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Creato da rteo1 il 25/10/2008
filo aperto con tutti coloro che s'interrogano sull'organizzazione politica della società e che sognano una democrazia sul modello della Grecia classica
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IL LOCALE È NEL GLOBALE
L'Avv. Generoso Benigni, quale Fondatore e Direttore della nota e pregevole Rivista Nuovo Meridionalismo, della quale ci onoriamo di esserne collaboratori, ha costantemente invitato a soffermare le nostre disamine sui problemi del territorio, l'Irpinia, per fornire un contributo di pensiero in ordine alla valorizzazione, allo sviluppo e al progresso del nostro territorio, anche per frenare lo spopolamento dei piccoli paesi e la "fuga" dei giovani verso altri lidi (non sempre ameni, ove sono spesso asserviti, a loro insaputa, come schiavi del "sistema"). Certamente encomiabile e lodevole è l'impegno finora profuso dal vulcanico Direttore, che nei Suoi editoriali ricorre spesso alla tematica dell'irpinia, a Lui tanto cara. Molti collaboratori hanno avanzato di frequente delle proposte, e certamente tra di loro va doverosamente ricordato Luigi Mainolfi che ha sempre, costantemente, avuto a cuore le sorti del territorio della Provincia di Avellino, che ha servito anche come Assessore negli anni '80. Anch'io, seppur solo in alcuni sporadici interventi, ho tentato di indagare le cause del "ritardo" economico-produttivo e della crisi che ha colpito i diversi settori, agricolo, industriale, commerciale e dei servizi, oltre quello "culturale", che hanno da sempre subito condizionamenti dai poteri amministrativi locali e da quelli oligarchici ed egemonici generali. La ragione di fondo, in verità, della mia "resistenza" verso l'argomento, già più volte espressa, si basa sulla convinzione (non credo errata) che i "problemi" dell'irpinia non possano essere visti né tantomeno risolti sul solo piano locale essendo i Comuni (e le Province, sopravvissute al referendum abrogativo, oltre alle Regioni e alla superflua novità giuridica delle "Città metropolitane") incardinati e subordinati in un regime repubblicano-democratico (con qualche perniciosa interferenza oligarchica) che ha una graduale e piramidale strutturazione "gerarchico-funzionale" con il vertice governativo a livello centrale, nazionale; inoltre, il predetto "gotha" è, a sua volta (e purtroppo, ora bisogna dire), condizionato e limitato dalle decisioni burocratiche e corporative della U.E. nonché dal monopolio geostrategico statunitense, strettamente collegato con le èlites finanziarie, con il complesso militare-industriale delle armi e le correlate trame dei "Servizi segreti" a livello internazionale. È sufficiente, per farsene un'idea, riflettere sulla recente politica dei dazi unilateralmente imposti dagli USA ai vari Stati (che certamente avranno conseguenze anche sui prezzi e l'esportazione dei prodotti irpini, in particolare del vino e altri generi alimentari), della spesa del 5% del PIL che l'Italia (insieme alle altre nazioni occidentali) dovrà sostenere per alimentare la NATO, del RearmeEU pianificato e programmato dalla Commissione U.E. contro la volontà dei cittadini per un importo di circa 800 mld di euro (per ora), nonché della "partecipazione" all'invio di armi all'Ucraina acquistate - con ricarico del 10% - dagli USA (e forse, prossimamente, anche con l'impiego dei soldati) nonché il sostegno economico e la futura ricostruzione (stimata in oltre 500 mld) delle infrastrutture, dell'economia e degli immobili distrutti nella guerra (certamente evitabile, reprimendo la smania espansiva, aggressiva e imperiale) tra l'Ucraina e la Russia. Senza, altresì, trascurare l'approvvigionamento dei prodotti energetici (gas, petrolio e derivati), quasi esclusivamente dagli USA, a prezzo maggiorato di oltre un quinto rispetto a quelli di mercato che farà lievitare i costi di produzione dei beni e dei consumi, anche per esigenze domestiche, oltre a dover trasferire o installare industrie e aziende sul territorio statunitense. Tutto ciò, peraltro, senza considerare (anche per carenza di fonti genuine, e comunque eluse dai media nazionali asserviti alla "narrazione" ufficiale delle cause e degli effetti dei conflitti geostrategici) quanto sta frattanto avvenendo nel c.d. "resto del mondo" (ossia circa 7 miliardi di persone) dove i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, e altri nuovi Stati che si stanno aggregando) hanno creato, per difendersi dal monopolio geopolitico statunitense, un proprio mercato economico e finanziario parallelo a quello "occidentale" scambiando i prodotti non più solo con il dollaro (imposto dall'impero americano come mezzo esclusivo delle transazioni commerciali e come unica valuta di riserva mondiale, oltre, ovviamente, all'oro, adesso monetizzato e "bene di rifugio") bensì anche con le monete locali (Rublo, Yuan, Rupìa, Real, ecc.), con l'effetto di provocare una de-dollarizzazione e una perdita di fiducia degli investitori nella tenuta e acquisto del debito sovrano americano (di circa 40.000 mld, quello federale, con oltre 1000 mld annui di interessi da pagare, e di 60.000 mld circa, il debito degli Stati federati); inoltre, gli stessi "Brics", da diversi anni hanno costituito una Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione economica e politica (SCO) che nel recente vertice di Shanghai ha reso noto di voler valorizzare il primato dell'ONU e il rispetto del diritto internazionale (un tempo orgoglio, valori e patrimonio culturale e politico dell'occidente). È perciò evidente che è ininfluente dibattere sui problemi locali e territoriali senza, contestualmente, ampliare l'orizzonte dell'analisi anche verso la geopolitica, sempre più aggressiva ed espansiva dell'impero egemonico degli USA, e al "vassallaggio" degli Stati europei, senza un proprio fine geostrategico, con una èlite che sta danneggiando in modo grave e irreversibile i propri popoli; di contro, poi, senza considerare le legittime rivendicazioni di indipendenza, di pari dignità e di rispetto della propria sovranità da parte degli Stati del "resto del mondo", i quali stanno avversando il modello "occidentale" (in primis degli USA) che pone lo strumento militare a fondamento della geostrategia dell'imperialismo egemonico anziché un modello di cooperazione tra Popoli con pari dignità. Bisogna, perciò, convincersi che il "locale è nel globale" e che quest'ultimo si riflette inevitabilmente nel locale, dove tanti (semplici)cittadini hanno maggiore equilibrio mentale rispetto alle èlites al governo, locale, nazionale e sovranazionale, prive di "visione strategica", che con disinvoltura rischiano persino una guerra nucleare. Non vi è dubbio che la megalomania e la postura da guerrafondai siano la conseguenza delle pulsioni psicotiche dei diversi leaders politici nonché del loro deficit culturale, oltre che etico e morale, circa la causa originaria che ha dato luogo alla costituzione delle Comunità-statali. Al riguardo giova sottolineare che si tratta di una grave violazione dei principi perché tale "causa originaria" è la fonte della "creazione" delle istituzioni, quali sintesi "politiche" rappresentative delle reali esigenze dell'intera collettività. Ed è proprio mediante tali "sintesi politiche" (le istituzioni) che le Comunità, quali aggregazioni di città-stati (polis) degli originari nuclei familiari naturali, si sono dotate degli "strumenti" "idonei a perseguire e realizzare i propri fini, cioè "vivere bene", secondo giustizia, equità e virtù, sia all'interno delle stesse Comunità che nei rapporti esterni con le altre Comunità-statali. Strumenti, perciò, e non "fini" -le "istituzioni"-, né tantomeno "fini sovrani", come è spesso accaduto quando i titolari delle cariche pubbliche hanno abusato del proprio ruolo ponendo sé stessi e la loro volontà come "legge". Ne deriva, pertanto, da quanto precede, che l'analisi dei diversi problemi delle Comunità locali non può prescindere dalle valutazioni delle dinamiche politiche e geostrategiche nazionali e internazionali. Per questo, semmai, occorrerà organizzare politicamente, a partire dal livello locale, tutte le volontà dei cittadini che condividano il modello strategico della "cooperazione" tra tutti i Popoli e avversino quello, finora dominante, del "monopolio" egemonico e predatorio fondato sulla forza e la violenza dello strumento militare. Cooperazione, perciò, e rispetto della pari dignità umana e dei Popoli, con la "libertà individuale" necessariamente limitata e mediata con tutti gli interessi pubblici generali, non soltanto a livello "nazionale" ma soprattutto "internazionale", con la redistribuzione dei profitti e dei "dividendi" di tutte le diverse attività societarie sia economiche che finanziarie a livello "globale", ossia a vantaggio di tutti i Popoli e dei singoli cittadini degli Stati.
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ISOLARE I POLITICI "BULLI"
Chi da adolescente non ha avuto a che fare con il "caporione", ossia il "bullo del rione", o del quartiere ? Soprattutto nei piccoli paesi, negli anni '60, quando l'energia elettrica ancora non arrivava in molte "abitazioni" (spesso costituite da qualche vano in cui "vivevano" circa dieci persone) e non c'erano gli elettrodomestici. Le donne lavavano a mano il "bucato" e per "sbiancare" i panni utilizzavano la cenere dei camini. Non c'erano ancora i televisori e neppure le radio e i ragazzi dovevano arrangiarsi ad inventare i propri passatempi. In quel contesto il "bullo" si ergeva sugli altri e tutti, obtorto collo, lo seguivano, in particolare nelle "bravate" perché i bulli solitamente sono inclini a fare soltanto delle cose scriteriate, senza senso, che tuttavia suscitano sempre largo consenso e ilarità perché sono tutte "fuori dall'ordinario". I "caporioni" diventavano dei modelli da imitare e quei pochi ragazzi che cercavano di prenderne le distanza venivano "stalcherizzati" (come oggi si direbbe). Era certamente un contesto sociale degradato, soprattutto culturalmente, oltre che economicamente, quello in cui primeggiavano quei "bulli", che fondavano la loro leadership sulla "volontà di potenza": erano abili a "menar le mani", rissosi, violenti, senza regole nè limiti. Certamente privi di ogni etica e morale comune. L'Italia, intanto, si è "sviluppata"; è andata avanti (almeno così si narra). È arrivato il "benessere" (che non è il "bene dell'essere" bensì soltanto il frigorifero pieno di prodotti che poi scadono e devono essere gettati nell'immondizia). Le auto di serie, prodotte da operai strappati alla terra e trasferiti in "ghetti suburbani" nelle città del Nord. I Paesi del sud si sono spopolati, con le emigrazioni di intere famiglie. Il clima politico era alimentato dalla c.d. "guerra fredda" tra gli Stati Uniti e l'URSS. "Finalmente" tutto crolla nel 1989, e si ha l'illusione che una nuova fase, all'insegna della pace e della cooperazione tra i popoli, si affermi nelle relazioni umane e tra gli Stati. Invece, come meglio si illustrerà di seguito, "sotto la cenere c'era la brace". I "bulli" di un tempo, infatti, non erano spariti ma si erano adattati al cambiamento, e molti sono diventati anche leaders politici. E così la "volontà di potenza" fine a sé, con l'impiego, spesso irresponsabile, della forza pubblica e armata, sia all'interno sia all'esterno del territorio statale, anche contro la volontà sovrana del Popolo (art.1 della Costituzione), ha spesso caratterizzato molte decisioni politiche. E così, anziché la saggezza, il dialogo costruttivo nelle relazioni umane, sia a livello locale che nazionale e sovranazionale, molti politici "bulli" hanno preferito un atteggiamento aggressivo, muscolare, violento, anche mediante l'ostentazione e la minaccia del proprio arsenale militare e nucleare. Gli Stati, così, sotto la guida politica dei "bulli" si sono raffrontati in base alla forza delle armi e non all'intelligenza, alla creatività, alla produttività, al perseguimento dei valori dell'equità, della giustizia sociale, della libera espressione del pensiero. In altri termini, anziché la cooperazione e la solidarietà si è preferito il dominio, l'impero, la colonizzazione, lo sfruttamento delle risorse e del lavoro altrui. C'è stata, indubbiamente, una gravissima regressione sociale, politica e culturale, oltre che etica e morale, con le discriminazioni e le diseguaglianze poste a base delle relazioni politiche. La "ragione", tuttavia, seppur di una sparuta minoranza (che si auspica diventi maggioranza), non può issare "bandiera bianca" di fronte al ritorno delle barbarie. Per la "ragione" l'uomo può anche diventare "migliore" di come è. Basta volerlo. E ci saranno benefici per tutti. Con il "primato" della "ragione" si potranno persino eliminare le guerre, che macellano giovani vite venute al mondo per contemplare l'opera della natura e goderne, e non per uccidere o per essere ammazzati (come insegna la nota canzone di De Andrè, La guerra di Piero). Una soluzione è certamente quella di affermare la pari dignità di tutti i popoli e relativi Stati; inoltre, il nucleo degli aggregati umani dovrà essere costituito dalla produzione di beni essenziali per la sopravvivenza, anziché dal lusso e dagli elefantiaci apparati burocratici, predatori e parassitari. E le Comunità-statali dovranno vivere principalmente delle proprie risorse e mai al di sopra delle proprie disponibilità e possibilità, facendo continuo ricorso al debito, soprattutto quanto quest'ultimo è destinato a spese inutili (o nocive, come gli acquisti di armamenti per gli eserciti onde alimentare "guerre di spedizioni" al di là del proprio territorio e persino in aree lontane migliaia di miglia). Non vi è dubbio che l'impresa sia piuttosto ardua, ma l'uomo è riuscito finanche a vincere la gravità terrestre e a mandare nello spazio delle navicelle che hanno superato persino il sistema solare. La soluzione c'è: Basta reprimere il "bullo" che è sé ! E allontanare, ostracizzare, sfiduciare" coloro che hanno ruoli politici, soprattutto apicali, che agiscano come "bulli" nel relazionarsi con i propri cittadini e con le altre Comunità-statali. Purtroppo in questa fase storica si vedono in giro tantissimi leaders in atteggiamenti da "bulli" che, così, avvalorano il pensiero di Eraclìto secondo cui "Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dei e gli altri come uomini, gli uni fa chiavi gli altri liberi". Eppure non bisogna disperare perché i "bulli" potranno essere "messi al bando" dai popoli che decideranno di far prevalere la propria "volontà di vivere" (Schopenahueriana), in pace e armonia. A questo punto sembra inevitabile soffermare l'attenzione sulle gravi conseguenze nelle relazioni umane della guerra in Ucraina (e prima di essa la pandemia da Covid) che ha spinto i cittadini, sia a livello nazionale che sovranazionale, a dividersi in "fazioni", sempre più intolleranti, estremiste, fondamentaliste: I "pro" e i "contro" (con noi o contro di noi !). È stata questa la litania che si è affermata nei rapporti statali, istituzionali, sociali e interpersonali. Abbandonando, così, qualsiasi ricerca del "giusto" e dell'"ingiusto", del razionale e dell'irrazionale, oltre a non poter proporre soluzioni "compromissorie", diplomatiche, di cooperazione in luogo dei conflitti, soprattutto bellici. E anche la c.d. "tolleranza", che molte "civiltà" (in particolare quelle dette "occidentali") hanno assunto come valore è stata completamente cancellata, dagli scontri verbali e fisici. Tutti, così, sono stati costretti a "prendere parte" e a non "ragionare", a non potersi domandare: perché ? Oppure a non poter ricercare le cause originarie, profonde, di un contrasto, di un conflitto. In questo quadro generale i cittadini delle istituzioni democratiche hanno abbandonato le buone regole del dialogo, della ricerca della "verità", del "bene comune", della solidarietà e spesso hanno superato, per chiusura mentale, i peggiori regimi autocratici e dittatoriali. Si è così avverato che "un gruppo di politici", posto a capo di diversi partiti, governi e istituzioni, ha potuto esercitare un potere pubblico (quasi)illimitato, senza considerare minimamente le esigenze e le istanze dei cittadini e dei popoli. Si è realizzato, così, un divario tra la "legalità formale e procedurale" (spesso persino aggirata) e la "vita reale" con i titolari dei ruoli politici apicali che hanno arbitrariamente preso ogni tipo di decisione, anche relative allo stato di guerra, al riarmo e alla politica estera di espansione senza alcun coinvolgimento democratico dei cittadini. La "parte" (peraltro minoritaria) ha così imposto la "regola" e la "verità" al Tutto (ossia all'intera Comunità-statale e, nel caso degli imperi, a tutti gli Stati "vassalli"). Si è reso evidente, così, che la "democrazia", intesa come partecipazione popolare alle decisioni fondamentali, "esistenziali", della vita aggregata, comunitaria, è diventata un concetto vuoto, e comunque del tutto astratto, non gradito alle èlites dominanti, che peraltro sono a loro volta diventate "liquide" (per prendere a prestito un concetto di Bauman), ma anche "oscure", nel senso di non trasparenti, non facilmente identificabili e, quindi, del tutto "irresponsabili". E anche i principi "liberali" tanto decantati dall'occidente capitalista e individualista sono diventati del tutto illiberali, così come il "libero mercato"si è trasformato in protezionismo dell'economia nazionale, il globalismo in espansione politico-militare, finanziario e coloniale, e il pianeta Terra è stato politicamente diviso tra "Occidente" e "resto del mondo". "Corsi e ricorsi storici", avrebbe sintetizzato G.B. Vico. I muri, i fossati, gli steccati, l'odio etnico et similia, hanno caratterizzato la politica degli Stati che, chiusi nei propri "nazionalismi", feticismi, tabù ed egoismi, hanno impedito ai "propri" cittadini di sentirsi ed essere "cittadini del mondo". E così, dopo oltre 80 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la generazione dei "boomers", e comunque la sua parte più "sensibile, riflessiva e reattiva" (come quei ragazzi stalkerizzati degli anni '60), ha compreso che la sconfitta subita in tale conflitto bellico ha comportato come effetto la limitazione della sovranità nazionale. Sia i governi, perciò, che si sono succeduti nel tempo, sia le più alte cariche istituzionali repubblicane hanno dovuto avere sempre il benestare da parte dei "vincitori" (spesso definiti "alleati"). Nessuna vera autonomia e indipendenza, perciò, hanno potuto esercitare gli Stati europei (tra cui l'Italia) che nel 1947, al tavolo della pace di Parigi, si sono seduti dalla parte degli sconfitti. E tuttora lo dimostrano le permanenti "occupazioni territoriali", mediante basi e contingenti militari dei Paesi "alleati", le influenze dei Servizi d'intelligence (da tempo diventati strategicamente indipendenti e autonomi rispetto agli altri poteri, organizzando rovesciamenti di governanti, ma anche stragi e attentati) e la politica estera di espansione e aggressione della NATO, che ha impedito a Paesi come l'Italia di poter restare fermamente vincolata ai principi fondamentali della propria Carta costituzionale, come ad es. il "ripudio della guerra" dell'art.11, e di dover servire progetti egemonici e imperialistici delle potenze dominanti "alleate". "Nulla di nuovo sotto il sole", si potrebbe dire. Già la storia della democrazia di Atene dimostrava che quando Atene divenne egemone nella Lega Delio-Attica nella guerra del Peloponneso si comportò in modo tirannico nei confronti delle altre Poleis alleate sottoponendole a gravosi tributi, sia economici che in natura e contributi militari. E peggio accadde ai Melii quando tentarono di restare neutrali contro la guerra a Sparta perché Atene rase al suolo l'isola (di Milo, dal fondatore Milos) uccidendo tutti gli uomini in armi, assoggettando a schiavitù sia le donne che i bambini. E anche le colonie, come Siracusa, subirono guerre di aggressione e spedizione (quella contro Siracusa fu, però, catastrofica per Atene) che rivendicavano l'autonomia e l'indipendenza dalla propria madre-patria (come peraltro fece l'America, seppur ora l'abbia dimenticato, con la guerra per l'indipendenza dall'Inghilterra imperiale che imponeva eccessivi dazi e tributi alle colonie americane). La fase più critica, però, è quella del "tramonto" delle civiltà egemoni, come oggi sta accadendo. Si sta registrando, proprio in questa fase storica, infatti, che il "monopolio" degli USA, quale unica potenza globale militare, economica e tecnologica per oltre un trentennio, è messo in discussione dalle potenze emergenti (soprattutto Cina e India) e dalla Russia, che ha ereditato il potenziale nucleare dell'ex URSS. Non è, però, facilmente prevedibile come avverrà la transizione, il "passaggio" di testimone, tra l'impero egemone uscente e le potenze destinate a subentrare. La storia degli imperi passati riporta che sono stati tutti "cancellati" (le rovine dell'impero romano sono ormai reperti archeologici, come lo sono quelli della Grecia antica, della Persia, dei Fenici, dei Babilonesi, dei Cartaginesi, ecc.). Di sicuro gli USA non sembrano intenzionati a "farsi da parte" oppure ad accettare di condividere il ruolo paritario (inter pares) anziché egemone in un contesto multipolare con altre e diverse potenze mondiali e regionali. D'altronde è anche "comprensibile", dal punto di vista della "potenza egemone", che "grazie" a tale suo ruolo imperiale può predare e fruire di risorse parassitarie che, in un rapporto padrone-schiavo, le vengono trasferite dagli Stati vassalli mediante tributi, dazi, vendita di armi (destinate, come tali, ad essere impiegate per fini bellici, in un circolo vizioso alimentato proprio dal mercato e dal possesso delle armi), imposizione della valuta come riserva monetaria e mezzo di scambio dei beni economici. Eppure gli USA avrebbero dovuto rammentare di essere stati anch'essi una colonia britannica, sfruttata e taglieggiata con dazi e tributi sempre più esosi pretesi dalla Corona inglese, dalla quale si "liberarono" con la "guerra d'indipendenza" del 1775 (che si ricorda, soprattutto, per la rivolta dei Tea Party). Purtroppo, però, la memoria archivia facilmente le cose spiacevoli, così come sembra essere avvenuto per l'origine degli USA che è stata "occultata" perché fondata sullo sterminio delle popolazioni indigene (oggi ridotte a poche migliaia di uomini rinchiusi in apposite riserve, il cui territorio viene continuamente ridotto e limitato a causa delle esigenze di espansione degli states). Ad ogni buon conto, per non farsi risucchiare dal vortice della "banalità del male" (come scrisse Hannah Arendt), che sta annientando persino le coscienze di coloro che direttamente o indirettamente hanno patito l'olocausto e l'orribile segregazione nei Lager Nazisti, sempre più avidi di "sangue" (come gli Dei che hanno sete, di Natole France), bisogna provare a resistere all'aggressione morale, psicologica, massmediatica e a volte anche fisica, dei leaders politici che agiscono come "bulli" o "capipopolo" senza avere alcun rispetto delle regole democratiche, della sovranità popolare. La tendenza in corso è, ormai, quella del riarmo e di avere un esercito comune europeo da poter impiegare contro il "nemico" (per ora la Russia). Un'idea politica, quest'ultima, certamente farneticante perché esclude in modo assoluto qualsiasi diversa soluzione, come il dialogo, il confronto diplomatico, la cooperazione tra i diversi popoli. È un vero assurdo, tale atteggiamento, soprattutto se si pensi che i titolari di cariche governative hanno il compito di agire nell'interesse dei popoli e dei propri cittadini, i quali, da tempo, ormai, stanno chiedendo di finirla a spendere inutili risorse per una guerra che non si sarebbe dovuta nemmeno iniziare. Invece i leaders europei, con comportamenti che ricordano ai boomers i suddetti "caporioni" degli anni '60, continuano imperterriti ad andare avanti, sebbene persino gli USA abbiano attenuato (almeno in apparenza) la propria partecipazione al conflitto, anche a causa dell'enorme deficit di bilancio (circa 40.000 mld di $ dello Stato federale più il debito di oltre 60.000 mld di $ dei singoli Stati dell'Unione, con oltre 1300 mld di $ di interessi annuali da pagare, la crisi del dollaro come unica valuta di riserva mondiale e la notevole carenza di industrie produttive di beni essenziali). Gli USA, così, pagano lo scotto del ruolo di potenza egemone e coloniale che ha posto al centro del proprio sistema politico-economico il "complesso militare industriale", e ha trasformato in finanziario il capitalismo industriale, mentre i competitors (in primis la Cina) hanno sviluppato il loro potenziale economico, demografico, tecnologico e militare. Lo "scontro" di civiltà, adesso, sembra inevitabile. Tale "scontro", tuttavia, potrà avvenire anche sul piano della cooperazione, come auspicano le nuove potenze, anziché mediante un conflitto militare, in un quadro generale di "multipolarismo". Va, infatti, in tale direzione la proposta avanzata in occasione del recente vertice a Shanghai di recuperare il ruolo super partes delle Nazioni Unite e del rispetto del diritto internazionale da parte di tutti gli Stati. Certamente non è facile accettare il cambiamento da parte dell'occidente e dell'Europa che da potenze egemoni dovranno avere un ruolo alla pari con "il resto del mondo. Non si può, tuttavia, negare la realtà, perciò è necessario superare la mentalità del confronto muscolare tipica dell'impero coloniale e abbandonare l'atteggiamento da "bulli" finora perseguita dai leaders politici occidentali perché procura soltanto danni e mai benefici. Lo "spirito del mondo", per dirlo con Schopenhauer, sta andando in tutt'altra direzione e nulla si può fare per arrestare il cambiamento. È la ciclicità che lo impone, anche rispetto alle civiltà, come ben intuito da Oswald Spengler. Il sole dell'est ha illuminato per secoli l'ovest e ora, mentre quest'ultimo tramonta, sta risorgendo il sole all'oriente. Certo, con l'utilizzo del potenziale nucleare i politici "bulli" potranno impedire il subentro delle nuove civiltà ma di sicuro, con l'olocausto atomico globale neanche essi ne trarranno giovamento, e neppure i popoli da loro governati. La ragione, perciò, suggerisce di isolare i politici "bulli" nelle competizioni elettorali e sfiduciarli politicamente per poter andare verso un futuro di cooperazione e di concordia tra i popoli, disposti a dialogare tra di loro, alla pari, e non più mediante rapporti padrone-schiavo.
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PERCHÉ NASCE UNO STATO
Perché nasce uno Stato ? Può sembrare una domanda inutile, perché ormai sin dalla nascita si vive tutti "diluiti" nella rete statale e sociale, in un rapporto dinamico, politico, conflittuale, etico, morale, religioso e giuridico; tutti individualmente e collettivamente incasellati in rigidi posizioni e ruoli funzionali differenziati (spesso tramandati di padre in figlio e per generazioni). Eppure porsi la domanda, soprattutto oggi, in cui i mezzi sono scambiati con i fini, e i simboli, i segni e i simulacri sono identificati e incarnati con l'umana realtà e con la verità ontologica e metafisica, darsi delle risposte non è affatto ozioso, una perdita di tempo, se sono in gioco gli spazi di libertà democratiche e le facoltà (diritti) inalienabili dell'uomo. È del tutto evidente che le Comunità nazionali del terzo millennio stanno attraversando una fase di totale insicurezza. L'"ordine costituito" dalle élites dominanti sulle diseguaglianze e le discriminazioni volge al tramonto, al "disordine". La paura e l'angoscia hanno preso il posto delle più solide certezze escatologiche, e anche rispetto ai principi e valori, che sembravano essersi ormai consolidati, tanto da non essere più messi in discussione. Principi e valori, infatti, come la dignità umana, la Pace, l'autodeterminazione dei popoli, la democrazia, le libertà fondamentali, i diritti umani inalienabili, l'equità e la giustizia distributiva sociale, ecc., erano diventati l'orgoglio dell'Italia, dell'Europa e dell'occidente. Proprio in virtù di tali "principi e valori" risultava possibile e si poteva giustificare la propagandata e ostentata superiorità politica, civile, morale e culturale nei confronti del "resto del mondo" (i "barbari"). Un primato di ruolo guida, di "civiltà", rivendicato e preteso (spesso anche con l'assurdo impiego delle armi) pur essendo gli "occidentali" una minoranza (circa un miliardo di persone, politicamente ineguali, su oltre otto miliardi). Invece è accaduto che all'improvviso si è strappato il "velo dell'ipocrisia" ed è venuta alla luce la verità: i "principi" e i "valori" tanto decantati erano e sono soltanto di facciata perché nessuno li rispetta né ci crede, in occidente. La guerra nell'Europa dell'est, che gli stolti e faziosi, come orbi accecati dall'odio, vedevano soltanto in termini di "aggressore" e "aggredito", aveva, in realtà, sottostanti, ben altre e diverse cause storiche; e, inoltre, nel conflitto, che poteva essere evitato e comunque risolto ab origine, si erano ingerite le solite potenze imperiali, colonialiste e parassitarie, che avevano trovato utile trarre vantaggi economici e geostrategici con la guerra per procura, anche a rischio di scatenare un conflitto nucleare mondiale. Nel contempo, in Medioriente, si avviava un'operazione di sterminio di un intero popolo senza che si levassero delle proteste politiche da parte degli Stati occidentali (coinvolti con l'invio di armi e risorse, e perciò complici e sodali del genocidio), che così perdevano del tutto agli occhi del "resto del mondo" qualsiasi preteso "primato", rivelando il lato oscuro e profondo della psiche malata, alla spasmodica ricerca di un'overdose di macabro piacere. In tale generale confusione, perdita di equilibrio e di irrazionalità da parte dei leaders a capo degli Stati europei e della U.E. si apriva la corsa al "RearmEU" progettando di spendere - tanto per iniziare - circa 800 miliardi di euro (quasi tutti a debito e in deroga al rapporto deficit/PIL dei bilanci pubblici), senza tener conto delle esigenze dei cittadini di avere migliori servizi sanitari, welfare, istruzione, ricerca scientifica, ecc., e di essere contrari alla guerra; e inoltre si escludeva in modo assoluto qualsiasi possibilità di perseguire un diverso modello di relazioni tra i popoli, fondato anche sulla cooperazione e la "giustizia tra le nazioni" (come sancisce l'art.11 della Costituzione) e non soltanto sull'impiego della forza militare, sullo sfruttamento delle risorse altrui e sul rapporto "servo-padrone". Ormai diversi Stati europei, in particolare quelli con arsenali nucleari (Inghilterra e Francia, alle quali si è aggregata la Germania, che ha deciso di riarmarsi per ridiventare una grande potenza militare, pur memore delle passate tragedie del Terzo Reich) stanno cercando, anche a rischio dell'autodistruzione, un qualunque pretesto (il casus belli) per fare la guerra contro la Russia, da anni individuata come "nemica" nel "concetto strategico" della NATO, pur essendosi dissolti il blocco dell'URSS e il Patto di Varsavia. Ecco, allora, perché è urgente e necessario riflettere sul "perché nasce uno Stato", prima che i Popoli siano mandati al macello mediante decisioni autoritarie, schizofreniche, paranoiche, dei capi di Stato e di governo. Per entrare, però, nel cuore dell'argomento, e per capire se gli attuali ordinamenti statali siano o meno coerenti rispetto alle loro origini remote, è certamente utile fare anche una breve introduzione a carattere generale. Osservando e analizzando le molteplici aggregazioni umane sui diversi territori del globo terrestre si rileva che esse, nel tempo, hanno "creato" molteplici forme di Stato e di governo (e queste ultime, a loro volta, spesso senza conservare più alcun legame reale e sostanziale con le esigenze originarie dei popoli governati, hanno "inventato" altre e diverse istituzioni, anche a livello sovranazionale e internazionale, che hanno "gemmato" una ulteriore infinità di altri piccoli o grandi "leviatani"). Le due estreme forme di governo (fin dall'antichità) sono quella di tipo monarchico (sia nei regni, col Re, che nelle repubbliche, con il Presidente, secondo la distinzione del Machiavelli) e quella detta "democratica", in cui, in teoria (e sempre più solo in teoria), il "potere" di autodeterminarsi e autogovernarsi "appartiene" al Popolo. Tra le due forme estreme si rinvengono varie altre organizzazioni politiche, di tipo "oligarchico", che oscillano tra le due estreme, con formule di tipo "misto", e ciò ben si rende manifesto con le modalità di attribuzione dei poteri fondamentali (legislativo, esecutivo e giudiziario). Relativamente, invece, alla produzione e alla "distribuzione delle risorse" i due modelli economici opposti, che negli ultimi due secoli risultano "legalizzati" (costituzionalizzati) sono: quello "occidentale" di tipo capitalistico che esalta l'individualismo, la proprietà privata, la libera iniziativa economica e il libero mercato (ora messo in dubbio, con i dazi); e, quello "orientale" di tipo "comunista", in cui la Comunità prevale sugli individui (una espressione di questo modello, con le ovvie differenze, è l'antica Polis, ma, soprattutto, le prime comunità cristiane), il capitale è pubblico, la proprietà dei beni è collettiva e l'economia è "pianificata e programmata" (un tentativo di realizzare questo modello economico si rinviene nella passata esperienza dell'ex URSS e ora, in parte, in Cina e in alcuni Stati che tentano di resistere al dominio del capitalismo armato). Anche per l'ambito economico (con prevalenza, in occidente, delle attività finanziarie e speculative, dirette dalle cities di Londra e New York) si rivengono modelli organizzativi ed economici intermedi, come, ad es., il "liberalsocialismo" e il "socialismo cristianodemocratico". Ogni Popolo, a quanto pare, ha trovato la "migliore" (si fa per dire) formula istituzionale ed economica adatta a sé (e gradita alle élites dominanti, sempre presenti e opprimenti, anche nelle "democrazie"). Tutti i predetti modelli, comunque, non durano in eterno ma essi mutano, più o meno gradualmente (salvo cambiamenti traumatici di tipo "rivoluzionario", esterni o interni allo "Stato"), transitando da una forma all'altra. Il vero problema, comunque, sorge quando tutte le istituzioni pubbliche, e in primis lo Stato, da mezzi diventano fini e si dissociano più o meno completamente dalle esigenze della Comunità e dei cittadini. Questa tendenza a quanto pare si sta affermando e consolidando sempre di più in Europa (e in "occidente"), anche a causa dell'istituzione di entità sovranazionali di stampo "oligarchico", burocratico e autoritario, tanto che ormai gli stati agiscono più per tutelare gli interessi economico-finanziari dei grandi gruppi industriali anziché soddisfare le esigenze dei cittadini, molti dei quali non riescono più a risolvere i propri problemi quotidiani di sopravvivenza. È perciò giunto, come già detto, il tempo di chiedersi perché nasce lo Stato (che, va ricordato, non preesiste né sopravvive al Popolo). Ma come prendere l'abbrivio ? Come già fatto in precedenti elaborati, anche stavolta si reputa utile ricercare, anzitutto, il classico "arkè" (ἀρχή), che ben si può rinvenire, anche stavolta, ne "La Repubblica" di Platone: «...uno Stato nasce perché nessuno di noi basta a sé stesso, ma ha molti bisogni. (...) Così per un certo bisogno ci si vale dell'aiuto di uno, per un altro di quello di un altro: il gran numero di questi bisogni fa riunire in un'unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa coabitazione abbiamo dato il nome di stato. (...) Ora, il primo e maggiore bisogno è quello di provvedersi il nutrimento per sussistere e vivere. (...) Il secondo quello di provvedersi l'abitazione, il terzo il vestito e simili cose. (...) Ciascuno di noi nasce per natura completamente diverso da ciascun altro, con differente disposizione, chi per un dato compito, chi per un altro. (...) Al nostro stato occorre...un numero maggiore...di altri agenti destinati a importare e ad esportare le singole merci. (...) Ad alcuni...questo non basterà. (...) E quel territorio che prima era sufficiente a nutrire i suoi abitanti, da sufficiente sarà diventato piccolo. (...) E non dovremo prenderci una porzione del territorio dei vicini...? (...) E allora...faremo la guerra ? (...) Occorre, dunque,...uno stato...aumentato di un esercito intero che esca a battaglia...». Anche Aristotele ha fornito un valido contributo nell'opera Politica ove afferma: « Poiché vediamo che ogni stato (polis) è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene...è evidente che tutte tendano a un bene, e particolarmente al bene più importante tra tutti quella che è di tutte la più importante e tutte le altre comprende: questa è il cosiddetto "stato" e cioè la comunità statale. (...) La comunità che si costituisce per la vita quotidiana secondo natura è la famiglia... mentre la prima comunità che risulta da più famiglie in vista di bisogni non quotidiani è il villaggio. (...) La comunità che risulta di più villaggi è lo stato, perfetto, che raggiunge ormai...il limite dell'autosufficienza completa...»; inoltre, lo stesso filosofo ha sostenuto che « Nella prima forma di comunità, e cioè la famiglia, è evidente che lo scambio non ha alcuna funzione: esso sorge quando la comunità è più numerosa. I membri della famiglia avevano in comune le stesse cose, tutte; ». Nel De Re Publica, invece, Cicerone, dà una diversa definizione, che si potrebbe definire di tipo "formale, istituzionale": «...la Repubblica è la cosa del popolo, e popolo non è ogni unione di uomini raggruppati a caso come un gregge, ma l'unione di una moltitudine stretta in società dal comune sentimento del diritto e dalla condivisione dell'utile collettivo (...) Dunque queste aggregazioni di uomini... prima di tutto stabilirono la loro sede in un luogo fissato per la comune dimora; e dopo averla resa sicura grazie a difese naturali e ad opere di loro mano, chiamano villaggio o città quel complesso di abitazioni, segnato da edifici destinati al culto e spazi comuni. Dunque ogni popolo (...), ogni comunità di cittadini, che è l'organizzazione politica che il popolo si è data, ogni Repubblica che... è la cosa del popolo, deve essere retta da un Consiglio perché si mantenga stabile nel tempo. E tale Consiglio prima di tutto deve sempre ricondurre le sue decisioni a quella causa che ha dato origine alla comunità politica ». Nei tempi più recenti, inoltre, dal punto di vista antropologico, ma soprattutto sociologico, Max Weber ha così definito lo Stato: « un gruppo di potere organizzato a carattere istituzionale che ha riservato a sé il monopolio dell'uso della forza fisica ».
Come ben si trae da quanto precede "uno Stato nasce perché nessuno...basta a sé stesso". Le persone, pertanto, si associano per darsi aiuto reciproco, per soddisfare i loro bisogni. Il primo bisogno è certamente il nutrimento per sussistere e vivere, poi quello dell'abitazione, ecc. C'è, pertanto, un ordine di precedenza, di importanza, delle esigenze da soddisfare da parte dello Stato per il bene della Comunità e tale "ordine" non può essere rovesciato, ribaltato, eluso, oppure negato ponendo lo Stato, che è strumento, come fine (se ciò accadesse - e spesso succede - sarebbe una follia perché sarebbe inutile avere una "casa d'oro" mentre il popolo muore di fame). E anche le esigenze necessarie (il nutrimento, l'abitazione, ecc., vanno sempre garantiti a tutti, nessuno escluso, come era all'origine nelle famiglie, e lo Stato deve debellare la povertà assoluta perché solo tale risultato può "rendere orgogliosi" di appartenere a una Comunità) non possono essere sostituite da quelle voluttuarie, inutili, superflue (Socrate distingue lo Stato senza vizi, virtuoso, rispetto a quello del lusso, degenerato, allorquando, preoccupato, prevedeva che « Ad alcuni...[il nutrimento] non basterà... E (così) non dovremo prenderci una porzione del territorio dei vicini...? ... E allora...faremo la guerra ? ». A questo riguardo giova sottolineare che la scelta del Costituente italiano è stata chiara: l'art.11 ha fissato il principio fondamentale e inderogabile che "L'Italia ripudia la guerra", prescrivendo, però, ai cittadini, in virtù dell'art.52 della Costituzione, la "Difesa della Patria". La "Difesa", pertanto, e non "l'Offesa", né l'aggressione o il colonialismo, né l'imperialismo o la guerra di conquista, è stata sancita dalla vigente Carta. Una scelta politica che fu ragionata e da ritenersi, ormai, irreversibile affinché non si ripetano le tragedie che funestarono gli italiani durante la dittatura del fascismo e la seconda guerra mondiale, le cui conseguenze ancora si rilevano dalla "sovranità limitata" imposta all'Italia dalle potenze vincitrici (i cc.dd. "alleati") nelle scelte dei governi, nella politica estera e militare. Pertanto, nessun Trattato può essere sottoscritto dal Governo italiano in violazione della citata norma costituzionale, e se stipulato non può vincolare i cittadini. Ne deriva, perciò, che anche l'Alleanza NATO (da rivedere) dev'essere intesa esclusivamente nel solo senso "difensivo" (in caso di aggressione di uno Stato membro). Nello stesso senso va intesa l'U.E., che non può prevalere in materia militare (né svolgere alcuna politica estera di espansione imperiale), sulla Carta costituzionale italiana perché è quest'ultima che racchiude in sé il "Patto originario del Popolo". Lo Stato, quindi, nasce soltanto per il "bene" della propria Comunità e il "bene assoluto" è quello di tutelare ad ogni costo la vita dei cittadini evitando di immolarli per sottomettere altri popoli e conquistare con la guerra altro territorio, per le esigenze dello Stato dei vizi (occorrerà perciò tendere all'autosufficienza economica e non vivere al di sopra delle proprie possibilità, cumulando debiti). Lo Stato è lo strumento politico della Comunità pertanto non può mai agire contro la stessa Comunità, impiegando la forza (armata) che ha ricevuto in "monopolio" (per la difesa e non per l'offesa dei cittadini). Tutte le decisioni di governo, perciò, devono sempre riferirsi alla causa originaria della Comunità statale. Purtroppo sta spesso accadendo che le istituzioni occidentali (viziate dai difetti degli uomini, che le incarnano, e da legislazioni subdolamente emergenziali ed eccezionali) stiano assumendo comportamenti autoritari e aggressivi sia all'interno che all'esterno dei propri territori. Le guerre, così, continuano ad essere lo strumento prescelto, e parlare di pace è diventato un tabù. E così negli Stati anziché mettere al centro le attività produttive di beni necessari si dà ampio spazio alle "economie di guerra" che destinano agli armamenti la maggior parte delle risorse pubbliche, sottraendole ad altri settori vitali, come la sanità, il welfare, l'istruzione, la ricerca, lo sviluppo e il progresso. Ormai la follia è collettiva e si sta correndo verso il disastro, anche nucleare. La domanda, perciò, del "Perché nasce uno Stato", anche per poter verificare se esso, da strumento, si sia trasformato in "altro", rispetto a ciò che dovrebbe essere, se la dovranno porre tutti i cittadini. Bisognerà necessariamente risalire alle origini della sua nascita, per avere il parametro a cui fare riferimento, e in particolare al principio originario che "I membri della famiglia avevano in comune le stesse cose, tutte" e che tali famiglie si sono associate per darsi reciproco aiuto. Da ciò ne dovrebbe derivare che nessun cittadino, che faccia parte della Comunità, potrà essere privato del "nutrimento per sussistere e vivere" e che ognuno dovrà avere una propria abitazione (dignitosa). E la relativa domanda non può che essere la seguente: Ci sono, oggi, nella Nostra Comunità statale le predette condizioni originarie di vita associata ? Se si, Bene ! Se no, allora se ne dovrà dedurre che lo Stato si è allontanato dalla causa originaria della sua nascita e sta andando nella direzione di "servitore" degli interessi delle èlites oligarchiche e non della Comunità dei cittadini che si sono associati per darsi reciproco aiuto.
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UN LIMITE AL RISPARMIO
Il Presidente della Commissione europea, in occasione della presentazione al Parlamento U.E. del Piano definito "ReArm Europe" (adesso ridenominato "Readiness 2030", per non angosciare i cittadini), ha detto, tra altro, « Trasformeremo i risparmi privati in investimenti necessari ». Una "minaccia" che certamente si concretizzerà in attività future da parte della U.E. nell'indirizzare gli investimenti privati. Gli italiani hanno già provato l'esperienza (amara, per molti) di vedersi prelevare dai propri conti il famigerato sei per mille dal governo Amato che, nel 1992, nella notte a cavallo tra la domenica e il lunedì mattina, prelevò d'autorità il danaro dai depositi bancari e postali. Sentire, adesso, a distanza di tempo, che anche la Commissione europea (un organo tecnico, burocratico, oligarchico, inviso a molti e non rappresentativo della volontà democratica dei popoli della U.E.) progetta di "utilizzare" i "risparmi privati", peraltro per finalità molto discutibili, ossia spendere 800 miliardi di euro in armamenti e difesa militare per contrastare una ipotetica e fantasiosa aggressione della Russia, fa sorgere non poche perplessità e dubbi circa l'opportunità e l'utilità di accumulare risparmi da parte dei cittadini (ovviamente non tutti, perché di sicuro i circa 10.000.000 di italiani poveri, secondo i dati ISTAT, non se ne curano affatto, come forse gli stessi ignorano anche chi sia la Presidente della Commissione e delle altre istituzioni europee, e non solo). L'episodio induce certamente i benpensanti ("categoria" ormai in via di estinzione, che non è specie protetta. Anzi!), che si sforzano di controllare e dominare l'irrazionalità della psiche col proprio io-cosciente, a chiedersi se sia o meno una follia invocare "più Europa" (come hanno fatto in Piazza del Popolo a Roma alcuni "intellettuali" della "carta stampata" ai quali si sono accodati diversi leaders politici e amministratori locali) senza risolvere prima il problema politico se debba essere una "Unione" di Stati (nella forma degli "Stati Uniti", con a capo il Presidente; e se quest'ultimo debba essere come Trump, Macron, o altro modello monarchico da inventare; oppure il Re, visto che le dinastie dei regnanti sono ancora numerose in Europa) o una "Unione" dei Popoli (la Lega immaginata da I. Kant "Per la pace perpetua"), e, inoltre, se debbano essere direttamente i Popoli, senza "mezzani", come avviene adesso (soltanto i governanti - le istituzioni -), a prendere le decisioni capitali, come quella di dichiarare la guerra, potenziare gli eserciti o inviare armi ad altri Stati. Ad ogni buon conto, stante il detto che "non tutti i mali vengono per nuocere", l'occasione derivante dalla decisione psicotica del "Rearme europe" può diventare comunque propizia per riflettere con maggiore equilibrio sul "risparmio", su che cosa esso sia e se costituisca o meno un valore per la Comunità statale. Ed è proprio questo che ora si farà in questa sede, avviando la ricerca sulla "origine del risparmio" e per poter individuare quali eventuali rimedi bisogna adottare per il "sommo bene" della intera Comunità, ossia per "la vita pacifica e serena dei cittadini". È infatti questo l'obiettivo che si è sempre prefisso ogni consorzio umano, anche se poi la vita in comune, a causa delle dinamiche predatorie insite nella specie umana e negli Stati, spesso fondati sul principio della diseguaglianza sociale per tutelare le diverse categorie burocratiche e professionali (simili ai "clan"), è spesso diventata una dannazione, una schiavizzazione, se non per tutti (i "privilegiati") di certo per molti (i soliti "emarginati"). Il "potere", così, ha quasi sempre determinato l'iniqua distribuzione delle risorse, la violazione della dignità e della libertà, soprattutto del pensiero. Il "potere", perciò, conferito da tutti i consorziati (mediante o meno il c.d. "contratto sociale", secondo Rousseau) alle "istituzioni pubbliche", costituite per essere uno strumento, un mezzo di equità, solidarietà e di giustizia per tutti, si è di frequente trasformato in "fine sovrano", piegando e sottomettendo alle proprie esigenze (o a quelle dei pochi), mediante il monopolio della forza fisica e delle armi, sia la volontà generale dei cittadini che il loro benessere individuale e collettivo. Il perseguimento dei "vantaggi economici" personali delle èlites oligarchiche, perciò, oltre all'abuso dell'esercizio del potere pubblico, costituiscono la patologia del vivere in Comune (e la regola politica dei rapporti tra gli Stati che si fonda sulla forza militare, economica e nucleare). Occorre, perciò, individuare il giusto rimedio (il "nulla di troppo", l'antico μηδεν ἄγαν), una appropriata terapia culturale, "psicofarmacologica", se si vuole curare il "cancro" che ciclicamente aggredisce l'organismo umano comunitario e i titolari delle cariche pubbliche. Bisogna, allora, partire dalla "causa", che come al solito la si rinviene risalendo alle origini degli aggregati sociali. Aristotele, nell'opera Politica, ha sostenuto che « I membri della famiglia avevano in comune le stesse cose, tutte; una volta separati, ne ebbero in comune molte, e anche diverse - e di queste ne dovettero fare lo scambio secondo i bisogni, come ancora fanno molti dei popoli barbari, ricorrendo al baratto. Essi infatti scambiano oggetti utili contro oggetti utili ma non vanno al di là di questo [...] Un siffatto scambio non è contro natura e neppure è una forma di crematistica (giacché tendeva a completare l'autosufficienza voluta dalla natura): da questa, però, è sorta logicamente quella. Perché quando l'aiuto cominciò a venire da terre più lontane, mediante l'importazione di ciò di cui avevano bisogno e l'esportazione di ciò di cui avevano abbondanza, s'introdusse di necessità la moneta ». Un ulteriore contributo di pensiero lo fornisce Platone allorché si pone come fine teorico (accademico, ma non solo) quello di costituire uno Stato fin dall'origine. Il suo Stato (la Politeia, trad. come Repubblica) è uno "Stato ideale", caratterizzato dall'etica, in cui primeggia la giustizia, intesa come parametro del "giusto" (sempre inteso in senso "etico"), e il bene dei cittadini. Egli, mediante il confronto dialettico tra Socrate e i suoi interlocutori, mette in evidenza la causa della formazione dello Stato, ossia che "...uno Stato nasce perché nessuno di noi basta a sé stesso, ma ha molti bisogni. (...) Così per un certo bisogno ci si vale dell'aiuto di uno, per un altro di quello di un altro: il gran numero di questi bisogni fa riunire in un'unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa coabitazione abbiamo dato il nome di stato. (...) Quando dunque uno dà una cosa a un altro, se gliela dà, o da lui la riceve, non lo fa perché crede che sia meglio per sé ? Suvvia, costruiamo a parole uno stato fin dalla sua origine: esso sarà creato, pare, dal nostro bisogno. (...) Ora, il primo e maggiore bisogno è quello di provvedersi il nutrimento per sussistere e vivere. (...) Il secondo quello di provvedersi l'abitazione, il terzo il vestito e simili cose. (...) Ebbene, come potrà bastare lo stato a provvedere a tutto questo ? Non ci dovranno essere agricoltore, muratore e tessitore ? E non vi aggiungeremo pure un calzolaio o qualche altro che con la sua attività soddisfi ai bisogni del corpo ? (...) Ebbene, ciascuna di esse deve prestare l'opera sua per tutta la comunità ? (...) Ciascuno di noi nasce per natura completamente diverso da ciascun altro, con differente disposizione, chi per un dato compito, chi per un altro. (...) Agirà meglio uno che eserciti da solo molte arti o quando da solo ne eserciti una sola ? (...) Al nostro stato occorre...un numero maggiore...di altri agenti destinati a importare e ad esportare le singole merci. Sono questi i commercianti. (...) Ancora: entro lo stato stesso come avverrà lo scambio degli oggetti che ciascuno produce ? (...) mediante vendite ed acquisti. Avremo in conseguenza un mercato e una moneta, simbolo convenzionale per rendere possibile lo scambio. (...) Ad alcuni...questo non basterà. (...) E quel territorio che prima era sufficiente a nutrire i suoi abitanti, da sufficiente sarà diventato piccolo. (...) E non dovremo prenderci una porzione del territorio dei vicini...? (...) E allora...faremo la guerra ? (...) Occorre, dunque,...uno stato...aumentato di un esercito intero che esca a battaglia...".
Dal raffronto del pensiero dei due sommi filosofi si trae, anzitutto, che l'ampliamento dello Stato (associazione di più persone che coabitano per darsi aiuto) se avviene per soddisfare "eccessivi bisogni" rende inevitabile la guerra con gli altri Stati confinanti (e non solo, perché oltre alla "guerra di aggressione" esiste anche la "guerra di spedizione"). Gli stessi illuminati pensatori hanno altresì individuato la "moneta" come strumento dei rapporti economici della Comunità ma essa non era altro che, come dice Platone, il "simbolo convenzionale per rendere possibile lo scambio" dei beni. Nel tempo, però, e soprattutto in quello contemporaneo, la moneta, da "simbolo", mezzo, è diventata fine, tanto che oggi non soltanto costituisce il parametro del valore di tutti i beni economici (e anche dei beni immateriali, e persino metro di valutazione sociale del singolo uomo e del relativo "merito") ma anche "bene in sé" (e viene negoziata con altre monete sulla base del tasso di cambio che dipende dal rapporto di "forza" politico-militare-economico-finanziario dei singoli Stati emittenti, riconoscendo, di fatto, supremazia alla moneta dello Stato egemone, con relativo "signoraggio"). Sarebbe necessario, invece, emettere un'unica "moneta universale" a livello di ONU condivisa e garantita da tutti gli Stati mondiali. Dalla "moneta" è scaturito il "risparmio" che, per definizione, è "la rinuncia a consumare una parte del reddito netto". In altri termini, per fare un es., il lavoratore che percepisce una retribuzione per l'attività svolta non spende l'intera somma ricevuta (e tassata alla fonte) dal datore di lavoro. Tale somma non spesa in acquisto immediato di beni costituisce il "risparmio". Da questo, però, scaturiscono degli effetti nell'ambito produttivo, socio-economico e politico. La prima conseguenza è, ovviamente, che una parte dei beni prodotti dalle aziende non viene venduta sul mercato, pertanto l'imprenditore dovrà ridurre la produzione e il numero dei lavoratoti, col licenziamento. Nel lungo periodo, poi, l'accumulo del risparmio viene, per buona parte, investito ("messo a frutto") mediante istituti e operatori creditizi e finanziari e, così, produce delle "rendite parassitarie". In Italia, dai seguenti dati dell'ISTAT e della Banca d'Italia resi ufficiali alla fine del 2023, risulta che la ricchezza netta delle famiglie è pari a 11.286 miliardi di euro. In tale ricchezza rientrano anche le abitazioni valutate in circa 5.547 mld di euro (le unità abitative censite in Italia nel 2021 sono 35.271.829). La ricchezza degli italiani, però, include anche le "attività finanziarie", distinte in 1.577 mld di euro in Biglietti e depositi, 430 mld di euro in Titoli, 1.656 mld di euro in Azioni e altre partecipazioni, 721 mld di euro in Quote di Fondi comuni e 1.089 mld di euro in Riserve assicurative e garanzie standard. Ma come è distribuita la ricchezza in Italia ? Sempre dai suddetti dati risulta che il 10 % detiene il 52 % (di cui il 40% è nelle mani del 5% dei "super ricchi") mentre la restante parte è detenuta dal 50% della popolazione, con oltre 6 milioni di cittadini (circa 2 milioni di famiglie) che vivono in povertà assoluta (per effetto della regola "predatoria" posta a fondamento della legislazione, sia nazionale che sovranazionale). A fronte di tale "risparmio privato" si rileva che a novembre 2024 il Debito pubblico italiano ha superato la soglia dei 3.000 mld di euro (3.005,2) e gli interessi hanno raggiunto la cifra di circa 100 mld annui (il patrimonio immobiliare dello Stato italiano ha un valore complessivo di 62,5 mld di euro). Adesso, questa situazione patrimoniale statale, già sull'orlo del default, è destinata a peggiorare perché si dovranno aggiungere le ulteriore spese per il riarmo e "Difesa comune" volute dalla U.E., nonché l'incremento al 2% (e oltre) del PIL delle spese per la NATO, che si aggiungeranno a quelle già a bilancio per la Difesa nazionale; inoltre, potrà esserci una significativa contrazione delle esportazioni e, quindi, delle produzioni, a causa della politica americana dei dazi che si sono resi necessari per mettere in equilibrio la "bilancia commerciale" (e dei "pagamenti") degli USA, rendendo manifesto che anche gli scambi tra Stati devono rispettare la suddetta regola del "nulla di troppo" (così come i cittadini non devono vivere al di sopra delle loro possibilità con l'indebitamento individuale o dello Stato). Da quanto detto emerge che si sta generando una spirale psicotica collettiva che sospinta dall'angoscia generale (in parte alimentata dagli interessi bancari e industriali dei produttori di armi e dalla storica pulsione coloniale e imperiale di alcuni Stati) ha infettato e contagiato l'intera "classe politica" e dirigente europea nonché una buona parte dei cittadini che vedono la guerra come l'unica soluzione per risolvere i propri conflitti interiori e quelli verso l'esterno da sé, immaginandosi e inventandosi "nemici" contro cui combattere, come ben spiegato dallo psicoanalista F. Fornari. Resta comunque evidente che l'indebitamento esorbitante dello Stato (soprattutto se avviene per alimentare il lusso e i vizi) è privo di ragionevolezza e non può ritenersi "garantito" dalla ricchezza posseduta dai privati. È vero che lo Stato deve poter intervenire per dare impulso all'economia, quando questa ne abbia bisogno (secondo la nota teoria di Keynes) ma il debito non deve mai costituire una costante del bilancio pubblico né tantomeno deve lievitare tanto da mettere in pericolo la tenuta dei conti dello Stato. E comunque è impensabile che si possa arrivare ad avere uno squilibrio tanto eccessivo, come è quello attuale, tra il patrimonio statale e la ricchezza nelle "mani" dei privati, peraltro non equamente distribuita tra tutti i cittadini (con circa 10 milioni di poveri), come invece dovrebbe essere, secondo i principi di eguaglianza democratica, giustizia sociale e solidarietà. Ciò doverosamente sottolineato, va richiamata, ora, anche la disciplina del risparmio nell'ordinamento italiano. La norma costituzionale relativa al risparmio è l'art.47 che, al comma 1, sancisce: « La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito », mentre, al comma 2, dispone che la Repubblica « Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese » (il Trattato sull'Unione europea del 29/07/1992 ha vietato, inoltre, all'articolo 73B, comma1. "tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi").
Il "risparmio", come si ricava dalle innanzi richiamate disposizioni costituzionali, è sia incoraggiato che tutelato dalla Repubblica e, quello popolare, è favorito per l'accesso alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese. È stata, pertanto, una scelta politica del Costituente del 1946. Non mancano, tuttavia, nella storia delle civiltà anche discipline diverse (ad es., Licurgo, noto legislatore di Sparta, come narra Plutarco nelle "Vite parallele", per scoraggiare il risparmio aveva fatto coniare la moneta in voluminosi e pesanti pezzi di ferro spurio). Si tratta, perciò, soltanto di scelte legislative, condizionate, più o meno intensamente, dalle oligarchie politiche presenti nella Comunità statale. E più tali disposizioni giuridiche si allontanano dal principio aristotelico secondo cui «I membri della famiglia avevano in comune le stesse cose, tutte» e più la "democrazia", ove essa è proclamata, diventa soltanto uno slogan vuoto di contenuto, priva di valori e di senso concreto. Il "risparmio", perciò, ammesso che lo si voglia ancora "incoraggiare e tutelare" (col rischio di vederselo sequestrare o confiscare dal "potere politico" in caso di guerra) deve però avere un limite, un tetto, insuperabile in termini di valore economico, e la moneta deve ritornare ad essere un mezzo di scambio, ripristinando il giusto rapporto tra beni esistenti in commercio e moneta circolante. Diversamente, sarebbe meglio ritornare al baratto che, come evidenziava Aristotele, consente lo scambio di "oggetti utili contro oggetti utili", per favorire uno Stato virtuoso e impedire che si crei e si perpetui uno Stato del vizio, del lusso, dell'edonismo, col potere nelle mani delle oligarchie bancarie, finanziarie e tecnocratiche, oltre alle rendite parassitarie.
Al "risparmio", perciò, dovrebbe estendersi il principio stabilito nella stessa Costituzione al co.2, dell'art.42, ove è sancito che « La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti", nonché, al co.4, che dispone: « La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità ».
Occorre, perciò, limitare l'accumulo del risparmio e distribuire l'intera ricchezza prodotta, anche con l'obiettivo di debellare il fenomeno sociale dei "poveri assoluti", che sono la prova del fallimento etico, morale e religioso, oltre che giuridico, della Comunità e delle istituzioni, anche europee; e ricordarsi sempre che « uno Stato nasce perché nessuno di noi basta a sé stesso ma ha molti bisogni » e che « il gran numero di questi bisogni fa riunire in un'unica sede molte persone che si associano per darsi aiuto, e a questa coabitazione abbiamo dato il nome di stato ». Lo Stato, perciò, è una "coabitazione" e non uno strumento di esclusione e sopraffazione.
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LA SEPARAZIONE DEL GIUDICE DALL'ACCUSATORE E DAL DIFENSORE
In data 16 gennaio 2025 la Camera dei Deputati ha approvato, in prima lettura, il Disegno di legge costituzionale (Atto Camera n.1917, trasmesso al Senato il 16.1.2025, S.1353) avente ad oggetto "Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare", comunemente conosciuto come "legge sulla separazione delle carriere dei magistrati". Come era prevedibile c'è stata subito una dura contestazione da parte delle forze politiche di opposizione e, per parte loro, le associazioni dei magistrati hanno deliberato una serie di azioni di proteste, tra cui l'abbandono dell'aula della Corte di Cassazione e delle diverse sedi delle Corti d'appello ove è stato celebrato il rituale dell'apertura dell'anno giudiziario allorquando ha preso la parola il Ministro della Giustizia o un suo rappresentante. Va detto che sono anni, ormai, che si parla della "separazione" della magistratura giudicante dalla magistratura requirente ma finora è rimasto tutto costituzionalmente immutato. Ricordo che oltre venti anni fa, durante un convegno ad Avellino, tenuto nella sede "Victor Hugo", alla presenza dell'allora Ministro Ortensio Zecchino, uno stimatissimo magistrato, di grande levatura culturale e morale, Presidente del Collegio della sezione penale, quando prese la parola disse che "Lui avrebbe separato persino fisicamente l'immobile e gli uffici della Procura da quelli dei Giudici". Quell'intervento suscitò sorpresa, come sempre accade quando persone estremamente intelligenti sono troppo avanti rispetto alla massa e all'opinione comune del tempo e antepongono gli interessi generali e di "sistema" a quelli particolari e di categoria. Cerchiamo ora, in questa sede, di comprendere meglio i termini della questione e di analizzare, seppur sommariamente, le norme del suddetto disegno di legge. Come metodologia, però, onde limitare o evitare di esprimere un giudizio condizionato da convinzioni personali, si individuerà, preliminarmente, il "principio di giustizia" (l'archè, che amavano i presocratici) a cui si farà riferimento come parametro-guida. Nella Repubblica di Platone s'inizia con la ricerca della "giustizia" come virtù fondamentale dello Stato da costituire. Al riguardo Socrate affermava: « Secondo me, la giustizia consiste in quel principio che fin dall'inizio, quando fondavamo lo stato, ponemmo di dover rispettare costantemente: in esso, o in qualche suo particolare aspetto. Ora,... abbiamo posto e più volte ripetuto che ciascun individuo deve attendere a una sola attività nell'organismo statale, quella per cui la natura l'abbia meglio dotato. (...) E d'altra parte dicevamo che la giustizia consiste nell'esplicare i propri compiti senza attendere a troppe faccende...». Il "principio", perciò, ovviamente non assoluto ma sempre relativo e, in questo caso, relativo alla politica, va ricercato nei principi fondativi dello Stato, ossia, oggi, nei principi della vigente Carta costituzionale. Nella materia che ci occupa non vi è dubbio che il "principio di giustizia" si rinvenga nell'art.111 della Costituzione (Parte Seconda - Ordinamento della Repubblica -, Titolo IV - La Magistratura -, Sezione II - Norme sulla giurisdizione). Dall'esame del citato art.111, co.1, si trae che «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo...» e, dal comma 2, che «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale.». Le richiamate disposizioni, come noto, sono state introdotte con legge costituzionale n.2 del 1999. Con tali norme il legislatore ha inteso regolare il nuovo processo riconoscendo la pari rilevanza e dignità processuale tra il ruolo dell'accusa, esercitato dal pubblico ministero, e quello espletato dalla difesa dell'avvocato, in linea con la precedente riforma del codice di procedura penale del 1988 (DPR n.447 del 1988) che aveva sostituito il "processo inquisitorio" strutturato sul "giudice-istruttore" con il rito detto "accusatorio". Nessuna modifica, però, aveva, e ha, interessato sinora il Titolo IV della Costituzione, relativo alla magistratura e, in particolare dell'art.104, che, al comma 1, sancisce che "La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere". L'Ordine, quindi, della Magistratura, inteso come Ordinamento e istituzione, che ricomprende sia i magistrati inquirenti (o requirenti) che i giudicanti è finora rimasto unico, così come concepito dal Costituente allorquando nel lontano 1946 fu normata la struttura del "potere giudiziario". È questo, perciò, il "nodo" da sciogliere, in questo primo secolo del terzo millennio della politica italiana nel nuovo contesto (relativamente democratico) della Repubblica. Ma come fare ? A mio avviso, come già sopra accennato, bisognerà abbandonare le isterie partigiane e ci si dovrà ispirare, sia in generale che nei casi particolari, al "principio di giustizia" (che è anche di saggezza) espresso da Socrate: ciascun individuo deve attendere a una sola attività nell'organismo statale...". Un principio, questo, che deve valere sempre e comunque, non soltanto per i singoli cittadini ma anche per tutte le Istituzioni pubbliche, enti e organi statali. Anche questi, infatti, debbono osservare rigorosamente tale principio, e la "separazione dei poteri dello Stato" ne è la migliore esplicazione e applicazione, finalizzata proprio ad impedire che il governo o i magistrati si sostituiscano al Parlamento. Non ha alcun senso, perciò, quanto sinora sostenuto da diversi magistrati che la percentuale di coloro che transitano da una funzione all'altra è meno dell'uno per cento perché, come innanzi sottolineato, ci si deve ispirare al "principio" per stabilire se il giudice e l'accusatore possano appartenere o meno allo stesso Ordine. E bisogna anche chiedersi se sia "giusto" (secondo "giustizia", ma anche rispetto alla garanzia delle libertà dei cittadini) che il giudice sia "collega" del magistrato inquirente, oppure debba essere estraneo, terzo, sia rispetto all'inquirente che al difensore, relativamente al quale è forse utile evidenziare che tale ruolo (dell'avvocato) non è "costituzionalizzato" (l'art.24, comma 2, sancisce, infatti, che «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» ma non dice che tale difesa è assicurata (anche) mediante la funzione dell'avvocato, e questa lacuna è sempre stata messa in rilievo nelle diverse riunioni forensi dal compianto Avv. Francesco Franzese da Nola. Non vi è dubbio che nel 1946 anche i Costituenti si siano ispirati a un proprio "principio" che di sicuro aveva "senso" nell'epoca in cui essi lo tradussero in Dettato costituzionale. Oggi, però, tale "principio", dopo circa un secolo, potrebbe non essere più adeguato e adatto ai tempi. Va, perciò, sottoposto a verifica e, se necessario, rapportato sia al vigente nuovo art.111 della Costituzione che alla cultura e sensibilità del terzo millennio (sebbene non manchino segnali di imbarbarimento, sia della politica che dei costumi e della morale). Certamente il problema non è semplice da risolvere perché si tratta di "mettere mano" alla Carta costituzionale, ossia alla c.d. "Legge delle leggi", seppur, adesso, sia anch'essa limitata e condizionata dalla "legislazione" europea e dal c.d. "diritto internazionale" (che sembra applicarsi soltanto agli Stati di minore importanza, visto che le superpotenze e "loro protetti" lo violano impunemente). Bisogna ricordare che sia negli ordinamenti antichi (come nella Grecia classica, ove i giudici venivano estratti a sorte tra i cittadini il giorno stesso dell'udienza, l'accusa era sostenuta dallo stesso accusatore e l'accusato, come nel processo a Socrate, si difendeva personalmente) che in quelli vigenti nei diversi Stati le soluzioni adottate sono le più varie e disparate (in Francia, ad es., gli inquirenti sono funzionalmente collegati al Governo, mentre negli USA sono, in buona parte, elettivi e anche di nomina presidenziale). Questo dimostra, senza alcun dubbio, che nel mondo degli uomini (è ormai inappropriato dire "umani") la "verità" è soltanto quella che diventa "legge", che essendo assistita dal monopolio della forza, spesso fine a sé negli ordinamenti autoritari, o falsamente democratici, viene imposta e fatta osservare dai cittadini. Pertanto, non sarebbe assolutamente "incostituzionale", bensì "costituzionale e legale" la prescrizione che l'accusa nel processo sia sostenuta da privati cittadini (riservando, ad es., al limite, la competenza all'accusa pubblica soltanto per i reati contro lo Stato e la pubblica amministrazione). E sarebbe altresì giuridicamente normale, ovviamente se previsto dal diritto, anche che i giudici siano tutti elettivi (o estratti a sorte, come ad Atene). In verità, la vigente Costituzione italiana già consente di poter eleggere i giudici, così come sancisce l'art.106, co.2 : «La legge sull'ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli». Finora, però, l'elezione in chiave democratica di tali giudici non è stata recepita dal legislatore, dimostrando, così, che la "democrazia", intesa come la chiamata dei cittadini ad esprimersi mediante il voto per la nomina dei magistrati (giudicanti e onorari), è sgradita ai politici e governanti italiani. Tanto premesso e precisato, vediamo, ora, a questo punto, quali sono le "novità" che si vogliono introdurre nella Carta mediante il suddetto disegno di legge costituzionale, anche al fine di esprimere eventuali condivisioni o divergenti opinioni avendo a riferimento il suddetto socratico "principio di giustizia". Dall'esame del testo del d.d.l., d'iniziativa governativa, si rileva che il più significativo intervento della riforma riguarda l'art.104 della Costituzione, oltre ad altri aspetti istituzionali.
A)La nuova versione dell'art.104 è la seguente: « La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente.
Il Consiglio superiore della magistratura giudicante e il Consiglio superiore della magistratura requirente sono presieduti dal Presidente della Repubblica.
Ne fanno parte di diritto, rispettivamente, il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione.
Gli altri componenti sono estratti a sorte, per un terzo, da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall'insediamento, compila mediante elezione, e, per due terzi, rispettivamente, tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti, nel numero e secondo le procedure previsti dalla legge.
Ciascun Consiglio elegge il proprio vicepresidente fra i componenti designati mediante sorteggio dall'elenco compilato dal Parlamento in seduta comune.
I componenti designati mediante sorteggio durano in carica quattro anni e non possono partecipare alla procedura di sorteggio successiva.
I componenti non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale ».
Il legislatore, da quanto si rileva innanzi, non intacca il principio dell'unità della magistratura (La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere) ma introduce la "separazione" delle "carriere" dei magistrati giudicanti e dei magistrati requirenti e, per l'effetto, istituisce due rispettivi Consigli superiori della magistratura (due CSM) presieduti, entrambi, dal Presidente della Repubblica. Istituisce, poi, un'unica Alta Corte disciplinare. La soluzione adottata, seppur politicamente comprensibile, lascia piuttosto perplessi. Applicando, infatti, il più volte richiamato "principio di giustizia" ne sarebbe dovuto conseguire la modifica dell'art.104, comma 1, nel senso di sancire che "Le magistrature giudicante e requirente costituiscono due ordini autonomi e indipendenti da ogni altro potere". Invece così non è stato, rendendo abnorme l'istituzione di due CSM. Era meglio, allora, lasciare tutto così com'era istituendo soltanto due sezioni separate dello stesso CSM, con il quale ben si sarebbe potuto conciliare anche l'unica Alta Corte disciplinare. Indubbiamente prevedere due Ordini per la magistratura (magistratura giudicante e magistratura requirente) avrebbe certamente sollevato notevoli reazioni ma la soluzione sarebbe stata coerente col il suddetto "principio socratico" oltre che più "ragionevole". Relativamente, poi, ai principi di "autonomia e indipendenza" della magistratura da ogni altro potere forse sarebbe stata necessaria una maggiore riflessione e un più approfondito riesame dell'attuale quadro costituzionale, limitato dall'ordinamento europeo, che incide sulla struttura della "Repubblica democratica" e sul principio della sovranità che appartiene al Popolo. Per questo si dovrebbe valutare se ricondurre al Sovrano (il Popolo) tali principi di "autonomia e indipendenza" per non intaccare e valorizzare il primato della "volontà sovrana", integrando, così, in senso sostanziale, i precetti dell'art101 della Costituzione: «La giustizia è amministrata in nome del popolo» nonché del comma 2 dell'art.101: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Altro rilievo, inoltre, va sollevato rispetto al termine "carriera" (da carrus, carro) utilizzato dal legislatore perchè risulta alquanto anacronistico, perciò sarebbe stato più adeguato parlare di "ruoli" (o"funzioni", "servizi"). Per quanto attiene, invece le incompatibilità (« I componenti non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale ») non si comprende perché non sia stata prescritta una incompatibilità assoluta durante l'intero mandato (consentendo, così, ad es., seppur solo in teoria, di poter fare il Sindaco di una città, grande o piccola che sia, o l'A.D. di una società, pubblica o privata, ecc.).
B) Dubbi sussistono anche in ordine all'istituzione dell'Alta Corte disciplinare, prevista dall'art.105, alla quale è attribuita la giurisdizione disciplinare nei riguardi dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti. Essa è composta da quindici giudici, tre dei quali nominati dal Presidente della Repubblica e tre estratti a sorte dal Parlamento in seduta comune, nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie. L'ufficio di giudice dell'Alta Corte è incompatibile con quelli di membro del Parlamento, del Parlamento europeo, di un Consiglio regionale e del Governo, con l'esercizio della professione di avvocato e con ogni altra carica e ufficio indicati dalla legge. Come si vede, anche in questo caso, non si prevede una incompatibilità assoluta durante l'intero mandato; inoltre, non sembra opportuna la nomina dei tre giudici dell'Alta Corte disciplinare da parte del PdR, avendo la Corte la giurisdizione in materia di "illeciti disciplinari" da accertare mediante procedure sostanzialmente "amministrative" (peraltro sembra discriminatorio aver previsto la giurisdizione disciplinare nei riguardi dei soli magistrati ordinari non considerando affatto la "magistratura onoraria", alla quale è stata riconosciuta un certa stabilizzazione del ruolo ed economicamente parametrata ai giudici di Tribunale). Sarebbe stato, perciò, più ragionevole riservare al Governo, e in particolare al Ministro della Giustizia, la nomina di tali membri dell'Alta Corte. Inoltre, l'istituzione di un'unica Corte disciplinare, mentre sono stati previsti due CSM, non si concilia con la previsione di questi ultimi. Infatti, per coerenza (e anche per risparmio di risorse pubbliche e per semplificazione burocratica) sarebbe stato "ragionevole" innestare nei due rispettivi CSM le rispettive Corti disciplinari.
È del tutto evidente, da quanto innanzi esposto, che seppur il "principio di giustizia" ("ciascun individuo deve attendere a una sola attività nell'organismo statale...") imponga la necessaria separazione dei ruoli, funzioni, o carriere, tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti la proposta di riforma costituzionale non ha seguito una linea rigorosa ma ha trovato una soluzione alquanto ondulatoria e piuttosto incoerente. Certamente la soluzione normativa proposta della separazione delle "carriere" andrebbe verso una neutralità e terzietà dei giudici rispetto ai pubblici ministeri ma ciò non potrebbe essere sufficiente perché bisognerebbe rivedere anche la relativa normativa processuale, relativa alle indagini preliminari, alle misure cautelari e alla dipendenza e all'impiego degli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria. Allo stato non è prevedibile quale possa essere l'esito parlamentare del suddetto disegno di legge governativo di riforma costituzionale, già approvato in prima lettura alla Camera, ma, come detto, esso presenta diverse incoerenze di sistema perché non sembra aver seguito una rigorosa metodologia, a partire dalla inevitabile ricerca dei principi (e anche dei valori e delle libertà dei cittadini, da collocare sempre al di sopra di qualsiasi potere pubblico), per garantire a tutti i cittadini un "processo giusto" ai sensi del vigente art.101 della Costituzione in cui il Giudice è effettivamente terzo e imparziale sia rispetto all'accusatore che al difensore.
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