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Messaggi del 04/04/2020

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Post n°2716 pubblicato il 04 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

A tavola con Homo erectusArcheonews

A tavola con Homo erectus

8 ottobre 2019


Carne tagliata e preparata con miniutensili di pietra

Uno studio condotto dalla Sapienza, in collaborazione con l'Università

di Tel Aviv, getta una luce inattesa sulla produzione di utensili bifacciali

che caratterizzano la cultura acheuleana, risalente al Paleolitico inferiore

e caratterizzata da manufatti litici bifacciali a forma di mandorla, lavorati

sui due lati in maniera simmetrica.

Da sempre questi utensili hanno attirato l'attenzione dei ricercatori che ne

hanno fatto lo strumento principe per la ricostruzione delle strategie di sussistenza

di Homo erectus, il diretto antenato dei Neanderthal.

A tavola con Homo erectus

Minuscole schegge di mezzo milione di anni

Accanto alla produzione di bifacciali e di grandi strumenti da taglio esiste

però una produzione composta da schegge e strumenti di piccole dimensioni

che per decenni sono stati ignorati dalla comunità scientifica perché considerati

prodotti di scarto delle produzioni principali.

 Nel sito archeologico di Revadim, in Israele, sono state scoperte centinaia di

queste piccole, a volte minuscole, schegge di selce associate alla presenza di

numerosi bifacciali, raschiatoi e cospicui resti di fauna, incluso l'elefante.

Gli autori dello studio, guidato da Flavia Venditti dell'Università di Tel Aviv

(TAU) e membro del Laboratorio di Analisi tecnologica e funzionale di manufatti

preistorici (Ltfapa) della Sapienza nell'ambito di un accordo internazionale di

collaborazione scientifica tra Sapienza e TAU, hanno condotto analisi microscopiche

su 283 piccole schegge datate 300-500.000 anni, al fine di ricostruirne le modalità

di produzione e utilizzo.

A tavola con Homo erectus

Strumenti affilati per lavorare la carne

Si è così evidenziato come questi piccoli strumenti non fossero il risultato di scarti

di lavorazione, bensì il prodotto della volontà di riciclare vecchie schegge

abbandonate utilizzate come supporti per la produzione di nuove schegge affilate.

Inoltre, l'analisi microscopica dei segni di usura, unitamente all'analisi morfologica

e chimica dei residui organici, ha evidenziato come questi strumenti fossero

utilizzati per attività di precisione durante specifici momenti della lavorazione

delle carcasse animali.

In particolare centosette schegge hanno mostrato chiari segni di usura attraverso

il riconoscimento di specifiche rotture del margine d'uso e microtrasformazioni

nella struttura della selce interpretate come il ripetuto contatto con l'osso e con i

tessuti animali. Tali dati sono stati confermati dal riconoscimento di tracce organiche

e inorganiche incredibilmente conservate sugli strumenti preistorici.

Tali residui (come osso, grasso, fibre di collagene) sono stati riconosciuti su 41 schegge

e identificati attraverso analisi della loro morfologia, analisi chimica all'infrarosso

e analisi ai raggi X, effettuate grazie alla collaborazione con il laboratorio Diet and

Ancient Technology (DANTE) e il Dipartimento di Chimica della Sapienza.

A tavola con Homo erectus

Risparmio energetico nel riciclaggio

"Con questo studio - concludono Flavia Venditti e Cristina Lemorini - abbiamo

dimostrato come niente venisse scartato dagli hominins di Revadim: vecchie

schegge abbandonate venivano raccolte e riciclate come nuclei per la produzione

di piccole schegge affilate utilizzate per macellare carcasse animali ed ottenere il

massimo delle calorie indispensabili per il loro sostentamento.

Questa produzione litica, e il suo utilizzo peculiare, riflettono un comportamento

molto articolato che ha permesso a queste antiche comunità di prosperare per

migliaia di anni".

Info: cristina.lemorini@uniroma1.it
flavia.venditti@gmail.com
Sapienza - Università di Roma

 
 
 

Una villa di età romana.

Post n°2715 pubblicato il 04 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte:articolo riportato dall'Internet
Una villa rustica di età romana emerge
a Montefiore dell'Aso

Una villa rustica di età romana è emersa a Montefiore dell'Aso (AP) in

località Menocchia, durante i lavori per il metanodotto.

La frequentazione della villa è databile tra il I secolo a.C. e il IV secolo d.C.

Le indagini archeologiche sono state svolte, sotto la direzione scientifica

della Sabap - Marche, dalla Società Cooperativa Archeologia con il coordina-

mento di Manuela Cerqua coadiuvata da Mattia Berton, Alessandra Marchello

e Isabella Piermarini.

Montefiore Aso_villa romana rustica

Foto source: sabapmarche.beniculturali.it

Lo scavo ha messo in luce diverse fasi di costruzione, sviluppo e

declino dell'edificio.

"Dopo la fase di massimo sviluppo, nella prima età imperiale - spiegano

dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio delle Marche -

la villa dovette subire un dissesto, verosimilmente a seguito del movimento

franoso dell'intero versante della collina; si data, infatti, al II-III sec d.C.

un importante intervento di ristrutturazione del complesso, che vede la

costruzione di un cortile porticato, posto a ridosso di un ambiente probabil-

mente occupato dalla cucina della fattoria come dimostrano la natura dei

materiali recuperati al suo interno, per lo più frammenti di ossa animali e di

oggetti di uso quotidiano (ceramica comune, da fuoco e da dispensa),

insieme alla mancanza di materiali di pregio e di ceramiche fini.

Segue una nuova fase di degrado del complesso, che evidentemente continuava

ad avere problemi statici, contraddistinto dal crollo del tetto del porticato, in

tegole e coppi, ancora parzialmente in situ al momento dello scavo, momento

che si può datare a partire dal 3 decennio del III sec. d.C. grazie al fortunato

rinvenimento di un sesterzio di Giulia Mamea (222-235 d.C.).

Non si esclude tra le cause di questo ulteriore crollo anche il verificarsi di un

incendio indiziato dalle diffuse tracce di fuoco e di concotto in corrispondenza

dei piani di calpestio antichi"

Quest'area della villa fu quindi abbandonata e poi riutilizzata probabilmente come

area coltivata per produzioni domestiche mentre l'ambiente destinato a cucina fu

riservato alle sepolture infantili: sono infatti state trovate due sepolture di piccoli

in età neonatale all'interno di anfore datate intorno alla fine del III secolo d.C.

Il resto della villa fu invece occupato ancora per diversi anni.

Delle murature si conservano solo le fondazioni realizzate con ciottoli fluviali,

frammenti fittili di riutilizzo, tegole fratte o intere con alette in paramento, legati

da semplice argilla o da malta grigia.

Le attività di tipo domestico sono attestate dal rinvenimento di pesi da telaio e di

due porzioni di macine manuali in pietra lavica.

Sono stati rinvenuti anche frammenti di dolia e di anfore che permettono di ipotizzare

una produzione destinata non solo all'ambiente domestico ma anche alla

commercializzazione.

Un frammento di boccaletto, inoltre, riporta sul collo un'incisione: cinque lettere

riferibili ad un gentilizio al genitivo ICINI che non si esclude possa rilevare il

nome del proprietario della fattoria.

Nei mesi scorsi sempre a Montefiore dell'Aso era stata rinvenuta un'altra villa

romana in località Forno de Vecchis.

Ora l'amministrazione si sta attivando per allestire uno spazio dedicato all'esposizione

dei reperti.

La notizia è stata resa pubblica dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e

Paesaggio delle Marche e pubblicata il 16/01 su alcune testate locali.

La redazione,

Siti Archeologici d'Italia

 
 
 

Altre news...

Post n°2714 pubblicato il 04 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet.

Mahekodo-theri. Riflessi e messaggi di lontana UmanitàTestimoni del tempo

Archeologia Viva n. 199 - gennaio/febbraio 2020
pp. 64-69

di Angelo Castiglioni   

«Gli alberi sostengono il cielo.
Se vengono tagliati il firmamento cadrà sulla terra».

(Da un racconto mitico degli Indios)

Ecco un altro momento di "preistoria vivente" vissuto da due grandi esploratori

della nostra epoca nelle profondità dell'Amazzonia venezuelana: oltre che al

ricordo del fratello Alfredo questa testimonianza di Angelo Castiglioni è dedicata

a quanti lavorano e lottano per la sopravvivenza della più vasta area verde del pianeta.

Era il 1974 - un'epoca distante anni luce se si considerano le sconvolgenti

trasformazioni globali che stiamo vivendo - quando Alfredo e Angelo vennero

in contatto con i Mahekodo-theri, uno dei molteplici gruppi residenziali Yanomami

sopravvissuti con la loro cultura arcaica nella regione dell'Alto Rio Orinoco...

Ringraziamo ancora una volta Angelo Castiglioni - e il figlio Marco che lo aiuta

nella grande opera di organizzazione della memoria - per la scelta di pubblicare

su Archeologia Viva i materiali dell'immenso archivio accumulato in oltre mezzo

secolo di ricerche.
Piero Pruneti


Partiti da Caracas su un piccolo aereo postale, sbarcammo a Puerto Ayacucho,

capitale dello stato venezuelano di Amazonas. Da lì, navigando l'Orinoco su un 

bonghito, dopo diversi giorni di fiume raggiungemmo i Mahekodo-theri.

Era con noi un giovane indio che conosceva un po' dell'idioma Yanomami.

Entrammo così in un mondo verde. Anche l'acqua era verde per l'imponente

vegetazione circostante.

Tuttavia non mancavano le avvisaglie di un tragico futuro, insieme ai segni

di una spietata aggressione alla foresta e al suo ecosistema. [...]

 
 
 

Le news dai buchi neri...

Post n°2713 pubblicato il 04 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte : articolo riportato dall'Internet

Infiniti anelli di luce attorno ai buchi neri: la scoperta sulla foto di M87

"Ogni anello è costituito da particelle di luce (fotoni) proiettate verso

l'osservatore dopo essere stati raccolte da ogni parte dell'universo", spiega

il coordinatore dello studio basato sull'analisi della prima foto scattata a

un buco nero

Ancora sorprese dai buchi neri: l'analisi della fotografia che per prima ha

immortalato uno di questi mostri cosmici rivela che sono circondati da infiniti

anelli di luce.

La scoperta è pubblicata sulla rivista Science Advances dal gruppo del Centro-

americano per l'Astrofisica Harvard-Smithsonian coordinato da Michael Johnson.

SCIENZE
Ecco la prima immagine di un buco nero. "Einstein aveva ragione"
DI MATTEO MARINI

"Ogni anello è costituito da particelle di luce (fotoni) proiettate verso l'osservatore

dopo essere stati raccolte da ogni parte dell'universo", ha osservato Johnson.

I ricercatori hanno studiato il buco nero M87, che si trova a 55 milioni di anni luce

dal Sistema Solare, al centro della galassia Virgo A (o M87), diventato celebre in

tutto il mondo nell'aprile 2019 per essere stato il protagonista della prima foto diretta

di un buco nero ottenuta dalla collaborazione internazionale Event Horizon Telescope

(Eht), promossa dalla Commissione Europea.

Basandosi sui dati raccolti negli ultimi anni dal gruppo Eht e sulle previsioni della

relatività generale di Einstein, i ricercatori hanno realizzato un modello al computer

per prevedere l'evoluzione del buco nero. Il risultato è stato sorprendente: la famosa

foto del secolo di un buco nero nasconde, in realtà, una serie infinita di anelli che

circondano M 87, formati dalle particelle di luce che restano imbrigliate dalla

spaventosa attrazione gravitazionale del buco nero.

"L'immagine del buco nero contiene, in realtà, una serie nidificata di anelli, ognuno

dei quali - ha spiegato Johnson - è come il fotogramma di un film sulla storia

dell'universo visto dalla prospettiva del buco nero.

Grazie alla foto realizzata dal gruppo Eht - conclude - abbiamo solo iniziato a dare

una sbirciata alla complessità che dovrebbe emergere dall'immagine di un qualunque

buco nero".

Per vedere i primi anelli di questo sistema occorrerà ampliare la rete di telescopi di

Eht con due o tre telescopi spaziali, tra i quali uno sulla Luna.

 
 
 

Notizie da Plutone...

Post n°2712 pubblicato il 04 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

L'oceano antico e profondo di Plutone.
Plutone potrebbe avere un oceano antico e profondoSpazioSpazio

Di 

 29 Marzo 2020, Ore 20:47

Una nuova analisi delle immagini provenienti dalla sonda New Horizons,

ha reso sospettosi gli astronomi. Plutone potrebbe ospitare un oceano, molto

antico e molto profondo, formatosi circa 4.5 miliardi di anni fa e avvolto

dalla crosta rocciosa del pianeta.

Se questo fosse vero, allora le riserve di acqua potrebbero essere più comuni di

quello che pensiamo nel sistema solare. Dovrebbe cambiare il modo in cui pensiamo

alla fascia di Kuiper, una regione che ospita oggetti di ghiaccio oltre l'orbita

di Nettuno.

Nel suo passaggio attraverso la fascia di Kuiper, New Horizons ha rilevato che

Plutone potrebbe ospitare un oceano liquido sotto la superficie, nonostante la

distanza di sei miliardi di kilometri dal Sole. La sonda della NASA è il veicolo

che ha visitato l'oggetto più lontano nella storia dell'umanità.

Quanto liquido si trovi sotto la crosta? Da quanto tempo è lì?

Quanta acqua è parzialmente congelata? A tutte queste domande è difficile

rispondere dalla superficie.

L'ipotesi della presenza di un oceano era già stata avanzata nel 2019, ma con

spiegazioni diverse rispetto a quelle che raccontiamo oggi.

"Se c'è un oceano, allora dobbiamo chiederci da quanto tempo è lì," afferma lo

scienziato planetario Carver Bierson, dell'Università di Santa Cruz in California.

Bierson ha considerato due possibili scenari: una partenza fredda per Plutone,

l'acqua si trovava in uno stato ghiacciato, prima di sciogliersi a causa del calore

emanato dal nucleo radiattivo, in questo caso Bierson si aspetta di trovare crepe

e increspature nella crosta di ghiaccio.

Nel secondo caso si ipotizza una partenza tiepida, in cui l'oceano è stato liquido

per la maggior parte della vita del pianeta. In questo caso la superficie presenta

soltanto delle crepe dovute all'espansione del mare quando è parzialmente ghiacciato.

Questo è quello che gli astronomi hanno trovato nelle immagini di New Horizons,

che li ha portati a credere che l'oceano sia antico quanto Plutone.

"Quindi Plutone potrebbe aver avuto una partenza tiepida," spiega Bierson.

"Forse è partito con un oceano liquido che sopravvive ancora oggi."

In uno studio separato lo scienziato Adeene Denton, dell'università di Purdue,

e i suoi colleghi hanno considerato l'impatto che ha formato Sputnik Planitia,

il lobo sinistro del caratteristico bacino a forma di cuore di Plutone.

A causa del rapido passaggio di New Horizons le immagini sono parzialmente

sfocate, ma gli astronomi sono stati in grado di vedere delle linee sulla superficie

dal lato opposto rispetto a Sputnik Platinia.

Queste tracce potrebbero essere le impronte dello shock termico causato dal

terribile impatto che ha formato il bacino.

"Se l'impatto è stato largo abbastanza, il pianeta potrebbe essersi comportato

come una lente e aver focalizzato l'energia dello shock sul punto opposto

rispetto all'impatto.

La struttura interna del pianeta potrebbe aver controllato le onde dello shock,

guardando alle tracce sul ghiaccio potremmo essere in grado di ottenere indizi

sullo spessore dell'oceano o sulla composizione chimica del nucleo.

Per questo motivo Denton e i suoi colleghi hanno effettuato delle simulazioni

per comprendere la dinamica del fenomeno.

"Abbiamo ottenuto dei risultati interessanti," ha detto la ricercatrice.

Per spiegare le linee osservate, non solo Plutone deve avere un oceano molto

grande, con un profondità di 150 Km o più, ma il nucleo deve contenere minerali

come il serpentino, che si forma grazie all'interazione tra le rocce e l'acqua.

"Non è una prova schiacciante," afferma Dento. "Ma è eccitante."

FONTE:SCIENCENEWS.COM

 
 
 

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