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Messaggi del 17/04/2020

La Natura in L.Tolstoj

Post n°2773 pubblicato il 17 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

QUANDO LA NATURA INCONTRA LA LETTERATURA

L'appello per la natura di Tolstoj

L'appello per la natura di TolstojPer quanto cercassero gli uomini, raccoltisi in un piccolo spazio

a centinaia di migliaia, di deturpare quella terra sulla quale si

stringevano, per quanto lastricassero di pietre la terra per non

farvi crescere nulla, per quanto strappassero ogni filo d'erba che

spuntava, per quanto affumicassero l'aria col carbon fossile e col

petrolio, per quanto mutilassero gli alberi e cacciassero via tutti

gli animali e gli uccelli, la primavera era primavera, perfino in

città.

Lev Tolstòj, Resurrezione

A queste parole di Tolstoj, che possono rappresentare un appello per

la difesa contro gli scempi che l'uomo compie nei confronti del nostro

pianeta, si uniscono tutte le voci di coloro che in diverse forme

artistiche, in differenti voci, in diverse modalità, con numerosi incontri,

con precise ricerche scientifiche, con infiniti libri pro Terra, hanno

sempre portato in primo piano la necessità di difendere il meraviglioso

mondo in cui abitiamo.

Siamo davvero tanti e se non impariamo ad aver cura di questo luogo, a

cessare di soffocare la terra lastricandola di pietra e di asfalto, strappando

ogni filo d'erba, inquinando l'aria e distruggendo l'ecosistema globale,

il nostro futuro rimarrà nebuloso.

Sembra incredibile, ma è la Natura stessa che indica le possibilità: 

nonostante tutto la primavera rimarrà tale. Allo stesso modo l'estate,

l'autunno e l'inverno.

La rinascita avviene sempre in qualche modo, con tempistiche sempre

nuove.

Siamo ancora in tempo per continuare a credere che la vita non si ferma

sotto l'asfalto e che non abbiamo alcun diritto a tagliare un solo

platano in città.

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Cosa sta accadendo nello Jonio.

Post n°2772 pubblicato il 17 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

GEOLOGIA

Le faglie dello Ionio che allontanano la Sicilia dalla Calabria

Le faglie dello Ionio che allontanano la Sicilia dalla Calabria

La complicata geologia del margine di placca su cui si trovano

l'Italia e, soprattutto, la Sicilia, ha da oggi meno segreti.

Un team internazionale composto da ricercatori dell'Istituto di

Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Ismar-Cnr)

di Bologna, dell'Università di Parma, dell'Istituto Nazionale di

Geofisica e Vulcanologia (INGV) e del Geomar di Kiel (Germania),

ha scoperto un grande sistema di faglie molto profonde nel settore

del Mar Ionio.

Una scoperta importante per le numerose implicazioni geologiche e

pubblicata su Nature communications.

 Il sistema permette la risalita di materiale profondo che apparterrebbe

alla Tetide, l'antico oceano che occupava un tempo le regioni del

Mediterraneo attuale e che è stato 'riassorbito' dai movimenti relativi

delle placche tettoniche. 

Una vera e propria 'finestra' sulle profondità della Terra, che permette

di osservare indirettamente blocchi dell'antico oceano e di studiarne

l'evoluzione nel tempo.

Il movimento delle faglie sarebbe inoltre responsabile dell'allontanamento

della Sicilia dal resto d'Italia ed è capace di innescare ancora

processi vulcanici e sismici.

Il sistema di faglie dello Ionio

A partire dall'Oligocene, lo scontro tra la Placca Africana e quella

Eurasiatica ha prodotto l'assorbimento della Neo-Tetide e la formazione

del sistema di subduzione di cui espressione superficiale sono i vulcani

eoliani e l'arco calabro. In questo complesso quadro geologico si

inseriscono i due sistemi di faglie scoperti, che sono stati battezzati

"la Faglia dello Ionio" e "la Faglia Alfeo-Etna".

l primo sistema è leggermente arcuato, corre in direzione ESE-NNW

attraversando l'intero mar Ionio e terminando in una zona imprecisata

tra il messinese e le isole Eolie; il secondo sistema, invece, ha una

direzione SE-NW e si sviluppa a largo della costa siciliana orientale

allineandosi con il vulcano Etna.

Entrambi i sistemi sono caratterizzati da movimenti trastensivi

(estensione e trascorrenza) e descrivono un ampio settore in cui

si riconoscono anche altre faglie minori.

Blocchi di storia in risalita dal profondo: il diapirismo

Durante questa ricerca, lungo il sistema Alfeo-Etna, l'elaborazione

dei dati geofisici acquisiti ha portato all'individuazione di almeno

13 corpi magnetici sub-circolari. L'incrocio di dati di diversa natura

ha portato a scartare alcune ipotesi sulla genesi di questi corpi, tra

cui il magmatismo e il diapirismo salino o da fango. 

Si tratterebbe piuttosto di materiale roccioso della Tetide, risalente

al Mesozoico, e in particolare di rocce serpentinitiche.

Le serpentiniti sono rocce sottoposte a un processo metamorfico

di bassa temperatura, che trasformano i minerali originari anidri

(es. pirosseno e olivina) in minerali idrati.

Il processo è noto come 'serpentinizzazione' e provoca non solo

il rilascio di calore, ma anche una modifica profonda delle carat-

teristiche fisiche della roccia stessa: il volume della roccia aumenta,

mentre la sua densità diminuisce drasticamente.

In questo senso le rocce serpentinizzate possono trovarsi con una

densità minore rispetto a quelle circostanti, motivo per cui tendono a

risalire verso l'alto.

Si chiama 'diapirismo della serpentinite' ed è il processo che, secondo

gli autori della ricerca, sarebbe alla base dei corpi sub-circolari trovati

nella crosta dello Ionio. 

Si tratterebbe dunque del primo esempio al mondo di questo fenomeno

in un contesto di subduzione.

 La presenza di queste rocce potrebbe favorire inoltre la formazione

di terremoti, come osservato in altre zone del pianeta.

La posizione dell'Etna

Numerosi studiosi concordano sul fatto che la formazione dell'Etna

deve essere legata alla presenza di una significativa discontinuità

della crosta che faciliterebbe la risalita dei magmi.

L'esistenza di questa struttura sembra essere confermata anche dalla

geochimica dei prodotti eruttivi del vulcano siciliano.

I magmi etnei, a differenza di quelli delle vicine Eolie, sembrano affini

a una zona di sorgente non contaminata dalle rocce in subduzione.

Per spiegare ciò, alcuni studiosi hanno invocato una situazione tipo

"slab window": ovvero la presenza di una 'finestra', di uno squarcio

, nella placca in immersione, permetterebbe l'afflusso sotto l'Etna

di un mantello libero dalla contaminazione di rocce superficiali. 

Secondo altri autori, invece, l'origine dei magmi etnei sarebbe

legata a una fusione delle rocce sottostanti il vulcano, indotta da

una diminuzione di pressione di origine tettonica (es. estensione).

La struttura Alfeo-Etna ben si inserisce in entrambi gli scenari

previsti e a questo punto spiegherebbe facilmente l'esistenza del vulcano

siciliano, come peraltro suggerito anche dal confronto tra l'età della

struttura tettonica e l'inizio dell'attività vulcanica in zona.

Questo studio dunque non è solo di grande importanza per l'approfondi-

mento delle conoscenze geologiche, ma anche e soprattutto perché può

aiutare a mitigare il rischio legato a fenomeni come i terremoti o le

eruzioni vulcaniche in zone densamente popolate del nostro Paese.

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FONTE: RIVISTANATURA.COM

 
 
 

Altre analisi sociali..

Post n°2771 pubblicato il 17 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

SOCIETÀ E AMBIENTE

L'altra faccia del Coronavirus: economia in crisi, crollo

dei consumi e dell'inquinamento in Cina

L'altra faccia del Coronavirus: economia in crisi, crollo dei consumi e dell'inquinamento in Cina


Difficile vedere il bicchiere mezzo pieno nel caso di epidemie

o addirittura di potenziali pandemie.

Eppure anche nel caso dell'ormai famoso Coronavirus 2019-nCoV

vi è questa possibilità: nelle ultime settimane l'inquinamento

atmosferico in Cina è drasticamente diminuito, pari addirittura a

quantità equivalenti al 6% delle emissioni mondiali di anidride

carbonica.

Infatti secondo una recente indagine del Centre for Research on Energy

and Clean Air (CREA) in Finlandia e pubblicato sul sito inglese del

Carbon Brief, le emissioni cinesi di CO2 sono diminuite di almeno

100 milioni di tonnellate nelle ultime due settimane.

Ciò a seguito delle misure governative adottate per contenere l'epidemia,

che di fatto hanno portato ad una decrescita forzata (e in questo caso

tutt'altro che felice) dell'economia cinese, con riduzioni della produzione

dal 15% al 40% nei settori industriali chiave.

In picchiata la produzione delle fabbriche

Infatti, nelle ultime settimane la domanda di elettricità e la produzione

industriale cinese rimangono di gran lunga al di sotto dei livelli abituali

come suggerito da una serie di indicatori, tra cui:

  • Utilizzo di carbone nelle centrali elettriche, al minimo da quattro anni.
  • Tassi di funzionamento delle raffinerie di petrolio nella provincia di
  •  Shandong al livello più basso dal 2015.
  • Produzione di prodotti in acciaio al livello più basso da cinque anni.
  • I livelli di inquinamento atmosferico di NO2 sulla Cina sono diminuiti
  •  del 36% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso.
  • I voli nazionali sono scesi fino al 70% rispetto allo scorso mese.
  • Riduzione drastica della mobilità veicolare in molte aree urbane.

Anche le emissioni di biossido di azoto - un sottoprodotto della combustione

di fossili nei veicoli e nelle centrali elettriche - sono diminuite in Cina del

36% nella settimana successiva alle vacanze di Capodanno lunare, rispetto

allo stesso periodo dell'anno precedente.

Riduzioni, ancora però da quantificare e confermare, si segnalano anche in

Giappone e in Corea, mentre c'è da aspettarsi qualcosa di simile in prospettiva

anche in Pianura Padana, a seguito anche qui delle misure governative in

corso di adozione, che vanno ad incidere su tutta una serie di attività collegate

all'industria, al commercio ed anche alla mobilità.

Cosa succederà alla fine dell'emergenza?

Tutte condizioni che, se continueranno nei prossimi mesi, secondo analisi

dell'Agenzia internazionale dell'energia (AIE) e dell'Organizzazione dei

Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) potrebbero influenzare anche la

domanda mondiale di greggio, con conseguenti fluttuazioni dei prezzi (in

teoria diminuendoli).

Peraltro se da una parte si stanno creando le condizioni, per quanto forzate,

per incrementare alcune pratiche virtuose come il telelavoro, dall'altra in Cina

ci si comincia a chiedere se queste riduzioni degli impatti ambientali legati

all'inquinamento atmosferico saranno mantenuti anche in futuro o se invece

, una volta finita l'emergenza, verranno ripristinati o addirittura peggiorati.

Potrebbe infatti trattarsi di una riduzione temporanea, con una risposta alla

conseguente riduzione del PIL da parte del governo cinese che si potrebbe

tradurre in un incremento della produzione industriale, e di conseguenza

delle emissioni, su livelli ancora maggiori rispetto a quelli pre-epidemia, in

modo da recuperare la produzione perduta nel lungo stop.

Sperimentare modelli più sostenibili

Al contrario, un po' paradossalmente, i cambi forzati di abitudini che

l'epidemia sta apportando (anche da noi in Italia) potrebbero invece tradursi

in qualcosa di buono e utile, per l'ambiente e non solo.

Se infatti fossimo saggi o almeno un pochino lungimiranti, coglieremmo

questa forzata occasione per sperimentare modelli più sostenibili 

(in particolare nel campo del telelavoro, nella gestione più razionale di eventi

pubblici, nella sanità e nella mobilità privata e pubblica), evitando poi, una

volta finita l'emergenza, di riprendere a correre in modo ancor più forsennato

e consumistico.

Questo almeno noi, in Italia, potremmo provare a farlo.

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FONTE: RIVISTANATURA.COM

 
 
 

La Natura vista da Edgar Lee Masters..

Post n°2770 pubblicato il 17 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

QUANDO LA NATURA INCONTRA LA LETTERATURA

Spoon River e la durezza della natura messa in gabbia

Spoon River e la durezza della natura messa in gabbia

L'ignoto

Voi anime piene di aspirazioni, ascoltate la storia dell'ignoto

che giace qui, senza lapide a segnare il luogo.
Da ragazzo, temerario e stordito,
mentre bighellonavo con un fucile in mano per la foresta
vicino alla fattoria di Aaron Hatfield,
sparai su un falcone appollaiato sulla cima
di un albero morto.
Esso cadde con un grido gutturale
ai miei piedi, un'ala spezzata.
Poi lo misi in una gabbia
e qui visse molti giorni gracchiando rabbiosamente contro di me
quando gli offrivo del cibo.
Ogni giorno io cerco nei regni dell'Ade
l'anima del falcone,
per potergli offrire l'amicizia
di uno che la vita ha ferito e messo in gabbia.

 

Dall'Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters

 

Questa poesia è il racconto - non solo metaforico -

di quanto spesso succede: l'uomo armato (schiavo)

e la Natura (libera). Un incontro che troppe volte ha

avuto impatti negativi per la nostra Terra.

È sufficiente bighellonare con un fucile per distruggere

la vita ad un falco e, quasi fosse una morale di Esopo,

alla fine il gesto di mettere in gabbia il rapace è

risultato quasi più letale dello sparo "accidentale".

Il protagonista si accorge del proprio errore quando

ormai è troppo tardi ed è qui che entra in gioco la

poesia.

Il poeta vuole che si ascolti questa storia affinché

possa non ripetersi in futuro e si possa invece

puntare verso l'opposto; addirittura, magari, nel

vedere un falco (libero) su un albero vivo anziché

morto.
E dopo aver letto il testo, entriamo in gioco noi.
Edgar Lee Masters (1869-1950), avvocato e poeta

americano, pubblicò l'Antologia di Spoon River nel

1915, ottenendo un grandissimo successo.

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CITAZIONE FONTE: RIVISTANATURA.COM

 
 
 

L'uomo distrugge la Natura..

Post n°2769 pubblicato il 17 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato da Focus

PENSIERO ECOLOGICO

Perché l'uomo distrugge la Natura?

Perché l'uomo distrugge la Natura?

Idrammatici eventi di questa caldissima estate 2019,

dagli incendi in Siberia allo scioglimento dei ghiacci

in Groenlandia, hanno evidenziato l'accelerata degli

effetti dei cambiamenti climatici innescati dalle attività

umane.

Di fronte a tale disastro, di cui non si vede la fine e, anzi

, si possono facilmente intuire e leggere prossimi peggiora-

menti, una parte sempre più estesa dell'opinione pubblica

comincia a reagire, almeno a livello di preoccupata presa

di coscienza.

Nei commenti sui social e nelle lettere a giornali e mass-

media mainstream - che purtroppo in molti casi stanno

affrontando questi argomenti con il consueto tono apocalittico,

scandalistico, superficiale - si notano spesso definizioni del tipo:

"Siamo una specie folle, ci meritiamo di estinguerci"; "Siamo

i parassiti del Pianeta"; "L'Umanità è solo un'accozzaglia di

predoni egoisti"; "Siamo pazzi e ciechi e ormai stiamo cadendo

nel baratro", ecc. Un misto, dunque, di lamentose e disperate

affermazioni, dove emerge la mancanza di speranza per il futuro

e la rabbia per la stupidità umana.

Ma è davvero così? Può una specie che, in poco più di

200mila anni (ovvero pochissimo, se consideriamo le scale

geobiologiche), è di fatto arrivata a dominare l'intero Pianeta,

pur avendo una capacità riproduttiva limitata, dei corpi deli-

catissimi e molta meno forza fisica rispetto alle altre specie

più simili a noi (ovvero le grandi scimmie), avere intrapreso una

strada evolutiva destinata "al vicolo cieco", ovvero all'estinzione,

puntando sull'intero consumo delle risorse vitali e alla distruzione

dell'habitat in cui vive!? Perché allora questa follia, da dove nasce,

che senso ha?

In ultima analisi: perché l'Uomo continua imperterrito a distruggere

la Natura (ovvero la famosa "casa comune" in cui abita) nonostante

almeno mezzo secolo di avvisi e allarmi sempre più stringenti

lanciati dalla comunità scientifica e nonostante i disastri più o

meno naturali (molti palesemente di origine antropica) che sempre

più spesso mietono migliaia di vittime?

Per rispondere a questa domanda bisognerebbe scrivere un'intera

enciclopedia, tante sono le probabili concause che, in modo più o

meno complesso, s'intrecciano tra loro: cause sia socio-politiche,

storiche ed economiche, sia psicologiche, biologiche ed ecologiche.

In questa sede vogliamo solo provare a proporre qualche pensiero

tra quelli di solito meno diffusi; qualche punto di vista un po' diverso

che aiuti a cogliere alcune sfumature che, come spesso capita,

possono fare in realtà la differenza nella formazione di un'idea.

Come, infatti, diceva Sherlock Holmes, è dai dettagli che si può

arrivare al cuore del problema (nel suo caso scoprire il colpevole

di turno).

Noi già sappiamo chi è il colpevole, ma in questo caso il cuore del

problema allora è un altro: la nostra specie ama il luogo in cui vive?

 Ovvero, ama la Natura? Poiché sappiamo benissimo che, al di là di

tante belle parole o dei vari "sensi duri" (senso del dovere, senso di

colpa, ecc.) nei fatti solo chi ama qualcosa/qualcuno se ne prende

davvero cura.

 Oggi è facile dire che, almeno in Occidente, la maggior parte degli

uomini NON ama la Natura.

Ma per amare davvero qualcosa/qualcuno ci sono solo due strade:

quella del cuore (l'emozione, l'empatia che ci coglie in certe situazioni,

magari sostenuta da un legame di sangue, come quello per i figli) o

quella della testa (la conoscenza, conoscere bene qualcosa o qualcuno,

in modo da arrivare a coglierne il valore).

Solo così arriveremo al volere bene (philéô) e magari ad amare

(agapáô) e di conseguenza a impegnarci davvero per proteggere

l'oggetto del nostro amore (sappiamo, infatti, che il "voler bene" non

è proprio la stessa cosa che "amare", come fece notare Gesù a Pietro

nel famoso dialogo del Vangelo di Giovanni (21, 15-17) ).

Per millenni l'Uomo nomade cacciatore-raccoglitore ha vissuto la

Natura con l'amore istintivo che avvolge un essere la cui vita dipende

da essa, con un misto di paura e attrazione, sapendo appunto che

dalla Natura poteva arrivare anche la morte.

Ma sempre con il rispetto e con l'equilibrio di chi sa anche che della

Natura ha bisogno e che essa è sempre più grande di lui.

Dalla Natura gli uomini prelevavano solo quanto gli serviva per la

sopravvivenza, ovvero "gli interessi", lasciando intatto "il capitale".

Poi, circa 10.000 anni fa, con la nascita e lo sviluppo dell'agricoltura,

il panorama è cominciato a cambiare.

L'Uomo si è fermato in un posto e, per sopravvivere, ha dovuto iniziare

a sfruttarlo, con i vari processi di coltivazione del suolo e di domesticazione

di piante e animali e con metodi sempre più raffinati e intensivi.

Ovvero, ha iniziato a intaccare il capitale.

Fino a quando ciò avveniva con metodi tradizionali e solo con la forza

di uomini e bestie, attraverso il lavoro di comunità umane costituite al

massimo, nel complesso, da milioni di individui, la Terra ha ben sopportato

tale pressione.

Inoltre, la presenza di eventi tragici come pandemie, carestie e guerre

effettuava un certo controllo sulla popolazione antropica.

Con la cosiddetta Rivoluzione Industriale iniziata in Occidente nel XVII

secolo, si è però accesa la miccia: la società umana da sistema agricolo-

artigianale-commerciale è diventata un sistema industriale moderno,

caratterizzato dall'uso generalizzato di macchine azionate da energia

meccanica e dall'utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (come

, per esempio, i combustibili fossili), il tutto favorito da una forte

componente di innovazione tecnologica e accompagnato da fenomeni di 

sviluppo demografico, sviluppo economico e da profonde modificazioni

socio-culturali e anche politiche

. E soprattutto di incremento di popolazione, che rapidamente è passata

da 1 miliardo di individui nel 1800, ai circa 7,5 miliardi di oggi, con un

aumento medio annuo di circa 75 milioni. In pratica, gli esseri umani

si sono quadruplicati nell'arco degli ultimi 100 anni, dopo essere rimasti

per millenni limitati a pochi milioni di persone (all'epoca della nascita di

Cristo si stima vivessero sul Pianeta circa 160 milioni di individui).

Ciò non solo ha aumentato in pochissimo tempo e a dismisura la richiesta,

e quindi lo sfruttamento, di risorse naturali - oltre che la conseguente

produzione di scorie di ogni genere quasi mai realmente smaltibili -,

ma, attraverso il fenomeno dell'inurbamento, ha sempre di più allontanato

gli uomini dalla Natura.

A seguito di ciò, non solo una parte significativa degli esseri umani non

conosce più il mondo naturale (per esempio non sa distinguere le varie

specie animali e vegetali) ma, soprattutto negli ultimi decenni, si è creata

una vera e propria sindrome di disconnessione con la Natura, come scrivono

vari filosofi e psicologi, per cui alla fine sempre meno si sente il bisogno di

una sua vicinanza, di un suo rapporto profondo e vero con essa. In pratica

oggi per molte persone la Natura vale solo perché serve (per esempio, un

albero non va abbattuto perché produce ossigeno) o, nei casi migliori,

erché "è bella" o perché "fa bene" (che son sempre forme d'uso, seppur

scenografiche o salutistiche).

E non essendoci più contatto, è sempre più difficile rimanere in sintonia.

 Questo è il vero dramma dell'Uomo, poiché innesca un processo a cascata

di impoverimento interiore che porta all'ignoranza cognitiva e culturale,

alla perdita di identità (di specie, di popolo ma anche almeno in parte

personale), all'inaridimento emotivo, ma soprattutto all'incapacità di

essere in risonanza con il mondo che ci circonda che, volenti o nolenti,

è ancora in massima parte naturale (per quanto rovinato e contaminato).

Questo processo, che è aumentato in maniera esponenziale nell'ultimo

secolo e in particolare dalla fine della seconda Guerra Mondiale, produce

a sua volta due importanti effetti.

Il primo, pericolosissimo, incide sulla nostra capacità di adattamento.

La specie umana ha fatto di questa sua sensazionale facoltà, sostenuta

dalla sua intelligenza, la carta vincente per sopravvivere e imporsi come

specie dominante sul Pianeta.

Ma, a livello basico, come scrive l'ecologo Timothy Morton, "essere vivi

significa adattarsi senza sparire completamente, essere protetti dalla

propria sintonia ma non fino al punto di dissolversi del tutto".

Senza più contatto e sintonia con la Natura, perdiamo quindi la capacità di

adattarci ai suoi mutamenti, tanto più a quelli repentini degli ultimi anni e

di quelli che ci attendono.

E l'adattamento di una specie è un processo biologico, oltre che culturale,

che richiede tempo e che può essere solo in parte (minima?) compensato o

contenuto dalla tecnologia.

Il secondo effetto è la riduzione della nostra istintiva biofilìa, ovvero

il nostro amore e attrazione per la Vita.

E che la nostra società sia sempre più orientata verso scenari necrofili

ce lo dicono una serie numerosa di segnali: dalla cultura (soprattutto

giovanile) verso immagini/situazioni mortifere (basti pensare all'attrazione

dei ragazzi verso zombi, vampiri, situazioni "dark", sport estremi, ecc.),

all'uso di tecnologie "comode" (quindi in realtà non indispensabili) ma

di dubbio effetto sulla salute (per esempio, eccesso di tecnologie basate

sull'elettromagnetismo come i vari cellulari 3-4-5G, ecc.), a un'alimentazione

sempre più priva di vere forze vitali.

Ovvio, quindi, che tutto ciò ci porti a diventare sempre più insensibili e

distaccati da ciò che sta succedendo "fuori", nella natura, appunto.

Che ormai a molti sembra lontanissima e quasi irreale e dove anche le

immagini delle catastrofi ambientali che stanno avvenendo in varie parti

del pianeta assumono una percezione surreale.

Allora è a questo punto che si può scatenare una sorta di "effetto Lemmig"

o anche "ultimo ballo sul Titanic".

Incuranti della nave (il Pianeta così come è oggi) che affonda, continuiamo

a ballare, cercando di godercela il più a lungo possibile, senza credere in

realtà all'avvicinarsi della fine.

Che non è quella della Terra, è bene ribadirlo ancora una volta, ma di

"questa" umanità.

Credo, infatti, che il Pianeta sopravviverà abbastanza bene al collasso

in corso (sì, è già cominciato!) e che anche l'Umanità non si estinguerà.

 Tornerà sotto il miliardo di individui, privilegiando i popoli e le culture

a bassa tecnologia (per esempio, boscimani, indios amazzonici, aborigeni,

ecc.), ma andrà avanti, meno ricca ma forse anche più felice di oggi.

Tuttavia in questa situazione pre-apocalittica (e ricordiamo che il termine

"Apocalisse" non vuol dire "fine del mondo", ma significa "svelamento,

levare il velo") si possono anche osservare alcuni comportamenti molto

interessanti sulla natura umana, che probabilmente in situazioni ordinarie

non emergerebbero.

Una di queste, evidenziata proprio dal non volere pervicacemente "invertire

la rotta" nonostante i mille segnali ricevuti, è una sorta di rifiuto, o

meglio di fuga, dalla nostra incarnazione materiale, da un legame

filogenetico che ci perseguita e connette con tutte le altre creature non

umane.

È come se, consapevoli di una nostra natura profonda in cui la dimensione

carnale è minoritaria (non a caso tutte le religioni ci dicono che siamo

fatti di corpo, anima, spirito e coscienza/Io, quindi in fin dei conti di un

rapporto di 3 a 1 tra "energia" e materia) la sfidassimo o volessimo

addirittura liberarcene. 

Senza credere in un vero suicidio collettivo o individuale, ma piuttosto

in una sorta di "salto quantico" che ci attende.

Che dire, a questo punto speriamo sia davvero così! E vengono in mente,

un po' per consolazione e un po' per chiudere questo lungo pezzo, le

parole di un grande uomo di scienza ma anche di fede che è stato il

naturalista (paleontologo) e gesuita francese padre Pierre Teilhard De

Chardin "Noi non siamo esseri umani che vivono un'esperienza

spirituale. Noi siamo esseri spirituali che vivono un'esperienza

umana".

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FONTE: RIVISTANATURA.COM

 
 
 

La tematica della natura in Blake...

Post n°2768 pubblicato il 17 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

QUANDO LA NATURA INCONTRA LA LETTERATURA

William Blake e l'equilibrio del pastore

William Blake e l'equilibrio del pastore

Il Pastore

 

Com'è dolce la sorte del Pastore!
Vaga dal far del giorno fino a sera,
seguendo le sue pecore, e la sua bocca
gli s'empie di preghiere nell'udire

 

l'innocente richiamo dell'agnello,
e della madre la risposta tenera.
Vigila mentre loro stanno in pace,
sapendo che il Pastore gli è vicino.

 

Parlare di William Blake significa andare al di là

di quello che si legge (ma del resto quale poeta

si ferma all'inchiostro?); significa sapere che

dietro a dei versi apparentemente semplici, ci

sono riferimenti e simboli archetipici, esperienziali

che riportano l'attenzione in un'altra dimensione.

Non vuole però esser questa la sede in cui approfondire

questi aspetti.

Ora si vuole assaporare solamente l'immagine genuina

che la poesia ci trasmette, senza nulla togliere

all'aspetto simbolico di Blake, ma senza anche aggiungere

strampalate osservazioni di interpretazione.

Questi versi ci trasmettono una quiete incredibile, che

sorge dall'equilibrio rappresentato: un uomo, un pastore,

che vive a stretto contatto con i suoi animali.

Ma l'elemento che fa compiere un salto in più è il fatto

che il pastore non sta semplicemente allevando pecore;

non sta solamente portando al pascolo alcuni animali

che ha ereditato.

Ci piace immaginare che lui abbia scelto di essere pastore

e con uno stile particolare: osserva il suo gregge, lo ascolta

e vive con le sue pecore, altrimenti gli sarebbe sfuggito il

richiamo dell'agnello e la tenera risposta della madre.

Egli vigila sulle pecore e loro stanno in pace perché sanno

che lui è lì.

Questo equilibrio è primordiale, è legato ad un tempo in

cui l'uomo conosceva il significato del prendersi cura del mondo

intorno a sé e degli altri esseri viventi con cui condividere

questo luogo meraviglioso.

Questo può essere anche solo un punto di partenza.

Lascio a ciascuno la libertà e la possibilità di cercare i differenti

(e forse evidenti) aspetti simbolici.

William Blake (1757-1827), poeta, incisore e pittore inglese.

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Un flagello biblico...

Post n°2767 pubblicato il 17 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Locuste in Africa, la seconda invasione sarà «20 volte peggio»

di MONICA COVIELLO

Nuovi sciami voraci minacciano Kenya, Uganda, Etiopia e

Somalia: l'Onu parla di «una minaccia allarmante» per la

sicurezza alimentare

Nuovi sciami di locuste tornano a minacciare l'Africa orientale:

un numero crescente di insetti si sta riversando nel nord e nel

centro del Kenya, in Uganda, in Etiopia e in Somalia e, secondo

le stime, questa calamità potrebbe essere 20 volte peggiore

dell'ondata di due mesi fa.

Le Nazioni Unite parlano di «una minaccia allarmante e senza

precedenti» per la sicurezza alimentare e la sussistenza nella regione:

uno sciame di poco più di un terzo di 2,5 chilometri quadrati può

mangiare la stessa quantità di cibo, in un solo giorno, che può nutrire

35.000 persone.

Gli insetti seguono le piogge primaverili, alla ricerca di colture e di

altra vegetazione: possono spostasi di circa 145 chilometri al giorno.

I funzionari kenioti hanno anche spiegato che gli sforzi per contenere

la diffusione del coronavirus hanno rallentato quelli per combattere

l'infestazione: l'attraversamento delle frontiere è diventato più ostico

e le consegne di pesticidi sono state bloccate.

L'irrorazione aerea è l'unico mezzo efficace per controllare le locuste

ma alcuni allevatori lamentano il fatto che i pesticidi stiano colpendo

anche il bestiame.

«Le forti piogge di fine marzo hanno creato condizioni favorevoli per

la riproduzione dell'ennesima generazione di locuste nel Corno d'Africa.

 Emergeranno come giovani sciami a giugno, proprio quando molti

agricoltori inizieranno la raccolta», ha affermato Antonio Querido

dell'agenzia delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura

in Uganda.

«Se le operazioni di controllo non verranno effettivamente intraprese, 

le colture andranno perse e i mezzi di sussistenza basati sull'agricoltura

saranno colpiti.

Gli sciami giovani sono i più voraci: si alimentano in modo aggressivo e

possono causare molti danni alle colture e al foraggio».

 
 
 

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