Post n°144 pubblicato il 05 Marzo 2005 da john.keating
Laudatis temporis actibus. La tv di una volta sì, che era una cosa seria. Anche quando faceva intrattenimento. Da ragazzetto c’erano un sacco di cose che mi piacevano in tv, e c’erano un sacco di personaggi per i quali stravedevo. Mi sono rimasti “dentro”, come si suol dire. E poi una sera guardo Zelig e vedo arrivare un tizio, Martin Scozzese (! “grande mago!”) che rifà le gag di Mac Rooney, pari pari. Che tenerezza. E se Pino Campagna (“ci sei? sei connesso?”) rifà il Lino Banfi pugliese incazzoso (ormai, giustamente, un classico), sempre a Zelig, Rubens rifà Felice Andreasi, e intanto Bonolis rifà Sordi e Totò, e coi suoi siparietti fa sembrare Sanremo il vecchio (e glorioso) Studio Uno. Grande successo popolare. Chissà perché. Certo, la miglior tv è quella di Arbore, che più che rifare tutte insieme L’Altra Domenica, Cari amici vicini e lontani, Quelli della Notte e Indietro Tutta, fa dichiaratamente modernariato tv. (Magari la stessa mossa non riesce a Cochi e Renato, le cui esibizioni suonano fuori tempo massimo, anche se restano comunque su un altro piano rispetto a Maurizio Costanzo, la cui trasmissione al mattino ha un ritmo per cui potrebbe meglio essere intitolata “Mattinata al Geriatrico”, sottotitolo “Andiamo a trovare nonno”.) Non si inventa nulla, pare. O forse, la tv ha un suo linguaggio fatto di immediatezza, di leggerezza intelligente, ricalcata sul carattere dei suoi protagonisti – Arbore mette in scena se stesso, dopotutto, come fecero Nanni Loy, Lele Luzzati, e in fondo tutti coloro che fecero la miglior tv del passato. McLuhan sarebbe d’accordo con questa idea. Così, io non lo so se la tv attuale rappresenti lo Zeitgeist dei giorni nostri: il suo peggio, forse. Perché il meglio, quello sembra essere senza tempo.
Post n°143 pubblicato il 02 Marzo 2005 da john.keating
Una volta chiesero ad Aristotele a cosa servisse la filosofia. La risposta, sprezzante ed orgogliosa, è rimasta nella storia: “la filosofia non serve a niente, perché non è una serva.” Nel suo blog, Lilith ha aperto una riflessione che tocca un nervo scoperto della nostra società, come conciliare – per le donne, e per le famiglie – famiglie, figli e lavoro? Non è un problema semplicemente sociale, o sociologico. È una questione che via via la si affronta, tocca argomenti sempre più profondi, dipanandosi lungo sentieri che portano sempre più lontani, sino a toccare questioni fondamentali e fondanti, in modo persino sorprendente. È come quando, osservando una colata lavica, arriviamo a percorrere la struttura della Terra non solo arrivando a comprenderne la sua struttura intima, costitutiva, ma anche la sua storia, la sua origine, il suo passato, e persino ciò che sarà. Perché questo accade? Qual è la via per trovare la risposta? Le buone risposte vengono dalle buone domande, ma le buone domande vanno correttamente istruite. Riflettere sulla risposta di Aristotele, tacere, ascoltando che dice, aiuta a porre la domanda. Dobbiamo cioè porre la domanda non pensando al suo senso utilitaristico, pragmatico, pensando cioè di trovare immediatamente la risposta come soluzione del problema, ma pensare al fondamento che essa richiama. E qual è questo fondamento di cui la domanda ci parla? Uno dei temi fondamentali dell’intero percorso filosofico di Martin Heidegger – e di tutti coloro che si sono confrontati con lui – è proprio la questione del fondamento, dei concetti fondamentali (Grundbegriffe). Il fondamento del nostro tempo è la tecnica. Che cos’è la tecnica? Con una buona dose di approssimazione, e facendo una notevole violenza alla ricchezza del termine (e delle analisi che sottende), possiamo intendere la tecnica come un modo di intendere il mondo come separazione tra le cose e ciò che esse significano per noi. Tradotto nel linguaggio dell’esperienza quotidiana, è quel modo di concepire il mondo come “oggettivo”, separato dalle interpretazioni “soggettive” che attengono a ciascuno. La scienza, l’economia, la matematica, sono le sue massime forme di espressione e di conoscenza. Una cosa è “vera” quando è “esattamente definita”, scientificamente dimostrata. Edmund Husserl descrisse mirabilmente il sentimento di spaesamento che ci coglie di fronte alla “fredda” oggettività della conoscenza scientifica: “Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto (…) Nella miseria della nostra vita (…) questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso.” È quel senso straniante che ci coglie di fronte alla struttura del mondo del lavoro, un mondo nel quale non è il lavoro ad essere al servizio della persona, ma viceversa. È la logica dell’impresa, del profitto economico, dell’oggettività della produzione, considerati come misura esatta, oggettiva, ineludibile, imprescindibile, del valore e della “realtà”. Perché questo accade, è questione lunga, e abbondamente affrontata nel pensiero filosofico del Novecento. Di certo, come diceva lo stesso Heidegger: “Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona, e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra.” Hegel postulò che il reale è razionale, e il razionale è reale. Hegel ha vinto, descrivendo ciò che è il nostro atteggiamento fondante. Ma sono passati duecento anni dalle sue affermazioni, e Heidegger sono ormai quattro decenni che ci ha resi avvertiti del fatto che “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.” E ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca è l’assoluta inadeguatezza delle nostre categorie di pensiero, la loro schizofrenica contraddittorietà, di fronte alla vita che viviamo. In un certo senso, è anche ciò di cui parlavo nel (tremendo) post precedente. Questo è il problema del fondamento. Il fatto che, come dice Galimberti, la tecnica ha cessato di essere uno strumento nelle mani dell’uomo, trasformando l’uomo in uno strumento guidato dalla tecnica. E la condizione femminile, la sua contraddittorietà, è una delle più evidenti manifestazioni di questo fenomeno. Ripensare il fondamento, dunque. Questo dice la filosofia. Che non dà risposte, perché non è serva. Perché non è uno strumento. Perché non è una tecnica. Ripensare il fondamento. Ma “i Greci impiegarono tre secoli per scorgere il sentiero dell’essere e noi dovremmo affrontare in un semestre le forme di pensiero all’altezza dell’evento che si sta imponendo.” Non è di risposte che abbiamo bisogno, ma di saper porre buone domande. E le buone domande originano dal silenzio che sa ascoltare. No, la filosofia non serve a nulla. Non è una serva. Ma mai come ora, non è di servitù che abbiamo bisogno, di qualcuno che faccia il lavoro al posto nostro. È dell’umiltà di chiedere, e di saper ascoltare, ciò di cui abbiamo bisogno.
Post n°142 pubblicato il 01 Marzo 2005 da john.keating
Da dove viene la parola? Da dove viene il linguaggio? In senso stretto, il divino è ciò che trascende l’uomo. È ciò che lo precede, e che lo sostiene. La parola poetica è la parola autentica: la parola che si istituisce come significato. Ed è il segreto di questa Rivelazione che l’uomo ricerca, da sempre, da che è uomo e in quanto è uomo, in tutte le molteplici forme che gli sono consentite. Ed è per questo che, rovesciando la celebre locuzione di Benedetto Croce per cui “non possiamo non dirci cristiani”, in un senso molto più ampio, profondo, costitutivo, io dico che possiamo dirci non credenti, ma non possiamo dirci atei.
Post n°141 pubblicato il 26 Febbraio 2005 da john.keating
Quel che non capisco - o che capisco benissimo - è perché una buona parte delle persone che usa il blog per accendere discussioni, poi non le sa reggere. Dio scampi poi quando si prova a contraddire. Tutti questi campioni del libero pensiero (il loro) si dimostrano completamente fasulli come polemisti, visto che la loro vis polemica si limita a tacciare non si sa mai bene chi di vigliaccheria, meschinità, disonestà intellettuale, o peggio. Loro, gli illuminati, i retti, gli onesti, i giusti, i corretti, i superiori, le vittime della disonestà umana. Talvolta, si spingono nei blog altrui a sparger consigli di vita, con un tono tra il rassegnato e di chi la sa lunga su come va il mondo. Povere vittime. A parole, figuriamoci!, sono la personificazione del rispetto per l'altrui pensare: somma virtù, sommo bene, madre di tutte le virtù. L'arma finale di costoro è immancabilmente "il blog e mio e ci scrivo quel che mi pare". Cosa tengano i commenti aperti a fare allora, non si capisce. Mandarli fuori giri sarebbe un gioco da ragazzi, se non fosse che costoro sono la peste dei blog: insozzano con la loro piccineria incazzosa, tolgono l'aria a qualunque confronto, irritano per la loro banalità vestita di supponente alterigia (e poi il presuntuoso sei immancabilmente tu, sempre!) fatta di niente e nutrita di vuoto. Alla fine, parlare con loro viene a noia: non si conclude nulla, non ci si arricchisce di nessun altro pensare, e resta solo una desolante sensazione di pochezza e di supponenza irriducibile a qualunque confronto e refrattaria a qualunque ragione dialettica...
Post n°140 pubblicato il 24 Febbraio 2005 da john.keating
Trovo sinceramente stucchevole l'unanime cordoglio che il mondo politico e culturale sta manifestando per la morte di Don Giussani. Tanto per non usare giri di parole. Personalmente, questa storia che tutti i morti sono uguali, non mi va giù. Sono uguali in quanto uomini, ma gli uomini sono tali innanzitutto e perlopiù perché producono significati. I loro atti, ciò che gli uomini compiono in vita, sono il senso stesso del loro essere umanità, così che ciò che un uomo ha compiuto in vita non può passare in secondo piano all'atto della sua scomparsa. Don Giussani non era un santo. Non lo era. Il movimento che ha fondato e guidato ha avuto commistioni col potere politico pesantissime, collusioni con organizzazioni mafiose, ed è stato al centro di scandali economici e finanziari. Era un centro di potere che ha pesantemente condizionato la vita di questo paese, secondo una logica e un'ottica tutt'altro che largamente condivisa. Ma al di là di questo, l'ideologia di Don Giussani era fermamente antimoderna, conservatrice e per certi tratti persino reazionaria. Esso si è battuto contro la modernizzazione dei costumi, contro le conquiste civili e sociali; era contro l'ideale illuminista e democratico largamente alla base del nostro concetto di "società civile". Mi spiace, non è morto un Santo. Morire è semplicemente una condizione fondamentale dell'Uomo. Ma questo non significa assolvere ciascuno dalla responsabilità delle sue azioni: queste egli è stato. Di queste si deve parlare. Di questo si deve giudicare.
Post n°139 pubblicato il 23 Febbraio 2005 da john.keating
E poi ci sono le canzoni che sono indissolubilmente legate ad un film, ad una scena, ad una immagine. Canzoni che si sovrappongono al film, e film che te le richiamano immancabilmente, sistematicamente, automaticamente. Così, ti capita di riascoltare casualmente quella canzone, ed eccoti a cantarla a piena voce, in auto, come forma di liberazione, e forse di affermazione di te, di ciò che provi, e di ciò che sei. Una è naturalmente Ritornerai di Bruno Lauzi, che non riesco a staccare dalla scena de La messa è finita, con cui la famiglia di Michele si ritrova – per un’ultima e definitiva volta – unita, a ballare sul terrazzo di casa: sarà quel senso di straziante e ineluttabile perdita, che pervade tutto il film, la perdita dell’innocenza originaria, riscattata solo nella stupenda scena finale, in cui, di nuovo, sulle note di Ritornerai, tutti gli invitati al matrimonio ballano in chiesa. La perdita, la riconquista della speranza. E poi, Can’t Take My Eyes Off You, di Frankie Valli (o Andy Williams, o le Supremes… ma la mia preferita è la versione di Valli), e la scena del matrimonio de Il cacciatore, l’ultimo momento di disperata felicità, di fronte al destino che reclama il suo credito… Canzonette.
Post n°138 pubblicato il 22 Febbraio 2005 da john.keating
A volte, raramente, capita di essere colto alle spalle da una canzone. La melodia, l'arrangiamento, l'interpretazione, o tutto questo insieme, ti prendono e ti trasportano in qualche luogo del tuo spirito che non conosci, o che ti sembra nuovo, inusuale, inaspettato. Non si tratta necessariamente di Capolavori - anzi solitamente si tratta di canzoni in cui ti imbatti per caso, distrattamente, e forse anche a motivo di questo ti scuotono e ti sorprendono anche di più. Non accadono spesso illuminazioni del genere. L'ultima volta, m'è successo ieri, con questo brano di Nelly Furtado, posto (significativamente?) in coda al suo secondo album, acquistato più per noia curiosa, e per sfida, che per altro. Un intro di organo - sembra un inno ecclesiale - che si distende come sottofondo di chitarra arpeggiata, campane e arpe, a punteggiare una melodia urgente, alla Joni Mitchell diresti, cantata con voce purissima, sull'ottava più alta, e forte, e appassionata, e commovente. Un canto d'amore, che riecheggia sogni d'infanzia, niente di più di questo. Ma sei minuti e trentatré secondi di luce vera. La voce del Divino sa scegliere gli interpreti sempre più inaspettati, per parlarci.
Post n°137 pubblicato il 19 Febbraio 2005 da john.keating
« A me piace dimenticare, perché quando uno arriva in un posto nuovo osserva i minimi particolari, come il cielo, il colore delle case, il modo di camminare della gente, le maniglie delle porte: tutto insomma. Poi il luogo diventa familiare e non si notano più i particolari. Sono molto legato a questo passo, riesce ad emozionarmi ogni volta, da anni. Esso rivela però anche una sorta di paradosso circa la conoscenza e la consapevolezza del significato dei luoghi. Dall’altra, l’esser se stessi in un luogo, l’appartenervi, sembra postulare la dimenticanza, la messa tra parentesi di questi stessi significati, quasi che esser se stessi sia innanzitutto e perlopiù dimenticarsi di se stessi. « La realtà geografica esige una adesione così totale del soggetto, attraverso la sua vita affettiva, il suo corpo, le sue abitudini, che gli capita di dimenticarla, come può dimenticare la sua vita organica. Eppure questa vita continua, nascosta e pronta a risvegliarsi. L’allontanamento, l’esilio, l’invasione, fanno uscire l’ambiente dall’oblio e lo fanno apparire come privazione, come sofferenza o come tenerezza. » E tuttavia, il paradosso è soltanto apparente. Ed ancora una volta, sono i poeti a dimostrarcelo. Quando un poeta canta la sua terra, la sua casa, racconta con parole nuove – o parole rese nuove – una condizione abituale, scatuisce un senso di intimità, di raccoglimento, che sfocia nella commozione. Ed è ancora, quella dei poeti, e degli artisti, la profonda pietas dell’interrogare ciò che usualmente vien fatto tacere, per raccontarci e renderci consapevoli del prezioso tesoro del nostro stare e di ciò che lo rende possibile.
Post n°136 pubblicato il 14 Febbraio 2005 da john.keating
Proviamo ad immaginare un mondo senza fantasia, senza immaginazione. Ci riusciremmo? La foto rappresenta la ricostruzione al computer del volto di un piccolo di Neanderthal, realizzata dagli scienziati dell’Università di Zurigo. Nondimeno, quell’immagine emana un fascino, una suggestione tutta particolare. Una distanza ontologica scavata da una concezione del mondo – la nostra, che già usare il termine concezione per il mondo dei Neanderthal sarebbe fuorviante – del tutto inarrivabile per essi. Per noi uomini, tutto ciò è straordinario e quasi inconcepibile. Come non capire che un insieme di alberi forma un bosco, e che un gregge non è che tante e tante pecore tutte insieme? Proviamo ad immaginare un mondo privo di fantasia, di immaginazione. Eh sì, il Linguaggio illumina l’Ombra…
Post n°135 pubblicato il 13 Febbraio 2005 da john.keating
Quando Ulisse rimette piede per la prima volta nella sua reggia, nelle mentite spoglie di mendico miserabile e vecchio, “sedette sulla soglia di frassino, oltre la porta, Ulisse non entra in casa. Si ferma sulla soglia. Sulla soglia di casa. La soglia di casa. Non c’è circostanza più difficile, io credo, del non poter esser se stessi, a proprio agio, in casa propria: quando l’ansia, le preoccupazioni che mi possiedono, non possono essere manifestate nella mia casa; quando sono costretto a tenerle dentro di me, provo un senso di disagio che sconfina nell’angoscia: l’angoscia di un mondo che mi costringe dentro me stesso, che mi rifiuta, che – in un certo senso – mi chiude fuori. Ed è allora che la soglia di casa perde la sua magia, il suo potere taumaturgico. Fuori. Dentro. La porta può essere chiusa, e può essere aperta, ma la soglia non è niente di tutto questo. « … Silenzioso entra il viandante;
Post n°134 pubblicato il 09 Febbraio 2005 da john.keating
Odissea, Libro Vigesimoterzo « Ormai la spada di ferro ha compiuto A dispetto di un dio e dei suoi mari Nell'amore del letto condiviso che nei giorni e notti dell'esilio Jorge Luis Borges Già, dov'è quell'uomo che siamo stati? Ma dov'è quell'uomo, che errava per il mondo come un cane? Dov'è quell'uomo?
Post n°133 pubblicato il 08 Febbraio 2005 da john.keating
Forse la poesia andrebbe letta, se mai fosse possibile, al buio. E certo al buio andrebbe meditata. Un cieco « Non so qual è la faccia che mi guarda Jorge Luis Borges Sono le parole a tastare le cose nel buio del significato; a indovinarne il perimetro e la forma; la consistenza e la superficie. Sono le parole a disegnare i contorni del significato che esse hanno per noi: la vana superficie delle cose che porta a credere ch’essa racconti la loro importanza. La “strana sera” dell’Occidente, la Terra del sera. La Terra del declinare, la Terra dell’abbandono. Abbagliati dalla falsa luce in cui vediamo le cose, siamo ciechi alla Luce delle parole; e viviamo perciò una Terra dalla sera perenne. E come abbiamo bisogno del buio per vedere la luce delle stelle e dei Celesti, così abbiamo bisogno del buio per vedere la luce del Linguaggio. Solo un cieco poteva cogliere lo splendore delle parole, solo un cieco può guidarci nell’esplorazione della loro comprensione, e della comprensione del mondo cui danno forma.
Post n°132 pubblicato il 06 Febbraio 2005 da john.keating
Una delle mie poesie preferite di Montale è Ho sceso, dandoti il braccio…, dedicata alla moglie, poco dopo la sua scomparsa. « Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale È una poesia straziante, apparentemente, nel suo omaggio alla compagna perduta, per sempre, irrimediabilmente. Una solitudine certo incolmabile, inconsolabile: una esistenza strappata a sé, che lacera l’anima sino a perdere la propria identità, e non prevede elaborazione del lutto possibile… Eppure… Sì, parla di un Amore che non c’è più, questa poesia, di un Amore che manca, che lascia un vuoto incolmabile, che strazia a motivo della sua Assenza. Fortunato chi potrà identificarsi, in questa poesia.
Post n°131 pubblicato il 03 Febbraio 2005 da john.keating
Dunque c'è questa sentenza di un giudice di pace di Torino, che ha annullato l'espulsione di un giovane senegalese irregolare, perché gay, e che per questa ragione, se fosse tornato in patria sarebbe stato incarcerato. L'onorevole ministro Calderoli (Lega, occorre dirlo?) ha commentato in modo aulico: "Siamo il paradiso dei finocchi."
Post n°130 pubblicato il 02 Febbraio 2005 da john.keating
E allora c'è questo sito, www.humanclock.com, che propone l'orologio umano, foto che rappresentano i minuti dell'orologio: ogni minuto, una foto (ma in realtà, le foto sono cinque o sei volte tanto). Foto scattate in tutti gli angoli del mondo, dalle persone più diverse e coi soggetti più vari e fantasiosi. Un curioso, pittoresco effetto-patchwork, qualcosa che apparentemente sta la goliardata di dimensioni mondiali e il dadaismo up-to-date. Entri nel sito, e l'effetto è quello di partecipare ad un carnevale, in cui la fantasia, la bizzarria, l'originalità un po' folle ed un po' guascona, sono sfrenate. E a cui si è chiamati a prender parte in prima persona, inviando le proprie foto, le proprie soluzioni, il proprio contributo. Il Tempo, nell'ermeneutica post-heideggeriana, è il Tempo dell'Altro. Affermazione ponderosa e poderosa, che merita miglior studio. Non lo so. C'è un qualcosa di commovente in tutte quelle persone che per gioco, per celia, divertono se stesse cercando di divertire noi, rappresentando ore e minuti di una giornata. C'è un senso di partecipazione, di disponibilità, di gioia immotivata e sincera, un moto di affetto verso chiunque.
Post n°129 pubblicato il 31 Gennaio 2005 da john.keating
Ad A., che sa di cosa parlo, ed a tutti quelli che... beh, ci siamo capiti Quando voglio farmi veramente del male, ascolto Rod Stewart. Ho praticamente tutto quello che ha inciso tra il ’69 ed il ’76, con Jeff Beck, i Faces, e soprattutto, soprattutto, da solo. In realtà, la sofferenza indotta da Rod Stewart è di un grado diciamo così ontologicamente superiore. Non mi riporta a niente – anche perché, pur avendomi sempre divertito il personaggio, e la sua voce – ho scoperto le sue cose migliori in età già un po’ avanzata, dopo i trenta insomma. E sono anche convinto che un motivo ci sia. Perché di canzoni che fanno male nei suoi dischi ce ne sono almeno tre per disco. E che dire di Maggie May, la sua canzone più (giustamente) famosa, la storia dell’amore tra uno studente ed una prostituta. Una delle rock ballads per eccellenza, ed ancora una melodia che disegna quel senso di malinconia, di ineluttabile perdita, vissuta con la serena consapevolezza della inevitabilità del tutto. E You Wear It Well, e Lost Paraguayos, e Cut Across Shorty, e Mandolin Wind, e Blind Prayer, e Handbags & Gladrags, e I Wouldn’t Ever Chance a Thing, e Cindy's Lament, e… Quando ho voglia e bisogno di straziarmi l’anima, vado da Stewarty. So di trovare quel che cerco.
Post n°127 pubblicato il 27 Gennaio 2005 da john.keating
Diciamo le cose come stanno. Mi sono stufato. Del blog e di quasi tutto il resto. Buone cose a chi se le merita.
Post n°126 pubblicato il 19 Gennaio 2005 da john.keating
Questa è da raccontare. Mettiamola alla voce “Vita vissuta”. Sottotitolo: ma che gente c’è, in giro? Mi arriva in messaggeria uno sfottò, da una utente mai sentita (se ne tacerà il nome, com’è naturale). Fine delle trasmissioni. Oggi, a distanza di due o tre giorni dal fatto, leggo questo messaggio da parte della medesima utente: « ma dico... ma che modi sono? voglio dire, era chiaro che stavo sbagliando persona... che ti avevo preso per qualcun altro...perchè darmi corda? io queste cose non le sopporto affatto, come se qui fosse una terra di nessuno priva di responsabilità di sorta verso il resto del genere umano... bah... avete la stessa immagine sul blog, qualcosa nello stile, la firma in calce alle lettere.. non sono rincoglionita, volevo provocarlo, scherzare, ma se ci fosse stato altro, di più serio... io non sono capace di prendere in giro qualcuno, e poi, che divertimento c'è?» Trasalisco. E poi rispondo: «Ascolta bene. "Darmi corda"... siamo un po' pieni di noi stessi eh, o sbaglio? Mi hai mandato due messaggi. Al primo ho risposto educatamente, al secondo nemmeno quello. Non contenta, l’utente replica: « se è il tuo modo di dire "mi spiace, non avevo intenzione" prendo atto e finisce qui se è davvero, come sembra, un tentativo di insegnare l'educazione a una sconosciuta (che qui è tanto a casa sua quanto lo sei tu e che magari non ha il minimo, più vago, più pallido bisogno di stabilire territori e possessi), preferisco non definirlo e finisce qui se è qualcos'altro, finisce qui » Roba da non credere… Non mi esimo dalla replica finale: « "Mi spiace"? "Non avevo intenzione"??? Ma di che parli? Tu farnetichi. Sei stata scortese, inopportuna e supponente, questo è quanto. E non hai nulla da definire, oltre a questo.
Ora, io veramente non ho parole… Graditi commenti.
Post n°125 pubblicato il 18 Gennaio 2005 da john.keating
Cerco di emergere a fatica da una persistente influenza - tre giorni a 38° fissi: sarei la felicità di qualunque giocatore del lotto. Il termometro si è stufato di indicarmi la temperatura: mi guarda con l'aria di compatimento dovuta a chi fatica a realizzare le cose. Trovo vari e variegati commenti al post precedente. Ognuno la vede a suo modo, come è giusto e bello che sia. Che la Musica sia di volta in volta allegra, drammatica, scherzosa e quant'altro, sta nella sua natura: essa proviene da quella parte primordiale di noi non ancora toccata, organizzata dalla Logica, dalla Ragione. La Musica viene dall'Ombra, appunto, ed è la parte di noi che meno conosciamo, la parte ferina, istintuale, oscura, onirica. Poi, con l'elaborazione dei concetti, la facciamo diventare qualcos'altro: la manifestazione di un valore, l'espressione di un significato, un simbolo... Ed è allora che abbiamo bisogno del potere salvifico dell'ironia, per rovesciare le sovrastrutture imposte, le convinzioni che lasciano il tempo che trovano (i Genesis valgono più di Goldrake, Ninfea? Ma dai? E Brahms a che punto sta della graduatoria? E Frank Sinatra? Ci sarà una top ten, immagino: Mozart e Beethoven venti settimane nella classifica dei dischi caldi... rido. E ridi anche tu!). Curioso. Non c'è religione al mondo che abbia previsto il ridere come struttura del divino. Non c'è. Il sorriso - sempre di vago compatimento, magari - ma il ridere mai. Così come nessuna ideologia, pratica di vita, filosofia. (No, neanche Bergson, tranquilli. Lui si è limitato a spiegare perché si ride). Applicato alla Musica, il ridere mostra tutta la ridicola fragilità, tutta la pomposa supponenza, tutta la vacua indeterminatezza, delle classificazioni. Assistere ad un concerto come predisporsi ad un rito: emozioni già previste, preconfezionate. Una celebrazione, non una Rivelazione. Tutto è già stato detto, tutto è stato compreso, spiegato, classificato, incasellato. Tutto tenuto rigorosamente a bada dai ferrei scherani della Ragione. Un Carnevale previsto e concesso: in questo passaggio ti puoi commuovere, qui puoi esaltarti, qui lasciarti trascinare del lirismo. Fine. Il potere creativo dell'ironia gioca sul fuori contesto, costringe a ripensare alle nostre classificazioni per quel che sono. Giochetti di società. "Io ascolto il jazz" (mecoioni!). "E io ascolto Goldrake" (ah, che merdaccia...) Boh? Uno che ho sempre ammirato da questo punto di vista è Mike Oldfield. Io ci sono cresciuto, con queste cose qui. Ed è probabilmente anche grazie a loro, che ho un profondo senso del Divino, ma un senso del Sacro piuttosto relativo...
Post n°124 pubblicato il 15 Gennaio 2005 da john.keating
Per ragioni generazionali non sono mai stato un fan dei cartoni animati giapponesi, Goldrake e Mazinga in primis. Probabilmente gioca anche il mio innato snobismo, anche se - date adeguate condizioni e circostanze - potrei diventare un fan di qualunque cosa, come in effetti spesso è accaduto. Ma la di là di questo, mi ha meravigliato, nel senso proprio di aver suscitato meraviglia, la versione Kings of Convenience-style di Goldrake, realizzata da (tal) Alessio Caraturo. Vai contro i mostri lanciati da Vega Beh, geniale, che devo dire? E non è nemmeno una brutta canzone, tutt'altro. E dà da pensare, volendo... Del resto, di faccende simili è piena la storia della musica e delle canzonette. E la cosa davvero curiosa è che nessuna delle due versioni è quella originale. Avanti o popolo, alla riscossa,
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Inviato da: pal_jazz
il 05/07/2006 alle 15:28
Inviato da: john.keating
il 19/05/2006 alle 17:40
Inviato da: ladymiss0
il 07/10/2005 alle 10:40
Inviato da: singleproblem
il 07/10/2005 alle 01:49
Inviato da: Stephanie10
il 06/10/2005 alle 20:33