LA CONDOTTA DEL PEDONE DIMINUISCE LA RESPONSABILITÀ DELL’AUTOMOBILISTA SOLO SE ASSOLUTAMENTE ECCEZIONALE

LA CONDOTTA DEL PEDONE DIMINUISCE LA RESPONSABILITÀ DELL’AUTOMOBILISTA SOLO SE ASSOLUTAMENTE ECCEZIONALE

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 45795 dello scorso 5 ottobre 2017 è tornata ad occuparsi del “ruolo” del pedone in un incidente stradale in cui si trovi coinvolto.

Il ricorso era stato proposto da un imputato condannato sia in primo grado che in appello per aver cagionato, a seguito di impatto, mentre percorreva un tratto di strada ad una velocità superiore a quella consentita, la morte del pedone in fase di attraversamento.

I motivi di impugnazione erano diversi ma, per quanto qui interessa, ci si sofferma sugli ultimi due concernenti la valutazione della percepibilità dell’auto da parte del pedone e della prevedibilità della presenza del pedone da parte del conducente.

Ebbene, gli Ermellini, richiamando un costante orientamento giurisprudenziale in merito, hanno ribadito che in tema di reati commessi con violazione di norme sulla circolazione stradale, il comportamento colposo del pedone investito dal conducente di un veicolo costituisce mera concausa dell’evento lesivo, che non esclude la responsabilità del conducente.

Unica eccezione, potrebbe essere l’ipotesi in cui la condotta del pedone sia da sola sufficiente a determinare l’evento, come nel caso in cui, essa risulti del tutto eccezionale, atipica, non prevista nè prevedibile, cioè quando il conducente si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone ed osservarne per tempo i movimenti, che risultino attuati in modo rapido, inatteso ed imprevedibile (cfr. Sez. 4 n. 23309 del 29/04/2011, Rv. 250695).

In linea con tale orientamento, la Cassazione ha altresì affermato che il principio di affidamento trova un temperamento nell’opposto principio secondo il quale l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purchè questo rientri nel limite della prevedibilità.

Peraltro, esiste, con riferimento all’ambito della circolazione stradale, una tendenza ad escludere o limitare al massimo la possibilità di fare affidamento sull’altrui correttezza.

In tal senso vanno lette, ad esempio, le pronunce in cui si è affermato che, poiché le norme sulla circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza (vds art. 141 cds), proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente.

Coerentemente con tale assunto, è stata perciò, ad esempio, confermata l’affermazione di responsabilità in un caso in cui la ricorrente aveva dedotto che, giunta con l’auto in prossimità dell’incrocio a velocità moderata e, comunque, nei limiti della norma e della segnaletica, aveva confidato che l’autista del mezzo che sopraggiungeva arrestasse la sua corsa in ossequio all’obbligo di concedere la precedenza (cfr. Sez. 4, n. 4257 del 28/3/1996, Lado, Rv. 204451).

E, ancora, sulle medesime basi si è affermato, che anche nelle ipotesi in cui il semaforo verde consente la marcia, l’automobilista deve accertarsi della eventuale presenza, anche colpevole, di pedoni che si attardino nell’attraversamento in quanto il conducente favorito dal diritto di precedenza deve comunque non abusarne, non trattandosi di un diritto assoluto e tale da consentire una condotta di guida negligente e pericolosa per gli altri utenti della strada, anche se eventualmente in colpa (Sez. 4, n. 12879 del 18/10/2000, Cerato, Rv. 218473); e che l’obbligo di calcolare le altrui condotte inappropriate deve giungere sino a prevedere che il veicolo che procede in senso contrario possa improvvisamente abbagliare, e che quindi occorre procedere alla strettissima destra in modo da essere in grado, se necessario, di fermarsi immediatamente (Sez. 4, n. 8359 del 19/6/1987, Chini, Rv. 176415).

Nel caso in esame, dunque, la Suprema Corte, ha confermato la conclusione dei giudici di merito (in base alla quale doveva ritenersi del tutto ragionevole, nel caso di specie, la prevedibilità dell’attraversamento del pedone), da ritenersi allineata ai principi sopra richiamati, poichè pienamente supportata dai dati fattuali esposti nella sentenza ed oggettivamente riscontrabili, in base ai quali le caratteristiche del caso concreto (tratto di strada curvilineo, percorso sulla corsia con raggio più ristretto e in orario notturno), imponevano all’agente di contenere la velocità anche al di sotto del limite previsto, peraltro ampiamente superato, per come dimostrato dalle risultanze istruttorie.

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Omicidio Nicolina Pacini: , l’Avvocato Gelsomina Cimino non si arresta

Omicidio Nicolina Pacini:  l’Avvocato Gelsomina Cimino non si arresta

Nonostante il silenzio delle Istituzioni, l’Avvocato Gelsomina Cimino non si arresta: mentre continua ad indagare sul perché l’ultimo fascicolo che riguardava Nicolina sia sparito dal Tribunale per i Minorenni di Firenze, ha scoperto l’esistenza di un provvedimento che consacra la responsabilità dei servizi sociali e dei Tribunali. Nicolina doveva essere protetta e quella mattina non doveva trovarsi là dove ha incontrato l’assassino già denunciato e già conosciuto per i suoi gesti estremi.

I dettagli sono stati rivelati in diretta a Pomeriggio 5 : in collegamento con lo Studio dell’ Avvocato Gelsomina Cimino anche i genitori di Nicolina che nonostante le mille difficoltà, pretendono giustizia per la loro bambina!

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Link relativo all’intervista di Pomeriggio 5

https://www.youtube.com/watch?v=BPJbqsJ28zA

 

RISPONDE DI PECULATO IL NOTAIO CHE TRATTIENE LE SOMME DEL CLIENTE DESTINATE ALL’ERARIO

La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza del 15.03.2017 n. 2094 ha stabilito che commette il reato di peculato il notaio che si appropria di somme ricevute dai clienti per il pagamento dell’imposta di registro per atti di compravendita immobiliare da lui rogati.

Secondo il dettato dell’art. 314 Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di un’altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. Mentre, si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.

Già in primo grado, il Tribunale di Roma aveva dichiarato il notaio colpevole del delitto di peculato continuato, condannandolo a due anni e tre mesi di reclusione; oltre al risarcimento dei danni cagionati al cliente (con la concessione di una provvisionale di 46.000 euro). Secondo il Gip infatti il professionista, nella sua qualità di pubblico ufficiale, s’era appropriato dapprima della somma di 14.000 euro, versata a titolo di pagamento dell’imposta di registro di un primo atto di compravendita, e poi della somma di 32.000 euro, versata sempre ai fini dell’imposta di registro di un secondo atto.

A propria difesa il Notaio aveva eccepito l’errata qualificazione del reato da parte del giudice di prime cure in quanto al più poteva essergli contestato il «peculato d’uso» e che comunque la sua condotta non era caratterizzata dal «dolo di appropriazione», tipico del peculato, avendo lui agito «sempre e soltanto con l’intenzione di fare uso temporaneo delle somme e di versarle o restituirle appena gli fosse stato possibile».

La Corte territoriale nel ritenere infondato l’appello, osserva che la duplice condotta tenuta dall’imputato fu giustamente sussunta nella fattispecie del peculato in quanto costituisce ormai «solidissimo principio di diritto»quello secondo il quale «il pubblico ufficiale che ha ricevuto denaro per conto della pubblica amministrazione realizza l’appropriazione sanzionata dal delitto di peculato nel momento stesso in cui ne ometta o ritardi il versamento, cominciando in tal modo a comportarsi uti dominus nei confronti del bene del quale ha il possesso per ragioni d’ufficio».(Cfr. Cass. n. 43279/2009)

Alla luce di siffatto principio, prosegue la Corte d’Appello, risultano, dunque, destituiti di fondamento gli argomenti difensivi in quanto appropriarsi di «somme di spettanza assoluta dell’erario» integra il delitto di peculato e non certo di quello di peculato d’uso «che per definizione è configurabile soltanto se ricade su cose di specie e non su cose di quantità, come il danaro». Allo stesso modo privo di riscontri è l’assunto secondo cui la difesa ha argomentato l’insussistenza del dolo tipico del reato contestato in quanto l’imputato aveva agito al solo scopo di far uso temporaneo delle somme con l’intenzione di restituirle non appena gli fosse stato possibile. Alla luce dei dati di fatto risulta invero che il professionista «non solo non ha mai versato codeste somme all’Erario, ma non le ha neppure fornite al cliente» che, in quanto obbligato, «è stato chiamato dal competente organo tributario a far fronte, lui, all’obbligazione per la seconda volta», ne deriva pertanto che l’intenzione dell’imputato di restituire o versare quanto indebitamente trattenuto non è stata seguitata dai fatti. La Corte d’Appello ha quindi confermato l’iter argomentativo di primo grado ed ha piuttosto integrato, applicando quale pena accessoria, l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.

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L’ISCRIZIONE NELLA CENTRALE RISCHI DELLA BANCA D’ITALIA COMPORTA, SE ILLEGITTIMA, IL RISARCIMENTO DEI DANNI

 

L’ISCRIZIONE NELLA CENTRALE RISCHI DELLA BANCA D’ITALIA COMPORTA, SE ILLEGITTIMA, IL RISARCIMENTO DEI DANNI

La segnalazione di una sofferenza da parte dell’intermediario finanziario alla centrale rischi della Banca d’Italia implica una valutazione finanziaria negativa circa la posizione complessiva del cliente e, pertanto, non può seguire ad un semplice ritardo.

Con la sentenza n. 2748  la Corte d’Appello di Milano è intervenuta a statuire circa la richiesta di risarcimento danni (rigettata in primo grado) avanzata da una società a responsabilità limitata per essere stata illegittimamente segnalata alla Centrale dei Rischi della Banca di Italia da parte di una società finanziaria, la quale aveva ritenuto erroneamente non pagate alcune rate di un leasing.

L’appellante lamentava, per quel che è qui di interesse, l’omessa applicazione, da parte del giudice di prime cure, delle norme di cui alla circolare n. 139/1991 della Banca d’Italia relativamente alla segnalazione pregiudizievole alla Centrale dei Rischi, nonché la violazione, ovvero l’omessa applicazione dell’art. 4 c. 7, del codice di Deontologia e di buona condotta per i sistemi informatici gestiti dai privati. Secondo l’appellante, infatti la sentenza impugnata avrebbe erroneamente riconosciuto la legittimità delle segnalazioni fatte in assenza dei presupposti di legge.

Con specifico riferimento alla Segnalazione alla Centrale dei Rischi la Corte osserva che, ai sensi della circolare 139/1991 della Banca d’Italia, essa implica una «valutazione da parte dell’intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente e non può scaturire automaticamente da un mero ritardo di quest’ultimo nel pagamento del debito», presupponendo «una situazione del debitore non già di mero temporaneo e occasionale inadempimento, ma di vero e proprio stato di grave e non transitoria difficoltà economica del debitore, incapace di adempiere alle proprie obbligazioni».

Dunque, continua la sentenza, citando il costante orientamento della Corte di legittimità (cfr. Cass. n.26361/2014, Cass. n. 7958/2009, «ai fini di una corretta segnalazione a sofferenza non è sufficiente un mero ritardo nei pagamenti per giungere alla conclusione di sussistenza nel debitore di una situazione quale quella sopradescritta, bensì si richiede da parte dell’intermediario finanziario una valutazione “riferibile alla complessiva situazione finanziaria del cliente”, che quindi “deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione di insolvenza”».

Ed invero, ritiene la Corte, nel caso di specie «è pacifico che l’azienda non versasse in uno stato di decozione, e che la finanziaria ne fosse pienamente a conoscenza».

Dalle argomentazioni qui richiamate la Corte ha desunto l’accoglimento della richiesta di risarcimento di danno non patrimoniale, ritenendo invece non provato il danno patrimoniale.

La Corte, richiamandosi a dei precedenti giurisprudenziali di legittimità, ha infatti precisato: «è pacifica la configurabilità del risarcimento del danno non patrimoniale, che deve essere identificato come qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione di diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine».

Nel caso di specie, continua la Corte, l’appellante ha dimostrato «l’illecita condotta dell’appellato, nonché la lesione all’immagine derivatale dalla perdita di credibilità finanziaria causata dal veder assimilata la propria posizione a quella di persone giuridiche in stato di insolvenza o quantomeno in difficoltà finanziaria tale da renderle inaffidabili debitrici».

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NEGATO IL MANTENIMENTO AL FIGLIO MAGGIORENNE CHE NON HA VOGLIA DI LAVORARE

Con la sentenza n. 21615 del 19 settembre scorso, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso avanzato da un ragazzo, ormai maggiorenne, nei confronti del padre adottivo finalizzato ad ottenere un assegno di mantenimento sulla base di una asserita difficoltà economica.

La Cassazione, infatti, non solo ha confermato l’esattezza della decisione emessa dalla Corte d’Appello, ma ha aggiunto che la ricostruzione dei fatti porta a negare categoricamente il diritto del figlio ad ottenere una somma a titolo di mantenimento da parte del padre.

Richiamando l’oramai noto principio giurisprudenziale secondo cui l’obbligo del genitore di concorrere al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte della prole, ma perdura fino a quando il genitore obbligato non dimostri che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, oppure quando fornisca la prova di avere posto il figlio nelle concrete condizioni di potere essere economicamente autosufficiente, ma questi non ne abbia tratto profitto utile per sua colpa o per sua scelta, la Suprema Corte ha negato il riconoscimento del diritto al mantenimento sulla base delle circostanze secondo le quali il padre del ragazzo aveva profuso significativi sforzi economici per permettere al figlio di intraprendere la propria attività lavorativa, così come, d’altronde, aveva provveduto al pagamento delle rette di una scuola privata presso la quale il figlio non aveva sostenuto gli esami previsti ed è emerso che il ragazzo aveva abbandonato la casa familiare nonostante i tentativi del genitore di favorire la ricostruzione del rapporto.

Va dunque riconosciuta assoluta coerenza a tale ultima sentenza, con l’orientamento maggioritario  affermatosi in tema di mantenimento della prole maggiorenne.

L’assoluta infondatezza dell’azione promossa dal ragazzo, ha infine condotto la Suprema Corte a revocare la precedente ammissione al gratuito patrocinio e a condannare il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Subire il #plagio della #prova scritta agli #esami

Subire il plagio della prova scritta agli esami non comporta l’automatica esclusione

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La recente sentenza emessa dal TAR Campania n. 4348 del 12 SETTEMBRE scorso, si è soffermata sul concetto di “plagio” degli elaborati che costituiscono prova di esame in una procedura concorsuale. In particolare la sentenza de qua è intervenuta sul ricorso di una candidata all’esame di abilitazione alla professione forense la quale, pur avendo conseguito una votazione complessiva nei tre elaborati di cui si compone la prova scritta, superiore alla sufficienza, si è vista escludere dall’elenco degli ammessi alla prova orale poiché la commissione esaminatrice aveva rilevato, confrontando l’elaborato della ricorrente e quello redatto da un altro candidato ampi “passi del tutto identici”.

Il ricorso veniva fondato sulla circostanza per cui i due elaborati, pur presentando significativi tratti in comune, si differenziavano sul piano sostanziale; mentre, infatti, l’elaborato della ricorrente risultava scritto in modo assolutamente corretto, quello dell’altro candidato, presentava molteplici errori, ortografici, grammaticali, lessicali e sintattici, nonché di trascrizione dell’art. 41 c.p. tale da far risultare palese come il redattore dello stesso, non avesse piena consapevolezza di quanto scritto.

Nel merito la ricorrente contestava l’omessa valutazione, da parte della sottocommissione nominata a correggere detti elaborati, degli elementi idonei a individuare le rispettive posizioni di plagiante e di plagiato tra i due candidati coinvolti nonché l’errata applicazione dei criteri previsti dalla legge ed applicabili alla casistica in esame.

Ed invero, l’art. 23 R.D. 37/1934 prevede che La commissione, nel caso in cui accerti che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro lavoro o da qualche pubblicazione, annulla la prova. Deve pure essere annullato l’esame dei candidati che comunque si siano fatti riconoscere; tale statuizione ha incontrato, tuttavia, un’applicazione temperata, in ragione dell’introduzione, nelle ultime sessioni, di un canone integrativo dettato dalla Commissione Centrale presso il Ministero della Giustizia, la quale ha costantemente disposto “che nel caso in cui le Sottocommissioni, in sede di correzione, in sede di valutazione degli elaborati scritti, rilevino la presenza di elaborati uguali per forma e sostanza, si proceda all’annullamento delle prove con conseguente giudizio di inidoneità di tutti i candidati per i quali si sia rilevata la predetta anomalia: se però la Sottocommissione riuscisse ad individuare il candidato plagiante, dovrà procedere alla esclusione solo di quest’ultimo“.

Il canone operativo, nel disporre che la sanzione della esclusione debba essere irrogata nei riguardi del solo plagiante, risulta diretto ad imporre alla Commissione di operare le opportune valutazioni in tal senso, al precipuo scopo di non penalizzare quei candidati che abbiano dimostrato, attraverso una propria autonoma elaborazione, di possedere i requisiti utili  pet l’accesso alle successive fasi della procedura abilitativa, in difetto di una prova atta a dimostrare che il plagio sia avvenuto con il loro consenso.

Il ricorso, già accolto in sede cautelare e poi riformato dal Consiglio di Stato chiamato a decidere sull’appello cautelare, è stato accolto nel merito dal TAR Campania in considerazione, oltre che della verosimile non paternità in capo al suo estensore del secondo elaborato (data l’assenza di nesso logico fra molte delle frasi di cui si compone), anche per il fatto che l’Amministrazione resistente non ha fornito alcun elemento probatorio utile ad indirizzare il Collegio nel senso di ammettere che la Commissione esaminatrice abbia eseguito quelle valutazioni che in sede di applicazione della normativa applicabile, sono state via via dettate dalla Commissione Centrale: il che avrebbe senz’altro dovuto indurre gli esaminatori a ritenere che il plagio era stato commesso solo da uno dei due candidati ai danni dell’altro che invece non aveva – vista l’assenza di prova contraria – dato alcun assenso alla copiatura.

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#GARANZIE DEL #CONSUMATORE

“Garanzie del Consumatore” solo per prestazioni connesse alla #vendita

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Con la Sentenza C-247/16 resa lo scorso 07.09.2017 la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata sulla domanda pregiudiziale sollevata dal Tribunale del Land di Hannover nell’ambito di una controversia tra privati vertente su spese asseritamente sostenute dalla ricorrente per porre rimedio a vizi di un’opera.

In particolare, il Tribunale tedesco si è rivolto alla Corte Europea affinchè venisse chiarito se “l’articolo 3, paragrafo 5, secondo trattino della direttiva 1999/44 (in materia di vendita e garanzie concernenti i beni di consumo, cui si è data attuazione in Italia mediante il D. Lgs n. 24/2002) debba essere interpretato nel senso che, in base a un principio di diritto dell’Unione, in materia di tutela dei consumatori, affinchè un consumatore che ha stipulato con un venditore un contratto relativo a un bene di consumo, possa far valere i suoi diritti di garanzia secondari, sia sufficiente che tale venditore non abbia posto rimedio entro u termine ragionevole, senza che sia necessaria la fissazione, da parte del consumatore, di un termine per l’eliminazione del vizio della cosa

L’ambito di indagine sottoposto all’attenzione della Corte investe dunque la definizione di “contratto di vendita” così come riportato nella citata direttiva e in quella n. 85/374 CEE capisaldo del Codice del Consumo adottato in Italia con D. Lgs n. 206/2005.

La Corte precisa dunque che la nozione “contratto di vendita” contenuta nella direttiva 1999/44 è riferita alle vendite concluse tra venditore professionista e acquirente consumatore e che essa, in considerazione del fatto che la direttiva non contiene alcun rinvio al diritto nazionale, deve intendersi come “limitata” all’ambito di applicazione della direttiva medesima, si da costituire una nozione valevole su tutto il territorio dell’Unione a prescindere dal significato che può assumere nei singoli paesi in base al diritto interno: Ne risulta pertanto che essa deve essere considerata, ai fini dell’applicazione della direttiva, come volta a designare una nozione autonoma del diritto dell’Unione, che deve essere interpretata in modo uniforme sul territorio di quest’ultima

Fatta questa premessa, la Corte si sofferma sui contratti cui, in base al diritto nazionale, deve estendersi la nozione di “vendita”, come i contratti di fornitura di servizi o i contratti d’opera.

Sono così da considerare contratti di vendita anche i contratti di fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre: dacchè, ai sensi dell’art. 1, par. 4 della direttiva, il contratto avente ad oggetto la vendita di un bene che deve essere dapprima fabbricato o prodotto dal venditore, rientra nel campo di applicazione della direttiva in parola.

Esempio tipico è l’installazione: se questa presenta dei difetti, potrà essere invocata la speciale tutela consumeristica, solo laddove l’installazione costituisca un servizio connesso alla vendita del medesimo bene.

Cosicchè, in generale si può affermare che la prestazione di servizi rientra nell’ambito di applicazione della speciale tutela prevista dalla direttiva, solo laddove, la prestazione di servizi si pone come accessoria alla vendita.

Chi scrive, si è già trovato ad affrontare in sede giurisdizionale e segnatamente dinnanzi al Consiglio di Stato la delicata questione qui affrontata.

Il caso traeva origine dall’applicazione, ad opera dell’Antitrust di una sanzione a carico di una società per una pratica commerciale scorretta, dovendo trovare applicazione, in questo caso, la normativa dettata in materia di vendita e prestazione di servizi nei confronti dei consumatori.

La difesa apprestata dallo Studio poggiava sulla considerazione per cui al caso di specie non poteva applicarsi la speciale tutela invocata, in considerazione del fatto che la nozione di “vendita” così come recepita dal nostro Ordinamento e risultante dalle direttive comunitarie attuate, non fosse calzante con il particolare servizio reso dalla società sanzionata.

Il Consiglio di Stato con Ordinanza consultabile dal nostro sito (http://studiolegalecimino.eu/wp-content/downloads/sentenza_1_diritto_amministrativo.pdf) ha infatti ritenuto che la speciale normativa dettata per i consumatori, non poteva essere invocata nel caso di specie.

In conclusione, sulla base della decisione della Corte di Giustizia qui commentata, il consumatore può invocare la tutela prevista dalla speciale disciplina introdotta dalla legislazione comunitaria, solo laddove alla base della prestazione (di servizi o attività) ritenuta produttiva di effetti negativi (causa), vi sia un contratto di vendita concluso con il medesimo “professionista” che ha eseguito la prestazione “dannosa”.

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#Suicidio del #paziente: lo psichiatra risponde di omicidio colposo

Suicidio del paziente: lo psichiatra risponde di omicidio colposo

La Cassazione torna ad occuparsi dei reati omissivi impropri con riferimento alla responsabilità professionale medica.

È stata pubblicata solo ieri la sentenza n. 43476 con cui la quarta sezione penale, confermando la condanna resa dalla Corte d’Appello di Caltanissetta, ha ritenuto colpevole di omicidio colposo, un medico del Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura di San Cataldo dove veniva accompagnata dal marito, una donna già dichiarata affetta da schizofrenia paranoide cronica, per aver ingerito un’intera confezione di Serenase.

Il medico, in base alla ricostruzione dei fatti operata dai Giudici del merito, dopo aver constatato che la paziente, che egli già seguiva da mesi, si presentava tranquilla e con gli occhi aperti, congedava i coniugi e tranquillizzava il marito che invece, si era recato in ospedale già munito del necessario per un eventuale immediato ricovero.

Rientrati a casa, l’uomo lasciava per poche ore la donna che, nel frattempo si era assopita sul letto e rientrando, scopre che la moglie si era lanciata dalla finestra, perdendo la vita.

Contro la sentenza della Corte di Appello ricorreva il medico assumendo violazione di legge e vizio di illogicità e contraddittorietà della motivazione, oltre che travisamento della prova: la Corte territoriale avrebbe cioè, omesso l’indagine causale tra la condotta omessa e il suicidio.

Al riguardo, val la pena rimarcare che nella specie ricorrono i principi sanciti nella nota sentenza a SS.UU. (c.f. Franzese) del 11.09.2002 n. 30328 con particolare riferimento alla categoria dei reati omissivi impropri e allo specifico settore della attività medico-chirurgica.

Sembra opportuno ricordare che i principi di diritto affermati erano i seguenti:

1) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

2) Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.

3) L’insufficienza, la contraddittorietà, l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

Facendo applicazione di tali, pressochè incontrastati principi, gli Ermellini, con la sentenza in commento hanno confermato la posizione di “garanzia” del medico che si estrinseca nell’obbligo di controllo del paziente che assurge, in tal modo a fonte di pericolo, rispetto al quale il garante, ha il dovere di neutralizzare gli effetti lesivi verso terzi e verso sè stessi.

L’imputato d’altronde, proprio perché medico psichiatra che aveva in cura la vittima già da mesi, di cui aveva contribuito a stilare ben 13 cartelle cliniche, non poteva ignorare né lo stato anamnestico della paziente, né la circostanza che il farmaco ingerito, essendo del tipo “aloperidolo” avrebbe sviluppato i suoi effetti dalle due alle sei ore dopo l’assunzione.

L’aver congedato i coniugi, minimizzando sull’accaduto e comunque senza neanche suggerire un controllo presso il vicino pronto soccorso, ovvero tenere la paziente sotto controllo, anche ricorrendo a un ASO (accertamento sanitario obbligatorio), costituisce violazione del dovere di diligenza professionale e, data la prevedibilità del suicidio – per il particolare stato d’animo della paziente che già in passato aveva posto in essere condotte suicidiarie – egli deve essere ritenuto responsabile di non aver impedito il tragico evento.

Tale decisione evidenzia tre profili di particolare interesse.

Il primo riguarda il fondamento dell’obbligo di garanzia in forza del quale il sanitario assume l’obbligo di curare nel modo migliore il paziente e la cui violazione rappresenta la conditio sine qua non della responsabilità a titolo di colpa. Il secondo attiene alla prevedibilità di un evento potenzialmente dannoso per il paziente, tale da imporre al sanitario di mettere in atto qualsiasi attività al fine di evitare il suo verificarsi. Il terzo, concerne, invece, la regola di condotta che deve guidare la valutazione del giudicante sull’accertamento del nesso causale tra la condotta omissiva del sanitario e l’evento dannoso.

Sotto il profilo della prevedibilità dell’evento è ovvio, invece, che il sanitario non sarà ritenuto responsabile nel caso in cui si verifichi un evento eccezionale ai sensi e per gli effetti dell’art. 41comma 2, c.p.

Con riferimento al caso de quo ovvero alla prevedibilità degli effetti nocivi di un farmaco e, quindi, dell’evento dannoso, la Cassazione ha sostenuto che il sanitario che prescrive un medicinale deve tenere adeguatamente in considerazione gli effetti collaterali, se e quando questi sono richiamati come probabili e anche possibili dalla scienza medica e ciò a maggior ragione quando la relativa indicazione è contenuta nel foglio illustrativo allegato alla confezione del farmaco.

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#Suicidio del paziente: lo #psichiatra risponde di #omicidio colposo

 

LA MISSION dello Studio Legale Gelsomina Cimino

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Lo Studio Legale Cimino è stato fondato sul principio del “successo”, affidato all’esperienza acquisita anche dai suoi collaboratori e all’attenzione da loro riservata ai particolari: una filosofia che continua a guidare lo Studio al fine di garantire ai clienti servizi professionali di eccellente qualità e risultati.

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Il “malato” conserva il posto di lavoro

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La Sentenza n.21667/2017 emessa dalla Suprema Corte di Cassazione lo scorso 19.09.2017 interviene sul tema della legittimità del licenziamento a seguito di riscontrate attività lavorativa in costanza di malattia.

La decisione trae origine dall’impugnativa avverso la decisione della Corte d’Appello di Catanzaro chiamata a pronunciarsi sulla controversia insorta tra una società e il proprio dipendente il quale era stato licenziato poiché sorpreso a svolgere, durante un periodo di assenza dal lavoro per infortunio, “attività incompatibile con la infermità riportata” (trattavasi di contusione a spalla e polso sinistro).

Invero il lavoratore, assunto presso la società ricorrente con qualifica e mansioni di autotrenista, durante il periodo di malattia si era recato, alla guida della propria auto, presso l’esercizio commerciale gestito dal di lui figlio ove si occupava dell’apertura e chiusura del negozio; spostava carichi pesanti e vasi con piante.

Per tali motivi, era stato licenziato dal proprio datore di lavoro a seguito di procedimento disciplinare.

Il lavoratore aveva così impugnato il licenziamento che, tuttavia, il Tribunale, in primo grado, aveva ritenuto legittimo.

La Corte d’Appello adita in sede di gravame, rilevava invece, che la contestazione disciplinare, pur denunciando attività contrastanti con l’infortunio accusato, non specificava, tuttavia, in cosa si sarebbe concretizzata tale attività, riverberandosi, tale scelta, sul principio di immutabilità dei motivi del licenziamento disciplinare.

Posta questa premessa la Corte d’Appello rilevava che dal materiale probatorio assunto in primo grado, non poteva giungersi alla conclusione che l’attività svolta dal lavoratore fosse espressione di simulazione di malattia. Invero il fascicolo fotografico elaborato dalla società investigativa aveva ritratto il lavoratore alla guida della propria autovettura, nonché il lavoratore con in mando un sacchetto della spesa riempito per 1/5, o intento a spostare piccole piantine, ovvero intento nell’abbassare la saracinesca del negozio mediante un dispositivo elettronico, tutte attività che in ragione della diagnosi non potevano ritenersi espressione di simulazione di malattia solo in considerazione della circostanza secondo la quale, egli era assunto presso la ditta datrice di lavoro, in qualità di autotrasportatore con l’obbligo di carico/scarico delle merci trasportate.

In merito appare opportuno rammentare che sul punto la giurisprudenza era già giunta a ritenere che l’espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore, durante lo stato di malattia, è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro, solo laddove si riscontri che l’attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell’inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l’espletamento di un’attività ludica o lavorativa (per tutte Cass. 21 aprile 2009 n. 9474).

La prova della incidenza della diversa attività lavorativa o extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione ai fini del rilievo disciplinare di tale attività nel corso della malattia, è comunque a carico del datore di lavoro.

La Cassazione, considerando il ragionamento seguito dalla Corte Territoriale come conforme alla giurisprudenza di legittimità, ha confermato la sentenza, affermando la illegittimità del licenziamento poiché, “la condotta tenuta dal lavoratore non rappresenta una violazione dei doveri di correttezza e buona fede né degli obblighi di diligenza e fedeltà”.

L’attività svolta dal lavoratore “malato”, poteva anche essere astrattamente riconducibile a una prestazione lavorativa, tuttavia non risultava idonea a pregiudicare la guarigione del lavoratore, né tanto meno ad avvalorare l’ipotesi di inesistenza o simulazione della malattia.

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