GENOVA, LUGLIO 2001
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Sabato mattina la ruota della vita mi ha dato in sorte un simposio dell'Udc. Con un pezzo grosso del partito. Una cosa che viene classificata trenta righe e una foto.
Alla fine della fiera non è stato così deleterio, perché l'omino, dopo aver spalato robuste badilate di merda su Prodi, ha fatto lo stesso con Berlusconi.
A queste cose funziona così: io mi metto in fondo. Dietro, dove non ci sono neppure le sedie. Mi appoggio con la spalla da qualche parte e scrivo. Mi metto in fondo perché, mettendomi davanti, correrei il rischio di essere immortalato di sguincio da qualche collega o presunto tale, e vedermi poi pubblicato da qualche parte. Ed essere pubblicato in mezzo a quelli dell'uddiccì non è proprio il massimo della vita.
Quando l'incontro sta per finire, o sta per finire la capacità degli zebedei (modo elegante per dire che ne ho le balle piene), aggiro le file e vado davanti, di lato. E guardo i partecipanti. Nelle prime file ci sono sempre i notabili o aspiranti tali. In mezzo quelli che sì, sono cose cui biogna andare perché bisogna farsi vedere dai pezzi grossi che ti invitano. Dietro ancora ci sono quelli che ci vanno perché ci devono andare, ma si fanno valanghe di fattacci loro (qualche anno fa mi è successo questo. Avevo vinto un incontro con l'onorevole - o senatore, chi se lo ricorda - Itao Bocchino, di An. Vado in fondo. Mi appoggio. Scrivo. Mi rompo. Vado davanti. Faccio la foto. Torno indietro. E mentre sto tornando, quando mi mancano un paio di metri per riaquistare la libertà, mi ferma un tizio. Mai visto nè conosciuto. Uno che ha passato tutto il tempo a chiosare e ridacchiare con il suo vicino di sedia. Mi ferma e mi dice: «Ma potete pubblicarla quella foto?». Dove vorrà andare a parare questo, mi chiedo. E lui: «Eh, dovrebbe essere un giornale vietato ai minori. Mettere la foto di...bocchino..», e giù a ridere e a dar di gomito col vicino. Per un attimo ero stato tentato di fargli una foto e dirgli: «Se mettiamo il bocchino possiamo mettere anche la testa di cazzo», ma poi avevo lasciato perdere»).
Mentre sono lì che armeggio con la macchina fotografica si avvicina una patatona bionda, con un vestitino bianco e corto che ha anche il vantaggio di essere discretamente trasparente. Viene lì e dice: «Ciao». Urca - penso io. «Ciao».
«Io sono la sua addetta stampa».
«Uau, che fortuna», e continuo ad armeggiare. E lei se ne va.
In genere, accanto al pezzo grosso, seduto al desco, c'è il suo delfino. Il delfino, mentre il boss parla, non lo guarda mai (guardare uno dal basso verso l'alto non depone a suo favore), ma guarda la scrivania. E annuisce perennemente. E quando l'altro arriva alla fine del periodo lui batte le mani, e dalla platea scatta l'applauso.
L'omino parla dell'importanza della famiglia, il delfino batte le mani, la platea applaude con fervore. Guardo la prima fila di plaudenti. Sette sedie, il corridoio, sette sedie. Di quei 14 in prima fila ne conosco personalmente otto. Di quegli otto sei mi hanno detto a più riprese di essere della corrente avversa all'omino, perché lui ha il vizio - tra le altre colpe - di avere molte amanti e di piazzarle tutte in posti chiave delle banche. Probabilmente così facendo occupa tutti i posti che, altrimenti, potrebbero gestire loro, per cui lo detestano. Comunque, quando scatta l'applauso per la famiglia, anche loro battono le manone sorridenti. Forse avere qualche amante non fa deragliare la famiglia.
Me ne vado. Butto un'occhio all'addetta stampa, che accavalla generosamente la gambette. Tra qualche anno, sicuro, la troverò direttrice in qualche banca.
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UNA QUESTIONE DI MANI
nelle condizioni di avere
bisogno di una mano.
In genere qualcuno c'è.
Io ne ho avuto bisogno.
Le mani ci sono state.
Adesso le mie,
assieme a quelle
di tanti altri,
sono nel
"Blog for Africa".
Lo trovate qui accanto,
a sinistra.
In attesa di altre mani....
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