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Un eroe ammuffito ...

Post n°1023 pubblicato il 06 Ottobre 2010 da luger2

di Antonio Perrucci.

Il 7 settembre del 1860, un corteo di dieci carrozze partiva dalla stazione di Napoli e si dirigeva verso il centro, la prima era occupata da Garibaldi e Liborio Romano, massoni entrambi, il secondo in più voltagabbana. La seconda era occupata da Tore ‘e Crescenzo capintesta della camorra elevato a ben più alte responsabilità da don Liborio, il controllo e la sicurezza sua e del Garibaldi, nella terza la Sangiovannara, cugina del Crescenzo e sodale camorrista.Quest’ultima,forse per meriti d’alcova ebbe da Garibaldi un vitalizio di ben 12 ducati al mese. Era il biglietto da visita presentato dai “liberatori” e dai loro ascari ad un popolaccio di “affricani”. Per 150 anni,storici prezzolati e infingardi,hanno tessuto e ritessuto le lodi di un soggetto cui vanno ascritti pochi meriti e troppe nefandezze. Documenti concretizzano la prosaicità di una vita che affonda nelle mediocrità e nella ricerca della sicurezza economica. Dal 1854 al 1859 la principale attività di Garibaldi è quella di negriero anche se in questo caso si trattava della deportazione di schiavi cinesi nelle miniere di guano cilene, il malloppo accantonato gli permetterà di acquistare mezza Caprera. Mitica Caprera che lo vide ritornare scornato un solo sacco di sementi, era forse mangime per gli uccelli visto che nella sua fazenda vi lavoravano quasi 30 persone (forse cinesi). La sua fortunata impresa al Sud risolse ogni suo problema economico oltre quello di una numerosa prole. Gli ammanchi verificati nelle tesorerie di Palermo, Napoli e altre città fece gridare allo scandalo gli stessi suoi mandanti savojardi. Nel 1874 il Banco di Napoli concede al figlio Menotti, impelagato con il fratello Ricciotti in investimenti truffaldini intorno al “sacco di Roma”, un prestito garantito dall’eroe dei due mondi e mai restituito. Tanto che nel 1882, anno della morte del Garibaldi, al Banco convenne farsi un po’ di pubblicità condonando il debito. E sempre nel 1882 un massone come Pietro Borelli definì Garibaldi “una nullità nazionale” il cui merito per l’unità nazionale era tutta dipendente dall’oro sparso a piene mani da Cavour. Povero Garibaldi, oggetto di lotte intestine tra logge e grembiuli. E qualcuno ha osato financo insinuare che la povera Anita fu aiutata a tirare le cuoia da un abbraccio incontrollato dal Peppino nazionale, almeno così riportava un verbale della gendarmeria. No, Garibaldi, tanto disinteressato da rifiutare un vitalizio propostogli nel 1874 dal governo Minghetti, lo accettò da Depretis nel 1876 con gli arretrati, 100.000 lire l’anno, non erano bruscolini, e non lo erano anche nel 1882 quando con una legge il governo decise la reversibilità del vitalizio a favore dei 5 figli e dell’ultima coniuge. 10.000 lire a testa. Menotti e Ricciardi avevano 42 e 38 anni, l’ultima, Clelia, è morta nel 1954, però ci è costato questo corsaro. Un mangia preti che non sdegnava di presentare istanza per entrare a far parte dell’esercito papalino e rifiutato non essendo stato giudicato idoneo al comando di truppe regolari, ma di bande, definì Pio IX “un metro cubo di letame”. Un borghese piccolo piccolo, teso a sistemare figli e accumulare soldoni per la vecchiaia e ancora oggi qualche garibaldina va per sagre e feste patronali continuando a propalare la caterva di menzogne che dal 1860 circondano la figura di un negriero, ladro di cavalli e di denaro pubblico, trasformato in eroe.

 
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