli scienziati abbiano esagerato nel dargli una espressione un po’ perplessa, ed un po’ triste, certo dolce: una dolcezza ed un senso dello stupore i quali assai probabilmente erano sentimenti che gli erano largamente sconosciuti, nel mondo duro e concreto, molto più che “primitivo”, dei Neanderthal.
Di certo, a conoscere quel ragazzo – a conoscerlo davvero intendo, se mai è esistito un giovane Neanderthal di quelle fattezze – si resterebbe molto delusi, e molto stupiti, soprattutto.
Sicuramente, non ci intenderemmo con lui, o con i suoi familiari. E non tanto per l’ovvio fatto delle incomprensibilità delle rispettive lingue, no: proprio per l’uso del linguaggio.
Non sapremmo intenderci, con lui, semplicemente.

Nondimeno, quell’immagine emana un fascino, una suggestione tutta particolare.
Ma andando oltre a questa suggestione, che ci riporta ad un mondo in fondo a noi sconosciuto, e riflettendo su ciò che ci separa da quel fanciullo, possiamo trovare motivi di suggestione anche più profonda, che va al di là della distanza temporale che ci separa da essi.
Una distanza di ordine ontologico, che al tempo stesso prescinde e prevede – strano paradosso – la distanza genetica tra noi Crô-Magnon e loro, esseri spariti senza lasciare traccia né eredità alcuna, traditi dalla loro perfezione adatta ad una sola condizione: quella dell’ambiente in cui vivevano. Cambiato il quale…

Una distanza ontologica scavata da una concezione del mondo – la nostra, che già usare il termine concezione per il mondo dei Neanderthal sarebbe fuorviante – del tutto inarrivabile per essi.
Perché a separarci dai Neanderthal è certo la distanza genetica, ma che porta a quella strana capacità tutta umana che si chiama fantasia. E all’invenzione del linguaggio come differenza (Dif-ferenza, per stare al lessico heideggeriano), in cui esso esprime non già le cose stesse – questo albero, quell’animale, la pioggia, il vento – ma il Significato che esse hanno, per noi prima di tutto.
Perché questo era il mondo dei Neanderthal: il mondo del qui ed ora, in cui le cose esistono, e poi non esistono più.

Per noi uomini, tutto ciò è straordinario e quasi inconcepibile. Come non capire che un insieme di alberi forma un bosco, e che un gregge non è che tante e tante pecore tutte insieme?
Eppure, occorre una sopraffina, straordinaria, spaventosa, inaudita e unica capacità di astrazione, per vedere al di là di ciò che gli occhi vedono, che le orecchie odono e il tatto rivela. La eccezionale capacità di vedere al di là di ciò che è. La capacità di vedere ciò che le parole creano, che il Linguaggio istituisce. Sta in questo, nient’altro che in questo, il nostro esser uomini, la nostra umanità.
Se mai vogliamo capire come sia il Linguaggio a creare le cose, un dialogo con un Neanderthal sarebbe una interessante esperienza. Perché tutto ciò che diremmo gli suonerebbe incomprensibile: esso indicherebbe la realtà, mentre noi creiamo significati, incessantemente. Ed il Significato è un qualcosa che andrebbe al di là della sua comprensione.

Proviamo ad immaginare un mondo privo di fantasia, di immaginazione.
Un mondo privo di aggettivi – senza immaginazione come si può discernere le qualità delle cose? Discernere la qualità dalla cosa che la porta, che la regge, che la espone, ma che riusciamo a concepire benissimo al di là della cosa stessa. Vista in questa luce, l’idea kantiana di una mitica “cosa in sé”, il noumeno nascosto e inarrivabile al Linguaggio, risulta in tutta la sua primitiva ingenuità.
Riusciamo noi a pensare un mondo di soli nomi concreti, in cui il linguaggio sia cosa tra cose, in cui non esista la Dif-ferenza tra le cose e il linguaggio che le carica di significati?
Un mondo privo di immagini, ché senza capacità di astrarre forme e colori dalla sostanza delle cose, nessuna raffigurazione è possibile? Sarebbe un mondo privo di rappresentazioni, privo di metafore, quindi privo di riflessioni.
Un mondo privo di pensiero astratto, è un mondo privo di significati. È un non-mondo. È puro ambiente, ed il mondo è un qualcosa di ben altrimenti complesso: è l’insieme delle cose e del significato che esse hanno. E il Linguaggio è questa Dif-ferenza.
Un mondo nell’Ombra; e i Neanderthal, i suoi abitanti, sono esseri dell’Ombra, non-uomini.

Eh sì, il Linguaggio illumina l’Ombra…

 
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La soglia di casa

Post n°135 pubblicato il 13 Febbraio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Quando Ulisse rimette piede per la prima volta nella sua reggia, nelle mentite spoglie di mendico miserabile e vecchio,

“sedette sulla soglia di frassino, oltre la porta,
appoggiato allo stipite che da un cipresso il mastro un tempo
spianò a regola d’arte e fece diritto col filo.”

Ulisse non entra in casa. Si ferma sulla soglia. Sulla soglia di casa.

La soglia di casa.
È un luogo in un certo senso magico, la soglia di casa: in senso stretto non è nemmeno un luogo. È piuttosto un accadimento, una trasformazione. È un passaggio, che mette in comunicazione due mondi, e ha il potere di trasformarci, di renderci diversi.
È un’osmosi, la soglia di casa, è un passaggio osmotico: superandola per entrare, ciò che è dentro di me, ciò che mi appartiene nel senso più intimo e profondo e mio, esce e si fa ambiente. Attraversando la soglia di casa, entrandovi, proietto al di fuori il mio mondo interiore: io sono la mia casa, in un certo senso; o meglio, la mia casa è ciò che io sono: i miei affetti, la mia sicurezza, ciò che mi concerne e mi interessa.
Per questo Ulisse si ferma sulla soglia: non può entrare nella sua casa, perché pur appartenendogli, pur desiderandola ardentemente da anni, non può essere se stesso in essa. Non ne resta fuori, perché il desiderio lo spinge dentro; non vi entra, perché essa lo respinge, lo ferma al suo limitare.

Non c’è circostanza più difficile, io credo, del non poter esser se stessi, a proprio agio, in casa propria: quando l’ansia, le preoccupazioni che mi possiedono, non possono essere manifestate nella mia casa; quando sono costretto a tenerle dentro di me, provo un senso di disagio che sconfina nell’angoscia: l’angoscia di un mondo che mi costringe dentro me stesso, che mi rifiuta, che – in un certo senso – mi chiude fuori. Ed è allora che la soglia di casa perde la sua magia, il suo potere taumaturgico.

Fuori. Dentro.
È attraverso la soglia che posso aprirmi al mondo, e partecipare di esso, uscendo; è attraverso la soglia che permetto al mondo di partecipare di me stesso, entrando.
Io non so cosa sia “essere me stesso”, ma qualunque cosa sia, è nella soglia di casa che posso avvertire, vivere, la percezione della differenza tra il mio mondo interiore e ciò che di me mostro agli altri – o ciò che gli altri, nel vasto mondo, mi fanno essere, o mi costringono, ad essere.

La porta può essere chiusa, e può essere aperta, ma la soglia non è niente di tutto questo.
La soglia protegge e preserva; la soglia mette in comunicazione, mantenendo la distinzione tra dentro e fuori, ammantandola di sacralità inviolabile: è il limitare che prescinde qualunque intenzionalità.
E quando oltrepasso una soglia altrui, mi pervade un sacro rispetto per l’Altro che mi fa parte del suo mondo. Fino ad un attimo prima, all’esterno, l’Altro è un mio pari: quando supero la soglia della sua casa, egli diventa un’altra persona, e avverto il suo sentire, la sua intimità in ogni oggetto e angolo che colgo con la vista o supero coi miei passi.
Camminando nelle sue stanze, è come camminare nella sua anima: ed ogni parola, ogni sguardo, ogni gesto, mi sembrano inappropriati, violenti, e solo una prolungata intimità con lui mi toglierà, nel tempo, questo disagio che prescinde da ogni altro sentimento. E che sparirà solo varcando di nuovo, nell’altro senso, quella stessa soglia…

« … Silenzioso entra il viandante;
il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
sopra la tavola pane e vino. »

 
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Post N° 134

Post n°134 pubblicato il 09 Febbraio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Odissea, Libro Vigesimoterzo

« Ormai la spada di ferro ha compiuto
il dovuto lavoro della vendetta;
ormai i dardi crudeli e la lancia
il sangue dei perversi hanno versato.

A dispetto di un dio e dei suoi mari
al suo regno e alla regina è tornato Ulisse,
a dispetto di un dio e dei grigi
venti e della furia di Ares.

Nell'amore del letto condiviso
dorme l'illustre regina sul petto
del re, ma dov'è quell'uomo

che nei giorni e notti dell'esilio
errava per il mondo come un cane
e diceva che Nessuno era il suo nome? »

Jorge Luis Borges

Già, dov'è quell'uomo che siamo stati?
Forse, mai come in questi versi è racchiuso il senso profondo, ed il fascino inesauribile di Ulisse: egli è ciascuno di noi, ed il suo viaggio è il nostro viaggio, quello che ciascuno di noi compie nella sua vita.

Ma dov'è quell'uomo, che errava per il mondo come un cane?
Ulisse è tornato a casa, finalmente: il viaggio è compiuto, il tepore e il conforto del talamo è riconquistato.
Ma Nessuno, dov'è?

Dov'è quell'uomo?
E dove sono, io, ora?

 
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Post N° 133

Post n°133 pubblicato il 08 Febbraio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Forse la poesia andrebbe letta, se mai fosse possibile, al buio. E certo al buio andrebbe meditata.
Non per un atteggiamento di romantico abbandono, no. Affatto. Non è questo.
Piuttosto perché nel buio l’immagine delle cose non si possono sovrapporre alle parole che le evocano. Perché è nel buio che le parole suonano più splendenti, e illuminano – come splendida metafora e al di là di essa – l’opaco mondo del quotidiano.
Perché nel buio le parole ritrovano il loro elemento originario, l’Ombra da cui provengono.
Non sarà un caso, una bizzaria del destino, una combinazione degli eventi, se il più grande poeta del Novecento era cieco. (Il Novecento, il Secolo della riflessione sulla Parola, e della riflessione sulla natura fondatrice del Linguaggio). Non sarà un caso se la Luce della sua Parola risplende grazie al buio dei suoi occhi.

Un cieco

« Non so qual è la faccia che mi guarda
quando guardo la faccia dello specchio;
non so che vecchio guati nel riflesso
con silenziosa e ormai stanca ira.
Lento nell’ombra con la mano esploro
il mio volto invisibile. Un baleno
mi sorprende. Ho intravisto i tuoi capelli
che sono cenere ma anche oro.
Ripeto che ho perduto solamente
la vana superficie delle cose.
Il conforto è di Milton è dà coraggio,
ma io penso alle lettere e alle rose.
Penso che se vedessi questo volto
saprei chi sono in questa strana sera. »

Jorge Luis Borges

Sono le parole a tastare le cose nel buio del significato; a indovinarne il perimetro e la forma; la consistenza e la superficie. Sono le parole a disegnare i contorni del significato che esse hanno per noi: la vana superficie delle cose che porta a credere ch’essa racconti la loro importanza.

La “strana sera” dell’Occidente, la Terra del sera. La Terra del declinare, la Terra dell’abbandono. Abbagliati dalla falsa luce in cui vediamo le cose, siamo ciechi alla Luce delle parole; e viviamo perciò una Terra dalla sera perenne. E come abbiamo bisogno del buio per vedere la luce delle stelle e dei Celesti, così abbiamo bisogno del buio per vedere la luce del Linguaggio.

Solo un cieco poteva cogliere lo splendore delle parole, solo un cieco può guidarci nell’esplorazione della loro comprensione, e della comprensione del mondo cui danno forma.

 
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Post N° 132

Post n°132 pubblicato il 06 Febbraio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Una delle mie poesie preferite di Montale è Ho sceso, dandoti il braccio…, dedicata alla moglie, poco dopo la sua scomparsa.
È una poesia famosa: parla di condivisione, di amore; di solitudine indotta, di ricordi e rimpianti. Di una mancanza, di identità smarrita.

« Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
Le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
Non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
Le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue. »

È una poesia straziante, apparentemente, nel suo omaggio alla compagna perduta, per sempre, irrimediabilmente. Una solitudine certo incolmabile, inconsolabile: una esistenza strappata a sé, che lacera l’anima sino a perdere la propria identità, e non prevede elaborazione del lutto possibile…

Eppure…
Eppure a modo suo è una poesia positiva, persino consolatoria, o forse straziante in modo diverso.
Quanti potrebbero scriverla, a consuntivo della propria esistenza? Quanto provano realmente il senso di condivisione profonda – i suoi occhi che diventano i tuoi, il braccio da porgere che viene raccolto, il mutuo senso di appartenenza e di soccorso davanti alle urgenze del quotidiano – che essa racconta?
Quanti hanno la fortuna, ché di questo si tratta, di costruire la propria vita con quella di un Altro?

Sì, parla di un Amore che non c’è più, questa poesia, di un Amore che manca, che lascia un vuoto incolmabile, che strazia a motivo della sua Assenza.
Ma un Amore che ha dato senso, che ha donato vita. Un Amore per cui essere grati.

Fortunato chi potrà identificarsi, in questa poesia.

 
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Post N° 131

Post n°131 pubblicato il 03 Febbraio 2005 da john.keating

Dunque c'è questa sentenza di un giudice di pace di Torino, che ha annullato l'espulsione di un giovane senegalese irregolare, perché gay, e che per questa ragione, se fosse tornato in patria sarebbe stato incarcerato.
La sentenza applica un articolo della (famigerata, e per il resto largamente inapplicabile e inapplicata) Bossi-Fini, che recita: "in nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, sesso, lingua, cittadinanza, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali, ovvero possa richiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione". Non che quaesto articolo sia un rigurgito di tolleranza e civiltà: semplicemente, deve rispettare l'articolo 10 del dettato costituzionale.

L'onorevole ministro Calderoli (Lega, occorre dirlo?) ha commentato in modo aulico: "Siamo il paradiso dei finocchi."
Si sbaglia. Siamo il paradiso dei bulli da bar. Solo da noi possono diventare addirittura ministri.

 
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Post N° 130

Post n°130 pubblicato il 02 Febbraio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

E allora c'è questo sito, www.humanclock.com, che propone l'orologio umano, foto che rappresentano i minuti dell'orologio: ogni minuto, una foto (ma in realtà, le foto sono cinque o sei volte tanto). Foto scattate in tutti gli angoli del mondo, dalle persone più diverse e coi soggetti più vari e fantasiosi. Un curioso, pittoresco effetto-patchwork, qualcosa che apparentemente sta la goliardata di dimensioni mondiali e il dadaismo up-to-date.

Entri nel sito, e l'effetto è quello di partecipare ad un carnevale, in cui la fantasia, la bizzarria, l'originalità un po' folle ed un po' guascona, sono sfrenate. E a cui si è chiamati a prender parte in prima persona, inviando le proprie foto, le proprie soluzioni, il proprio contributo.
Ma subentra subito un diverso sentire, un senso quasi di inquietudine, una specie di tensione, che si accentua passando alla visione dell'orologio (proposto nella doppia versione, analogica e digitale).
Non si tratta più di un carnevale della ragione, di una mascherata; di una raccolta di vaccate ilari, e di amene scempiaggini.
Dietro a quei volti ridenti, a quelle pagliacciate, si coglie un senso di partecipazione ad un gioco ben più importante, urgente: il gioco del Tempo.
Dietro a quelle immagini colorate, originali, si avvertono menti, sensibilità, riflessioni, di persone che pensano al Tempo, che lo vivono riflettendo su esso, che lo interpretano.

Il Tempo, nell'ermeneutica post-heideggeriana, è il Tempo dell'Altro. Affermazione ponderosa e poderosa, che merita miglior studio.
ma che, nella sua essenza, è mirabilmente esemplificata da questo gioco di società che è il rappresentarlo nella sua dimensione matematica e quotidiana. Il tempo che scorre, il tempo che passa.

Non lo so. C'è un qualcosa di commovente in tutte quelle persone che per gioco, per celia, divertono se stesse cercando di divertire noi, rappresentando ore e minuti di una giornata. C'è un senso di partecipazione, di disponibilità, di gioia immotivata e sincera, un moto di affetto verso chiunque.
Un modo per dirci che, anche di fronte al tempo, non siamo soli.

 
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Post N° 129

Post n°129 pubblicato il 31 Gennaio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Ad A., che sa di cosa parlo, ed a tutti quelli che... beh, ci siamo capiti

Quando voglio farmi veramente del male, ascolto Rod Stewart. Ho praticamente tutto quello che ha inciso tra il ’69 ed il ’76, con Jeff Beck, i Faces, e soprattutto, soprattutto, da solo.
È una bella idea, a pensarci, quella di scegliere della musica per farsi del male. Dopotutto sono convinto che molta gente lo faccia abitualmente, in un modo o nell’altro. Chi ascoltando musica francamente orrenda (e non per cattivo gusto musicale, ma proprio nella consapevolezza di ascoltare cose brutte, o volutamente ostiche); chi ascoltando musica che gli ricorda momenti molto tristi che farebbe meglio a dimenticare; e chi momenti molto belli e dolci, che farebbe meglio a dimenticare anche di più (e mi ci metto anche in questa categoria).

In realtà, la sofferenza indotta da Rod Stewart è di un grado diciamo così ontologicamente superiore. Non mi riporta a niente – anche perché, pur avendomi sempre divertito il personaggio, e la sua voce – ho scoperto le sue cose migliori in età già un po’ avanzata, dopo i trenta insomma. E sono anche convinto che un motivo ci sia.
No, la musica di Stewarty fa male di per sé, a patto naturalmente di esserci portati: di apprezzare il genere per cominciare, e di esser disposti a farsi far del male da una canzone. Io ci sono portato, è un fatto.

Perché di canzoni che fanno male nei suoi dischi ce ne sono almeno tre per disco.
Prendiamo Farewell, da Smiler – forse il disco più debole del periodo. C’è questa melodia scozzese, su un tempo veloce, mandolino e tutto il resto, apparentemente allegra, solare, gioiosa, ma parla del suo addio alla casa natale, al fratello, alla sorella, alla prima fidanzatina, all’ambiente provinciale, per diventare una rock’n’roll star.
E quella melodia che nel suo andar su e giù, scava scava, scava dentro. E l’allegria si trasforma in nostalgia, in malinconia, e quando la canzone finisce, e finisce la bellezza della melodia, ti resta un senso di rimpianto che maledizione non sai per cosa o per chi; e se ti va, lo puoi incollare a chi ti pare, a chiunque tu abbia perduto, e alla parte di te che hai perduto con lui.

E che dire di Maggie May, la sua canzone più (giustamente) famosa, la storia dell’amore tra uno studente ed una prostituta. Una delle rock ballads per eccellenza, ed ancora una melodia che disegna quel senso di malinconia, di ineluttabile perdita, vissuta con la serena consapevolezza della inevitabilità del tutto.

E You Wear It Well, e Lost Paraguayos, e Cut Across Shorty, e Mandolin Wind, e Blind Prayer, e Handbags & Gladrags, e I Wouldn’t Ever Chance a Thing, e Cindy's Lament, e…
Tutte con quella tensione, quella tristezza di fondo, nascosta tra le pieghe di melodie così ariose da sembrare persino solari.
Tutte melodie cantate da quella voce così terrena da ricordare il nostro esser concreti, il nostro esser carne e sangue, che ti portano in qualunque posto, luogo dello spirito tu voglia, in cui godere del piacere di soffrire, di godere di una canzone sino a star male per non riuscire a fermarne l’intima essenza, per non riuscire a farti melodia a tua volta, e sparire, nell’aria, come e insieme all’ultima nota, magari per tornare con lei nell’Ombra da cui essa proviene, da cui senti di provenire, cui senti di essere appartenuto, di appartenere ancora, ma le cui porte inesorabilmente ti si chiudono allo spegnersi dell’ultimo suono. E resti, lì, da solo, con la nostalgia di quel che hai vissuto, di quel che sei stato e non sei e non sarai mai più.

Quando ho voglia e bisogno di straziarmi l’anima, vado da Stewarty. So di trovare quel che cerco.

 
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Post N° 127

Post n°127 pubblicato il 27 Gennaio 2005 da john.keating

Diciamo le cose come stanno. Mi sono stufato. Del blog e di quasi tutto il resto.
Per cui la cosa, almeno per il momento, finisce qui.

Buone cose a chi se le merita.

 
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Post N° 126

Post n°126 pubblicato il 19 Gennaio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Questa è da raccontare. Mettiamola alla voce “Vita vissuta”. Sottotitolo: ma che gente c’è, in giro?

Mi arriva in messaggeria uno sfottò, da una utente mai sentita (se ne tacerà il nome, com’è naturale).
Dice grossomodo che sono più decrepito di lei e che la foto potrebbe non rappresentarmi, o qualcosa del genere.
Boh, di gente che si diverte così ce n’è: la pratica medica consiglia di assecondare, e l'esperienza in merito conferma.
Rispondo più o meno, e sorridendo, che magari la foto non è recentissima, e in effetti risale a tre anni fa.
La controrisposta non si fa attendere: dice che è quello che anche lei aveva supposto.

Fine delle trasmissioni.

Oggi, a distanza di due o tre giorni dal fatto, leggo questo messaggio da parte della medesima utente:

« ma dico... ma che modi sono? voglio dire, era chiaro che stavo sbagliando persona... che ti avevo preso per qualcun altro...perchè darmi corda? io queste cose non le sopporto affatto, come se qui fosse una terra di nessuno priva di responsabilità di sorta verso il resto del genere umano... bah... avete la stessa immagine sul blog, qualcosa nello stile, la firma in calce alle lettere.. non sono rincoglionita, volevo provocarlo, scherzare, ma se ci fosse stato altro, di più serio... io non sono capace di prendere in giro qualcuno, e poi, che divertimento c'è?»

Trasalisco. E poi rispondo:

«Ascolta bene.
Sei venuta nella mia casella di messaggeria, da perfetta sconosciuta, provocandomi e sfottendomi. Mi sono limitato a risponderti educatamente sul tono.
Ora te ne vieni fuori con questo... messaggio (chiamiamolo pure così).
Educazione vorrebbe che ti scusassi per l'equivoco, spiegandolo, e non imputando al malcapitato che l'ha subìto la tua avventatezza.
Non so di chi e di che parli, e meno mi interessa saperlo.
Mi piacerebbe, però, questo sì, che chi entra in casa mia si attenesse alle regole della buona creanza con le quali è accolto. Tanto qui, quanto nel mondo reale, dove si dimostra che non c'è poi questa gran differenza tra le due cose.

"Darmi corda"... siamo un po' pieni di noi stessi eh, o sbaglio? Mi hai mandato due messaggi. Al primo ho risposto educatamente, al secondo nemmeno quello.
Questo lo chiami "dare corda"? Bah.
»

Non contenta, l’utente replica:

« se è il tuo modo di dire "mi spiace, non avevo intenzione" prendo atto e finisce qui

se è davvero, come sembra, un tentativo di insegnare l'educazione a una sconosciuta (che qui è tanto a casa sua quanto lo sei tu e che magari non ha il minimo, più vago, più pallido bisogno di stabilire territori e possessi), preferisco non definirlo e finisce qui

se è qualcos'altro, finisce qui »

Roba da non credere… Non mi esimo dalla replica finale:

« "Mi spiace"? "Non avevo intenzione"??? Ma di che parli? Tu farnetichi.
Mi hai preso per un altro, e già questo oltre ad essere poco gratificante per me, indica la tua perspicacia.
Mi sfotti in modo anche pesante, e poi pretendi di darmi lezioni di comportamento perché non avrei capito che stavi sbagliando persona? E ancora ti aspetti TU delle scuse DA ME?
Questa è da raccontare.

Sei stata scortese, inopportuna e supponente, questo è quanto. E non hai nulla da definire, oltre a questo.
Grazie a Dio finisce qui.
»

 

Ora, io veramente non ho parole…
Cioè, una sbaglia persona (e già il modo in cui aveva approcciato me o costui, lascia intendere molte cose), ed è colpa del suo interlocutore non capire l’errore? Ma non esiste una cosa chiamata responsabilità personale?
Io… io non lo so… Sono sbalordito.
C’è gente che per il fatto di essere in rete crede di potersi permettere qualunque comportamento – perché mi auguro che nei rapporti interpersonali diretti si regoli un po’ diversamente, ma non ne sarei poi tanto sicuro, anzi…

Graditi commenti.

 
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Post N° 125

Post n°125 pubblicato il 18 Gennaio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Cerco di emergere a fatica da una persistente influenza - tre giorni a 38° fissi: sarei la felicità di qualunque giocatore del lotto. Il termometro si è stufato di indicarmi la temperatura: mi guarda con l'aria di compatimento dovuta a chi fatica a realizzare le cose.

Trovo vari e variegati commenti al post precedente. Ognuno la vede a suo modo, come è giusto e bello che sia.
Io naturalmente continuo a pensare che la Musica sia e resti una sola. Semmai sono i significati che ci appiccichiamo su, ad essere infiniti.

Che la Musica sia di volta in volta allegra, drammatica, scherzosa e quant'altro, sta nella sua natura: essa proviene da quella parte primordiale di noi non ancora toccata, organizzata dalla Logica, dalla Ragione. La Musica viene dall'Ombra, appunto, ed è la parte di noi che meno conosciamo, la parte ferina, istintuale, oscura, onirica.

Poi, con l'elaborazione dei concetti, la facciamo diventare qualcos'altro: la manifestazione di un valore, l'espressione di un significato, un simbolo...
Ed è allora, quando cade sotto la ragnatela dei concetti, quando la Musica cessa di essere manifestazione dell'Ombra per diventare un prodotto culturale, che essa perde il suo potere tremendo di perderci, di trasportarci lontano e indietro.
Che altro è dopotutto la cultura, se non il tentativo della Ragione di sottomettere il Mondo e le sue forze oscure, irrazionali? (curioso termine, irrazionali: semplice antitesi al Razionale che, con Hegel, riteniamo essere la condizione del reale).
Una volta che la Musica ha assunto un valore culturale, cessa di parlarci delle nostre oscurità, e diventa poco più che merce, etichetta, oggetto di studio, di riflessione; diventa conoscenza da esibire, marchio di cui fregiarsi, vestito da indossare. Animale allo zoo.

Ed è allora che abbiamo bisogno del potere salvifico dell'ironia, per rovesciare le sovrastrutture imposte, le convinzioni che lasciano il tempo che trovano (i Genesis valgono più di Goldrake, Ninfea? Ma dai? E Brahms a che punto sta della graduatoria? E Frank Sinatra? Ci sarà una top ten, immagino: Mozart e Beethoven venti settimane nella classifica dei dischi caldi... rido. E ridi anche tu!).

Curioso. Non c'è religione al mondo che abbia previsto il ridere come struttura del divino. Non c'è. Il sorriso - sempre di vago compatimento, magari - ma il ridere mai. Così come nessuna ideologia, pratica di vita, filosofia. (No, neanche Bergson, tranquilli. Lui si è limitato a spiegare perché si ride).
Il ridere è destabilizzante infatti. Mette in discussione le certezze, capovolge le convinzioni, turba la serenità (strano a dirsi eh?).

Applicato alla Musica, il ridere mostra tutta la ridicola fragilità, tutta la pomposa supponenza, tutta la vacua indeterminatezza, delle classificazioni. Assistere ad un concerto come predisporsi ad un rito: emozioni già previste, preconfezionate. Una celebrazione, non una Rivelazione. Tutto è già stato detto, tutto è stato compreso, spiegato, classificato, incasellato. Tutto tenuto rigorosamente a bada dai ferrei scherani della Ragione. Un Carnevale previsto e concesso: in questo passaggio ti puoi commuovere, qui puoi esaltarti, qui lasciarti trascinare del lirismo. Fine.

Il potere creativo dell'ironia gioca sul fuori contesto, costringe a ripensare alle nostre classificazioni per quel che sono. Giochetti di società. "Io ascolto il jazz" (mecoioni!). "E io ascolto Goldrake" (ah, che merdaccia...)

Boh?

Uno che ho sempre ammirato da questo punto di vista è Mike Oldfield.
Al di là delle sue opere maggiori, che hanno accompagnato la mia esistenza dalla adolescenza ad oggi, ho sempre riso come un matto al suo humor molto molto british, che lo portava a reinterpretare arie e romanze celebri (In Dulci Jubilo di Bach, Don Alfonso - un allegro sfottò di quello mozartiano, il Concerto in Do di Vivaldi, l'Ouverture del Guglielmo Tell di Rossini...) con la massima serietà - meglio: nel modo più compassato - e con arrangiamenti che pur mantenendo apparentemente tutto dello spirito originale, ne minavano alla base ogni credibilità "seriosa", tra un mandolino, una squillante ed impertinente chitarra elettrica, un piffero ed un cantato squinternato.
Ironia pura, appunto, e pura ironia.

Io ci sono cresciuto, con queste cose qui. Ed è probabilmente anche grazie a loro, che ho un profondo senso del Divino, ma un senso del Sacro piuttosto relativo...
Sorrido.

 
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Post N° 124

Post n°124 pubblicato il 15 Gennaio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Per ragioni generazionali non sono mai stato un fan dei cartoni animati giapponesi, Goldrake e Mazinga in primis. Probabilmente gioca anche il mio innato snobismo, anche se - date adeguate condizioni e circostanze - potrei diventare un fan di qualunque cosa, come in effetti spesso è accaduto.

Ma la di là di questo, mi ha meravigliato, nel senso proprio di aver suscitato meraviglia, la versione Kings of Convenience-style di Goldrake, realizzata da (tal) Alessio Caraturo.
Io conoscevo poco e male l'originale, e l'attacco di chitarra acustica, voce sommessa, aria lenta, sognante e malinconica, seguita da un attacco di violini, mi ha sconcertato non appena ho realizzato di cosa parlasse il testo,

Vai contro i mostri lanciati da Vega
vai che il tuo cuore nessuno lo piega...

Beh, geniale, che devo dire? E non è nemmeno una brutta canzone, tutt'altro. E dà da pensare, volendo...

Del resto, di faccende simili è piena la storia della musica e delle canzonette.
Per stare alle sigle dei cartoni tv, prendiamo Anna dai capelli rossi, brano ripreso e rifatto pari pari dai (mitici, ormai possiamo dirlo) Boney M, come Rivers of Babylon.

E la cosa davvero curiosa è che nessuna delle due versioni è quella originale.
Tutte e due sono infatti rifacimenti di un brano più vecchio: una canzone tradizionale russa, tradotta anche in italiano, e il cui testo recita

Avanti o popolo, alla riscossa,
Bandiera rossa! Bandiera Rossa!...

 
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