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Il rifiuto assurdo della verità è naturale nell’uomo. L’uomo non vuole essere, ma apparire. Non vuole vedere ciò che è, cerca solo di prendersi per il personaggio che gli altri vedono in lui. (Svami Prajnanapada) 

 


 

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La fiaba ecologica di Nemo finita nell´acquario del consumismo
di Umberto Mazzantini

   


Qualche tempo fa riportavamo su greenreport le nostre impressioni sul libro "The Idea of Nature in Disney Animation" scritto da David Whitley, nel quale si legge che i cartoni animati di Walt Disney come Bambi, il Libro della jungla e Pocahontas, avrebbero svolto un ruolo importante nell´educazione ambientale dell´opinione pubblica, aprendo addirittura la strada al ´68.

La tesi di Whitley, che definivamo preoccupante, è che i personaggi animati di Biancaneve e del pesce pagliaccio Nemo abbiano costruito invece «la consapevolezza critica del contesto delle problematiche ambientali». Ma proprio il secondo tempo del film alla ricerca di Nemo, uscito dalla finzione ed approdato alla realtà, ha un finale non proprio disneyano. Il padre del pesce pagliaccio Marlin invece di liberare little Nemo dall´acquario del dentista australiano ci sarebbe invece finito dentro anche lui, e questo proprio per colpa della notorietà ricevuta dal cartoon che, invece di stimolare la protezione di pesci pagliaccio in natura, li ha trasformati in "giocattoli" per i futuri ecologisti disneyani di Whitley, che hanno trasformato la lacrimevole storia di libertà ed amore paterno in una moltiplicazioni di piccole galere liquide.

A svelarci l´arcano di questo nuovo consumismo amorevolmente "animalista", che divora la biodiversità riproducendo quadri viventi che ci rammentano sogni di libertà, è oggi su Repubblica Billy Sinclair, docente alla University of Cumbria, che studia proprio i pesci pagliaccio delle barriere coralline australiane e che, dall´uscita dei Finding Nemo nel 2003, ha rilevato in alcune aree un calo di pesci pagliaccio del 75%. Secondo il ricercatore ormai Little Nemo per essere salvato dall´estinzione dovrebbe essere classificato nella lista rossa degli animali a rischio e non essere più pescato dai rifornitori di pesci esotici.

Il gadget disneyano che invase i giochi dei nostri estasiati bambini 5 anni fa si è trasformato in un coloratissimo giocattolo vivente, e chissà quanti dentisti di Sidney hanno davvero oggi tanti piccoli pesci pagliaccio ormai orfani di padre. L´amore disneyano per la natura "carina" e "simpatica" si è trasformato in amorevoli cure che precludono la libertà che era al centro del cartoon ed erodono biodiversità e bellezza che è prima di tutto equilibrio, ben incarnato in un pesce inoffensivo ed indifeso che vive immune in simbiosi con le anemoni urticanti.

Un equilibrio di cui non c´è quasi traccia nella fiaba consolatoria di Nemo, dove i predatori cattivi sono sullo sfondo o diventano buoni ed umanizzati aiutanti. Il piccolo pesce pagliaccio padre ha traversato gli oceani e cavalcato le autostrade delle grandi correnti, superato muraglie di meduse, solo per portare i suoi innumerevoli figli in una miriade di acquari dai quali nemmeno un esercito di padri-pesci potrebbe liberarli.

La fiaba ecologica si è ribaltata in una triste novella di prigioni e scomparsa. Solo il più terribile di predatori, l´uomo, è capace di fare questo, di ribaltare con finta innocenza i buoni sentimenti dei suoi cuccioli, trasformando l´umanizzazione del vivente in cose e la fragilità in mercato. Possiamo forse consolarci con la speranza che i nostri pronipoti, vedendo fra cento anni gli ologrammi degli "ecologici" cartoons della Disney, scopriranno che dei pesci colorati vivevano in cose scomparse chiamate barriere coralline e sfidavano gli uomini riconquistando una libertà negata. Poi correranno a comprare per pochi crediti il pesce androide parlante, da mettere nel loro acquario sterile con posidonia sintetica ed anemoni killer.

Proprio una bella fiaba ecologica...



Cambiamenti climatici e coperte corte
   


Oggi a Tokyo il ministro degli esteri giapponese, Masahiko Komura ha incontrato il segretario generale dell´Onu Ban Ki-moon per discutere della cooperazione tra Giappone e Nazioni Unite per quanto riguarda cambiamento climatico, sviluppo dell´Africa ed aumento dei costi dei generi alimentari.

Komura ha assicurato Ban che «mentre tutta la comunità internazionale si trova di fronte alle sfide proposte dal riscaldamento della terra, dello sviluppo africano e del rialzo dei prezzi alimentari, il Giappone vuole collaborare con l´Onu per rimediare a questi problemi».

Il segretario dell´Onu ha da parte sua «espresso la sua gioia nel vedere che il Giappone ha messo all´ordine del giorno del prossimo summit del G8 i dossier del cambiamento climatico, della crisi alimentare mondiale e degli Obiettivi di sviluppo del millennio in otto punti, che costituiscono ugualmente le priorità della più grande istituzione internazionale».

Il summit Onu-Giappone è stato preceduto da un forum di un centinaio di parlamentari del G8 e di altri 11 Paesi in preparazione del G8 di Hokkaido, che ha chiesto l´adozione di misure tangibili per contrastare il riscaldamento planetario.

L´ex primo ministro della Gran Bretagna, Tony Blair, ha detto che «il riscaldamento globale è un problema che sfida l´umanità intera e la fase per prendere coscienza del problema è terminata». L´ex leader laburista si è rivolto ai capi del mondo (di cui faceva parte fino a poco tempo fa) «perché lavorino a contromisure per risolvere questo problema mondiale, per quel che è possibile».

Blair riconosce le enormi difficoltà poste dal global warming, ma sottolinea che «E´ tempo per le nazioni in via di sviluppo di occuparsi contemporaneamente della prosperità e della protezione ambientale».

Blair non si è dimenticato certo di chiedere un maggior sviluppo dell´energia nucleare (costosa e irrealizzabile proprio per i Paesi in via di sviluppo), ma ha anche detto che è necessario puntare sul risparmio energetico e le tecnologie di stoccaggio e "solidificazione" della CO2, così come sull´importanza di proteggere le foreste.

Al forum ha partecipato anche il primo ministro giapponese Fukuda che ha detto che «la riduzione delle emissioni di gas serra non potrà esserci che con la partecipazione di tutte le nazioni, e non solo di alcune tra esse». Un chiaro richiamo ai Paesi in via di sviluppo che accusano i ricchi di essere la causa principale del climate change e chiedano che si assumano la responsabilità e l´onere economico e tcnologico di porvi imedio.

Intanto Ban Ki-moon continuerà il suo viaggio in Asia, proseguendo per Cina e Crea dl sud, per poi tornare in Giappone per il G8.

A Pechino lo attende il presidente cinse Hu Jintao che ha appena chiesto al suo Paese di impegnarsi di più nella lotta contro il riscaldamento climatico.

L´occasione è stata la riunione del potentissimo ufficio politico del partito comunista cinese, durante la quale è stato presentato uno studio del Comitato centrale dl Pcc sui cambiamenti climatici e la capacità della Cina di affrontarli.

Hu ha detto ai dirigenti comunisti che «la maniera in cui facciamo fronte al cambiamento climatico è legata allo sviluppo economico del Paese così come ai vantaggi di ordine pratico che il popolo ne trae. La Cina, in quanto Paese in via di sviluppo, deve rispettare i principi contenuti nella Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ed il protocollo di Kyoto. Occorre che i Paesi sviluppati facciano più sforzi in materia di riduzione di emissioni ed apportino un aiuto finanziario e tecnico ai Paesi in via di sviluppo.

L´agenzia Xinhua riporta che «Hu ha ordinato alle organizzazioni ed alle imprese interessate di sforzarsi a per ridurre i gas serra ottimizzando la gestione dell´energia in maniera scientifica».

Un´assunzione di responsabilità ma anche il riposizionamento dei paletti internazionali e del Protocollo di Kyoto che diversi Paesi dl G8, ad iniziare dagli Usa, vorrebbe spostare

Mettendo insieme i discorsi di Blair, Fukuda ed Hu, quel che pare prospettarsi al G8 e dopo è un nuovo scontro tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, con i primi che intendono usare l´energia atomica come "rimedio" parziale e temporaneo, quasi un costosissimo specchietto per le allodole, e intanto addossare ai secondi il compito gravoso di porre rimedio, con le loro forze e qualche quota di emissione da vendere, al cambiamento climatico, provocato dalla crescita della quale molti di loro non beneficiano, ma che li colpisce più duramente.

Dietro le buone intenzioni e il conclamato internazionalismo della buona volontà di Blair sembra di scorgere una strada molto in salita per arrivare a Copenaghen ed al post-Kyoto, una strada resa ancor più impervia dalle crisi economica che sgonfia le ruote della crescita mondiale. E ognuno torna a tirare dalla sua parte la coperta troppo corta delle risorse del pianeta.
   


L´Africa ci salverà dalla fine del petrolio? (ma chi salverà l´Africa?)
di Lucia Venturi
   


A Milano, nell’ambito della conferenza Euro-mediterranea, si torna a parlare nei prossimi giorni della possibilità di sviluppare le energie rinnovabili sulla sponda sud del Mediterraneo: dall´Africa, uno dei continenti più colpiti dai cambiamenti climatici e che meno ha contribuito alla loro evoluzione potrebbe quindi arrivare la risposta concreta per fronteggiare l´emergenza.
Stesso argomento sarà trattato anche dal Crea (Centre de recherche et de formation su l´ etat en Afrique) sempre a Milano, dove si è attivata una sessione del Comitato scientifico che tra ottobre e novembre prossimi organizzerà una conferenza di tutti i paesi dell´Africa occidentale ad Abidjan, con l’obiettivo di studiare l´impatto dei cambiamenti climatici sull´ economia e sulle società dei paesi dell´Africa occidentale e quale contributo potranno dare per fronteggiarlo, a partire proprio dalle fonti energetiche rinnovabili.
Una prospettiva cui, nell’ambito della cooperazione internazionale, si sta lavorando da anni, per la precisione dal 2004, con la nascita a Tunisi del centro per la promozione delle energie rinnovabili, noto come Medrec. E che è stata anche recentemente discussa in una conferenza internazionale sulle energie rinnovabili a Dakar, in Senegal, organizzata dall´agenzia dell´Onu per lo sviluppo industriale (Unido) insieme al governo senegalese e al ministero tedesco per la cooperazione economica.
Insomma l’attenzione verso questi paesi è altissima sia da parte dei governi occidentali che da parte delle varie multinazionali che lavorano nel settore e altrettanto è l’interesse da parte dei paesi della sponda sahariana.

Una opportunità per tutti: oltre a soddisfare il crescente fabbisogno energetico dei paesi europei, la proliferazione di centrali fotovoltaiche ed eoliche nelle aree desertiche potrebbe infatti contribuire a migliorare la situazione socio-economica di ampie zone del continente.
Sole e vento non mancano, l’energia serve anche a loro e se si sviluppa una sana cooperazione il guadagno è per tutti.

Lo aveva sottolineato anche il commissario dell´Unione africana alle infrastrutture e all´energia alla conferenza di Dakar: «oltre 600 milioni gli africani non hanno accesso all´elettricità e ben 35 paesi sui 53 del continente rischiano continue interruzioni nella fornitura di corrente. In simili condizioni le energie rinnovabili sono una soluzione reale per le aree più isolate del continente».

Il sistema di generazione diffusa su cui si basano di fondo le energie rinnovabili è infatti quello che meglio si presta a fornire il fabbisogno di energia in aree dove non esistono reti elettriche e, per il 70% della popolazione africana, che ancora oggi ancora non ha eccesso all’energia elettrica, significherebbe cominciare ad abbattere la barriera tecnologica che divide il nord dal sud del mondo e garantire forme di sviluppo economico locale incentrate sulle reali potenzialità di quei paesi.

Il rischio, ancora una volta, è che l’interesse del mondo occidentale nei confronti dello sviluppo di tecnologie legate alle fonti energetiche rinnovabili, sia quello di un approccio colonialista e di tornaconto delle aziende che vi investono. Senza apportare reali benefici alle popolazioni africane. Un film già visto (purtroppo) tante volte e che si dovrebbe evitare che si potesse protrarre all’infinito.

Per le aziende occidentali, infatti, investire in energie rinnovabili e in impianti a tale scopo, rappresenta la possibilità di una diversificazione del mercato energetico e di una riduzione delle emissioni di gas serra e dell’inquinamento atmosferico, e la possibilità di acquisire i certificati di credito delle emissioni, sfruttando la possibilità prevista dal protocollo di Kyoto di acquisire certificati verdi e crediti di riduzione delle emissioni attraverso progetti promossi con i Clean development mechanisms (Cdm).

Ovvero anziché intervenire a casa propria con tagli alle emissioni, si avvalgono del fatto che gli impianti costruiti in paesi in via di sviluppo valgono crediti di emissioni, per bilanciare i debiti accumulati. E’ evidente che al contempo per i paesi in via di sviluppo avere la possibilità di accedere all’energia elettrica e di farlo in maniera alternativa alle fonti fossili costituisce una concreta opportunità di sviluppo, oltretutto sostenibile. Ma i costi ancora elevati delle tecnologie rinnovabili rappresentano per questi paesi un ostacolo e impongono la necessità di avvalersi di una cooperazione internazionale. Niente di male in questo, purchè appunto rimanga nell’alveo della cooperazione e non degradi in mero opportunismo economico.
Fabio

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Commenti al Post:
filtr
filtr il 30/06/08 alle 23:56 via WEB
pero che blog interessante...ciaoooooooo
 
 
i_companeros
i_companeros il 01/07/08 alle 20:38 via WEB
ma valà.. in giro c'é molto meglio!! grazie cmq... a presto fabio...
 
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