GENOVA, LUGLIO 2001
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Pesano, le parole. Non di per sé. Pesano a seconda di chi le dice, perché le dice, come le dice, a chi le dice, per quello che evocano. Prendi la parola «addio». Cinque lettere come tante. Ma se quella parola devi dirla ad una persona cui tieni ti fa un male cane. Se devi dirla a uno che ti sta sui marroni, arrivato alla «o» capace che ne stappi una per festeggiare.
Con le parole ci campo. Ne scrivo tante e tante ne dico. E altrettante ne scambio.
Ho imparato a riconoscere i «cazzari». Quelli che parlano solo perché parlare, alla fine della fiera, è un fatto tecnico, e lo fanno anche se non hanno niente da dire. E quando dicono poi non mantengono, perché alla parola, anche la loro, non danno peso alcuno.
Ne ho bene in mente due, di cazzari. Il primo lo incontro ogni volta che vado a comprare le sigarette al bar. E’ lì al bancone. Sempre. A consumare quintali di boeri e spendere l’equivalente del Pil della Tunisia in campari e crodini, solo perché consumando può buttare generose occhiate nelle altrettanto generose scollature delle bariste (primo o poi glielo spiegherò che hanno risparmiato sulle insegne e investito sulle tette, che è un’operazione di marketing e non l’infatuazione di una ragazzotta nei suoi confronti). Lui, quando mi vede, divarica un po’ le gambette, bascula, mulina il ditino e mi dice: «Ti chiamo che stavolta mettiamo una suppostina a chi dico io», dove per mettere la suppostina intendesi sodomizzare giornalisticamente qualcuno. «Si, si, chiamami pure». Tanto lo so che non chiamerà mai. L’altro, quando il destino ci fa in qualche modo incrociare, mi saluta con un «Ti devo assolutamente parlare. Va bene giovedì alle 21?» Se anche quel giovedì a quell’ora mi dovessero operare a cuore aperto gli direi: «Va benissimo». Perché il giovedì, al massimo alle 19, arriva un messaggio del tipo: «Scusa, ma il lavoro va per le lunghe – o, a scelta – Ti ricordi la nonna malata?, vorrei ma la mia ragazza…. Ho una riunione improvvisa di partito…. Ho un’erezione per cui vorrei approfittarne ecc ecc».
Questo mare di stronzate per poi dire un paio di cosette, che con le parole ed il loro peso hanno a che vedere.
Prima cosetta: il peso che si dà alle parole. Conosco abbastanza bene due imprenditori (cioè, ne conosco un tot, ma di due sono particolarmente amico). Uno di questi viaggia su altri pianeti. Nel senso che quasi la totalità di quelli che passano di qui avrà qualcosa di suo. L’altro è uno che fa lavorare. E che un giorno mi ha detto: «Credo in questa cosa che vuoi fare e ti aiuto mettendo la mia parte di ricchi euri». Lui non è un cazzaro. Lui è uno che mi ha telefonato dicendomi: «Ti ricordi quello che ti avevo detto? Ecco, per ora non sono riuscito a mantenerla, ma lo farò». Conoscere qualcuno che tiene alla parola data, e si scusa per non averla ancora mantenuta invece di fare finta di nulla, è una cosa che fa star bene.
Seconda cosetta. Telefonata quasi notturna. «Ciao, ti ricordi….». Mi ricordo sì. Non ci sentiamo da una vita (il mio telefono è morto con tutti i numeri dentro). Bastano quelle tre parole per portarti alla mente una settimana di stage, una sera in birreria, una bolgia infernale con 800 macchine da scrivere che sparavo lettere a raffica, un pasta mangiata a Padova in una domenica piovosa. «Certo che mi ricordo. Come stai?». Anche risentire qualcuno che da un po’ non senti è una cosa che fa stare bene.
UNA QUESTIONE DI MANI
nelle condizioni di avere
bisogno di una mano.
In genere qualcuno c'è.
Io ne ho avuto bisogno.
Le mani ci sono state.
Adesso le mie,
assieme a quelle
di tanti altri,
sono nel
"Blog for Africa".
Lo trovate qui accanto,
a sinistra.
In attesa di altre mani....
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