Creato da rteo1 il 25/10/2008
filo aperto con tutti coloro che s'interrogano sull'organizzazione politica della società e che sognano una democrazia sul modello della Grecia classica
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IL "REGIONALISMO DIFFERENZIATO"
Con la legge 26.6.2024 n.86 sono state dettate "Disposizioni per l'attuazione dell'autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione". Prima di esaminare sommariamente tali disposizioni e fare delle valutazioni circa i loro effetti sull'ordinamento giuridico e sui rapporti civili e politici esistenti è opportuna una breve premessa a carattere generale. È buona regola, infatti, ricordare sempre che, nel ciclo reale del divenire delle cose, nulla, in assoluto, è "immutabile" ma "tutto si trasforma". Così anche la "Costituzione", come ogni altra "creazione umana", soggiace alle "leggi supreme e inviolabili della natura", tra cui quella della "mutazione", e questo ben lo aveva intuito Polibio che scrisse un saggio sulla "ciclicità delle Costituzioni". Anche G.B. Vico, con la tesi dei corsi e ricorsi storici, ha dato un valido contributo sapienziale. E anche tutte le scoperte scientifiche confermano, ormai, l'incessante opera aggregativa e disaggregativa di tutte le cose che, composte da eterne particelle-onde, devono ritornare ove tutto ha avuto origine (come sosteneva Anassimandro). Comunque, non c'è solo la "ciclicità" che, come detto, riguarda tutte le cose dell'intero universo (uomo incluso, che persegue, contro natura, l'immoralità del suo corpo) perché tra i "fondamentali", ossia come essenza della "struttura originaria" del Tutto (come direbbe E. Severino), vi è anche la "guerra", il "conflitto", che Eraclito chiamava Polemos, il padre di tutte le cose. La ciclicità, quindi, anche intesa come "l'apparire dell'esser sé degli eterni" (che si manifestano nello spazio-tempo, secondo la necessità del Destino) e il conflitto costituiscono gli archetipi comuni e, quindi, anche delle suddette disposizioni di attuazione, che sono, pertanto, la conseguenza sia del "riformismo" (che dà luogo alla "ciclicità normativa", come è avvenuto con la Riforma del Titolo V della Costituzione del 2001), sia del conflitto tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione (in democrazia). La domanda allora è che fare, come cittadini, visto che è stato presentato alla Corte di Cassazione il quesito referendario di abrogazione della legge di attuazione e sono state già raccolte le 500.000 firme (fatte salve, ovviamente, la dichiarazione di ammissibilità da parte della Corte, prima, e, indi, la partecipazione al voto di almeno circa 25.000.000 elettori e il raggiungimento "della maggioranza dei voti validamente espressi", come previsto dall'art.75, co.4, della Costituzione) ? È indubitabile che una posizione occorrerà certamente assumere nell'ambito sociale e civile dove regnano sovrane, ma relative, tutte le convenzioni, le messinscene, i rituali, le "regole umane di tutti i giochi" accettate e condivise come "verità", pur essendo mere finzioni. E allora, sulla base di tali premesse, è possibile poter affermare che, in generale, nel "conflitto" aperto contro o a favore delle disposizioni legislative di attuazione in argomento saranno nel "giusto politico" sia coloro che le difenderanno sia quelli che ne chiedono l'abrogazione, perché nessuno dei due (o più) schieramenti sarà mai nel "giusto assoluto", non appartenendo, quest'ultimo al mondo degli umani; inoltre, perché in tale parametro reale del "giusto" non sono ricompresi tutti i 60 milioni di italiani (in verità, si dovrebbe pensare in termini di cosmopolitismo e di biocentrismo), visto che nei fatti (e in diritto) sono relegati ai margini della distribuzione delle risorse economiche dai cinque ai dieci milioni di poveri. Il "bene comune", pertanto, cui spesso ci si appella, è soltanto una formula vuota, un modo di dire, e lo sarà fintanto che la democrazia liberale non sarà (solo o anche) "etica, sociale e solidale", concretizzando il principio di uguaglianza "reale" tra tutti i cittadini. Ciò detto, cerchiamo, ora, di approfondire gli articoli della legge, al di là di cosa accadrà per effetto della richiesta referendaria. La disamina che segue tenderà ad essere "oggettiva", per quanto sia piuttosto arduo perché siamo tutti socialmente e politicamente parti in causa.
Iniziamo, così, col dire che dalla rubrica si trae che la legge contiene "Disposizioni per l'attuazione dell'autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell'art.116, terzo comma, della Costituzione". Trattasi, pertanto: a) di "disposizioni di attuazione"; b) dell'autonomia "differenziata" delle Regioni a statuto ordinario; c) ai sensi dell'art.116, terzo comma della Costituzione. Per poter proseguire nell'approfondimento bisogna quindi iniziare proprio dall'esame della predetta norma costituzionale, precisando, però, sin da subito, che in tale norma, ma anche nel contenuto della legge di attuazione, non si parla di "autonomia differenziata" delle Regioni, anche se nei fatti è possibile che possa accadere. Detto ciò, va ora richiamato il terzo comma dell'art.116 che così sancisce: « Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata ». Come ben si rileva dalla disposizione del terzo comma dell'art.116 (pur avendo previsto all'articolo 10 della legge la possibilità di ampliare o integrare le materie già attribuite alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome, mediante il rinvio all'art.10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) le Regioni "interessate" dalle disposizioni di attuazione sono quelle Ordinarie alle quali possono essere attribuite dallo Stato "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia", cioè le funzioni amministrative in determinate materie (quelle elencate nella vigente "legislazione concorrente", nonché la "giustizia di pace", le "norme generali sull'istruzione", e la "tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali"). L'iniziativa, per quanto previsto, è riconosciuta alle Regioni che siano "interessate" e riguarda le predette materie, che le Regioni potranno anche non richiedere, né richiederle tutte ma soltanto alcune o solo ambiti delle stesse. Nessun obbligo, quindi, per le Regioni bensì una facoltà d'iniziativa a loro attribuita (peraltro già manifestatasi nella precedente legislatura da parte delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna). Va ricordato che la riforma della Carta fu introdotta nella XIII legislatura con la legge costituzionale n.3 del 18.10.2001 che ha modificato l'intero Titolo V della Costituzione (d.d.l.cost. d'iniziativa del governo D'Alema, AC n.5830 e AS n. 4809-B, approvato con i voti del PPI, DS, Verdi, UDEUR, Misto, e sottoposto a referendum popolare, in GU n. 181 del 6 agosto 2001); e che, inoltre, finora sono stati approvati conseguenti atti normativi, come la legge 28 dicembre 2015, n. 208 istitutiva, presso il Ministero dell'economia e delle finanze, della Commissione tecnica per i fabbisogni standard, di cui al decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216, e la legge 29 dicembre 2022, n. 197 per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Era perciò inevitabile che a oltre 20 anni, ormai, da tale Riforma del Titolo V, la norma in questione (ossia il comma 3, dell'art.116 della Cost.) trovasse "attuazione" da parte delle forze politiche favorevoli all'autonomia regionale ("regionalismo"), a conferma della validità della legge fisica che "ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria", anche se in politica gli effetti possano avvenire "a scoppio ritardato" (è sempre utile, perciò, tenerlo ben presente sia per l'oggi che per il futuro, anche e soprattutto per le leggi elettorali, finora sempre confezionate ad arte dai partiti, con qualche effetto boomerang). L'attuazione, pertanto, delle disposizioni dell'articolo 116, terzo comma, è certamente conforme alla Costituzione e tali disposizioni saranno sempre vigenti anche se, per ipotesi, ci dovesse essere un risultato referendario favorevole all'abrogazione della contestata legge ordinaria di attuazione. L'unico modo, perciò, per poter evitare il trasferimento delle suddette materie (peraltro in Italia "l'autonomia regionale differenziata" già esiste tra le Regioni a statuto speciale e quelle cc.dd. ordinarie) era ed è soltanto quello di modificare l'attuale art.116 della Costituzione (o riformare il vigente Titolo V). Allo stato, quindi, si potrà semmai discutere soltanto delle modalità delle procedure che sono state previste, perché queste sono sempre opinabili in quanto dipendono dalla visione e scelte delle maggioranze politiche.
Vediamo, ora, in concreto, seppur sommariamente, alcune disposizioni di attuazione di particolare rilevanza.
A. All'art.1 la legge di attuazione definisce i principi generali per l'attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione e per la modifica e la revoca delle stesse, nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese fra lo Stato e una Regione, nel rispetto delle prerogative e dei Regolamenti parlamentari in attuazione del principio di decentramento amministrativo, di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza di cui all'articolo 118 della Costituzione. All'art.7, invece, è prevista la "Durata delle intese e successione di leggi nel tempo": L'intesa non può avere una durata superiore a dieci anni. Essa può essere modificata. Sono altresì previsti anche la cessazione dell'efficacia dell'intesa e il suo rinnovo per un uguale periodo.
B. L'art. 4 disciplina il "trasferimento delle funzioni", con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, concernenti materie o ambiti di materie riferibili ai LEP. Il trasferimento "può essere effettuato, secondo le modalità e le procedure di quantificazione individuate dalle singole intese (la cui procedura è stabilita nell'art.2), soltanto dopo la determinazione dei medesimi LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard, nei limiti delle risorse rese disponibili nella legge di bilancio". Ai sensi dell'art.5, poi, l'intesa stabilisce i criteri per l'individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative necessari per l'esercizio da parte della Regione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, che sono determinati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e i Ministri competenti per materia, su proposta di una Commissione paritetica Stato-Regione-Autonomie locali, disciplinata dall'intesa medesima. L'intesa, inoltre, "individua le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale, nel rispetto dell'articolo 17 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 119, quarto comma, della Costituzione". E l'art. 9, che detta le "Clausole finanziarie", al comma 1 sancisce che "dall'applicazione della legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica".
C. Risulta di particolare rilevanza, anche se ora può dar solo luogo a qualche perplessità tardiva, l'art.3 della legge che conferisce al Governo la delega ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi, sulla base dei principi e criteri direttivi di cui all'articolo 1, commi da 791 a 801-bis, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, per l'individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (LEP). Ai sensi del co.3, dell'art.3, i LEP sono determinati nelle seguenti materie o negli ambiti delle materie: a) norme generali sull'istruzione; b) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali; c) tutela e sicurezza del lavoro; d) istruzione; e) ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; f) tutela della salute; g) alimentazione; h) ordinamento sportivo; i) governo del territorio; l) porti e aeroporti civili; m) grandi reti di trasporto e di navigazione; n) ordinamento della comunicazione; o) produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; p) valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali.
La procedura per la determinazione dei LEP ha previsto la istituzione della "Cabina di regia" presso la Presidenza del Consiglio dei ministri la quale, tra altro, ai sensi dell'art.1, co.793, l. 197/2022, «effettua, con il supporto delle amministrazioni competenti per materia, una ricognizione della spesa storica a carattere permanente dell'ultimo triennio, sostenuta dallo Stato in ciascuna regione per l'insieme delle materie di cui all'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, per ciascuna materia e per ciascuna funzione esercitata dallo Stato».
Al riguardo del parametro della "spesa storica a carattere permanente dell'ultimo triennio" si osserva che esso può determinare una disparità di trattamento dei cittadini a seconda delle Regioni nelle quali essi hanno la residenza perché, come hanno spesso evidenziato alcuni "Governatori" delle Regioni del Sud, la spesa storica per alcune materie (ad es. la sanità) non è determinata pro capite in base al numero di abitanti ma si rifà al dato "storico" dei finanziamenti pubblici ricevuti nell'ultimo triennio. Pertanto, con tale criterio, si potrebbero avvantaggiare le Regioni che hanno avuto maggiori finanziamenti pubblici e sostenuto maggiori spese nel periodo considerato. È pur vero, però, che tale parametro risulta inserito nell'art.1, co.793 della l. n.197/2022, approvato senza troppo clamore delle cc.dd. "opposizioni", tuttavia, seppur ora "fuori tempo massimo", volendo seguire la logica del "conflitto d'interessi", opportunamente accennata in premessa, ai cittadini delle Regioni che potrebbero subire delle penalizzazioni non rimane altra strada che quella di avversare, in caso di referendum, la legge di attuazione n.86/2024, ma con lo scopo di far rivedere dal Legislatore il menzionato parametro della spesa storica. Null'altro, però, si ritiene, che adesso sia possibile poter fare, oltre quanto innanzi detto, perché dalla riforma del 2001 del Titolo V hanno fatto seguito già diverse disposizioni normative e ora la legge n.86 del 2024 ha avuto lo scopo di completare l'attuazione del comma 3, dell'art.116 della Cost., nell'ambito della ripartizione delle materie di cui all'art.117 della Costituzione della legislazione esclusiva riservata allo Stato e quella concorrente e residuale attribuita alle Regioni, riconoscendo a queste ultime, qualora lo richiedano, maggiore "autonomia" rispetto alla situazione attuale, in cui, peraltro, già esiste una specie di "autonomia differenziata" tra le Regioni a statuto speciale e quelle Ordinarie.
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LA FESTA NAZIONALE DELLA DEMOCRAZIA
La "Democrazia", che forgia e permea la struttura costituzionale della Repubblica italiana, deve avere una giornata festiva annuale per la sua celebrazione?
Dai dati riportati dall'Ufficio del Cerimoniale di Stato della Presidenza del Consiglio si rilevano tutte le Festività e le giornate nazionali che sono state approvate con L. 27 maggio 1949, n. 260 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive) e ss.. I giorni festivi, pertanto, sono quelli stabiliti per legge, ai quali si aggiunge la festività locale del Santo patrono e, nella prima domenica di novembre, la festa dell'unità nazionale. Tra le festività sono certamente note ai cittadini quelle del 25 aprile (Liberazione dal nazifascismo), del 1 maggio (Festa del lavoro) e del 2 giugno (Festa della Repubblica). Oltre le predette "Festività" esistono, come detto, anche le "Giornate nazionali" (solennità civili), che non sono considerate giornate festive e si ricordano mediante imbandieramento degli edifici pubblici (il Cerimoniale riporta le seguenti: 10 febbraio, Giorno degli istriani, fiumani e dalmati; 11 febbraio, Patti lateranensi; 28 settembre, Insurrezione popolare di Napoli contro i nazifascisti; 4 ottobre, San Francesco e Santa Caterina, patroni d'Italia; 17 marzo: "Giornata dell'Unità nazionale, della Costituzione, dell'Inno e della bandiera"; 4 novembre (ripristinata con L. del 28/2/2024): "Giornata dell'Unità nazionale e delle Forze Armate"; 12 novembre, Giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace e Giornata della memoria dei marinai scomparsi in mare). Sono previste, inoltre, "Le giornate celebrative nazionali e internazionali", anch'esse non considerate giornate festive, nelle quali gli organi pubblici organizzano eventi collegati alla circostanza che si intende celebrare (7 gennaio: Giornata nazionale della Bandiera; 27 gennaio: Giornata della Memoria; 9 maggio: Giornata d'Europa; 24 ottobre: Giornata dell'ONU; ecc.).
Dall'elenco che precede, come ben si rileva, la "democrazia" non è inclusa mentre, invece, si celebrano, come giornate festive, la Repubblica, il Lavoro, la Liberazione dal nazifascismo e, come "giornate non festive", l'Unità nazionale, la Costituzione, l'Inno e la Bandiera, l'Europa, l'ONU, ecc. Trattasi di una "lacuna" che (a mio avviso) dovrebbe essere colmata, e su cui bisognerà certamente riflettere, se si ritenga utile per la formazione "democratica" e culturale dei cittadini, in particolare dei giovani, solennizzare la "democrazia" come conquista di civiltà politica da difendere e tramandare. Perciò è necessario avviare una iniziativa legislativa, anche popolare (visto che il "Popolo" è il sovrano dell'ordinamento proprio grazie alla democrazia), per includere nell'elenco della l. n.260/1949 anche la "Festa nazionale della democrazia". Per cogliere meglio le ragioni storico-politico-sociali dell'importanza di "festeggiare la democrazia" ritengo che sia utile ricordare che costituisce una conquista che ha lasciato sul campo una infinità di eroi che hanno combattuto per essa. Come noto le sue origini sono piuttosto remote, e risalgono a circa 2500 anni fa, per poi sparire definitivamente come Stato-governo (la Politeia era forma e sostanza della Polis). La democrazia vide la luce nella Grecia classica ed era l'orgoglio di Atene, come riportato dallo storico Tucidide il quale riferiva che nel 461 a.C. Pericle, menando vanto contro le poleis ritenute "autoritarie" (come ad es. Sparta, ove, però, le donne avevano diritti negati ad Atene), definiva così la democrazia: "Qui ad Atene noi facciamo così. Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamata democrazia. (...) La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; (...) Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo". Ad Atene era inoltre previsto che i "cittadini" (politai) prestassero "giuramento di fedeltà alla democrazia" con la seguente formula (attribuita ad Andocide, V-IV sec. a.C.): Ucciderò sia con le parole, che con i fatti, il voto e la mia mano, per quanto sia possibile, chi abbatta la democrazia degli Ateniesi. E qualora un altro lo uccida, riterrò che sia sacro sia di fronte agli dei che alle divinità, in quanto uccisore (di) un nemico degli Ateniesi". E fu anche varata, su proposta di Eucrate (IV sec. a.C.), una legge per punire la tirannide: "Alla buona fortuna del popolo degli Ateniesi. Se qualcuno si solleva contro il popolo con una tirannide, oppure contribuisce a imporre una tirannide, oppure abbatte (il potere) del popolo ateniese o la democrazia ateniese, chiunque uccida chi abbia fatto qualcosa del genere sia considerato puro". Tali "cautele normative", comunque, non riuscirono ad impedire l'eclissi della democrazia dopo circa due secoli (con qualche breve interruzione delle tirannidi), e anche della civiltà di Atene, perché, anche se homo sapiens s'illude di poter diventare immortale, tutto soggiace all'eterno e incessante "ciclo universale" di trasformazione di tutte le cose, che da singole particelle subatomiche si aggregano in composti e alla fine si disaggregano per dare inizio a nuove forme del ciclo. Anche oggi si rilevano spinte che vorrebbero affievolire (o cancellare) la democrazia (anche a livello U.E.). Dal 1 gennaio 1948 l'Italia ha una nuova Costituzione che tra i principi fondamentali, ritenuti inviolabili dalla Corte Costituzionale, all'art.1 ha affermato che "L'Italia è una Repubblica democratica...". Va riconosciuto ai tanti leaders politici della c.d. "Prima Repubblica" (tra cui molti Irpini) di averla difesa e fatta evolvere ampliando la partecipazione dei cittadini alla vita democratica mediante i partiti di massa. Non è stata un'impresa facile perché le resistenze sono state notevoli da parte delle èlites oligarchiche (anche estere) che hanno sempre remato contro. Purtroppo, oggi, sta anche accadendo che a causa del conflitto bellico tra la Russia e l'Ucraina (ma anche nella striscia di Gaza e Medioriente) i Popoli (soprattutto quelli europei) stanno vivendo un clima di angoscia e di incertezze sul futuro. La guerra sta sempre di più coinvolgendo gli Stati dell'U.E., tanto che alcuni governanti hanno persino rotto il tabù dell'invio di soldati della NATO sul territorio ucraino, che potrebbe scatenare una guerra nucleare, confermando, così, che aveva ragione F.Fornari nel suo saggio "Psicoanalisi della guerra" in cui sosteneva che è la psiche umana che conta, più che la politica, la potenza militare, l'economia, la geostrategia (perciò occorre sempre dubitare dell'equilibrio psicologico dei governanti che "desiderano" le guerre). È ben manifesta, oggi, la "volontà (auto)distruttiva" di alcuni governanti forse dominati dalle pulsioni inconsce di morte, aggravate anche dal "venir meno di quella credenza che stava a fondamento delle nostre società e che si manifestava nella speranza in un futuro migliore e inalterabile" (così M. Benasayag - G. Schmit, L'epoca delle passioni tristi). È così diventato manifesto che Thanatos, come lo definiva Freud, e l'Odio (Nεῖκος), come lo chiamava Empedocle, stanno primeggiando su "Amore" (Φιλότης), mentre i popoli sono esclusi del tutto dalle decisioni politico-militari dei capi di governo, rendendo così evidente che la "democrazia" è tenuta, ormai, fuori dalle decisione istituzionali. Ecco, allora, perché è diventato, ormai, urgente e necessario affermare con convinzione il primato e la centralità politica della "democrazia", e la sua celebrazione come "Festa nazionale" è la migliore soluzione politica. L'ordinamento repubblicano italiano, perciò, deve riconoscere il legittimo primato al "Popolo sovrano" che festeggia sé stesso. E intanto, durante il tempo necessario per approvare la legge per istituire la Festa nazionale, tutti i Consigli comunali, che sono la prima e diretta espressione della volontà democratica dei cittadini, dovrebbero deliberare la giornata della "Festa della Democrazia" (magari concordando la stessa data a livello dell'ANCI). Con l'auspicio che in seguito siano modificate anche tutte le formule di giuramento previste dalla Costituzione dichiarando fedeltà alla "Repubblica democratica" anziché solo alla "Repubblica" (l'art.91, per es., prevede, infatti, che "Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica..." ma non alla Repubblica democratica).
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L'ELEZIONE DIRETTA DEL "PRINCIPE"
Per poter esprimere un giudizio sul "premierato" (l'elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri) è necessario esaminare le disposizioni del d.d.l. presentato dal Governo e valutare se la riforma tenda a costituire un regime costituzionale più o meno democratico rispetto a quello vigente. Il vincolo, che di frequente è violato o aggirato, è prescritto proprio nei principi fondamentali della Costituzione che all'art. 1 sancisce che "L'Italia è una Repubblica democratica...". Non vi è dubbio che anche la democrazia abbia un ciclo storico, come accadde a quella ateniese, e che non tutti, oggi, sono disposti a difenderla, tuttavia non è possibile non tener conto di tale "vincolo-limite", ricordandosi anche della morale della favola di Esopo "Il re travicello" (Le rane chiedono un re). E bisognerebbe dominare anche l'esigenza psicologica individuale e della massa di "avere un capo" da adorare, imitare, riverire, ossequiare, sacralizzare, facendo prevalere la "ragione" (l'esperienza, la saggezza, la razionalità) e la scienza che ha dimostrato in modo inconfutabile che tutti gli esseri umani (e tutti i viventi) sono costituiti dalla "stessa sostanza" chimico-fisica. Nessuno, perciò, in assoluto, è "migliore" o "peggiore" di un altro suo simile ma tutti hanno specifici talenti e abilità secondo il "Codice biologico" della natura che li porta a "prevalere" in un determinato settore tecnico-culturale-professionale e ad essere incapaci, inadeguati, inadatti, nella quasi totalità degli altri ambiti naturali e sociali. E questo limite del tutto naturale vale anche per coloro che assumano la leadership politica o in altri ambiti istituzionali. Ecco, allora, perché le fasi storiche dei "capi soli al comando", sempre pronti ad annunciare che "Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili", hanno annoverato la soppressione o limitazione delle libertà, registrando migliaia di caduti in guerra e ingenti spese per ricostruire il tessuto civile, urbano, commerciale e industriale. La collegialità delle decisioni, perciò, il pluralismo e la cooperazione sono un antidoto contro la volontà di potenza perché consentono di "controbilanciare" gli stati depressivi di un individuo con l'euforia di un altro, l'irrazionale con il razionale, il negativo col positivo, le pulsioni distruttive con quelle costruttive. Impedendo, così, per quanto possibile, di scatenare inutili conflitti o guerre perché anche quando queste siano valutate come politicamente "vinte" esse, in realtà, sono comunque sempre "perse", anche per la violenza fine a sé e le barbarie che ne scaturiscono. Le pulsioni libidiche, inconsce, dirette a scatenare le "guerre", perciò, devono essere sublimate, anche mediante competizioni ludiche non violente e quelle elettorali, a cominciare dalla fase educativa e formativa in ambito scolastico, per evitare gli effetti irrazionali delle "folle" (G. Le Bon, La psicologia delle folle). Ma veniamo, ora, al tema. La soluzione riformatrice che è stata proposta inciderà di sicuro in modo rilevante sul ruolo del Presidente del Consiglio, sia in termini di poteri che di relazioni funzionali rispetto agli altri Poteri e organi dello Stato e, soprattutto, rispetto ai cittadini. Tutte le audizioni svolte dal Parlamento e gli studi degli uffici istituzionali consentono di avere un'idea della soluzione proposta dal Governo col suo D.d.L presentato al Senato della Repubblica in data 15.11.2023 (A.S. n.935) avente il seguente oggetto: « Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l'elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l'abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica ». Dall'analisi dell'excursus finora seguito si rileva che la Presidenza del Senato ha assegnato il d.d.l alla 1^ Commissione Permanente Affari costituzionali in sede referente. A tale d.d.l è stato abbinato, per l'esame congiunto, l'altro d.d.l costituzionale nr. 830 dell'1.8.2023 (in verità, soft e ragionevole) contenente "Disposizioni per l'introduzione dell'elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri in Costituzione". In sede di esame la Commissione ha apportato diverse modifiche al testo, alcune delle quali non proprio marginali, come ad es. quella relativa al mandato (non era stato previsto alcun limite al numero dei mandati successivi). Adesso il testo emendato è passato all'esame dell'assemblea per l'approvazione. Prima e dopo la presentazione del d.d.l al Senato, come già sopra accennato, sono stati acquisiti anche numerosi contributi dei massimi esperti in materia di diritto costituzionale e pubblico in generale. Alcuni si sono espressi favorevolmente (come ad es. S. Cassese, seppur invitando ad apportare qualche lieve modifica al testo), altri, invece, si sono dichiarati decisamente contrari (come ad es. G. Zagrebelsky). Ad oggi non è possibile poter prevedere quale sarà l'esito finale dell'iniziativa di riforma costituzionale voluta dal Governo; né se vi sarà o meno un referendum confermativo (sempre auspicabile) ai sensi dell'art.138 della Costituzione. Al di là, comunque, di quello che potrà accadere in seguito si procederà, ora, ad esaminare il contenuto del d.d.l in questione, raffrontandolo al vincolo democratico citato in premessa. L'art.3 del d.d.l., che sostituisce l'art.92 della Costituzione, al comma 2 ha previsto che « Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. Le votazioni per l'elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio avvengono contestualmente. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i princìpi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri. Il Presidente del Consiglio dei ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura ».
In sede di esame nella 1^ Commissione il predetto testo è stato così emendato: « Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni, per non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l'incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi. Le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente. La legge disciplina il sistema per l'elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività («e di tutela delle minoranze linguistiche», aggiunto con proposta di modifica n. 3.2000/444). Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale ha presentato la candidatura.
A) La precitata norma prevede che "Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto". È fuori di ogni dubbio che l'elezione a qualsiasi carica costituzionale (e pubblica in generale) mediante il suffragio universale (da parte di tutti i cittadini) e diretto (senza l'intermediazione di "delegati", con o senza mandato politico di rappresentanza) costituisca la massima espressione del regime democratico. Così, infatti, nasce storicamente la democrazia, anche se, poi, nella rivisitazione dei tempi moderni è stata adottata dall'Assemblea Costituente del 1946 (composta da molti membri nati nell'800) la "elezione indiretta", che di sicuro è una limitazione della "sovranità popolare" (e a favore della oligarchia). Perciò, più democrazia "diretta" (come, ad es, se si eleggesse anche il PdR, oppure altre cariche costituzionali di vertice, ma anche se si ampliassero i poteri del Popolo in ordine all'iniziativa e approvazione legislativa e ai referendum confermativi, abrogativi, propositivi e consultivi) equivale ad estendere la volontà generale e i poteri del "Popolo sovrano". Detta soluzione, tuttavia, non significa, ovviamente, come erroneamente si sostiene, dover attribuire anche, necessariamente, "maggiori" poteri all'eletto sol perché votato direttamente dal Popolo. L'elezione (diretta o indiretta), infatti, attiene soltanto alla procedura di selezione dei cittadini a ricoprire la carica costituzionale ma non incide sui compiti e responsabilità riservate alla carica stessa e al ruolo istituzionale in base alla Costituzione. Perciò, ben sarebbe stato possibile (e di sicuro meno problematico, evitando enormi arzigogoli giuridici e anche incongruenze logico-politiche) introdurre nella vigente Carta costituzionale la sola elezione diretta del Presidente del consiglio senza, tuttavia, modificare le altre disposizioni costituzionali, tranne quelle relative al conferimento dell'incarico da parte del PdR..
B) La durata dell'incarico determinata in cinque anni, con il limite di non poter ricoprire l'incarico per più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l'incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi, è in linea con la durata quinquennale del Parlamento. Tale limite, però, non impedisce di poter riassumere la carica dopo il decorso della terza legislatura (anche se di breve durata) né di poter assumere, alla scadenza, la carica di Presidente della Repubblica (che è il Capo dello Stato, ha il Comando delle Forze Armate, Presiede il C.S.M. e il Consiglio Supremo di Difesa, nomina un terzo dei Giudici della Corte costituzionale, non ha alcun limite ai mandati di sette anni, ecc.) potendo, così, l'ex Presidente del Consiglio transitare, senza la previsione di una limitazione temporale nella nuova carica del più alto vertice dello Stato (come avviene in certune autocrazie dell'est europeo).
C) La riforma prevede che "Le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente" e che "La legge disciplina il sistema per l'elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio...". Sull'elezione "contestuale" sono stati sollevati diversi dubbi da parte degli esperti, in ordine alle schede elettorali da approntare. Ma questo è un problema tecnico su cui si potrà trovare una soluzione. Ben più preoccupante, invece, è il "premio di maggioranza" che non è collegato ad alcun limite percentuale massimo dei seggi (il testo originario garantiva il 55 per cento dei seggi) né a un minimo dei voti effettivi ricevuti (in rapporto al numero degli elettori aventi diritto, che in Italia sono circa 51.000.000), con il rischio di attribuire una maggioranza parlamentare "alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio" che abbiano avuto poco più di 10.000.000 di voti (ossia un 20% circa, un quinto dei voti degli aventi diritto). Questa soluzione incide certamente sul rapporto tra governo e democrazia, intesa come espressione della sovranità popolare, e quindi della "volontà generale" e sulla "rappresentanza", che non deve mai essere sottomessa all'esigenza della c.d. "governabità" (in Belgio, qualche anno addietro, sono stati senza Governo per circa due anni e il Paese ha avuto risultati positivi sul piano socio-economico e finanziario). Peraltro, vale anche la pena evidenziare che la "procedura elettorale" non può essere una sorta di "lotteria" come quella dell'epifania perché l'elezione del Parlamento riguarda il potere legislativo dello Stato che (in democrazia) deve essere necessariamente rappresentativo della maggioranza effettiva dei cittadini-elettori. E non ha alcuna rilevanza né giustificazione che alle elezioni l'astensionismo ha superato ormai il 40% degli aventi diritto perché la soluzione deve essere soltanto quella di recuperare la partecipazione popolare con una "buona politica", da intendersi come la migliore cura dell'interesse generale e non di quello particolare, privato e delle élites e corporazioni varie come si sta verificando nei tempi attuali.
D) Una incongruenza politica, poi, ma anche istituzionale, deriva dalla previsione che "Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale ha presentato la candidatura" perché l'elezione diretta, per poter essere tale, ossia "diretta", non deve avere alcuna "commistione" con la "Camera" (nella quale il candidato "ha presentato la candidatura"). I due organi (potere legislativo e Governo) sono e devono essere distinti e separati. "L'elezione diretta" per la carica di Presidente del Consiglio dei ministri, perciò, deve avere una disciplina differenziata da quella del Parlamento perchè la competizione elettorale deve svolgersi tra i candidati interessati a ricoprire tale carica, perciò il voto dev'essere espresso su specifica scheda elettorale, separata dalla scheda relativa all'elezione dei parlamentari, che può contenere il collegamento col candidato premier ai fini dell'eventuale "premio di maggioranza". Lo spoglio delle schede, così, deve poter consentire di stabilire chi è il "vincitore" dell'elezione diretta, con ogni conseguenza. Se, invece, il candidato alla carica di "Presidente del Consiglio" vuole comunque garantirsi il "paracadute" in caso di "sconfitta" potrà candidarsi anche come parlamentare, ed essere votato con la relativa scheda, ma le due competizioni dovrebbero essere tenute ben distinte, seppur politicamente collegate.
Il d.d.l di riforma prevede, altresì, anche le disposizioni relative al conferimento dell'incarico da parte del Presidente della Repubblica (una mera formalità, ovviamente) e quelle dello scioglimento delle Camere, che in particolare dovrebbe avvenire: «In caso di revoca della fiducia al Presidente del Consiglio eletto, mediante mozione motivata;...In caso di dimissioni del Presidente del Consiglio eletto, previa informativa parlamentare, questi può proporre, entro sette giorni, lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, che lo dispone»; inoltre, qualora il Presidente del Consiglio «non eserciti tale facoltà e nei casi di morte, impedimento permanente, decadenza, il Presidente della Repubblica può conferire, per una sola volta nel corso della legislatura, l'incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio.» (così come emendato dal Governo, proposta 4.2000).
Viene anche abrogato il secondo comma dell'articolo 59 della Costituzione, che consente al Presidente della Repubblica la nomina dei senatori a vita, mentre (senza alcuna valida ragione democratica) si lascia in vigore il comma 1 che sancisce: "È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica" (diversamente da quanto avviene, ad es., nella democrazia americana e francese).
Da tutto quanto innanzi esposto si trae che la "riforma" mette "fuori gioco" il ruolo del Presidente della Repubblica nell'affidamento dell'incarico di formazione del Governo. Sparirebbero, così, le defatiganti consultazioni con i segretari dei partiti e gli ex presidenti della repubblica (oltre, ovviamente, quelle con i capi gruppo durante le crisi di governo), né sarebbe più possibile affidare incarichi di formare il governo a personalità diverse dal Presidente del Consiglio giacché questi è eletto con suffragio universale e diretto. Comunque, la riforma, qualora "costituzionalizzata", non sarebbe un problema, sul piano formale; ben diverso, invece, è il piano politico perché, come sopra esposto, il "premio di maggioranza" senza alcun limite percentuale, né rispetto al numero minimo di voti ricevuti in relazione agli aventi diritto, consentirebbe al Presidente del Consiglio il controllo del Parlamento e, mediante quest'ultimo, di poter approvare tutte le leggi possibili, ma anche di poter riformare la Costituzione, senza passare il vaglio del referendum qualora la maggioranza sia pari ai due terzi dei componenti delle Camere. Si introdurrebbe, così, nell'ordinamento costituzionale italiano, una sorta di "principe elettivo", che nel tempo futuro potrebbe riprodurre lo stesso clima istituzionale dell'antico impero romano (o del c.d. "ventennio"). Può darsi che tale soluzione sia gradita alle "folle", perché, come sopra detto, "le rane chiedono un re", ma prevedere sin d'ora le conseguenze potrà consentire a tutti di assumersi le proprie responsabilità politiche, sociali e morali e di decidere se rinunciare o meno alle già poche libertà civili esistenti e di affidare a un "principe elettivo" il potere di stabilire per i governati quale sia "l'ora delle decisioni irrevocabili"
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NULLA DI TROPPO
«Nulla di troppo» (μηδέν ἄγαν). È stato tramandato dalla storia della filosofia che questa frase era stata scritta sull'ingresso del tempio di Apollo a Delfi, così come l'altrettanta nota e più diffusamente citata «Conosci te stesso» (γνῶθι σεαυτόν). Tralasciando, per ora, quest'ultima, su cui si ritornerà successivamente, perché sono entrambe interconnesse, circa, invece, la prima (sintesi dell'esperienza, della saggezza e della "ragione" sempre contrastate dagli istinti atavici) si può senz'altro sostenere che il principio da essa espresso sia un parametro "assoluto" (nulla, quindi senza eccezioni), che se ben applicato potrebbe consentire di ridurre al minimo i conflitti sociali. Tuttavia se "nulla" (umanamente inteso in senso "assoluto") non lascia spazio a dubbi interpretativi e applicativi non altrettanto può dirsi in ordine a "troppo".
Infatti, quando può dirsi che qualcosa "è troppo" ?
Certamente esso non può assolutamente coincidere con "Tutto", che dovrà invece servire come parametro sociale da evitare ad ogni costo (come l'estremo opposto "niente", o "nulla"); inoltre, bisognerà aver ben chiaro che "troppo" non potrà mai essere quantificato dal punto di vista soggettivo perché tale giudizio risulterà sempre del tutto inadeguato, indeterminabile, insufficiente, perché ci saranno all'incirca otto miliardi di persone (quanti sono attualmente gli abitanti sulla terra) che avranno un proprio personale criterio per stabilire quando una cosa sia troppo e quando non lo sia. Così, ad es., una donna (occidentale) che ha almeno un centinaio di borse e altrettante paia di scarpe (pur essendo bipeda) riterrà che non siano troppe, mentre (forse) lo penserà colei che ne ha soltanto un paio; così (per par condicio) un uomo che ha decine di orologi da polso e centinaia di cravatte non penserà che siano "troppi" mentre lo penserà chi ha un solo orologio (o non ne ha affatto) e qualche cravatta.
Lo stesso dicasi per quanto concerne i patrimoni, sia immobiliari, che mobiliari e finanziari, perché di sicuro un capitalista, un industriale, un imprenditore, un banchiere, un alto dirigente pubblico o un capo di governo, non penserà mai di possedere "troppo" (anzi farà di tutto per aumentare ancora di più il suo patrimonio) diversamente da come penserà un povero, un operaio, un pensionato "al minimo", un disoccupato.
Il predetto parametro, perciò, per avere una qualche utilità sociale e politica non può essere soggettivo ma dovrà essere "oggettivo". Non vi è dubbio che anche quest'ultimo sia di difficile individuazione, soprattutto quando esso sia da connettere alle "cose umane" anziché ai fenomeni naturali. Questi ultimi, infatti, "interpretati" e "dimostrati" sperimentalmente non lasciano più dubbi perché, ad es., tutti sanno che "dopo il lampo si sente il tuono" dal momento che è ormai un dato scientifico acquisito (perciò oggettivo) che il lampo arriva prima perché "viaggia" alla velocità della luce (⁓300.000 Km/s) mentre il tuono giunge dopo perché si propaga alla velocità del suono (⁓1200 Km/h).
E allora non c'è alcun rimedio contro il "troppo" ?
Penso di si, anche se occorrerà ancora molto tempo, finché gli umani non riusciranno ad agire "secondo la giusta misura" (katà Métron, per gli antichi Greci) tenendo a freno gli istinti, la cupidigia e la voluttà (oggi condizionati ed esaltati dal capitalismo e dalle "leggi del libero mercato", per approdare all'"uomo nuovo" che dia anche rilevanza all'essenza spirituale del suo essere "corpo-pensiero" (e organismo biologico, soggetto alle forze chimico-fisiche), consapevole della sua transitorietà nel mondo. E così potrà rientrare in gioco la ricerca della "Verità", che gli umani hanno esiliato dalla propria vita, e avere un ruolo rilevante la c.d. "coscienza", il "giusto" e l'equo", sia in senso politico che etico, morale e religioso.
Intanto, comunque, in attesa che l'indole degli umani si evolva verso tali direzioni, che si potrebbero definire "umanitarie" (come anche auspicato nella Dichiarazione Universale dei diritti umani), è possibile fare ricorso allo strumento del "diritto", che è un rimedio politico in grado di "oggettivare" qualsiasi fatto o atto che concerna il consorzio umano (persino quando l'oggetto sia di "competenza" religiosa).
Il "diritto", perciò, può servire, per ora e in attesa di altro criterio conforme al "Vero" con cui sostituirlo, per stabilire quando una cosa sia "oggettivamente troppo".
A questo punto, però, si rende necessario fare qualche precisazione per evitare che si possa equivocare, ritenendo che il "diritto" sia in sé oggettivo. Niente è più falso, anche se esso sia diventato il "mito" delle civiltà contemporanee, soprattutto occidentali, che lo invocano quando è "utile allo scopo" e lo violano quando è di ostacolo (bastino ricordare le guerre senza preventivo mandato ONU sia in Iraq, per sostituire il Presidente Saddam Hussein, sia in Libia, per "abbattere" il Colonnello Gheddafi, nonché quelle in Kosovo e in Afghanistan; ma anche la strage del 1998 della funivia del Cermis, in cui perirono circa venti turisti italiani, rimasti senza "giustizia" perché gli USA si sono riservati il "diritto-potere" (giurisdizione) di processare i propri militari in servizio all'estero, perciò non fu possibile giudicare in Italia il pilota dell'aereo statunitense che, volando a bassa quota, in violazione dei regolamenti, aveva tranciato un cavo della linea teleferica; così come l'abbattimento nel 1980 dell'aereo di linea Itavia - "la strage di Ustica"-, in cui morirono 81 passeggeri, rimasto senza colpevoli per l'impossibilità di acquisire prove dagli "Stati alleati" (probabilmente coinvolti nella strage).
Il "diritto", perciò, è quantomai "relativo" ed è, come giustamente sottolineava E. Severino, la forma dell'espressione della volontà politica del potere dominante, cioè l'esternazione mediante "precetti" (gli antichi "oracoli" dei sacerdoti dei templi) da parte della forma di governo (ora) costituzionalizzata (Parlamento, se in democrazia, Consiglio o Senato, nell'oligarchia o aristocrazia, Re, nella monarchia, ovvero la loro combinazione, detta "forma mista", che è la più comune finora adottata rispetto alla "forma pura").
Il potere, quindi, come forza sovrana di "produrre diritto" per l'intera Comunità, è il vero oggetto della contesa tra le varie forze (politiche e non) esistenti nei diversi ordinamenti sociali. E tale "contesa", che si fonda sul conflitto tra le diverse "forze", spesso anche in modo estremo, che dà luogo anche a rivoluzioni o sovvertimenti statali ("golpe"), ha lo scopo ultimo di decidere in ordine alla distribuzione delle risorse economiche prodotte dalla collettività (ma anche per dividere i lavoratori tra "padroni" e "schiavi").
La "visione", pertanto, del "modello politico di società" da realizzare (di cittadini liberi o schiavi, di sudditi, di eguali o di ineguali, di ricchi o poveri, ecc.) costituisce, il più delle volte, soltanto un mezzo propagandistico per acquisire consensi elettorali e per mascherare la verità sostanziale, che è la brama per il potere (la forza) per gestire il c.d. PIL e l'intera ricchezza economica della Comunità. E per imporre tale potere (come forza, soprattutto di polizia, militare, economica, finanziaria e ora anche tecnologica) non soltanto all'interno del proprio ordinamento ma anche nei rapporti tra Stati sul piano internazionale.
In altri termini, tutte le dinamiche del mondo avvengono perché "nel sottosuolo della storia..." (per citare ancora E. Severino, che riferiva il "sottosuolo" al pensiero della storia della filosofia) si muovono le "Forze universali della natura" che "lavorano" (energia) per la trasformazione di tutte le cose, per far sì che le cose diventino continuamente altro rispetto a quello che sono; e ciò accade anche per l'uomo, che in ogni istante della vita diventa "altro", sia per effetto delle forze biologiche e chimico-fisiche interne che di quelle esterne, universali, che lo spingono ad uscire dal percorso dell'apparire in un processo incessante, infinito, di avvicendamenti tra le generazioni (e tra le specie).
La medesima dinamica del dover "diventare altro", secondo necessità, perciò di sistema, si riscontra anche nei frequenti conflitti armati tra gli Stati (come, ad es., quello in corso tra la Russia e l'Ucraina, sostenuta dalle "forze" degli Stati membri della NATO, che non è riuscita a contenere la propria volontà di espansione militare verso Est), che si dovranno avvicendare nel corso del tempo come potenze egemoniche (in questa fase "impera" ancora l'America ma è anch'essa destinata al tramonto, com'è accaduto già per tutte le altre potenze demolite dal vento della storia e ora oggetto di studio archeologico).
Le stesse forze "conflittuali" agiscono anche all'interno delle Comunità, nelle quali, però, lo scontro avviene essenzialmente per la conquista del potere, in generale, e di quello legislativo in particolare. Le "forze popolari" (da intendersi, però, correttamente, come "forze proletarie", un tempo coincidenti con la c.d. "plebe" contrapposta ai "Patrizi", e al demos che era altro rispetto agli aristocratici e agli oligarchi) prendono parte alla contesa e, a seconda di quanta forza riescano ad esprimere nel confronto tra le forze in campo, la "legislazione" che ne deriverà sarà più o meno favorevole ai bisogni delle fasce sociali emarginate, o meno protette.
Il principio del "primato della legge" (ora della Costituzione, peraltro in parte superata, ormai, dai Trattati dell'U.E. e dal c.d. "diritto internazionale"), perciò, che costituisce comunque un buon traguardo raggiunto dalla civiltà giuridica, come anche la "certezza del diritto", vanno però sempre ben compresi mediante l'analisi di fondo (il "sottosuolo") di quali siano le reali dinamiche sociali, politiche e procedurali che consentano la "produzione delle leggi". Così, ad es., in Italia ove, stando all'art.1 della Costituzione, esiste una forma di Stato-governo "Repubblicano-democratico", il procedimento legislativo non è esclusivo del "Popolo" né dei suoi rappresentanti politici perché è sufficiente analizzare le categorie sociali e professionali cui appartengono i singoli parlamentari per capire quali interessi relativi siano tutelati in concreto; inoltre, la legge può essere sottoposta al controllo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale composta di quindici membri nessuno dei quali è eletto direttamente dal Popolo. Ma l'insignificanza, o marginalità, del "Popolo", ossia del basso livello di democrazia, ben si coglie nella norma relativa all'iniziativa legislativa (art.71 della Costituzione) che così sancisce: «L'iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere e agli organi ed enti (nda: CNEL e Consigli regionali) ai quali sia conferita da legge costituzionale. Il Popolo esercita l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli" (senza che la "proposta" abbia, poi, una corsia preferenziale in Parlamento, neppure se, per ipotesi, fosse stata sottoscritta da tutti i circa 50.000.000 elettori); inoltre, ed è altrettanto grave sotto l'aspetto della democrazia, la possibilità prevista dall'art.75 della Costituzione di richiedere il "referendum popolare" che, al di là del numero minimo dei richiedenti (almeno 500.000 elettori), è limitata dall'orientamento della Corte costituzionale, competente ad esprimersi sull'ammissibilità della richiesta, di poter escludere anche i referendum su materie diverse da quelle tassativamente non ammesse dalla Carta costituzionale (leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali).
È del tutto chiaro, perciò, che anche il "diritto" non sia "oggettivo in sé"; tuttavia esso può essere "oggettivato" (dichiarato oggettivo) mediante la volontà espressa dal legislatore con la c.d. Legge.
Trattasi, perciò, di una finzione politico-giuridica (in gergo, una "fictio iuris") che tuttavia può servire allo scopo. Anzi, deve "necessariamente" servire allo scopo perché fin'oggi, come correttamente sostenuto da A. Schiavone nel saggio "Jus: L'invenzione del diritto in occidente", non è stato ancora trovato alcun altro e diverso strumento (se si eccettua, ovviamente, l'impiego della forza, o la guerra, rimedi spesso adottati dalle istituzioni di governo, anche contro la volontà dei popoli) per regolare i rapporti umani, interpersonali o sociali, tra questi e le istituzioni e anche tra gli Stati.
Il "diritto", pertanto, quale mezzo per fissare "oggettivamente" un parametro per stabilire quando un cittadino, una categoria, una società, e persino uno Stato, possegga "troppo", in termini di beni economici, in primis, ma anche di "potere" (in particolare del potere di impiegare la "forza"), e rispetto alle cose (incluse le "persone", che non dovrebbero mai essere considerate "cose", anche se spesso accade, pure negli ordinamenti detti "civili"). Tra i diversi modelli politici di governo è "troppo", senza alcun dubbio, il potere riservato ai dittatori, che oggi abbondano nel mondo, alle "autocrazie", e persino nell'occidente "democratico" dove ci sono tendenze verso forme presidenziali (o premierati) che potrebbero involvere verso forme assimilabili a quelle monarchico-costituzionale (col rischio di rendere flessibili anche i limiti della durata e del numero dei mandati).
Le Costituzioni europee del dopoguerra hanno tutte (o quasi) tentato di risolvere il problema mediante la "separazione dei poteri dello Stato" (una sorta di "divisione delle forze", praticata sin dalle più remote tribù, come anche nelle successive civiltà, come quella Greca, durante la Repubblica aristocratica romana e nei tempi successivi, fino ad oggi).
La soluzione adottata, tuttavia, è comunque inevitabilmente sempre logorata e intaccata nel corso del tempo dalla dinamica conflittuale per la conquista della "supremazia" tra i poteri (le diverse "forze"), in particolare per potere avere un ruolo (anche interdittivo o di condizionamento) nella "produzione legislativa". Tutti i poteri, infatti, alla lunga "straripano" sia per tendenze fisiologiche (naturali, si potrebbe dire) sia perché il vero potere cui tutti (e ognuno) ambiscono è quello di "fare le leggi" (l'unico modo, oltre quello della forza bruta, per attribuirsi, o farsi riconoscere, dei privilegi).
Così il Governo, che (in democrazia) dovrebbe governare (come potere esecutivo) in base alle leggi approvate dal Parlamento, fa spesso uso dei disegni di legge e dei decreti legge e si avvale della sua maggioranza partitica in seno al Parlamento per "produrre leggi o leggi delegate" (che spesso non sono "generali e astratte", come un tempo si diceva, ma concrete, perchè perseguono interessi relativi, di parte).
Lo stesso avviene (come nei tempi attuali), tra le magistrature dell'ordine giudiziario e le diverse forze politiche, sia al governo che in Parlamento perché "l'ordine giudiziario" anziché applicare le leggi vuole diventare "parte attiva" nella "produzione legislativa" sia relativa al proprio Ordine (ad. es. nella decisione sulla separazione delle carriere tra la magistratura inquirente e quella giudicante, che secondo "ragione e libertà" devono essere necessariamente distinte, differenziate, perché il "Giudice" dev'essere terzo e neutrale e la parte che sostiene l'accusa - il P.M.- deve essere alla pari con la parte che difende l'imputato -avvocato-), sia per quanto concerne le scelte (che devono essere riservate alla sola politica) di quali fatti umani (fattispecie) debbano essere ritenuti reati, perseguiti e puniti con la reclusione.
Anche rispetto a tali "conflitti" perciò bisogna essere in grado di stabilire quando essi debordino rispetto al "troppo".
Di sicuro, comunque, "non è troppo" (secondo chi scrive, ovviamente) il "potere" che è stato riconosciuto al Popolo dalla vigente Costituzione che pur avendo fissato nell'art.1 il principio fondamentale che l'Italia è una "Repubblica democratica" ha, poi, nella stessa Carta posto in ombra l'attributo "democratico" della Repubblica tanto che nella formula del Giuramento non viene esplicitato (l'art.91, infatti, prevede che "Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica..." e, in modo analogo, sono strutturate le formule del giuramento del Governo, ai sensi dell'art.93, della Corte costituzionale, ai sensi dell'art.135, e per alcuni dipendenti pubblici, ai sensi dell'art.54); inoltre, non è stata attribuita alcuna priorità e importanza politica all'iniziativa legislativa popolare (art.71 Cost.), e, infine, si rileva che alla "democrazia" l'ordinamento statale non ha riconosciuto alcuna data solenne per celebrare la "Festa nazionale della democrazia" (che, volendolo, potrebbe coincidere col 25 Aprile, anche per superare le anacronistiche contrapposizioni partitiche), come invece è avvenuto con la "Festa della Repubblica" del 2 giugno.
Ovviamente non sono soltanto queste le discrepanze che si riscontrano nel vigente ordinamento, ma in questa sede, in cui si vuole riflettere su altro, può per ora bastare, e perciò bisogna ritornare al tema, in ordine al quale adesso occorre evidenziare che il problema del "troppo" ha, comunque, radici remote così come anche i rimedi ipotizzati per farvi fronte. Così Aristotele, nel suo saggio "Politica" (Politeia), consigliava di adottare sempre la soluzione della "via di mezzo", così come quest'ultima è per il Buddismo la strada per conseguire la felicità per sé e per gli altri. Anche i romani ne erano ben consapevoli e ne è prova la locuzione "in medio stat virtus"; così come anche la saggezza popolare italica, ormai in declino, come le nascite, ne esprimeva il concetto col proverbio "Il troppo stroppia".
La realtà, infatti, dimostra proprio l'esatto contrario, e ciò perché, come popolarmente si dice: "tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare".
E perché ? Perché homo sapiens è fatto così ! È la sua natura chimico-fisica e biologica, soggetta alle forze universali, che lo inducono a manifestarsi così com'è mentre diventa continuamente altro "strappandosi" da sé, perché il conflitto, l'agonia, è prima di tutto in sé stesso. Forse si può eccettuare soltanto la fase dell'origine del primo "nucleo genitoriale" che ha dato alla luce la propria discendenza, come specie umana. Se infatti i "genitori" (ossia coloro che "generarono" la prole) avessero riservato per sé "troppo", in termini di risorse alimentari, probabilmente avrebbero causato la morte per fame della loro "filiazione". È "ragionevole" ritenere, perciò, che almeno ab origine (seppur per esigenze "egoistiche" della stirpe e della specie) non vi fosse alcuno spazio per il "troppo" nell'ambito del "nucleo familiare".
Stando, allora, così le cose (secondo la c.d. "ragione") come mai il passaggio dal "nucleo" alla società organizzata da "homo sapiens" ha spesso concesso enorme spazio al "troppo" ?
Le spiegazioni, ovviamente, possono essere diverse e molteplici. Un ruolo rilevante lo ha avuto sicuramente il riconoscimento (senza limiti invalicabili, il "troppo") della "proprietà privata" dei beni come potere assoluto (il c.d. "diritto reale") sulle cose, e di ciò ne era ben convinto J.J.Rousseau che ben lo mise in risalto nel suo saggio "Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini".
Hanno avuto, però, un ruolo centrale anche le cc.dd. "istituzioni" che da "ruoli" socio-politici affidati all'interno delle Comunità, per dirimere i conflitti secondo il "giusto" (e impedire il "troppo") nell'interesse generale, sono progressivamente diventate nel tempo dei "poteri a sé", distaccati e distanti dal contesto sociale, fino ad assurgere, in alcuni ordinamenti, a veri e propri "sostituti" delle Divinità, con propri "templi", dotate del potere di pronunciare "oracoli", e così il "giusto" a volte è stato confuso con "l'ingiusto" perché le decisioni sono state spesso condizionate dagli interessi delle stesse istituzioni.
Sullo sfondo, però, c'è stata comunque sempre la "natura" con l'azione delle forze in perenne conflitto, e quelle relative ad homo sapiens e a tutte le altre specie viventi.
La "natura", infatti, si organizza e si manifesta (a quanto pare) mediante un "dualismo" intrinsecamente "conflittuale" (anche a livello di ogni singolo individuo, in cui agiscono le forze contrapposte che lo trasformano, nel corso della vita, lo fanno diventare diverso, lo spingono a diventare "altro").
Tale "dualismo" (come l'energia e la materia) sembra essere necessario alle esigenze della "natura" perché esso costituisce il motore che rende dinamico il divenire del mondo e dell'intero universo. Così, a causa sua, infatti, tutte le cose escono (appaiono, si manifestano come enti eterni secondo E. Severino) da dove esse hanno origine (dall'Essere, dall'Uno), come sosteneva Anassimando, ed entrano nello spazio-tempo, dal quale, poi, escono (scompaiono, ma senza andare nel "nulla", come alcuni sostengono, perché tutte le cose - uomini inclusi - sono "enti eterni") per ritornare infine dove hanno avuto origine. Se questo, però, è "il destino" secondo "necessità" ("natura"), tuttavia non si può escludere, in assoluto, che esso possa essere "governato", mitigato, dalla "ragione", come riteneva Schopenhauer, convinto che fosse possibile gestire la "volontà di potenza della vita" (con la c.d. "noluntas").
Non vi è dubbio che sia la "volontà della specie" (e le forze universali) a governare tutte le scelte degli umani, ma la consapevolezza (almeno della parte che ama la conoscenza) che le cose stiano così può aiutare ad attenuarne gli effetti. E che ciò sia possibile ben lo dimostrano i comportamenti di tutti coloro che all'uso della forza e della violenza contro gli altri prediligono, invece, la strada della mediazione, della ragione.
Gli omicidi, infatti, i femminicidi, e altri "delitti", avvengono perché non è stata utilizzata la "forza della ragione" per domare le forze in sé stessi che esaltano il proprio istinto primordiale. Tutti gli uomini (nessuno escluso), perciò, sono contestualmente dei potenziali "criminali" e dei "santi" e la differenza la fa soltanto la "noluntas", ossia la (contro)forza autoesercitata su sé stessi per scegliere il c.d. "bene" collettivo anziché il c.d. "male". Perciò il "buono" per natura non esiste, se non come categoria etico-morale e religiosa, e quando qualcuno si trovi socialmente dalla "parte giusta" è solo perché egli è entrato a far parte di tali forze sociali rispetto alle altre forze, che a volte le regole della società definiscono "illegali".
Molti anni fa fu scoperto nella foresta tropicale un uomo che da bambino era stato allevato dalle scimmie (come il famoso Tarzan del film) di cui aveva appreso il linguaggio e le regole di vita. Era perciò un "umano" nella forma ma una "scimmia" dal punto di vista culturale, sociale. Perciò si può senz'altro ritenere che se il figlio di un Re venga fatto crescere e vivere nelle banlieu francesi (o nei ghetti, nelle favelas, di molti quartieri disagiati e affamati, anche di città civilizzate europee) egli non si comporterà come un "principe ereditario" bensì come un abitante delle "banlieu", salvo che faccia forza su stesso per essere diverso da ciò che è indotto ad essere dal conteso socio-economico in cui si trova inserito. Di contro, un nato nelle banlieu (o nelle periferie degradate delle città) se fatto crescere in famiglie benestanti avrebbe elevate possibilità di affermarsi nella vita e di poter diventare un cittadino esemplare. Sono, questi, dei dati esperienziali difficilmente confutabili, valevoli per tutti, nessuno escluso.
La società, però, ovvero l'èlite dominante, che ha interesse a difendere "l'ordine sociale costituito" (nel senso dei privilegi acquisiti), vuole invece affermare l'opinione che non sia così, come un tempo era convinto Lombroso, che catalogava gli uomini in base alla fisiognomica, la quale, oggi, forse avrebbe consentito di classificare come socialmente pericolosi anche alcuni politici, ministri, giuristi e uomini ritenuti dabbene.
La "realtà", invece, è quella che deriva dal "gioco" conflittuale tra le diverse forze universali, la biologia e la chimica e la fisica degli organismi viventi, pertanto anche le dinamiche degli umani dovranno essere viste e interpretate con le stesse regole. Fermo restando che gli umani hanno avuto il dono della conoscenza che potrà servire a mitigare tutti i conflitti socio-politici, sia a livello nazionale che internazionale. E in quest'ottica risulta essere quanto mai necessario formare anche una coscienza collettiva in ordine al "troppo" perché questo è certamente la causa della malattia di tutti gli ordinamenti politici e costituzionali.
La soluzione, perciò, inevitabile, per diventare "umani" non può che essere quella di adottare il principio generale di "nulla di troppo", con buona pace di tutti.
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Inviato da: rteo1
il 29/09/2024 alle 13:16
Inviato da: ElettrikaPsike
il 28/09/2024 alle 20:10
Inviato da: rteo1
il 08/08/2024 alle 13:35
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il 08/08/2024 alle 01:35
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il 05/06/2024 alle 20:30