GENOVA, LUGLIO 2001
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« Forse | Un castoro sugli zebedei » |
Premetto subito che trovo la violenza sulle donne (ma anche su bambini, o sugli uomini, perché no?) una delle cose più obbrobriose. Dovrebbe essere una di quelle cose in cui si mette il responsabile in galera, senza troppi riguardi, e poi si butta via la chiave.
Detto questo, quando sento del solito extracomunitario che violenta la malcapitata di turno stento a comprendere le reazioni della gente e della politica. Mi spiego. Grosso modo fare violenza a qualcuno vuol dire costringere quel qualcuno a subire un atto (nel 95 per cento dei casi a sfondo sessuale) contro la propria volontà. Non è una definizione da vocabolario, ma è come la penso io. Per cui mi sta bene che ci si indigni, si chiedano provvedimenti, si dia la colpa a quelli della parte politica avversa (senza dimenticare che statistiche alla mano le violenze denunciate non hanno subito grosse variazioni da quando al governo c’erano gli uni o gli altri). Però non capisco perché non ci si indigni e, anzi, si guardi con una specie di maialesco compiacimento a tutte quelle che vengono violentate ogni sera, ogni giorno, in ogni città, non dico nel disinteresse generale, ma comunque in una sorta di tacito consenso.
Perché spero nessuno voglia farmi credere che quelle che battono, a napoli come in val d’aosta, lo facciano per diletto, perché è quello che hanno sempre voluto fare nella vita. Tu che vuoi fare da grande? Io l’infermiera. E tu? Io voglio farmi sequestrare il passaporto, farmi massacrare di botte e poi battere la sera. E tu? Io voglio aprire un negozio di scarpe…. Ma, tranne i casi più eclatanti di cronaca, qualcuno ci ha mai fatto un mezzo pensiero a questo? Qualcuno si è mai chiesto cosa le porta a fare quel lavoro? Poi Carla Corso e Pia Covre le ho sentite anch’io raccontare la loro storia. Operaie che passavano le loro giornate a beccarsi pacche sul culo dai colleghi e a lavorare otto ore in fabbrica per una miseria. Hanno deciso di fare la vita. E’ stata una loro decisione: l’hanno fatto contente di farlo, si sono fatte i soldi. Buon per loro. Mi sta pure bene se qualche studentessa preferisce aprire le gambe che mettere volantini in buca o dare ripetizioni: contente loro contenti tutti.
Ma non è tutto così. C’è chi quel lavoro non vorrebbe farlo. Ma tra botte e minacce non possono fare altro. Ogni tanto qualcuna ci crepa anche. Una fucilata e via. 30 secondi di cronaca al tiggì, nessun responsabile mai, o quasi, al gabbio. E via di nuovo.
E quelli che tutte le sere le caricano, le sbattono sul sedile di una macchina e poi se ne vanno, non sono extracomunitari illegali meritevoli di espulsione. Sono italiani in gran parte. Gente a posto. Padri di famiglia. Uomini di chiesa. Gente che se le scopa e poi si incazza perché non c’è sicurezza, perché una brava ragazza non può correre il rischio di uscire la sera ed essere violentata da un balordo. Ci sarebbe da ridere. Ma da ridere non c’è…
Torno un attimo su quella cosa di qualche post fa sulle tessere della vita che si dispongono in maniera casuale e danno risultati inaspettati.
Capita che ci sia una mattinata di sole, e tu salti in bici assieme agli altri, per la solita sgambata domenicale. Poi le tessere iniziano a combinarsi. Forse se avessi accelerato un po’ di più, forse se avessi frenato, forse se ti fossi fermato a pisciare sul ciglio di uno strada, forse se ti fossi fermati a riempire la borraccia ad una fontana, forse forse forse… Ma le tessere della tua vita si sono combinate così: ti hanno fatto arrivare ad un incrocio proprio mentre dall’altra parte arrivava uno che non ha fatto lo stop. Fine delle sgambate, fine delle domeniche mattina, fine delle tessere.
Ciao Remo
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nelle condizioni di avere
bisogno di una mano.
In genere qualcuno c'è.
Io ne ho avuto bisogno.
Le mani ci sono state.
Adesso le mie,
assieme a quelle
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sono nel
"Blog for Africa".
Lo trovate qui accanto,
a sinistra.
In attesa di altre mani....
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