I #TASSI DI INTERESSE #BANCARI DEVONO ESSERE SPECIFICAMENTE APPROVATI DAL #CORRENTISTA

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Il Tribunale di Ferrara con la sentenza n. 602/2017 interviene sull’annoso dibattito concernente i tassi di interesse di un contratto di conto corrente.

La sentenza de qua decide sulla controversia derivante da opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dalla Banca ai danni di una società a responsabilità limitata.  Con ricorso ex art. 645 c.p.c.  il ricorrente ha dedotto la nullità della clausola di rinvio agli “usi su piazza” nonché la conseguente applicazione illegittima degli interessi ultralegali in assenza di valida pattuizione e la violazione delle norme in tema di anatocismo e usura.

L’opposta eccepiva riguardo la clausola di rinvio agli usi su piazza che, se è vero che tale clausola è da ritenersi nulla in seguito all’introduzione delle norme sulla trasparenza bancaria, devono ritenersi applicabili gli interessi legali ai sensi dell’art. 1284 c.c fino alla data in cui le parti avrebbero fissato il tasso.

L’opposta peraltro sosteneva che avendo, la società ricorrente, richiesto nel marzo 2001 la diminuzione dei tassi applicati, non può escludersi che essa fosse a conoscenza della loro misura.

Il Tribunale, per quanto è qui di interesse ha chiarito che la clausola di rinvio agli usi di piazza, – contemplata nella maggior parte dei contratti di conto corrente sottoscritti prima del 1993 perchè inserita nei modelli contrattuali ( formulari prestampati ) utilizzati dalla maggior parte degli Istituti di credito italiana – a seguito della Legge sulla trasparenza bancaria (Legge n. 152/1992), è da ritenersi nulla, e che tale nullità è da estendersi altresì ai contratti stipulati anteriormente alla novella normativa poichè il rinvio agli usi di piazza è da ritenersi eccessivamente generico e non fornisce criteri che consentano una oggettiva determinabilità del tasso di interesse convenzionale.

Ed invero, prosegue il Tribunale, la regola della pattuizione per iscritto dei tassi e delle condizioni se può ritenersi osservata anche quando la manifestazione di consenso delle due parti non sia contenuta nello stesso documento contrattuale, richiede, comunque la prova dell’accordo scritto tra le parti, prova del tutto assente nel caso in esame. Deve quindi ritenersi opportunamente applicato il ricalcolo applicato dal CTU, il quale ha adottato la capitalizzazione trimestrale, quale tasso pattuito solo a partire dal 30.10.2008, mentre per il periodo anteriore è stato correttamente applicato il tasso sostitutivo previsto dall’art. 117 TUB con capitalizzazione semplice, in luogo del tasso contemplato dal codice civile, come avrebbe voluto l’opponente, atteso che, versandosi in ipotesi di nullità assoluta della clausola contrattuale, la norma introdotta dalla legislazione speciale, anche se successiva alla stipula del contratto, deve ritenersi prevalente.

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Responsabilità Professionale dell’Avvocato

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L’AVVOCATO RESPONSABILE PER COLPA SOLO SE IL RISULTATO SPERATO ERA ALTAMENTE PROBABILE

Sul sempre attuale tema riguardante la responsabilità professionale dell’Avvocato  si è espressa la sentenza n. 2102/2017 della Corte d’Appello di Milano la quale interviene in secondo grado a dirimere la controversia insorta tra un avvocato e il proprio cliente.

L’Avvocato in questione aveva chiesto e ottenuto dal Tribunale di Sondrio decreto ingiuntivo per il pagamento di prestazioni professionali, cui seguitava opposizione ex art. 645 c.p.c. ritenuta infondata dallo stesso Tribunale di Sondrio.

Avverso detta sentenza di rigetto, proponeva appello il cliente deducendo, per quanto è qui di interesse, l’erronea valutazione del merito della causa con particolare riferimento ai presupposti di esclusione della responsabilità dell’avvocato per inadempimento della propria obbligazione.

In merito appare utile rammentare che il rapporto che si instaura tre l’Avvocato e il Cliente si inserisce nell’ampio spettro dei rapporti contrattuali è – c.d. “contratto di clientela” – che va sussunto nella fattispecie del contratto d’ opera intellettuale disciplinato dagli artt. 2229 e ss. c.c. in virtù del quale sorge in capo al professionista un vincolo giuridico in ordine all’espletamento del suo mandato professionale.

Elementi caratterizzanti del contratto d’opera intellettuale sono:

  1. a) il carattere intellettuale della prestazione, oggetto del contratto infatti va identificato nell’esercizio di un’attività intellettuale;
  2. b) il carattere personale della prestazione (il cliente ha, in forza del rapporto che si instaura con l’avvocato, diritto a che il professionista presti personalmente la propria opera, eventualmente con l’ausilio di sostituti o ausiliari, che operino sempre e comunque sotto la propria responsabilità e direzione);
  3. c) la discrezionalità del prestatore d’opera nell’esecuzione della prestazione;

La prestazione fornita dal professionista è, di regola, una prestazione di mezzi (e non di risultato) in quanto l’attività prestata da quest’ultimo, essendo relativa solo a prestazioni intellettuali, non può essere mirata al raggiungimento di uno scopo come risultato, ma solo al tentativo di raggiungerlo: l’esito di un procedimento giudiziale è in ogni caso influenzato da elementi esterni molte volte imponderabili. Ne consegue che l’inadempimento del professionista, deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, al dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dal comma secondo dell’art. 1176 c.c. a  norma del quale la diligenza dell’esercente un’attività professionale deve essere commisurata alla natura dell’attività esercitata, di modo che il professionista sarà considerato responsabile per il mancato adempimento solo ove si accerti che egli non abbia utilizzato nell’espletamento della sua attività una diligenza pari a quella che ci si possa aspettare da un professionista di medie capacità e preparazione.

Alla luce dei suesposti brevi cenni, si desume chiaramente come la decisione presa dalla Corte d’appello di Milano, nel respingere il gravame, si ponga in linea di continuità non solo con il dato normativo, ma altresì con la ormai costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale in caso di responsabilità professionale trova applicazione l’art. 2236 c.c. – che limita la responsabilità del professionista alle sole ipotesi di colpa grave o dolo – in quelle ipotesi in cui la prestazione oggetto dell’incarico richiede la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, che implicano una preparazione professionale superiore alla media. Derivandone, per logica conseguenza, che l’avvocato non è responsabile per il solo fatto di aver commesso un errore o un’omissione nello svolgimento dell’incarico, ma invero “per accertare la responsabilità professionale è necessario che il cliente, dopo aver mosso specifiche censure, dimostri la ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito in assenza della condotta asseritamente dannosa” (Cass. 22882/2017).

Nel caso di specie, ha osservato la Corte territoriale, poiché non vi è alcuna prova che l’avvocato abbia omesso di tenere in debito conto situazioni, informazioni, atti e documenti che avrebbero consentito un diverso inquadramento della fattispecie, è da escludersi la responsabilità del professionista; ciò in forza degli insegnamenti della Suprema Corte, secondo la quale “in tema di responsabilità dell’ avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia allorchè questi ignori o violi precise disposizioni di legge ovvero risolva erroneamente questioni giuridiche prive di margini di opinabilità” dovendo escludersi qualsiasi responsabilità “ in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e giurisprudenziali presentino margini di incertezza, in astratto o con riferimento al caso concreto, tali da ritenere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute” (Cass. 16846/2005)

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NESSUN INDENNIZZO A RAFFAELE SOLLECITO

La Superficialità delle Indagini come unico Reo dell’omicidio di Meredith

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È delle ultime ore la pubblicazione delle motivazioni della sentenza n. 42014/2017 resa lo scorso 28.06.2017, con la quale la Corte di Cassazione ha respinto la richiesta di riparazione avanzata da Raffaele Sollecito per l’ingiusta detenzione patita durante il procedimento penale che lo aveva visto imputato dei reati di cui agli artt. 573-575, 609 bis e ter, 624 bis , 367 e 61 c.p, (il noto omicidio di Perugia) dai quali , con sentenza resa dalla Corte di Cassazione il 27.03.2015 , era stato definitivamente assolto.

A giudizio della Suprema Corte, l’ordinanza della Corte Territoriale ha fornito congrua e corretta motivazione del provvedimento di rigetto, conformandosi pienamente agli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità.

L’introduzione nel nostro ordinamento, dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è avvenuta con il codice di procedura penale del 1988 (direttiva n. 100 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81), con il quale all’art. 314 c.p.p. è stato previsto che chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale con provvedimento cautelare iniquo possa ottenere un indennizzo, da liquidarsi in via equitativa entro il tetto massimo di € 516.456,90, secondo le forme del procedimento descritto dall’art. 315 c.p.p.

La riparazione da ingiusta detenzione cautelare trova la propria fonte anche a livello sovranazionale, in particolare con riguardo sia all’art. 5, comma 5, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui «ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto a una riparazione», sia all’art. 9, comma 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, secondo cui «Chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto a un indennizzo».

Con riguardo alla natura giuridica dell’istituto, è ormai acquisito anche nella giurisprudenza di legittimità che la riparazione per ingiusta detenzione non ha carattere risarcitorio, in quanto l’obbligo dello Stato non nasce da un fatto illecito, ma dalla doverosa solidarietà nei confronti della vittima di un’ingiusta detenzione cautelare.

Pertanto, il contenuto dell’equa riparazione non costituisce un risarcimento per i danni patrimoniali e morali eventualmente subiti nel corso della detenzione, ma rappresenta la corresponsione di una somma di denaro che, tenuto conto della durata della carcerazione preventiva, valga a compensare le conseguenze personali ed economiche prodotte dalla misura ingiustamente applicata.

La disposizione in commento indica i presupposti necessari per ottenere l’equa riparazione dell’ingiusta detenzione subita. Le ipotesi previste dal legislatore sono due: la prima di ingiustizia sostanziale, prevista al primo comma, e la seconda di ingiustizia formale, disciplinata al secondo.

La prima ipotesi, di cui al primo comma, prevede che «chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave».

Innanzitutto, è richiesto che, all’esito del giudizio penale, l’imputato sia prosciolto con una delle formule definitive che ne sanciscono l’innocenza, ossia «perché il fatto non sussiste», «per non aver commesso il fatto», «perché il fatto non costituisce reato» o «non è previsto dalla legge come reato». È opinione comune che anche l’assoluzione pronunciata, ai sensi dell’art. 530, co. 2, c.p.p., in presenza di prove insufficienti o contradditorie, costituisca presupposto per la riparazione ex art. 314 c.p.p.

La verifica di questi presupposti, stante il tenore della disposizione, andrebbe operata ex ante, avendo riguardo agli elementi considerati al momento dell’adozione della misura (Cass. pen., Sez. IV, 28 gennaio 2014, n. 8021).

In realtà, la giurisprudenza con interpretazione estensiva della disposizione ha ritenuto che l’ingiustizia formale della misura cautelare possa risultare anche da una valutazione ex post, compiuta alla luce delle risultanze probatorie acquisite nel corso del procedimento principale. Si pensi a esempio, al caso in cui, nel corso del giudizio di merito, il fatto dell’imputato venga diversamente qualificato e sia contestato un reato punito con pene edittali che non rientrano più entro i limiti previsti dall’art. 280 c.p.p. o all’ipotesi in cui la riqualificazione porti alla contestazione di un reato per il quale è prevista la procedibilità a querela di parte e la stessa non risulti presentata.

In entrambe le fattispecie descritte, costituisce condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione la circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla misura cautelare per dolo o colpa grave.

Pertanto il giudice, nell’esaminare la richiesta presentata, dovrà necessariamente verificare che il soggetto indagato non abbia posto in essere una condotta dolosa o gravemente colposa che possa avere influenzato in maniera significativa il provvedimento cautelare emesso (Cass. pen., Sez. IV, 20 dicembre 2013, n. 1921).

La giurisprudenza ha interpretato il contenuto del dolo e della colpa grave facendo riferimento a parametri civilistici e non penalistici, sostenendo che la valutazione della condotta dolosa o gravemente colposa debba seguire non i canoni tipici del processo penale, ma i criteri civilistici che regolano e rapporti tra creditore e debitore.

Nel caso di specie presupposto per il diniego del riconoscimento dell’indennizzo è stato rinvenuto nella contraddittorietà delle dichiarazioni rese dal Sollecito nelle poche ore successive al ritrovamento del cadavere di Meredith Kercher, le quali avevano palesemente costituito degli indizi di responsabilità capaci di corroborare gli altri elementi che secondo gli inquirenti dimostravano il suo coinvolgimento nell’omicidio e nei delitti ad esso collegati.

In effetti, sul punto la Corte territoriale si è soffermata a lungo giungendo a ritenere che “se il Sollecito avesse detto subito, senza successive contraddizioni, che la ragazza [ndr la Knox] era rimasta lontana da lui nelle ore del fatto, ed avesse riferito in modo preciso l’ora in cui era giunta a casa sua nonché le condizioni, presumibilmente alterate o addirittura sconvolte, in cui ella si trovava in quel momento, la sua posizione processuale sarebbe stata sicuramente diversa, apparendo probabile che egli non sarebbe stato neppure indagato o comunque che, non ravvisandosi reticenza o mendacio nelle sue dichiarazioni, qualora indagato, le esigenze cautelari sarebbero state ritenute assenti o meno gravi, inducendo i giudici ad applicare una misura meno severa”. Parimenti le esigenze cautelari sarebbero apparse meno gravi se egli avesse evitato di fornire alibi subito smentiti, o se avesse spiegato le inconciliabilità delle proprie affermazioni con gli elementi emersi con certezza dalle indagini.

Invero, la richiesta di un indennizzo per ingiusta detenzione ex art. 314 c.p.p consegue ad una sentenza di assoluzione che accerti la infondatezza della ipotesi accusatoria all’esito del giudizio di merito. Tuttavia, prosegue la Suprema Corte, se la sentenza di assoluzione costituisce presupposto necessario per poter avanzare l’istanza di riparazione, essa non è sufficiente ai fini dell’accoglimento, che si realizza laddove l’interessato non abbia dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare con dolo o colpa grave.

In particolare si avrà condotta dolosa non solo nel caso in cui la stessa sia volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali (indipendentemente dal fatto di confliggere o meno con una prescrizione di legge), ma anche qualora l’agente abbia posto in essere un comportamento consapevole e volontario che, valutato alla luce del parametro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, sia tale da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della collettività.

Pertanto, il dolo viene ravvisato in tutte quelle ipotesi in cui l’imputato, nel corso del procedimento, abbia tenuto una condotta fraudolenta o pericolosa, tale da far ritenere sussistenti esigenze cautelari nei suoi confronti.

Si ritiene, invece, gravemente colposo il comportamento cosciente e volontario di chi per negligenza, imprudenza o trascuratezza o per inosservanza di leggi, regolamenti o discipline abbia reso prevedibile o evitabile, anche se non voluta, l’adozione della misura cautelare o la sua mancata revoca. Per esempio, la Suprema Corte ha ritenuto gravemente colposa la condotta di un soggetto che aveva reso dichiarazioni ambigue in sede di interrogatorio di garanzia o che aveva omesso di fornire specifiche circostanze non note agli inquirenti al fine di prospettare una logica ricostruzione dei fatti e demolire gli indizi di colpevolezza a suo carico.

Infatti, se è pur vero che il silenzio serbato durante l’interrogatorio non può costituire di per sé condotta dolosa o colposa, poiché riconducibile all’esercizio del diritto di difesa dell’imputato, è altresì vero che l’ingiustificato rifiuto di fornire elementi a proprio “discarico” può rilevare come comportamento doloso o colposo che ha concorso al mantenimento dello stato detentivo.

Allo stesso modo, la giurisprudenza ha considerato gravemente colposo, e in quanto tale ostativo al riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, il comportamento extraprocessuale dell’imputato che intratteneva frequentazioni ambigue con soggetti gravati da specifici precedenti penali o coinvolti in traffici illeciti; in tali casi, il giudice deve fornire congrua motivazione della oggettiva idoneità di questi comportamenti a essere interpretati come indizi di complicità e a rappresentare la causa dell’emissione del provvedimento cautelare restrittivo (Cass. pen., Sez. IV, 1° luglio 2014, n. 39199).

La valutazione demandata al giudice deve poggiare su fatti concreti e precisi e deve scaturire dall’esame della condotta tenuta dal richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, seppur in presenza dell’errore dell’autorità giudiziaria, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto “causa effetto” (Cass. pen., Sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 3495; Cass. pen., Sez. IV, 14 marzo 2014, n. 21579).

Naturalmente, ove si ritenga sussistente la causa ostativa alla concessione dell’indennizzo, sarà necessario rinvenire il nesso eziologico esistente tra le condotte dolose o gravemente colpose poste in essere dall’indagato e il reato allo stesso ascritto, a fondamento del quale era stata applicata la misura restrittiva della libertà personale.

Sul punto, la decisione in commento ha riportato un passo, ritenuto determinante, proprio della sentenza assolutoria: “La sua presenza sul luogo dell’omicidio, e segnatamente nella stanza dove fu commesso il delitto, è legato alla sola traccia biologica rinvenuta sul gancetto del reggiseno, in ordine alla cui riferibilità non può, però, esservi certezza alcuna, giacchè quella traccia è insuscettibile di seconda amplificazione, stante la sua esiguità, di talchè si tratta di elemento privo di valore indiziario. Resta, nondimeno, forte il sospetto che egli fosse, realmente presente nella casa di via della Pergola, la notte dell’omicidio, in un momento, però, che non è stato possibile determinare. D’altro canto, certa la presenza della Knox in quella casa, appare scarsamente credibile che egli non si trovasse con lei.

La presenza della Knox in casa al momento dell’omicidio – continua la Corte – e la smentita del suo alibi, insieme alle contraddittorie dichiarazioni del Sollecito, mai più sentito nel corso del dibattimento, hanno perciò rafforzato il convincimento della presenza anche di Sollecito nell’appartamento, contribuendo a formare nel GIP la prospettiva di un suo coinvolgimento nei delitti a lui attribuiti che lo ha portato all’applicazione della misura.

Se, dunque, il Sollecito avesse immediatamente comunicato di essere presente nell’appartamento ma di non aver preso parte ai fatti omicidiari – come la sentenza assolutoria sembra confermare, parlando di “mera connivenza non punibile”; se la telefonata ai Carabinieri non fosse stata eseguita, ad opera dello stesso Sollecito, solo dopo un’ora dall’arrivo della Polizia Postale (intervenuta sul posto per rintracciare la titolare della scheda telefonica rinvenuta in un giardino privato limitrofo e dove trovando i due ragazzi Amanda e Raffaele), tanto da apparire come un depistamento degli inquirenti, l’intero iter processuale sarebbe stato, con ogni probabilità, molto più favorevole al Sollecito.

Pur nella cristallina ricostruzione dogmatica operata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, non ci si può esimere dal rimarcare come, ad un raffronto fra questa sentenza della quarta sezione penale della Cassazione, con quella assolutoria di Sollecito e Amanda knox del 2015, la n. 36080 della quinta sezione penale e ancora con la n. 7195/2011 resa dalla prima sezione penale che ha definitivamente condannato Rudy Guede per il delitto di omicidio, emerga la totale sconfitta del nostro intero sistema giuspenalistico: Sollecito e Knox sono stati assolti senza rinvio per “la mancanza di un quadro probatorio coerente e sufficiente a sostenere l’ipotesi accusatoria” (pag. 50 cfr 9.4.3.) e comunque per l’(im)possibilità oggettiva di ulteriori accertamenti che possano dipanare i profili di perplessità, offrendo risposte di certezza, magari attraverso nuove indagini tecniche, rese impossibili dalla esiguità delle tracce biologiche lasciate sopravvivere agli accertamenti frettolosi e inadeguati, oltre che approssimativi (forse perché più preoccupati di fornire un colpevole all’opinione pubblica internazionale che di identificare il vero responsabile), fino alla banalissima distruzione dei computers appartenuti ad Amanda Knox e al Sollecito, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti!.

Rudy Guede, d’altronde, ritenuto “compartecipe di omicidio” si è sempre rifiutato di collaborare nel processo dei due coimputati e, scegliendo la strada del rito abbreviato ha fatto si che non potesse “beneficiare” del progressivo smantellamento delle prove scientifiche, vedendosi finanche rigettare, dalla Corte d’Appello di Firenze, la richiesta di revisione del processo.

Resta l’amarezza per la morte di una ragazza ventiduenne, innamorata di un ragazzo, in nome del quale aveva respinto le avances di Rudy; Resta l’assenza di un movente che possa in qualche modo dare un senso ad una morte così straziante; Resta l’ineludibile sconfitta dell’apparato investigativo incapace di sottrarsi all’influenza mediatica che inevitabilmente per mesi ha tenuto i propri fari accesi su quel piccolo appartamento di via della Pergola.

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